Seconda volta in India

Un tour nell'affascinante Rajasthan non tralasciando New Delhi, Agra e Varanasi
Scritto da: airada
seconda volta in india
Partenza il: 17/02/2019
Ritorno il: 04/03/2019
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
Ascolta i podcast
 
India

(17 febbraio-4 marzo 2019)

Prese elettriche: spine italiane dovunque

Clima: a metà febbraio clima primaverile con escursioni termiche. La sera più fresco

Valuta: rupia. 1 euro circa 75-80 rupie. Ho cambiato euro in rupie, ma nei negozi prendevano anche euro o dollari.

Documenti: passaporto + visto, da ottenere on-line prima della partenza. All’arrivo esibire visto on-line che viene trasformato in visto sul passaporto.

Premessa e osservazioni generali:

Torno in India dopo circa quindici anni e, come sempre, mi affascina molto il confronto tra i miei ricordi e quello che vedrò in questo viaggio.

Prima di iniziare il diario vero e proprio mi fa piacere elencare le situazioni e le caratteristiche che mi hanno particolarmente colpito in questo viaggio.

1- Aver percepito da vicino i “venti di guerra” con il Pakistan

2- La comodità di aver viaggiato solo in due con macchina privata, autista e guida

3- La grande quantità di spazzatura lungo le strade e nel deserto

4- I colori smaglianti dei sari nelle città e nelle campagne

5- I sorrisi delle donne e la loro innata femminilità

6- Aver osservato tanta idolatria e superstizione

7- La evidente crescita dell’economia e del turismo indiano

8- La minore presenza di storpi, malati e mendicanti

9- Il traffico caotico con i clacson assordanti

10- I tir coloratissimi e stracarichi di merce più grande del mezzo.

11- L’usanza inconcepibile dei matrimoni combinati e delle spese folli per il matrimonio

12- Il cibo troppo speziato

13- La grande importanza data alle strutture militari

14- Le onnipresenti vacche lungo le strade

15- La ricchezza smisurata e il fasto dei Maharaja

16-I dromedari nella zona del deserto che tirano carretti cariche di merci

Percorso e hotel:

New Delhi: hotel Le Meridien (1 notte) Nawalgarh: hotel Roop Niwas Kothi (1 notte) Bikaner: hotel The Lallgarh Palace (1 notte) Jaisalmer: hotel Marriott (2 notti) Johdpur: hotel Itc (1 notte) Udaipur: hotel Tat Saarasa (2 notti) Jaipur: hotel Hilton (2 notti) Agra: hotel Doubletree by Hilton (1 notte) New Delhi: l’hotel Radisson Blu (1 notte) Varanasi: hotel Radisson (1 notte)

Domenica 17 febbraio 2019: Pescara-Roma-New Delhi

Raggiunta Roma, ci imbarchiamo da Fiumicino con il volo Alitalia 0770 delle 14.30, che parte in orario e per fortuna è tranquillo. Unisce in modo diretto Roma con New Delhi: dura 7 ore.

Lunedì 18 febbraio 2019: New Delhi

Arriviamo alle 2.20 di notte e iniziamo a camminare per i lunghi corridoi del Terminal 3 dell’aeroporto Internazionale Indira Gandhi di New Delhi, ricoperti di moquette. Andando verso l’immigrazione ci accoglie una grande sala con una parete particolare: è rivestita da tante semisfere, concave e convesse, color rame, che fanno da sfondo a grandi mani con le dita in posizioni diverse. Mi colpiscono molto e scatto una foto: si tratta di “mudra”, gesti simbolici delle mani, usati nell’iconografia hindu e nel buddismo, sia nell’arte che nelle pratiche spirituali (yoga e meditazione). La fila per trasformare il visto richiesto on-line (noi l’abbiamo fatto tramite tour operator) in un tagliando da apporre al passaporto, è lunghissima. All’inizio sbagliamo bancone, ma per fortuna qualcuno ci indirizza verso quello giusto. Recuperati i bagagli, incontriamo l’incaricato dell’agenzia locale che ci accompagna in hotel: scopriamo che il nostro gruppo sarà formato solo da noi due.

