Filippine, un paradiso sconosciuto dove l’essenziale è tutto quello che ti serve
In pochi considerano le Filippine come meta per una vacanza di mare durante il nostro inverno e questo è un vero peccato, perché è una terra che ha molto da offrire. Come molti altri posti, ci sono grandi differenze tra il centro e la periferia, ma la cosa più bella è che i luoghi turistici non sono ancora stati modificati su misura del cliente e conservano un carattere autentico che vale la pena conoscere. Noi abbiamo dormito per 4 notti su una capanna in spiaggia e per me resta una delle più belle esperienze mai fatte, anche quando il tempo non è stato bello. Le Filippine vanno vissute.
Indice dei contenuti
Manila, racconto di una capitale
Un pomeriggio come tanti, durante una chiacchierata di fine estate, mentre parlo del mio amore per il mare un tipo mi dice: dovresti provare le Filippine, prima che le scoprano tutti e diventino care! E così un suggerimento inaspettato e casuale ha deciso di un viaggio che mi avrebbe insegnato molto su chi sono in realtà. L’obiettivo era arduo: trovare un volo economico per andare dall’altra parte del mondo a Capodanno. Ma la tenacia è dalla mia e così, dopo varie ricerche, mi imbatto in un volo Air China praticamente perfetto. D’accordo, su Air China avevo qualche riserva e fino al momento della partenza ho temuto che in aereo mi avrebbero presa a frustate, e invece il volo è stato gestito perfettamente, a patto di dimenticarsi del cibo (terribile nell’odore e nell’aspetto ma molto gradito ai cinesi). Da Bangkok abbiamo imparato che le capitali possono vedersi rapidamente, se l’obiettivo è il mare, e così ci siamo fermati a Manila una sola notte, per ammortizzare il jet lag e familiarizzare un po’ coi filippini. In effetti di Manila abbiamo apprezzato il parco, lo Skyline e l’hotel lussuoso in cui abbiamo dormito a un prezzo che da noi neanche un B&B in periferia. Per il resto, di Manila (e delle Filippine in generale) ci hanno colpiti soprattutto la povertà della periferia, fatta di casa costruite con fango e paglia, bambini che lavorano come muratori e gente che dorme per strada.
Un Capodanno a Coron
Salutata Manila, partiamo per la prima delle tante novità che mi hanno allarmata prima del viaggio: volare su un aereo con le turboeliche. Io sono nata fifona e, per superare la paura, dell’aereo ci ho messo molti batticuori. Questo coso di metallo grande come un autobus con attaccate le eliche dei giocattoli per bambini mi sembrava veramente troppo e infinite volte mi sono immaginata spiaccicata per terra su qualche isola a due passi dal decollo. Per fortuna Lele ha studiato, ha consultato amici che ne sanno (ce ne sono sempre, per ognuno di noi, in ogni campo) e mi ha molto tranquillizzata. E così è deciso: si vola con le turboeliche! Lo confesso: quando la hostess al decollo si è tenuta mani e piedi per non cadermi addosso ho invocato tutte le divinità conosciute affinché mi salvassero, e ho continuato a pregare politeista quando abbiamo sfiorato le montagne che popolano le isole Filippine e poi ancora quando abbiamo puntato una pista d’atterraggio lunga quanto l’ingresso di casa mia. Ma ce l’abbiamo fatta: siamo sopravvissuti, ci siamo anche goduti il viaggio da giostra della paura e siamo scesi in questo aeroporto talmente piccolo che i bagagli si prendevano direttamente dall’aereo.
Approdiamo così alla prima delle isole che visiteremo: Coron. Pur essendo un luogo turistico, le strutture ricettive sono quasi inesistenti e il nostro ostello è il meglio che si possa chiedere. Noleggiamo uno scooter (livello medio pari al Ciao ereditato dal nonno) e chiediamo indicazioni per il mare. Qui vengo presa a ceffoni dalla mia ignoranza per la prima volta (ma in fondo si viaggia per imparare): le strade sterrate percorse da buoi trascinati da bambini scalzi con in testa le taniche d’acqua non sono solo in Africa (come pensavo), ma anche qui. E così mi ritrovo a percorrere un sentiero sconnesso e tumultuoso, in cui più di una volta grido per la paura di cadere in qualche buca profonda, e giungo infine a un mare sporco, brutto, inospitale, senza spiaggia. E questo è il solo mare a cui riuscirò ad arrivare con questa specie di mostro a due ruote che abbiamo noleggiato.
