Stati Uniti: un turista extraterrestre, poco extra e molto terrestre
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Il mio viaggio esplorativo sul pianeta denominato “Terra” ha subito una battuta d’arresto: a causa della mancanza di carburante della mia navicella ho dovuto prendere possesso del corpo di un turista che si recherà nei pressi della mia destinazione, gli Stati Uniti d’America, quelli che da “Indipendence Day” in giù ci hanno sempre fatto un mazzo così. Chiedo venia a chi leggerà questi miei rapporti per il linguaggio colorito, ma il confondermi con gli indigeni ha causato qualche cortocircuito nelle mie connessioni neurali.
Gli inconsapevoli compagni di questa missione si chiamano Linda, Silvia e Paolo ed il corpo del terrestre del quale mi sono impossessato viene chiamato “Corrado”; di meglio al momento purtroppo non c’era, non ho avuto abbastanza tempo per poter scegliere con più attenzione, anche a causa dei saldi ormai giunti a termine. Nota a margine: il suo corpo mi va largo.
Comincia il viaggio
Dopo un sobbalzante atterraggio a Francoforte l’attesa per la coincidenza poco coincidente sarà di circa sei ore, durante le quali tutti noi daremo fondo alle batterie dei nostri smartphone ed iPad, con il rischio di doverli poi lasciare giù prima della partenza perché le nuove regole aeroportuali dicono che, per poter rompere al proprio vicino di posto in aereo con giochini e filmacci, tutti i “device” devono essere carichi, altrimenti non verranno imbarcati. Strana gente ‘sti terrestri.
L’aereo è in ritardo di oltre due ore che, sommate alle quasi dodici di volo, non ci ben dispongono nei confronti della United Airlines, senza contare che il vetusto apparecchio avrebbe bisogno di un po’ di botox e di qualche ritocchino, magari con un caterpillar (gli unici monitor sul sedile frontale sono i tablet personali dei viaggiatori, perché da queste parti usano ancora sbiaditi microtelevisori per visioni collettive tipo cineforum, ovviamente con i film senza la lingua italiana). Però, in compenso, si mangia male. Anzi, ad essere sinceri il pollo con la pelle molliccia non sarebbe stato neanche male, per uno con un palato foderato di asbesto, è che lo chef anziché riscaldare solo questa pietanza deve aver messo in forno tutto il vassoio, quindi formaggino sciolto, burro fuso, insalata calda, dita ustionate.
San Francisco ci accoglie con i suoi 15 gradi ed un venticello fresco fresco che non ci fa pentire di aver scelto la zuppa di granchio dentro ad un grosso panino scavato, una specialità locale che alla cassa costava 9,99 dollari e, una volta estratti i soldi dal portafoglio, ben 17,95 dollari (troppa fame per porci domande sull’inflazione e sulle strane tasse locali aggiunte). Dopo aver parcheggiato per “soli” 50 dollari la nostra automobilona presa a noleggio (pare che San Francisco abbia i parcheggi tra i più cari al mondo…), decidiamo di fare due passi malgrado le 9 ore di fuso orario ed un sonno che si sta per abbattere senza pietà su alcuni di noi (su di me mai, ma solo perché noi extraterrestri non necessitiamo di dormire). Per le strade gruppetti di persone attorno ad un imitatore di Michael Jackson (bravo, ma troppo scuro per sembrare lui…), un pittore con bombolette (cose che si vedevano e respiravano anni fa, a dire il vero) e frettolosi e freddolosi turisti in cerca di cibo. Nota: il Best Western “The Tuscany” non è male, ma i due letti “queen size” per quattro persone la prossima volta li lasceremo alla regina e ai suoi levrieri; abbiamo proprio toppato la scelta per le prime due notti negli Stati Uniti.
Dal “Diario di bordo”, data astrale Domenica 10 Agosto 2014
Che meraviglia San Francisco! Non ci tornavo dal 1998, anno terrestre, in un’altra vita ed in un altro corpo (decisamente più snello). Ė proprio come me la ricordavo, anzi, ancora meglio dal momento che ho visto delle cose che la volta precedente non ero riuscito a vedere, tipo il Golden Gate (già, ma poi perché “golden” se è rosso?) da Fort Point, quindi esattamente da sotto al ponte, così ho provato, con un entusiasmo che solo un bimbo innanzi ad un nuovo giocattolo può capire, anche il nuovo fisheye per la macchina fotografica: uno spettacolo, distorto quanto volete, ma comunque uno spettacolo! Quindi quasi tutte le tappe “obbligate”, seguendo i cartelli con il gabbiano per la “49-mile scenic drive”, un percorso attorno e dentro la città per poter vedere i punti più salienti; l’unico problema, che riscontrai anche la volta precedente, è che di tanto in tanto i cartelli spariscono, abbandonando noi poveri turisti al nostro destino di consultatori di mappe cartacee che, tra parentesi, non vanno affatto male (zero problemi di batterie e molto, moltissimo “touch”). Purtroppo neppure questa volta sono riuscito a visitare Alcatraz perché già due mesi or sono era tutto prenotato; anni fa c’era chi avrebbe pagato chissà quale cifra per lasciare l’isola prigione ed ora c’è chi paga per il viaggio inverso… Bizzarro questo mondo, no?
Malgrado una sosta in un tipico localaccio da film americano (grossa cameriera alla “Misery”, bagno dentro alla cucina nella quale pile di piatti sporchi venivano accatastati nel secchiaio con buona pace della lavastoviglie, tavolino appiccicoso che neanche la carta moschicida, hamburger ordinati con cottura “medium” e serviti come sostituti della carbonella e l’inevitabile bibita al sapore di cloro a causa del ghiaccio), il nostro umore è sempre stato alle stelle per tutta la fresca giornata esplorativa, tra un “parcheggia qua, anzi no che c’è divieto, ma sì, chi se ne frega… ma forse effettivamente sarebbe meglio cercare più avanti” e centinaia e centinaia di fotografie, spesso inutili, che mi terranno compagnia a lungo al nostro ritorno.
La sera ultima tappa con i leoni marini al molo “Pier 39”, con l’amico Paolo che lanciava il suo inascoltato grido d’amore verso queste decine di splendidi e pachidermici animali spiaggiati su delle piattaforme artificiali e, alla fine, cenetta leggera (per loro, io un burrito di pesce, fagioli messicani, riso, ecc. ecc., quindi speriamo bene per la notte…) in un localetto turistico anche se niente male. Sul conto, consegnatoci dalla simpatica e solerte cameriera, in bella evidenza una scritta con “Mancia minima suggerita 18% sul totale, mancia consigliata 21%”; nessuna cameriera come negli USA sa essere così simpatica e solerte, però questa cosa trovo che sia buona e giusta: molto spesso in Italia (e non solo) verrebbe da chiedere di ritorno dei soldi per la scortesia di certe persone che, evidentemente, hanno sbagliato completamente mestiere.
Ed ora… a nanna e buona giornata a voi!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Lunedì 11 Agosto 2014
Oggi vi racconterò la storia di un innovatore, di un designer, di un economista e di un ingegnere, che sono tutti la stessa identica persona. Durante la crisi economica del 1929, quando gli Stati Uniti rischiarono il tracollo e milioni di famiglie la rovina, ad un inglese trapiantato a New York venne la geniale idea che rivoluzionò per sempre l’economia domestica e non solo: per prima cosa fece in modo di far sparire il bidet dai bagni delle abitazioni, dei locali pubblici e degli uffici, con un considerevole risparmio sull’acqua; poi, e qui superò sé stesso, proibì l’utilizzo dello scopino del wc, alzando il livello dell’acqua quasi a bordo tazza. Lo so, sembrano accorgimenti da poco, ma se non fosse stato per Tom Ballsinthewater oggi probabilmente noi non staremmo visitando questo grande Paese risollevatosi da quel brutto periodo, perciò era doveroso celebrarlo con questo ricordo.