L’hotel Le Meridien, cinque stelle, è molto bello: un edificio in vetro situato nel centro direzionale di New Delhi. Ci accoglie una grande hall bianca: dietro al bancone della reception noto un altissimo cilindro azzurro, semiaperto e luminoso. Particolare è la zona interna, dove spiccano i velocissimi ascensori a vista che scorrono su una parete guardando l’atrio del bar, arricchito da luci colorate rosse e blu, che si alternano. Tutt’intorno si affacciano i diciannove corridoi delle camere. La nostra è al quinto piano, la 515, e si presenta grande e confortevole come tutte le altre che ci ospiteranno in questo tour. Alle 12.30 incontriamo Banna Ji, la guida che ci accompagnerà per due settimane in una macchina privata con autista, soluzione che per noi si rivelerà molto comoda e “di lusso”.

Andiamo subito nella città vecchia per fermarci a pranzo in uno dei migliori ristoranti della zona: Broadway. Il posto è molto carino, con un’atmosfera di altri tempi: una vecchia automobile, un letto a baldacchino adattato a tavolo, foto e oggetti liberty rendono accogliente il locale. Capiamo subito che sarà difficile evitare i cibi troppo piccanti, perché la quasi totalità dei piatti indiani è cucinata con una base di tutte le spezie. Ordiniamo una birra tipica, la Kingfisher, buona, che accompagna del pollo, formaggio, kebab, riso e montone. Il tutto assaggiato insieme al pane non lievitato.

Andiamo poi a visitare la più grande moschea di Delhi, la Jama Masjid: il nome fa riferimento alla preghiera del venerdì e la cui costruzione è iniziata nel 1650, durante la dominazione mussulmana.

L’impero Moghul è durato dal 1526 al 1858. Fu fondato da Babur (che regnò dal 1526 all’anno della sua morte, nel 1530), detto “il conquistatore” e discendente dal grande condottiero turco-mongolo Tamerlano. Scacciato dalla città che governava, nell’odierno Uzbekistan, decise di invadere l’India e sconfisse l’esercito del Sultanato di Delhi. Estese il suo impero, incrementò le migrazioni turche e la religione islamica. Il suo regno raggiunse l’apogeo con l’imperatore Akbar, che regnò dal 1556 al 1605. Si rivelò un sovrano e uno statista lungimirante: creò forti alleanze nel territorio sposando la figlia del Maharaja di Amber e inserendo nei ruoli amministrativi i principi del Rajasthan, riformò il sistema agricolo, eliminò la tassa sui sudditi non mussulmani e dimostrò molta tolleranza religiosa. Sotto il suo impero l’arte della miniatura raggiunse uno stile unico e fu costruita la bellissima città di Fatehpur Sikri e Agra. Un altro grande imperatore fu Shah Jahan, che regnò dal 1628 al 1658 e che commissionò la moschea Jama Masjid, completata nel 1656. Lo stesso sovrano fece innalzare il Taj Mahal ad Agra e il Forte Rosso di New Delhi, posizionato di fronte alla Moschea del venerdì. Durante il regno di suo figlio Aurangzeb (dal 1658 al 1707) l’impero Moghul raggiunse la sua massima espansione, sorpassando la Cina come potenza economica e manifatturiera. Diversamente dai suoi predecessori e da suo padre, non amava la vita lussuosa e dispendiosa e dimostrò pochissima tolleranza religiosa, imponendo le regole comportamentali dell’Islam.

Ricordo molto bene questa Moschea: vi si accede da una scalinata e prima di entrare ci dobbiamo togliere le scarpe, lasciando poi la mancia di 10 rupie al ragazzo che “le guarda” e pagando 300 rupie per scattare foto. Attraverso una delle tre porte, accediamo al vastissimo cortile che può ospitare fino a 25.000 fedeli ed è circondato da un lunghissimo porticato di arenaria rossa, sormontato da quattro torri. Moltissime persone, prevalentemente indiani, in abiti coloratissimi come mi abituerò a vedere per tutto il viaggio, ci camminano intorno o si riposano sui bordi di una fontana centrale. La moschea ha tre cupole e due minareti, alti 40 metri, che alternano strisce di marmo a pietra arenaria. Dopo aver scattato varie foto, ci avviciniamo alla sala di preghiera, che si sviluppa in lunghezza orizzontale, sormontata da archi a sesto acuto smerlati e cupole di marmo. Custodisce varie reliquie del profeta e una copia antica del corano, scritta su pelle di cervo. Il pavimento è decorato con marmo bianco e nero, disposto in modo da sembrare un tappeto da preghiera. Accanto, sempre sul pavimento, ci sono 899 rettangoli bordati di nero, che delimitano le singole zone di preghiera. Mi sento sempre un po’ “intrusa” quando mi avvicino a questi luoghi sacri e scatto delle foto, ma le persone accovacciate in ginocchio sono molto assorte e concentrate e intorno a me passa tantissima gente che alla fine non mi preoccupo.