Che fregatura questa Coron, penserete! Ma non è così. Innanzitutto, perché ho scoperto come vivono i filippini di questi luoghi, come vivono i loro bambini, cosa vuol dire nascere lì. E poi perché da Coron, il giorno dopo, prendiamo una barca che in poco tempo ci porta in un vero paradiso terrestre: acqua cristallina, pesci tropicali, coralli, palme, montagne, isolette. La nostra guida (che ha fatto anche da autista per il transfer e da marinaio) pesca un tonno e accende un BBQ in barca. All’arrivo, la stessa guida e gli altri marinai attrezzano un tavolo per il pranzo, ci servono, lavano i piatti in barca, girano la barca con un’asta di bambù, accendono il motore tirando in sei una corda e infine ci riportano al nostro ostello, dopo aver ricoperto circa 5 diversi ruoli lavorativi ciascuno.
In ostello facciamo il miglior Capodanno della nostra vita: piedi negli infradito, costume, pizza filippina (tutto sommato accettabile), birra a basso costo, musica e balli in terrazza e un benvenuto trashissimo al nuovo anno mentre ancora indossiamo il costume. Un Capodanno perfetto, certamente, se non fosse che davamo il benvenuto a quel 2020 che così tanto ci avrebbe tolto (e non parlo tanto del Covid, ma di mia madre, che al 2021 non è mai arrivata).
Tao Expeditions: un’esperienza unica
Per dare il benvenuto al nuovo anno, partiamo per l’esperienza più bella mai fatta: TAO Expeditions. Cosa vuol dire partire con TAO? Vuol dire navigare su una barca tipica filippina scoprendo isolette a volte microscopiche, per passare ogni notte su un’isola diversa, dormendo su una capanna costruita su un albero, lavandosi senza acqua corrente (usando le bacinelle), avendo a disposizione la corrente elettrica solo per due ore al giorno. Insomma, un’esperienza di privazione e scomodità con cui quest’associazione vuole far capire a noi come vivono gli abitanti del luogo e quante cose mancano nella loro quotidianità.
Quando Lele mi ha proposto questa escursione gli ho risposto con un NO categorico: ho bisogno di un bagno pulito, di una doccia calda, di un letto comodo e della mia privacy. Ma Lele ha insistito e mi ha tormentata con argomenti insuperabili (soprattutto la voglia di farlo smettere di blaterare) e alla fine ho superato le mie riserve mentali e mi sono lanciata. Prima ho accettato timidamente l’esperienza dei 3 giorni, ma poi mi sono davvero messa alla prova e ho aderito a quella da 5 giorni alla Robinson Crusoe. In fondo, al tempo pensavo che sarei comunque morta con gli aerei con le turboeliche e quindi la prospettiva di usare la giungla come bagno per cinque giorni mi sembrava il male minore. Sopravvissuta alle mie paure, posso dirlo con convinzione: dopo il viaggio con TAO non sono stata più la stessa. E se prima pensavo di non poter vivere senza un bagno pulito e un letto comodo, ora so che per godermi lo spettacolo della natura sono disposta a dormire su un letto di paglia, ad avvolgermi in una zanzariera mentre zanzare grandi come uccelli mi fissano con voracità e a lavarmi con le bacinelle per togliere quel sale che nelle ore di nuoto e snorkeling mi si è attaccato alla pelle. E anche se per 5 giorni non mi sentirò mai del tutto asciutta e al quinto giorno non ne potrò più di uova sode e cocco in ogni salsa, sentirò di non aver mai fatto un viaggio così bello come questo.
Partiamo dalle basi: per i 5 giorni con TAO ci si può portare solo uno zaino impermeabile, che ogni sera un membro dell’equipaggio trasporterà in canoa fino alla nostra isola, mentre noi ci lanceremo dalla barca per raggiungere la meta a nuoto. Certo, perché è ovvio che su un’isola in cui non ci sono né ristoranti né alberghi né case di muratura nessuno penserebbe mai di costruire un molo o un porto e quindi il solo modo per raggiungere terra è naufragare dal punto in cui viene ancorata la barca e nuotare fino a riva (non temete: per chi non sa nuotare c’è il trasporto in canoa insieme agli zaini). Le isole su cui dormiamo sono a volte private e a volte pubbliche, tutte prive di edifici o strutture di accoglienza, con solo le capanne in cui dormiremo e la capanna grande in cui l’equipaggio cucina per noi. In una zona nascosta ci sono i bagni: buche scavate nella terra, da coprire con la sabbia dopo l’uso. E poi la lussuosa zona doccia: un separé di canne dietro cui si trovano le bacinelle da riempire per sciacquarsi e lavarsi. E il phon è, ovviamente, il vento che soffia tra i capelli e pazienza se è un vento umido, tanto, l’ho già detto, non ci si asciuga mai del tutto.