Ed ora partenza per la Napa Valley, o forse per lo Yosemite, o forse… non si sa, lo decideremo a colazione. Gli Stati Uniti sono così grandi e meritano un’attenta e satolla meditazione.
Napa Valley, la Valpolicella californiana anabolizzata come solo gli americani sanno fare: tutto più grande, dagli sconfinati e geometricamente perfetti vigneti curiosamente luccicanti (per merito di striscioline di carta che, credo, dovrebbero tenere lontani i volatili) alla produzione di milioni di bottiglie all’anno (e sto parlando solo della cantina visitata, la Stag’s Leap). Per arrivare in questa incredibile zona si passa dalla Sicilia, poi dalla Toscana e, quindi, dalle parti di Verona: in pratica abbiamo percorso migliaia di miglia per non esserci mai mossi o, meglio, per avere un bignami dei panorami della nostra terra. Ma l’America è anche questo, paesaggi che cambiano in continuazione con poche ore di strada (“Ah beh, hanno di quegli scenografi da ‘ste parti!”, come ha giustamente fatto notare Paolo…), tra colori accecanti, dorate pianure e colline di smeraldo: il territorio da queste parti lo sanno valorizzare e, di certo, ben monetizzare dato che “business is business” lo hanno inventato loro.
Accontentiamo il nostro vizioso ed esperto enologo Paolo e lo accompagniamo ad una individuale degustazione di vini, rigorosamente a stomaco vuoto e senza il supporto di alcun taralluccio (taralli qui?!?) o tozzo di pane (pane qui?!? Beh, oddio…): dopo cinque assaggi tra bianchi e rossi, l’ultimo dei quali del valore di 100 euro a bottiglia (“Buonissimo!” E te credo, vorrei ben vedere!), salutiamo il ragazzo che “sembra un attore di Hollywood, ma anche un po’ Superman” che lo ha seguito in questo pregiato rituale e decido saggiamente di continuare a guidare io, dato lo strano abbiocco che incombe sul nostro gioviale compagno di viaggio.
Ad un certo punto, dopo aver perso quasi un’ora per colpa di una lunghissima coda che neanche la domenica d’estate per andare a Bardolino (ebbene sì, i lavori stradali ci sono pure qui!), un colpo d’occhio davvero unico: centinaia di pale eoliche che si stagliano nei campi innanzi a noi, proprio quei maestosi e bianchi “mulini” tanto detestati da Sgarbi perché “deturpano il paesaggio” sono lì, che lo abbelliscono come degli addobbi su un albero di Natale; ci fermiamo, scattiamo qualche inutile foto che non renderà mai giustizia a ciò che abbiamo ammirato e poi si riparte, destinazione Sonora dove pernotteremo in un economicissimo motel che sarebbe tanto piaciuto ai fratelli Coen (c’è pure una micro piscina che solo nei film), ma che è anche l’unica scelta possibile dataci da Booking.com qui in zona prima di avventurarci nello Yosemite National Park. Per quanto mi riguarda più le cose sono strane e più è divertente fotografarle e, per quanto riguarda i miei compagni… beh, loro stanno già dormendo, basta che qualcuno pronunci la parola d’ordine “letto” e si abbattono sul polveroso copriletto con la scusa del jet-lag da smaltire!
Quando rientrerò sul mio pianeta chiederò di poter fare Norman Bates e di gestire un motel: ho sempre desiderato fare buchi nei muri.
Dal “Diario di bordo”, data astrale Martedì 12 Agosto 2014
La giornata intera allo Yosemite National Park mi ha fatto ricredere su quanto ricordavo da quando lo vidi anni addietro e su ciò che leggevo in giro, ovvero “che sì, vabbè, è un po’ come le nostre Dolomiti” (e alla domanda “Ma tu che hai mai visto delle Dolomiti?!?” seguiva sempre la mia espressione da beota nell’imbarazzata ricerca di un altro argomento per cambiare discorso); ebbene sì, lo ammetto, lo Yosemite merita alla grande una visita: ci sono dei paesaggi mozzafiato, delle montagnone bianche bianche, delle cascate senz’acqua, scoiattoli, corvi giganti, addirittura un paio di caprioli (almeno sembravano tali, confondo sempre il sapore del capriolo con quello dei cerbiatti…), tantissimi alberi, qualche lago, molte automobili e moltissimi turisti, bagni vergognosamente puzzolenti con una voragine sotto la tazza che porta direttamente fino al centro della Terra neanche bisognasse farla in testa a Belzebù, ecc. ecc. ecc.
Insomma, tutto molto, molto, molto bello ed i 20 dollari d’entrata sono davvero ben spesi (anche se noi abbiamo optato per l’abbonamento annuale da 80 dollari per tutti i parchi nazionali, visto che ne visiteremo altri, perciò risparmieremo ben… 5 dollari..!), però… dai, non potete venirmi a dire che è il parco più originale degli Stati Uniti, specialmente se lo paragoniamo agli altri che vedremo da qui a poco!
Vabbè, ho capito: “perle ai porci”, ma almeno dalla mia ho sempre la giustificazione che non ho mai amato così tanto la montagna. Né la collina. Né il mare. Né la pianura. Né…
P.S. In realtà a me piace TUTTO, solo che non trascorrerei mai 15 giorni di vacanza in montagna, in collina, al mare, ecc.
Ok, buonanotte a me e buona giornata a voi!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Mercoledì 13 Agosto 2014
Dopo una bollente nottata (nel senso che abbiamo dovuto spegnere l’aria condizionata perché rumoreggiava come un trattore guidato da un contadino che aveva cenato con una fagiolata alla Bud Spencer e Terence Hill) in quello che presumiamo fosse il peggior motel della California, ma di sicuro lo era del paese di Bishop (un giudizio su Booking lo definiva “molto americano”, peccato che venisse contraddetto dalla gestione indiana e dalla guida sul comodino su “come comprendere Buddha” al posto della rassicurante quanto folkloristica Bibbia), ci alziamo zombettando e cercando di non posare i piedi sulla originale moquette “sicuramente pulitissima, ma col cavolo che verifico”, calpestando sulle bizzarre coperte raffiguranti due tigri e rigorosamente di lana finite a terra già da ore; no, dico, di lana in pieno agosto solo per poter tenere il condizionatore a palla?!? Sono pazzi questi americani naturalizzati, ma non solo quelli naturalizzati…
Dopo aver prenotato con Paolo, all’insaputa delle ragazze, al “New York, New York” di Las Vegas (ovvero uno degli hotel più assurdamente kitsch di questa già di per sé assurda città), giusto per far recuperare un po’ di credibilità a Booking (prima o poi ci verrà qualcosa in tasca… certo, come no!), ci dirigiamo entusiasti più che mai nella Death Valley. Che dire della Valle della Morte che non sia già stato detto, forse che è bella da morire? Nulla, appunto, perciò avete sempre a disposizione Wikipedia per le cose che non sapete, anche perché quelle che vi dirò io sono assolutamente personali ed affatto credibili.
Caldo, caldo, caldissimo, ma sarebbe stato da stupidi pensare il contrario in un deserto in pieno agosto, perciò ringraziamo che, malgrado i bollentissimi 45 gradi, ci fosse un po’ di vento per rosolarci meglio (a occhio il mio forno a ventilazione forzata funziona peggio). Il paesaggio non è mai uguale, cambia in continuazione facendoci ogni volta cascare la mascella dallo stupore. Tra gli imperdibili punti da visitare ci sono, in ordine sparso: Zabriskie Point, Dante’s View, il Golden Canyon (qui occhio a non avventurarvi senza acqua e senza un cappellino che, naturalmente, noi non avevamo…) e l’Artist Drive. Per il resto o non ci ha particolarmente entusiasmato oppure proprio non l’abbiamo visto (il tempo a disposizione è quello che è e le miglia da percorrere non sono poche).