Usciti dalla Moschea ci attende un rickshaw a pedali-motore che ci fa fare un pittoresco giro nella città vecchia e precisamente nel Chawri Bazaar, situato proprio accanto al monumento visitato. Purtroppo oggi tutti i numerosissimi negozi che si affacciano sulle strette stradine che attraversiamo, sono chiusi: nei giorni precedenti è accaduto un grave atto terroristico nell’India del nord. Oltre 40 soldati sono stati uccisi e nella città ci sono molte manifestazioni di protesta infervorata contro il Pakistan, ritenuto la patria di tutti gli estremisti islamici. Un po’ impaurita, guardo in lontananza gruppi di persone le cui urla echeggiano da vicoletti. Mi colpiscono i numerosissimi fili della luce che pendono, pericolosamente aggrovigliati, dagli edifici. Abbiamo il primo vero impatto con il traffico indiano: in queste strade strette circolano prevalentemente rickshaw, scooter, biciclette e pedoni che si intersecano disordinatamente. Guardando le saracinesche abbassate, immagino la molteplice e colorata mercanzia che normalmente viene esposta, quasi in strada, e che vedrò molto spesso nei giorni seguenti.

Ripresa la nostra Toyota, ci addentriamo nel traffico automobilistico di New Delhi, altrettanto caotico, per fare una breve sosta alla Porta dell’India. Quando ci avviciniamo all’alto arco che ricorda quello di Costantino a Roma o di Trionfo a Parigi, capisco che questo luogo, circondato da prati e pieno di venditori ambulanti, è un punto di ritrovo delle famiglie indiane. E’ stata costruita nel 1931 dal famoso architetto inglese Edwin Lutyens, incaricato di progettare l’impianto urbanistico di New Delhi. In realtà è un Memoriale per commemorare le vittime anglo-indiane della prima guerra mondiale e dei conflitti anglo-afgani.

Facciamo un giro intorno alla Porta e poi, con la macchina, percorriamo la “Strada del re”, un ampio viale che collega la Porta dell’India alla Residenza del Presidente Ram Nath Kovind, in carica dal 2017. Il complesso di questo palazzo (inaugurato nel 1929 come residenza del Viceré inglese e chiamato Rashtrapati Bhavan) è veramente ampio, perché gli venne data molta importanza nella pianificazione della Nuova Delhi, sorta a sud della città vecchia, agli inizi del Novecento, per volere dal re Giorgio V (1865-1936) che spostò qui la capitale da Calcutta. E’ la terza residenza (per grandezza) di un capo di Stato nel mondo, dopo il Quirinale a Roma e Ak Saray ad Ankara, 17 volte più grande della Casa Bianca. Al suoi lati spiccano due edifici gemelli che ospitano i Segretariati.

La dominazione inglese in India

La compagnia inglese delle Indie orientali fu fondata nel 1600 quando la regina Elisabetta I le concesse il monopolio dei commerci nelle Indie orientali, che dominò unitamente alla compagnia olandese delle Indie orientali. Fu la più potente della sua epoca, fino ad acquisire funzioni militari e amministrative dell’immenso territorio indiano. A partire 1773 il governo inglese iniziò a separare il potere politico, gestito direttamente dalla Corona dal Governatore Generale delle Indie, da quello commerciale della Compagnia, che continuò ugualmente a prosperare economicamente fino all’anno della sua fine definitiva, nel 1874. Un avvenimento importante nella storia della dominazione inglese in India fu la Rivolta dei sepoy (soldati nativi nell’esercito inglese) o Moti indiani, scoppiata tra il 1857 e il 1858. La ribellione iniziò per vari motivi, tra cui l’atteggiamento razzista degli ufficiali inglesi verso le tradizioni locali. Sedata la rivolta, la Compagnia perse completamente i suoi poteri amministrativi sull’India, che passarono alla Corona. Fu creato un nuovo ministero del Governo inglese (India Office) con a capo il Segretario di Stato per l’India, mentre il precedente Governatore generale assunse il titolo di Viceré. Iniziò così il Raj britannico su quasi tutto il territorio, mentre in alcuni stati i Raja locali mantenevano ancora il potere nominale. L’amministrazione coloniale britannica iniziò un programma di riforme, tentando d’integrare le più alte caste indiane e i signori nel governo, sopprimendo i tentativi di occidentalizzazione. Il viceré bloccò l’appropriazione di terre, decretò la tolleranza religiosa e ammise gli indiani negli servizi civili, quantunque per lo più in condizione di subordine.