Per una piccola mancia gli abitanti dell’isola ci concedono di caricare il cellulare sfruttando le due ore di corrente che hanno a disposizione e così possiamo restare collegati col mondo e postare immediatamente le foto del paradiso. Certo, se chiamiamo paradiso questo posto anche se non esiste nessuna comodità. Il cibo è ovviamente a km zero (non esistono supermercati e non ci sarebbero comunque soldi da investire in una spesa alimentare): pesce pescato durante la navigazione, uova, maiali allevati in loco, cocco, latte di cocco, succo di cocco, buccia di cocco, cocco grattugiato, aroma di cocco, al quinto giorno ero diventata un cocco anche io. Il tonno fatto a sashimi un minuto dopo essere stato pescato e il maiale panciuto cresciuto all’aria aperta sono stati gettonatissimi, ma al quinto giorno di colazione con uova, riso e cocco abbiamo optato tutti per il digiuno. Potrebbe sembrare che io stia descrivendo un’esperienza terribile, ma è esattamente il contrario! Finora abbiamo viaggiato senza mai scoprire come vive la gente che non ha nulla, senza sapere cosa vuol dire essere altrove. Ora invece lo abbiamo sperimentato e abbiamo scoperto che in un ipotetico naufragio non saremmo in grado di sopravvivere al quinto giorno.
La vera perla di questo viaggio avventura è la notte: al tramonto il cielo diventa nerissimo e puntellato di stelle luminosissime che arrivano fino all’orizzonte (non esiste luce artificiale, eccetto quella delle nostre torce) e non si riesce più a distinguere il cielo dal mare. E dalla nostra capanna sull’albero, sempre avvolti nella zanzariera, ci addormentiamo in una condizione di tale armonia con la natura e con il mondo intorno che i rumori che vengono dalla giungla sembrano la più dolce delle ninnenanne. E al risveglio l’alba di un nuovo giorno, su un mare piatto mai visto, ci ricorda che siamo arrivati dall’altra parte del mondo per riuscire a scoprire com’è davvero il mare, quando nessuno gli bada. Di giorno ci muoviamo su questa barca azzurra che sarà la nostra compagna fedele, una bancas con gli stabilizzatori laterali in bambù. In barca facciamo amicizia con i ragazzi che vivono la nostra avventura e coccoliamo Wasabi, cucciola fortunatissima che passa la vita a farsi accarezzare dai turisti, mentre il suo padrone ci racconta delle Filippine, ci incita a nuotare (Hit the water!), ci pesca il tonno, ci spacca i cocchi, guida la barca e fa tutto ciò che noi non impareremo a fare neanche in 10 vite.
Il mare di questa parte delle Filippine è semplicemente magnifico. Durante questa navigazione tra isole montuose e panorami da sogno decidiamo di fermarci in un punto apparentemente poco ospitale, in cui la corrente è talmente forte che per farci arrivare a riva dalla barca ci fanno attaccare a una corda che il primo dei nostri marinai ha gloriosamente fissato a un albero. Alcuni restano sulla barca, spaventati dalla corrente, ma noi ci lanciamo fiduciosi, certi che ci aspetti qualche sorpresa. E così, girato l’angolo, veniamo accolti dalla padrona dell’isola e dalla scimmietta che tiene legata a una corda attraverso un anello che le permette di muoversi ma non di toccarci. La proprietaria di quest’isoletta ci indica di fare il bagno dal lato opposto dell’isola, lì dove la corrente non arriva, e fiduciosi indossiamo la maschera e andiamo giù. Solo in quel momento capiamo di essere finiti in un gigantesco acquario marino in cui coralli di ogni colore e forma ospitano pesci coloratissimi intenti a nuotare e mangiare e dormire e a fare tutto come se non esistessimo. Mai ho visto un fondale così colorato e dinamico e mai, di tanti fondali corallini poi osservati nei miei viaggi, ho visto coralli di così tanti colori. Ed è questo il vero viaggio: abbandonare le isole turistiche, navigare per un paio di giorni, affrontare la corrente e vedere come la natura vive lì dove l’uomo non arriva che di rado e per poco tempo. Un mare che ancora oggi supera di gran lunga qualunque altro fondale mai visto.
La nostra spedizione avventura si conclude a San Fernando, El Nido, dove la TAO ha costruito non solo le nostre capanne, ma anche capanne per gli abitanti del luogo e una scuola in cui far studiare i bambini. Su quest’isola passeremo due giorni, di cui uno di pioggia (e vi assicuro che non c’era davvero nulla da fare, in un giorno di pioggia su un’isola come quella, se non giocare coi bastoncini di bambù), faremo massaggi a 5 euro l’uno (con l’olio di cocco, pensate un po’!), faremo la prima doccia calda del viaggio (con bagnoschiuma al cocco, ma guarda te!), esploreremo la giungla e vedremo il nostro amico sporzionare un maiale che è andato sullo spiedo per tantissime ore mentre un altro maialino (vivo e vegeto) lo osserva senza capire che quello sarà il suo destino.