Ma a proposito di tempo prezioso, perché non perderne un po’ anche a Las Vegas, la città divertimentificio più assurda che esista sul pianeta? Sarà anche il caldo, non lo so, ma così tanti personaggi bizzarri insieme non li avevo mai visti e non sto parlando solo del tizio vestito da Elvis che canta sul marciapiede o di quello vestito da Transformer o della tizia di colore che si avvinghia ai passanti con il suo vestitino da Wonder Woman, ma proprio di chi si aggira per la strada principale noncurante del ricercato look da “chissenefrega, io posso anche tatuarmi uno zoo sulla schiena o un cuscino sul polpaccio che, seppur di 165 chili per un metro e cinquantuno di altezza, con questa testa mezza rasata e questi leggins sto benissimo”. Las Vegas è da vedere almeno una sera nella vita ed io con questa ho già sforato di una, ma ho il fisico per resistere e avrò la meglio anche sul banco (dato che non gioco). Peccato solo non essere riusciti ad informarsi prima per lo spettacolo di David Copperfield, perché qui avevamo tutti qualcuno o qualcosa da far sparire.
Ed ora mi godrò il letto “king size” alla faccia dei “queen size” che fino a ieri sera ho dovuto dividere con Paolo. Nota a margine: credo che Linda abbia una qualche tresca con il tizio del quale ho preso il controllo del corpo, perché ha insistito affinché dividessimo il letto…
Buona giornata, ora finalmente proverò a dormire.
Dal “Diario di bordo”, data astrale Giovedì 14 Agosto 2014
“Las Vegas è finta, non c’è nulla di vero!”; ok, ma qualcuno ha mai preso le impronte digitali a Prezzemolo, il drago di Gardaland?
Las Vegas di giorno è come una cubista vista la mattina senza trucco (non che io abbia mai visto una cubista di mattina presto, sia chiaro, parlo solo per sentito dire), perciò meglio restarsene al fresco polare dei casinò e sperperare il budget di ben 5 dollari alle slot machine. Dopo qualche bottone schiacciato a casaccio posso dire, orgoglioso, di aver fatto volatilizzare la banconota, ma di aver vinto ben 40 centesimi. Di dollaro. Mi farò una villa fuori città, ma senza piscina riscaldata per non strafare.
Le ragazze approfittano della loro vincita per pagare ratealmente un giro sulle montagne russe dell’hotel (ebbene sì, ci sono pure quelle tutte attorno alle riproduzioni dei palazzi e monumenti newyorkesi) e ne escono spettinate, ma felici e con quella spocchiosa aria di superiorità nei confronti miei (“Cacchio, vorrei tanto venire, ma la mia cervicale…”) e di Paolo (“No, la proverei solo a stomaco vuoto…”, cioè mai).
Il programma di viaggio è stato sovvertito a causa della visita anticipata alla Napa Valley, perciò oggi aggiungeremo lo Zion National Park tra le cose da vedere, che meriti o meno è del tutto relativo, ma da queste parti l’ottimismo è il sale, il pepe, l’olio, l’aceto, la prima portata, la seconda, il dolce e la frutta della vita (e poi lamentiamoci dei chili in eccesso), quindi di sicuro sarà bellissimo.
Quattro ore e mezza di auto sono ormai uno scherzo per noi, soprattutto se ci si addormenta mentre il pilota fa il suo sporco lavoro. L’auto a noleggio è una confortevolissima Chrysler da sette posti con più prese usb di tutti i computer che io abbia mai avuto in vita mia. Connessi siamo connessi, ma a cosa non si sa: è probabile che si stia caricando l’automobile con i nostri smartphone.
Giungiamo alla meta designata, ma anche il “prologo” paesaggistico è stato di tutto rispetto: qui le montagne hanno varie sfumature di rosso, così come la terra ai bordi delle spaziose strade asfaltate, tant’è vero che a qualcuno è tornata la voglia di giocare a tennis (non ci sarebbe neanche bisogno di sottolinearlo, ma non sono io…). Le nuvole incombono minacciose e la prima a pronosticare un acquazzone da lì ad un’ora o poco più è Linda, l’esperta montanara; facciamo appena in tempo a salire sullo shuttle, ad arrivare al punto più lontano del parco, a vedere lo Zion Canyon (che non è un’esclamazione colorita) che le gocce cominciano a cadere, perciò con relativa calma, data anche l’ora (nello Utah cambia il fuso orario), risaliamo in macchina e ci avviamo ad attraversare il parco per uscire e raggiungere la cittadina di Hatch dove abbiamo prenotato per la notte, questa volta senza l’ausilio del solito Booking che, a dire la verità, un pochino ci sta deludendo per la scarsa offerta di soluzioni sul nostro percorso.
Una volta usciti dallo Zion, però, due gradite sorprese: incontriamo gruppi di stambecchi che si mettono in posa per le nostre macchine fotografiche, dei tacchini americani (li ho riconosciuti dall’accento) e, cosa non meno importante, un ristorante con tanto di allevamento di bufali! Che maestosi animali, imponenti, noncuranti di chi li sta ad osservare, quindi Paolo ed io ordiniamo subito due bisteccone di bufalo e le ragazze una di manzo da dividere in due. Lo so, la gola vince sempre ed un po’ mi dispiace, almeno fino al pasto successivo. Moralmente comprendo che è sbagliato mangiare animali e non mi vanto della mia ipocrisia sull’argomento (ci scherzo solo un po’ su…) ma questo sarebbe un discorso troppo lungo da affrontare ora e, soprattutto, mentre sto visitando un Paese che della carne ha fatto la propria bandiera.
Il motel ad Hatch è dignitoso, il pavimento sofficioso (la moquette per gli americani è irrinunciabile tanto quanto il ketchup negli hamburger), il bagno pulito e… no, una zanzara!!! Ma che ci fa una zanzara in mezzo alle montagne con questo freddo, che cosa indossa, un paltò?!? Ecco, ora mi toccherà ammazzare pure lei…
Buona giornata!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Venerdì 15 Agosto 2014
“Non è tanto importante la meta, quanto il viaggio per raggiungerla”, come disse quel tizio del quale nessuno si ricorda il nome per timore di scoprire che possa essere un attore di una pubblicità di un amaro, ma mai come negli USA questa può considerarsi una verità assoluta (e, in cuor vostro, quante verità assolute potete dire che siano tali, al di là delle solite “non ci sono più le mezze stagioni”, “il push-up è una bugia a breve termine”, “non fanno più programmi televisivi belli come <>” e “le patatine fritte non fanno ingrassare perché è verdura”?). Le nuvole accarezzano il paesaggio baciando con la loro ombra le montagne ora verdi, ora bianche, ora rosso fuoco (piaciuto questo slancio aulico, vero? Eh, quando m’impegno…). Credo, nella mia beata ed immensa ignoranza, che pochi luoghi come gli Stati che stiamo attraversando possano vantare una così ampia varietà di paesaggi: tutti i parchi visti fino ad ora sono sì spettacolari (“spettacolo!” è ormai l’espressione più usata ed abusata di questa vacanza), ma la strada che li divide non è mai da meno.
Dopo un’abbondante colazione, finalmente all’americana con buona pace della coscienza ormai imbrattata di zuccheri e di grassi saturi, proseguiamo per il Bryce Canyon che si rivela essere uno dei luoghi più incredibili che abbia mai visto. Siccome non basterebbero mille parole e mille fotografie per descriverne la spettacolarità, taglio corto e vi invito a considerarlo come una meta irrinunciabile nel caso decideste di organizzare un viaggio negli USA e, se poi non vi dovesse piacere… no, non vi rimborserò il costo dell’entrata, ma vi consiglierò un bravo medico.
Lasciato a malincuore il Bryce, dobbiamo percorrere altre tre ore e mezza per pernottare a Page, un paesino vicino al Lake Powell che sembrava non avere neppure un divano disponibile per noi quattro, ma che alla fine pagando un pochino di più della nostra media (comunque sempre meno di una pensione a Rimini a novembre)… Sul cammino, però, notiamo un enorme tartufo di roccia affogato nel blu di un lago e, subito dopo, un cartello; sterziamo bruscamente per trovarci di fronte all’entrata dell’ennesimo parco nazionale, il Lone Rock. Felici del nostro investimento iniziale di 80 dollari per entrare in un anno in tutti i parchi nazionali, sorridiamo al gentile ranger e proseguiamo oltre la strada asfaltata, per fermarci poco prima di arrivare su una vastissima spiaggia di sabbia (la nostra auto sarebbe sprofondata di certo). A piedi raggiungiamo il bellissimo lago artificiale, mentre decine di ragazzi e famiglie si fanno il bagno o preparano il barbecue per la cena, accampati con le loro tendine canadesi o nei loro attrezzati camper. Per un momento, vedendoli così felici e spensierati, mi è venuta voglia di fare campeggio. Ma poi è passato.
Attraversiamo poco dopo il tramonto la maestosa diga Glen Canyon Dam Bridge, ma il buio pareva solo un trascurabile dettaglio e così siamo scesi con cellulari e macchine fotografiche per immortalare l’ennesimo eccitante scenario.
Ora nanne, approfitto della cena leggera leggera al Denny’s (l’Apple Pie è solo una torta di mele, ma qui la fanno sembrare più calorica di un Tiramisú) per ricaricarmi in vista della giornata di domani. Cosa vedremo? Eh, domani, domani…
Buona giornata!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Sabato 16 Agosto 2014
Quando la realtà supera la programmazione approssimativa: oggi avremmo dovuto visitare solo l’Antelope Canyon e, invece, siamo riusciti a vedere anche il misconosciuto (pare non solo da me) Horseshoe Bend e la Monument Valley. Che volere di più? Poi per forza che ci sembra di essere in viaggio da un mese anziché da una settimana, con giornate piene così!
Ma andiamo con ordine.
Arriviamo all’ingresso un po’ scalcinato dell’Antelope Canyon ed una navajo (sia questo che la Monument vengono gestiti da questo popolo, credo come “risarcimento” e non rientrano tra i “parchi nazionali”) ci chiede 8 dollari a testa per entrare e parcheggiare l’auto in una piazzola assolata in mezzo al nulla; quindi le ragazze si fanno largo tra una folla di turisti e raggiungono un’altra navajo che, seduta su un distrutto sedile posteriore di un’auto riciclato come divano, conta banconote su banconote; prende la nostra prenotazione (sì, perché altrimenti col cavolo che si visita questo luogo) e con altri 40 dollari a testa ci indirizza verso Rocco, tipico nome navajo (e qui torna in mente a tutti quella vecchia barzelletta che ci raccontavamo da bambini sul figlio di un capo indiano che gli chiede perché sua sorella si chiamasse Nuvola Bianca e lui gli risponde che è stata concepita sotto una nuvola e poi gli domanda come mai suo fratello si chiamasse Cervo Veloce ed il padre gli risponde perché è stato concepito mentre passava un cervo ed infine dice al figlio “Ed ora dormi, Goldone Bucato”. Ecco a cosa si riduce il nostro orgoglio nazionale, ad un coadiuvante per il sesso…); saliamo su un furgoncino aperto insieme ad una decina di turisti e dopo tre miglia di fuoristrada giungiamo all’entrata dello stretto canyon che, fino a quel momento, avevamo ammirato solamente sulle riviste o sul Web. Strano, nelle foto non c’erano tutte queste centinaia di turisti e stentiamo a riconoscere quel luogo che immaginavamo di calma e di pace nella nostra fantasia forse un po’ troppo Zen. Ed ora come farò a fotografare questo posto che milioni di altre persone hanno già fotografato e molto meglio di me? La “maledizione della cartolina” da scattare e da portarsi a casa si è impadronita di me dall’inizio del viaggio: ma come, non ho fatto uno scatto in bianco e nero che sia uno a degli anziani sulle panchine, ma solo a colori ed a monumenti e luoghi da sogno! Che mi succede?!? Vabbè, più tardi prenderò un’aspirina. Torniamo a noi: con la luce giusta (quindi da metà mattinata fino alle due del pomeriggio circa) e senza orde di turisti questo è l’ennesimo posto magnifico che vi consiglio di visitare. Certo, se gli indiani gestissero con un po’ più di criterio questa incredibile attrazione e non pensassero a dilapidare tutti i miliardi guadagnati (qualcuno qui ha provato a fare due conti) in acqua di fuoco… Ovviamente scherzo, però davvero non si capisce perché non si possano organizzare meglio, ne gioverebbero tutti.
Horseshoe Bend: alzi la mano chi lo conosce! Pochini, pochini, meglio così..! Meglio perché, dopo un chilometro a piedi, stenterete a credere che possa esistere un luogo come questo; non c’è altro da vedere, l’ingresso è pure gratuito, ma resterete senza fiato ed esaurirete le vostre schedine di memoria a forza di scattare foto.
Siamo in incredibile anticipo sulla tabella di marcia, inoltre cambiando continuamente Stati guadagniamo o perdiamo ore di fuso orario senza rendercene conto, perciò via di corsa alla Monument Valley, uno dei simboli dell’America ed IL simbolo del vecchio West, quello dei John Wayne e dei John Ford! Linda è riuscita anche a trovarci un posto da dormire, visto che Booking ultimamente non ci vuole bene, e lo ha trovato… all’interno del parco! Ma qui ci tornerò tra poco. Iniziamo il tour con la nostra auto quasi al tramonto, quando la luce rende ancora più rosse le già fotogeniche montagne; anche qui che cosa potrò mai dirvi di originale? Nulla, appunto, questo è un tour nella leggenda che necessita solamente di un minimo di conoscenza cinematografica; in vita vostra avrete visto almeno un film western, vero? Ecco, quasi sicuramente lo avranno ambientato qua.
Dopo una cena abbondante nel ristorante interno (e poi ci si domanda del perché tutti i navajo visti fino ad ora siano sovrappeso, con ‘ste porzioni..!) restiamo qualche minuto a guardare un vecchio film con il Duca proiettato sulla parete esterna dell’hotel-ristorante, quindi decidiamo di andare al nostro alloggio.
Alloggio… no, dico, ma sapete a cosa ci ha indirizzati Linda? Noi in questo momento stiamo dormendo (ok, a parte il sottoscritto che sta scrivendo) in una “cabin” al View Hotel: è una casetta nuova nuova di legno con bagno, soggiorno con cucina e divano letto, un letto a castello in un’altra stanzetta ed una camera con letto matrimoniale, ma quel che più conta è che… il tutto è affacciato sulla Monument Valley e qui non vediamo l’ora che arrivi l’alba, cosa che a nessuno è mai importato prima d’ora! Sul patio, sì perché c’è pure quello, ci sono due sedie che se fossero state due sedie a dondolo ci saremmo sentiti catapultati con la macchina del tempo in un’altra epoca. Questa casetta è probabilmente il posto più bello dove io abbia mai dormito, sempre che riesca a dormire.
Prima, mentre chiacchieravamo sottovoce seduti sul patio, ammiravamo la silhouette delle montagne illuminate da miliardi di stelle, così tante che neppure Linda la montanara aveva mai visto tutte assieme; si distingueva tutto, sembrava quasi di poter toccare la lunghissima e luminosissima Via Lattea…
Non riuscivo ad abbassare la testa tanto era lo spettacolo sopra di noi e, inevitabilmente, qualche domanda sulla vastità dell’universo, sul senso della vita e sul fatto che ci possa essere lassù qualcuno più grande di noi… Non sto parlando di un qualche dio perché ahimè sono ateo, ma forse di una qualche altra forma di vita oltre a quella del mio pianeta e a quella terrestre… Caspita, se ci fossero veramente gli extraterrestri chissà come sarebbero: magari sarebbero ostili, ma personalmente preferisco immaginarmeli amichevoli. Magari geniali. Magari pure simpatici. Magari… sì, magari proprio come Mork.