A San Fernando partiamo per un’esplorazione della giungla, con sentieri appena immaginati (tracciarli sarebbe eccessivo), corde che ci aiutano a salire in alto, natura fittissima, piante, cocchi (ma dai!), banane, scimmie, uccelli e un verde verdissimo e fittissimo. Ed è qui, al quinto giorno di coraggio, che la parte fifona che è in me viene fuori. Salendo attaccata a una corda scivolo malamente e noto che dopo la caduta ho un gonfiore sull’avambraccio. In una frazione di secondo penso (con somma ignoranza) che si tratti di un ragno che ha fatto le uova sotto la mia pelle, capisco che sono su un’isola deserta senza nessun ospedale vicino, mi immagino già in preda a un’infezione mortale con Lele che prova a salvarmi e penso a quanto costerà ai miei genitori portare la mia salma fino in Italia, da un’isoletta sperduta. Mentre il mio panico blocca la compagnia, Lele prende il sopravvento e mi dice di smetterla e alzarmi. E così ritorno alla realtà, concludo il tour e al mio rientro mi visita il medico (ma quindi ce n’era uno!) e mi ride in faccia, quando gli racconto la storia delle uova di ragno, dicendomi che ho semplicemente un bernoccolo!
Al quinto giorno ne abbiamo abbastanza di essere umidicci e di mangiare banane e cocco e salutiamo con gioia l’approdo a El Nido e l’arrivo del Jeepney che ci porterà alla sede della TAO. Ma, umidicci e pieni di cocco, non dimenticheremo mai la splendida avventura vissuta sulle isolette delle Filippine.
Boracay: non pensate di aver visto le Filippine se andate solo qui
A El Nido mangiamo la pizza più buona della nostra vita (dopo 5 giorni di riso, cocco e pesce o maiale, qualsiasi pizza è la più buona esistente), recuperiamo il bagaglio maxi e ci dirigiamo – stanchi morti – alla stazione dei bus, pronti a prendere la navetta per l’aeroporto. Qui abbiamo un’esperienza spiacevole: con un gesto di estrema destrezza, dei ragazzini prendono lo smartphone dalle mani di Lele mentre me lo stava passando (io non mi sono neanche mai accorta che lo abbia avuto in mano) e scompaiono nel nulla. Inutile dire che la polizia ci ha dapprima ignorati e poi velatamente minacciati per essere corrotta (sono pur sempre paesi del terzo mondo, non hanno nulla da perdere) e così ci rassegniamo al furto subito, arriviamo in aeroporto alle 4 di notte e dormiamo sulle panchine in attesa del nostro volo. Lo so, sembra faticoso, ma è un ottimo modo per ottimizzare al massimo i pochi giorni di ferie: dormiremo in albergo al nostro arrivo.
Qui arriva la parte meno interessante del viaggio: Boracay. Scritta colorata all’arrivo, taxi, tuktuk e jeepney per il trasporto dei turisti, alberghi, ristoranti, negozi e spiagge attrezzate. Insomma, anche le Filippine hanno luoghi turistici. La spiaggia bianchissima e le palme non ci bastano più, vogliamo coralli e pesci tropicali e riusciamo a trovarli solo in alcuni punti. Ci godiamo comunque un po’ di civiltà, di massaggi in camera a 10 euro l’uno, di cene a base di pesce per quattro soldi, di negozi di souvenir. E al ritorno in aeroporto scopriamo – ormai riposati – che tutto intorno al centro turistico ci sono case di paglia e fango, edifici crollati, negozi dismessi con i vetri rotti e la gente che ci abita dentro, bambini che sollevano mattoni e, insomma, tutto ciò che avevamo trovato all’inizio e che avevamo dimenticato.
Ultima notte a Manila, alla scoperta della sua parte moderna e del suo bellissimo lungomare, e si torna a casa. Perché dopo questo viaggio mi sono conosciuta di più? Perché ho scoperto che posso rinunciare alla comodità, se ne vale la pena, e posso fare a meno addirittura dell’acqua corrente, a patto di riuscire comunque a lavarmi in qualche modo. E perché ora so che ciò che credevo esistesse solo in Africa è invece in tantissimi posti e mi stupisco nel pensare che alla mia filippina manchi Manila e che lei, sua sorella e tutti i suoi cugini che vivono qui abbiano speso ogni risparmio per farsi una casa nelle Filippine, certi che un giorno vi torneranno.