Buona giornata!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Domenica 17 Agosto 2014
Basta, non ne posso più: ogni notte la luce del mio iPad è l’unica fonte luminosa della stanza ed attira ogni sorta d’insetto volante (ed io detesto gli insetti); ma nessuno ha mai pensato d’inventare una specie di cover con la griglia elettrificata?!? “Guarda , guarda, una luce! Dai che andiamo a rompere i maroni a quel tiz…” ZZZZOT!!!
È da quando siamo partiti per gli Stati Uniti che ci domandiamo se siamo realmente partiti; se non fosse per gli entusiasmanti luoghi visitati, per il cibo estremamente “nutriente” e per il cappellino da turista di Paolo, parrebbe di essere ancora in Italia. Che l’inglese sia una lingua morta? No, perché non sentiamo parlare che italiano ovunque si vada, a chiunque ci si rivolga per chiedere di farci fare una foto con la nostra macchinetta. Italiani (e francesi, a onor del vero) hanno conquistato questo agosto statunitense e per migliaia di miglia non si incontrano che loro, in formazioni diverse, dalle coppie ai gruppi di amici, dai pensionati al loro settimo viaggio americano alle famiglie numerose con addirittura due pulmini per gli spostamenti. Manca solo quello del “Cocco bello, cocco fresco!” all’interno dei parchi e la conquista sarebbe totale, alla faccia dei pionieri.
Lasciare la nostra “cabin” alla Monument Valley è stata dura, consci che una sistemazione così almeno per questa vacanza non la troveremo più, ma il programma prevede ancora un parco e quasi quattro ore di auto ci dividono dal Grand Canyon, quindi… check-out e guai a girarsi indietro (lacrimuccia).
Ingenuamente non abbiamo prenotato l’elicottero per sorvolare il Grand Canyon e, infatti, dopo una paio di speranzose telefonate di verifica appuriamo una volta per tutte che non c’è più posto in nessuna compagnia aerea. Quindi dovrò aggrapparmi al ricordo di quando, nel ’98, su un Piper con tanto di ex avvinghiata per il terrore al sedile davanti più una coppia di inglesi ed i loro due figli svomitazzanti mi sono visto stupidamente il Grand Canyon solo dal monitorino della telecamera perché all’epoca non pensavo altro che a filmare?!? Giammai, io ora voglio sorvolare nuovamente il Grand Canyon e vedermelo stupidamente solo dal monitorino della macchina fotografica, eccheccavolo!
Entriamo nel parco, facciamo i bravi turisti cercando di farci piacere ogni tappa del pulmino (dopo un certo punto è l’unico mezzo abilitato a passare), ma… ma dispiace dirlo, però dopo il primo punto panoramico gli altri ci sembrano tutti troppo simili e a questo aggiungiamo il fatto che, nei giorni precedenti, abbiamo avuto di che stupirci anche per cose inaspettate come l’Horseshoe Bend… Sì, il Grand Canyon è meraviglioso, ma solo un po’ meno meraviglioso di altre cose viste, ecco. Non demordiamo perché siamo ancora convinti che una visita in aereo o in elicottero possa (e debba) fare la differenza, perciò ci precipitiamo nel piccolo aeroporto attiguo al parco; niente da fare, tutto pieno, esaurito, se ne parlerà tra due giorni, cioè quando noi saremo già a Los Angeles… Peccato, facciamo buon viso a cattivo gioco e accettiamo che non tutte le donuts vengano con il buco.
Ed ora cosa facciamo? È già sera, ma domani vorremmo fare una tirata per arrivare a Los Angeles, però sono circa 500 miglia… Ci fermiamo davanti ad un motel a Williams perché ha il wifi aperto, esco venti secondi dall’auto per estrarre dalla valigia l’iPad con il quale vorremmo prenotare una stanza da qualche parte, rientro, chiudo il portellone e… ma come cacchio hanno fatto ad entrare nell’abitacolo tutte queste zanzare?!? Panico!!! “Prendo la bomboletta???” “No, fermo, così ucciderai anche noi!!!”. Comincia la strage: manata dopo manata, schiacciata dopo schiacciata le facciamo fuori tutte, a parte quella che riuscirà a pungere Paolo, ma che subito dopo morirà per morte naturale a causa della glicemia troppo alta. Nessuno vuole fermarsi in questo banchetto per zanzare camuffato da paese di provincia, perciò via verso la prossima città, tanto guida Silvia che ultimamente fa le ore piccole e si sveglia all’alba (io mi aspetto che da un momento all’altro ci chieda di andare addirittura in discoteca o al cinema alle dieci e mezza…).
Le radio satellitari ci accompagnano con un’offerta di musica senza pubblicità sempre perfetta, senza mai alcun disturbo o perdita di segnale: da quelle monotematiche come Radio Elvis a quelle dedicate alle varie decadi e noi, da giovani ultraquarantenni, raramente ci spostiamo da quella sugli anni ’80. Con delle buone note ancora nelle orecchie giungiamo ad un Best Western a Kingman, lasciamo le ragazze nella stanza a riposare e Paolo ed io andiamo al più vicino Denny’s per celebrare l’arrivo in città con una birretta ed un pasto, come al solito, leggero e dietetico; peccato che proprio questo Denny’s non serva birra perché collegato ad una stazione di servizio: “Guida e alcol non vanno d’accordo”, ci dice la cameriera, per poi aggiungere che al Denny’s dall’altro lato della strada invece gli alcolici li servono eccome, ma solo fino alle nove. Sono le dieci e mezza, quindi una limonata ci sembra una buona alternativa: praticamente quasi una Radler, ma senza birra… I pochi clienti sembrano tutti personaggi da film, ma facilmente ai loro occhi anche noi non siamo da meno; attendiamo pazienti quella quarantina di minuti per un’insalata ed un non bene identificato “pesce bianco”, accettiamo volentieri un secondo giro di bibite come scuse per il ritardo della cucina (troppi clienti?!? Non trovavano il pesce del menù perché non ne identificavano la specie?!?) scriviamo alle ragazze su Whatsapp, ordiniamo un dolce in due, facciamo quattro chiacchiere e poi ce ne torniamo al motel, sicuramente non brilli, ma molto probabilmente stitici per le troppe limonate.
Buona giornata, ora nanne!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Lunedì 18 Agosto 2014
Bene, si parte con la pioggia e con un po’ di fresco, dopo una notte che qualcuno ha trascorso con il naso chiuso, qualcun altro con un occhio aperto e qualcuno cercando di capire come mai, pur essendo su “Off”, il condizionatore continuasse imperterrito a funzionare rumorosamente. La cosa strana è che negli hotel, nei motel americani lo split dell’aria si trova sempre basso, a terra, con i bocchettoni puntati sul letto, anziché come da noi in alto con la possibilità di dirigere il getto freddo dove più si gradisce. Gomungue anghe gosì è berfeddo, duddo bene, broblemi zero.
Los Angeles ci attende per le prossime tre notti e, da bravi adulti maturi quali siamo, non vediamo l’ora di andare a divertirci sulle attrazioni degli Universal Studios, sulla spiaggia a Santa Monica e a cercare le stupidate più inutili nei negozietti della città. Finché ci si diverte c’è sempre speranza e l’età anagrafica può anche andare a quel paese. Almeno questo ci piace raccontarci. Se è vero che con la senilità si regredisce, devo ancora identificare il periodo esatto durante il quale sarei progredito. Dettagli. Anche perché questo corpo l’ho preso solo in prestito.
Prima di giungere alla Città degli Angeli, però, Linda ci propone una sosta a Calico, un’ex città mineraria diventata più di un secolo fa una città fantasma a causa del crollo del prezzo dell’argento e per l’esaurimento del borace. Cosa ci sarà di vero e cosa di ricostruito a beneficio dei turisti lo scopriremo tra poco.
Uno dei tormentoni del viaggio è stato “se apro qua un autogrill/piadineria/gelateria divento miliardario”; effettivamente pensavo che gli americani fossero più orientati al business più spudorato: sia nei parchi che nei lunghissimi tratti di desolata ed assolata strada percorsa non si trova nulla di nulla. Se nei parchi la cosa può essere anche ammirevole per limitare la sporcizia dei soliti turisti maleducati (c’è un bar solo nei Visitor Center), lo è un po’ meno quando in 50 e passa miglia non ci si può né dissetare, né sfamare. Siccome siamo tutti e quattro astutissimi e l’auto è molto spaziosa, l’abbiamo riempita di ogni schifezza possibile e maciniamo miglia su miglia ingurgitando calorie su calorie, tanto potremo sempre dare la colpa alla cattiva alimentazione degli americani.
Calico, the Ghost Town: 8 dollari a testa per entrare, poi ogni “attrazione” varia dai 2,50 ai 4 dollari. Noi visitiamo una vecchia miniera, ma la cosa non ci soddisfa molto perché è molto corta ed il giretto, di conseguenza, poco interessante. Insomma, sarebbe anche tutto molto bello se fosse tutto vero (cosa impossibile visto che gli edifici sono di legno), sembra davvero di essere in un film western, ma l’asfalto della strada principale (cento metri in tutto), tutta quella gente che gestisce i negozi, i turisti che gironzolano facendola sembrare più Piazza di Spagna che una città fantasma e quelle “rifiniture” posticce che sanno un po’ troppo di Gardaland… mah, insomma, non so se ne consiglierei la visita, però è anche vero che in compagnia si trova sempre l’occasione per scherzare di questi posti assurdi, quindi…
Siamo seduti in un saloon di Calico a sorseggiare una bibita circondati da un tappeto di gusci di arachidi e i due iPhone, quello mio e quello di Silvia, cominciano a lampeggiare un messaggio con un allarme sonoro tipo “Stanno attaccando il sottomarino!!!”: è il gestore di telefonia AT&T che ci avverte di una possibile inondazione in zona da qui ad un paio d’ore! Paolo e Linda guardano i propri smartphone e sul display non c’è nulla. “Vabbè -dice un po’ mogio Paolo- quelli che hanno i Samsung allora possono morire..!”. Lasciamo il paesino, Los Angeles ormai è a poco più di 100 miglia.
Ma voi avete mai visto dei treni merci con ben 5 locomotive e 148 vagoni ognuno dei quali con 2 container sopra? Noi fino ad ora mai, una cosa a perdita d’occhio da non credere. In Italia dubito che potrebbe mai capitare: le locomotive arriverebbero alla stazione di Verona mentre i vagoni sarebbero ancora in quella di Vicenza!
Arriviamo a Los Angeles guardando intimoriti le cinque corsie nel senso opposto che, per almeno 15 chilometri, sono occupate da automobili in coda, ferme, bloccate. Ma il traffico non era un problema solo di Roma e Milano..? A noi va bene ed arriviamo senza problemi al nostro hotel; questa volta, visto che resteremo tre notti, ci siamo trattati un po’ meglio. Decisamente meglio (ma Los Angeles è caretta, più o meno come San Francisco).
Mangiamo qualcosa di buono ed affatto caro al Misfit a Santa Monica con un occhio all’orologio perché il parcheggio a mezzanotte chiude e facciamo due passi giusto il tempo per vedere la zona che si spegne insieme alle insegne luminose (forse perché è lunedì o forse perché qui si usa così).
Per essere stata solamente una giornata di trasferimenti direi che non è andata poi tanto male, anche questa notte possiamo andarcene a letto più che soddisfatti.
Ed ora… buonanotte (o buona giornata)!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Martedì 19 Agosto 2014
Pare che Los Angeles sia considerata praticamente all’unanimità una bruttissima città. Mi dissocio, almeno un po’. Per uno che considera il Cinema la cosa più importante della propria vita (ok, facciamo la seconda cosa… va bene, la terza… ok ok ok, diciamo tra le prime sette cose più importanti e chiudiamola qui) non può vederla proprio brutta brutta brutta. È vero, è dispersiva, la “storia” come la intendiamo noi europei ovviamente non esiste, non è interessante da visitare o da vedere come una New York e sì, non c’è nulla di reale se non il traffico, il rumore degli elicotteri che continuano a volare anche di notte, le centinaia di senzatetto per le strade e quelli strafatti di crack che danno di matto nel migliore dei casi; ma Los Angeles è anche la Mecca del Cinema, si respira celluloide (o quel che è diventata) ad ogni angolo, si possono riconoscere luoghi dove sono stati girati migliaia di film, c’è la “Walk Of Fame” con le stelle di attori, registi, cantanti, ecc. ecc., c’è il Chinese Theatre per le anteprime cinematografiche con tanto di passerella delle star, quasi ogni via è tappezzata di locandine di pellicole o di importanti serie televisive, così come quasi ogni mezzo di trasporto pubblico reclamizza le uscite del momento o gli spettacoli che arrivano in tour da Broadway, ci sono gli Studios, cioè gli studi di produzione adattati anche ad attrazioni turistiche, c’è Disneyland, c’è Beverly Hills e c’è lo shopping per pochi di Rodeo Drive, c’è il democratico molo di Santa Monica con il suo Luna Park permanente e la bizzarra spiaggia di Venice Beach con artistoidi e palestre all’aperto, e, giuro che qui mi fermo, c’è la famosa scritta “Hollywood” che benedice dall’alto l’intera città.
Detto ciò, alle ragazze (Paolo ed io l’avevamo già vista) non è che sia molto piaciuta fino ad ora: ad esempio la “Walk Of Fame” se l’aspettavano (giustamente) più scintillante e magica, ma la realtà è che sotto il cerone spesso si cela qualcosa di appena guardabile.
Ma non demordiamo e, tra poche ore, sarà il turno di una giornata di divertimento tra gli Universal Studios e Venice Beach. Almeno così ci auguriamo.
A domani!
Nota di colore: siamo a Beverly Hills e ad un semaforo si ferma sulle strisce una bellissima macchina nera (qui le macchine da miliardari abbondano); due ragazzi di colore, che avevano quasi del tutto attraversato la strada, tornano indietro ridendo ed accarezzano la fiancata dell’auto, con il guidatore, anch’egli di colore, che li guarda sorridendo. Subito non capiamo, ma attraversiamo pure noi e… beh, certo, un’Aston Martin nera opaca con entrambe le fiancate in velluto nero. Cose di ordinaria amministrazione…
Dal “Diario di bordo”, data astrale Mercoledì 20 Agosto 2014
Se “il sogno di un bambino è andare a Gardaland”, il mio era quello di tornare agli Universal Studios. Poi potremmo anche disquisire su chi è più maturo tra me ed il fan di Prezzemolo, ma non ora.
Arriviamo sul presto e, infatti, riusciamo a salire subito sul trenino che gironzolerà per una quarantina di minuti attorno al parco, dove si girano veramente film e serie televisive. Tra una James Stewart Road ed una John Williams Avenue, sgrano gli occhi nella speranza di incrociare qualche attore o regista mentre si sta recando sul set, come l’altra volta quando vidi Steven Spielberg sulla sua Chrysler (ok, c’erano pure Boldi, De Sica e Vanzina che giravano “A spasso nel tempo”, ma se fossi in me non lo metterei nel curriculum…); purtroppo nessun avvistamento, probabilmente cominceranno più tardi a lavorare, ‘sti fan****isti che vivono grazie a tutti i soldi che ho speso in biglietti per il cinema e che… vabbè, ok.
Torno dopo 18 anni ed inevitabilmente molte attrazioni sono cambiate ed altre sono rimaste le stesse (i bellissimi stunt di “Waterworld”, il divertente ed umido, anche se troppo breve, giro per il “Jurassic Park”, ecc.); c’è un’offerta quasi esagerata del cinema dinamico, ovvero quello spesso in 3D con le poltrone che si muovono, decollano, vibrano, spruzzano acqua o getti d’aria: dai “Simpson” a “Shrek”, da “Cattivissimo Me” all’incredibile “King Kong”, ma l’eccellenza assoluta è rappresentata da “Transformers” che sostituisce degnamente, sebbene con un fascino neppure comparabile, quella che nel 1996 fu per me l’attrazione migliore, ovvero “Ritorno al Futuro”.
La gente comincia ad affluire sempre più copiosamente, ma si riesce sempre a non impiegare più di un quarto d’ora per entrare in queste “giostre” per adulti. Potremmo disquisire pure sul valore da dare alla definizione di “adulto”, ma ora proprio non mi va (gne gne gne!).
Ad un certo punto, nel primo pomeriggio, mi sono reso conto di non volermene andare più via, di desiderare proprio di restarmene tutta la vita lì, perciò, nella speranza che un custode la sera si dimenticasse di controllare la tridimensionalità di alcuni cartonati, ho salutato Silvia e Paolo che se ne sono andati a Venice Beach a farsi un bagno e sono rimasto nel parco con Linda che oscillava tra l’intenerita e l’entusiasta.
Malgrado le mie rimostranze, verso l’orario di chiusura (che è alle 19) abbandoniamo questo luogo di culto e di piacere accompagnati dai simpatici saluti del gentile personale degli Studios per raggiungere a Santa Monica i due desaparecidos (o forse i desaparecidos eravamo noi, devo ancora capirlo).
Cenetta da “Umami Burger”, un posticino niente male trovato su Tripadvisor, a base del piatto nazionale, ma questa volta rivisitato con olio al tartufo ed altre prelibatezze e poi quasi di corsa a nanna perché domani ci attende una trasferta sulla costa, a metà strada per il rientro a San Francisco.
Sì, forse dovrei dire che è stato bello tornare per una volta bambino, ma la verità è che… ogni tanto mi tocca tornare adulto.
Buona giornata!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Giovedì 21 Agosto 2014
“Malibù Malibù, quante corna stan quaggiù???”. Mah, corna non saprei, ma decine di surfisti questo sì. Ok, corna.
Capitati per caso su una spiaggia di aitanti surfisti, ricordo per l’ennesima volta a me stesso che l’unica tavola conosciuta dal corpo del terrestre del quale ho preso possesso è quella imbandita, perciò evito sia questo sport che di occupare la sabbia pubblica con questo fisico disegnato con il compasso (anche perché dei quattro sono l’unico ad aver lasciato a casa il telo-oceano, visto il mio smodato interesse per la tintarella e dal momento che al rientro vorrei confondermi con i pallidi concittadini afflitti dagli ultimi tre mesi di pioggia) e mi dirigo verso il molo più vicino che tanto vicino non è.
Dopo una mezz’ora abbondante mi raggiunge l’amico Paolo che, gentilmente, mi offre il pranzo a base di un eccellente panino al salmone ed una deliziosa birra speziata. Lasciamo il molo passeggiando sulla spiaggia ed un surfista, con tanto di tavola sotto al braccio, mi sorride ammiccando: credo si trattasse di un saluto in codice tra noi sportivi, ma non faccio domande perché non capirei le risposte e procedo fino a raggiungere le ragazze.
Morro Bay è il paese scelto per trascorrere la notte in un Comfort Inn. Morro Bay di notte sembra Horror Bay: tutto molto buio, i ristoranti che alle nove ci chiudono la porta in faccia, le urla sguaiate dei leoni marini… Ci barrichiamo nell’unico locale che ci può ospitare per mangiare qualcosa, mentre orde di famelici animali ci guardano dalle vetrate con i loro occhi iniettati di sangue e sbavand… ok, mi sono fatto prendere dall’entusiasmo dell’atmosfera, scusate.
In realtà questo paese di mare pare che abbia grosse potenzialità, ma credo proprio che le scopriremo domani. Al momento, invece, dovrò solamente scoprire se questa notte riuscirò a digerire l’impegnativo “burrito rivisitato” terminato poche decine di minuti fa. (Burp!)
Per ora… buona giornata!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Venerdì 22 Agosto 2014
Uhm, dunque… ieri sera si parlava di probabili potenzialità del paesino di Morro Bay: non ne ha. O, meglio, a vederlo così non sfigurerebbe come possibile location nella quale ambientare l’ennesimo episodio de “Lo squalo”, ma è davvero niente in tutto (e l’assenza del sole non aiuta, come pure quelle tre ciminiere avvolte nella nebbia che incombono sulla baia) ed è da considerare esclusivamente come posto per il pernotto e nulla più. Poi, andando a rovistare su Internet, si troverebbe di certo un sacco di “storia” e mille motivi per visitarlo, tanto da giustificare gadget e magliette con la scritta del luogo, però negli Stati Uniti questa è la prassi di quasi ogni agglomerato urbano.
Sarà che frequento i bagni pubblici il più raramente possibile, ma credo di non aver mai visto tanti orrori come in queste ultime due settimane; io non so cos’abbia la gente per la testa, ma se ce l’avesse solo per la testa sarebbe già un successo. Invece mi ritrovo ad entrare nel gabinetto di un fast food e di chiedermi se quello sulla parete, proprio dietro la tazza, è un quadro astratto di Pollock o cosa. Cosa. Ma io potrei anche capire la difficoltà nel tenere un idrante tra le mani e di dirigerlo senza sbagliare la mira, ma è l’altra “cosa” che mi sbigottisce: ma che ti sei mangiato, un pacchetto di Mentos con un litro di CocaCola ed un rinforzino di otto burriti in salsa di chili?!? Perdonate questa parentesi scatologica, ma mi scappava proprio di dirla (anche se avrei potuto utilizzare un altro verbo…).
San Francisco è piuttosto lontana, quindi decidiamo di arrivarci ancora più lentamente facendo qualche sosta (da lì è cominciato il nostro viaggio, ma è proprio da lì che terminerà tra un paio di giorni, perciò perché non rallentare godendoci ogni istante?): vediamo una spiaggia con decine di immobili elefanti marini intenti ad imitare paffute bagnanti in cerca dell’abbronzatura perfetta, poi un branco di balene sbuffare vicino alla riva (la quale purtroppo è ben distante dalla nostra auto, ma ci viene in aiuto l’ultrazoom della telecamera di Silvia per confermarci che le nostre non erano traveggole) ed infine ci facciamo due passi sul molo di Monterey, pieno di locali che reclamizzano la famosa zuppa di granchio (che mangiammo la prima sera a San Francisco).
Giungiamo a Frisco (come viene chiamata San Francisco dai suoi abitanti e da quelli come me che vorrebbero fare i fighi senza riuscirci) alla sera, in un dignitosissimo hotel con stanza per quattro persone con i soliti due letti “queen size” che, dopo tutte queste nottate trascorse tra gomitate e gente che russa (ehm…), ci sembrano ancora più piccoli (e pare davvero che lo siano, ma sopravviveremo ugualmente come sempre). Per le ultime due notti abbiamo deciso di cambiare zona, quindi niente più Fisherman’s Wharf, bensì Union Square. Facendo due passi alla ricerca di cibo (ma dai? non l’avrei mai detto..!), ci accorgiamo dell’enorme differenza non tanto degli edifici che fanno tanto New York, quanto delle persone che si aggirano in questa parte della città: tanti, tantissimi senzatetto ed ancora di più gente completamente “bruciata” che urla da sola o che si muove asincrona con il mondo in mezzo alla strada trafficata, noncurante di ciò che la circonda.
Notiamo una cosa che non si può non notare: qui in tantissimi hanno smesso di fumare, grazie anche alle campagne terroristiche del Governo, ma quando fumano… fumano tutto fuorché tabacco; mai sentite tante zaffate neanche ad un concerto di Ludovico Einaudi..!
Sarà anche per questo che ora ho sonno e non solo per aver cenato alle undici in un locale miracolosamente risparmiato dalle ispezioni sanitarie (però era tutto veramente gustoso), perciò…
…buonanotte e buona giornata!
Dal “Diario di bordo”, data astrale Sabato 23 Agosto 2014
Una giornata dedicata a seguire docilmente le ragazze che fanno shopping: pensate veramente che ci possa essere qualcosa d’interessante da scrivere? No, appunto. A dirla tutta potrei raccontarvi della visita nel rinomato (così pare) negozio “Good Vibrations”, ma ci tengo alla mia vita e soprassederò.
Foto. Poche, pochissime, rispetto alla solita media. Di “street” quasi neanche a parlarne in questa vacanza, solo “appunti di viaggio” da turista che si vorrebbe confondere con i suoi simili, ma che non ce la fa del tutto perché impugna una macchina fotografica troppo piccola, con ottiche cortissime ed affatto appariscenti. La cosa che più mi ha divertito, restando sull’argomento, è un progettino nato da un’idea di Silvia e sviluppatosi cammin facendo che di certo sarà la prima cosa che posterò al rientro alla base. Non so cosa ne verrà fuori, ma di ghignate ce ne siamo fatte parecchie, quindi anche così andrebbe più che bene.
Perché farsi del male? Perché fare i soliti italiani che non resistono al profumato richiamo della cucina di casa? Ma perché siamo tutti uguali, in fondo in fondo, inutile convincersi del contrario facendo tanto gli “snobbini”; quindi, giusto per non smentirci, l’ultima sera “capitiamo” in un ristorante italiano, ma così italiano che con qualsiasi portata serve anche la pasta, per la precisione penne: bistecca di manzo con le penne, salmone con le penne, cotoletta con le penne, pollo con le penne (sicuramente freschissimo), frittata con le penne, penne con le penne… Paolo ed io giochiamo il tutto per tutto e puntiamo dritti sulla pizza che si rivelerà essere un po’ sciapa, ma discreta, Silvia su una buona bistecca (togliendo le penne…) e Linda su delle bruschette che le arriveranno fredde, con il pane neppure scaldato. L’olio, se non altro, è d’oliva e la birra locale sempre ottima.
La zona scelta è quella dei locali, poco sopra Chinatown e nel bel mezzo di uno strip-bar che di equivoco hanno ben poco, perché ti sbattono dichiaratamente in faccia tutta l’offerta della casa. La polizia qui abbonda e gli ubriachi non mancano mai, così come i soliti senzatetto e quelli bruciati da chissà quale droga. Volendo solamente ascoltare un po’ di buona musica ci intrufoliamo in due locali, ma nel primo i decibel sono troppo alti a discapito di chi suona, mentre l’altro è murato di gente. Ok, la nostra ultima folle notte a San Francisco si chiude qui, evviva evviva. Per nostra fortuna ciò che più ci interessa è essere stati bene tra noi, al di là della vita notturna che non fa esattamente per questi arzilli ultraquarantenni… A dire il vero a me interesserebbe anche, perciò infilo la tutina rossa e argento del mio pianeta nativo ed esco in perlustrazione per la città, difendendo ragazze dai facili e pochi costumi e ad aver cura degli inermi cittadini che rischiano di cadere in facili tentazioni! Dormi pure serena, cara Frisco, ci sono io a vegliare su di te!!!
Ok, ok, vado a dormire, forse è meglio…
Dal “Diario di bordo”, data astrale Domenica 24 e Lunedì 25 Agosto 2014
La terra trema, ma Paolo ed io continuiamo imperterriti a dormire. Nel cuore della notte sento le ragazze che parlano di qualcosa, ma disinteressatissimo ad un qualsiasi argomento differente dal mio riposo, mi giro dall’altra parte e ronfo fino al mattino. A nord di San Francisco c’è stata una forte scossa di terremoto, con danni rilevanti e decine di feriti. Da queste parti pare che siano abituati, ma mi riesce difficile credere di potersi abituare ad eventi come questi, specialmente quando ci sono vittime. Paolo non se ne sarà accorto perché probabilmente avrà scambiato la scossa ondulatoria per uno dei miei bruschi movimenti notturni ed il rumore per il mio russare ed io, pari pari pari, non me ne sarò accorto perché probabilmente avrò scambiato la scossa ondulatoria per uno dei suoi bruschi movimenti notturni ed il rumore per il suo russare. Ma, per la cronaca, lui è peggio di me (anche perché il “diario” lo sto tenendo io e, poco democraticamente, mi arrogo il diritto di scrivere la mia verità…). Se dovesse negare, non credetegli, ma assecondatelo: ha un brutto carattere.
Sveglia, doccia, salto sulle valigie ipercompresse pronte a deflagrare nel caso di cedimento strutturale, colazione in un bar francese tipicamente americano e poi l’ultima cosa da veri turisti da fare a San Francisco (escludendo Alcatraz che non siamo riusciti a vedere neppure questa volta): il giretto sulla “Cable Car”! Si parte in direzione del Fisherman’s Wharf con me appeso fuori per una mano e con l’altra che impugna la macchina fotografica; la vita del reporter è sempre molto dura, ma, come diceva la frase di lancio de “I Predatori dell’Arca perduta”, se l’avventura ha un nome… ok, ok, mi siedo, visto che si è liberato un posticino, mentre contemporaneamente sale una signora che punta le sue generose chiappe morbidose sulle mie ginocchia. Strettini si è strettini, ma il giretto valeva questo piccolo sacrificio (ed i 6 dollari).
La zona del molo sembra climaticamente molto differente da Union Square, con il sole che sbaciucchia tutti, sobri e ciucchi. Due passi, un ottimo “non” gelato da Cold Stone (nel senso che il gelato in sé sarebbe anche dozzinale, ma poi lo lavorano davanti al cliente: lo spalmano su un piano lavoro in acciaio, ci mettono -nel nostro caso- fragole e banane fresche, cioccolato bianco e biscotti tritati e poi cominciano a mescolarlo con due spatole, rendendolo morbido ed omogeneo) e poi rientro in taxi all’hotel per recuperare auto e bagagli.
Arriviamo in aeroporto comodamente, con indicazioni molto precise per la restituzione dell’automobile all’Alamo; scarichiamo le nostre cose e lì, in quel preciso momento, guardando la terra rossa della Monument Valley che ricopre ancora la targa, ci rendiamo conto che la vacanza è finita.
Le dieci e passa ore di aereo trascorrono velocemente grazie alle registrazioni sull’iPad delle trasmissioni di Pif, che confermo essere uno dei giornalisti più bravi che ci siano in Italia (e “giornalista” non l’ho certo scritto a caso), un inutile filmetto con un bollito John Cusack e le goccine che mi hanno letteralmente steso per diverse ore, cosa mai accaduta durante un volo. Il problemino sono le sei ore di attesa a Francoforte per il rientro a Verona, ma… c’è pur sempre un “diario” da scrivere e così…
A breve dovrò restituire il corpo del terreste che mi ha ospitato durante questi fantastici sedici giorni; lo farò a malincuore, malgrado sia ormai sfatto e quasi da buttare, con la glicemia di uno zuccherificio, le vene intasate di burro ed un hamburger al posto del fegato, perché mi sono divertito come non capitava da tempo, lasciando i problemi lavorativi sul mio pianeta (mai un Maalox, nonostante il cibo affatto leggero…) e ho visto cose che voi umani…
Grazie a Linda, Silvia e Paolo, tre terrestri davvero niente male che, con i loro inconfondibili caratteri, sono riusciti a farmi cambiare idea sui progetti di conquista da parte del mio popolo del Pianeta Terra: credo che la colonizzazione sia davvero un’utopia, quindi procederemo direttamente alla distruzione totale.
A parte gli scherzi, grazie, grazie e grazie, siete stati veramente fantastici!
Ed ora mi congedo da questo “Diario di bordo”, la mia logorrea sta logorando anche me…
Grazie e… al prossimo viaggio (speriamo)!!!