Tornati in hotel, scopriamo che a pianterreno si sta svolgendo un matrimonio indiano: ci avviciniamo curiosi e ci accolgono donne molto belle, con sari elegantissimi, che ci sollecitano a entrare nella sala. Noi, vestiti in modo sportivo e stanchi per il nostro primo giorno di viaggio, decliniamo l’invito, ringraziando le gentili damigelle che stanno aspettando la sposa, ancora nella sua camera. In India il matrimonio è un avvenimento importantissimo: anche le persone più povere spendono cifre elevate per festeggiare questo evento, che inizia parecchi giorni prima. Non ci sono divorzi: un matrimonio è per sempre ed è combinato e deciso dalle famiglie nell’ambito della stessa casta. Parlando di caste, questa rigida divisione della società indiana è rimasta tale dall’antichità fino al dominio inglese, quando alle caste più elevate venivano riservati posti preminenti. Recentemente invece c’è stato un cambiamento di tendenza, riservando incarichi lavorativi proprio alle caste più basse, talvolta prive della giusta preparazione, come nel caso delle assunzioni di insegnanti di scuole statali, il cui livello risulta più basso di quelle private, dove le scelte vengono operate seguendo i meriti. Le quattro caste indiane sono: i Brahmani (sacerdoti e intellettuali, colore bianco)-Kshatriya (guerrieri e nobili, colore di rosso)-Vaisya (mercanti e artigiani, colore giallo-bronzo)-Shudra (servitori, colore nero). A queste si aggiunge quella dei Dalit o “intoccabili” (chi svolge mestieri impuri).

Martedì 19 febbraio 2019: New Delhi-Nawalgarh

Prima di lasciare Delhi andiamo a visitare un luogo patrimonio dell’UNESCO, che non ricordo di aver visto nel mio viaggio precedente. Si tratta del complesso Qutb (o Qutub o Qutab), famoso per l’omonimo Minareto, alto 73 metri.

La costruzione del primo piano di questo monumento iniziò nel 1192 ad opera di Qutb ud Din Aibak, un ex schiavo turco-mamelucco che fondò il Sultanato di Delhi, che durò dal 1206 fino all’inizio dell’impero Moghul nel 1526. Siamo quindi in un periodo precedente alla Moschea del Venerdì. Questo regno ebbe cinque dinastie ed è ricordato per essere uno dei pochi stati che riuscì a respingere un attacco dei Mongoli discendenti da Genghis Khan. Durante questo periodo ci fu una integrazione tra la cultura indù e quella islamica e anche una delle poche donne regnanti nella storia islamica. I successori di Aibak aggiunsero altri tre piani al minareto, ma l’ultimo fu distrutto da un fulmine e poi ricostruito insieme all’ultimo. I suoi cinque piani partono da una base di 14 metri, che si riduce alla fine a 2.7 metri.

E’ veramente imponente e mi colpisce per la lavorazione a rilievo dei suoi mattoni rossi. All’interno c’è una scala a spirale di 379 gradini, ma noi ci guardiamo bene dal salirla, dobbiamo conservare le forze. Ci aggiriamo tra le rovine degli altri monumenti del complesso: il tempo è bello e gradevole. Intorno a noi, oltre al sovrastante minareto, ci sono i resti di una Moschea, una porta, un altro minareto, le rovine di templi giainisti e il Pilastro di ferro. Quest’ultimo è molto particolare: fu costruito da un re di un antico impero indiano del quarto secolo d.C. ed è famoso per l’alta resistenza alla corrosione del ferro con il quale è stato forgiato dagli antichi fabbri indiani, la cui bravura ha attirato l’attenzione di archeologi e altri studiosi. Prima di andare via passiamo accanto al Minareto Alai, del quale possiamo ammirare soltanto la gigantesca base, che avrebbe dovuto sorreggere una torre, alta il doppio del Minareto Qutb e mai completata.

Risaliamo in macchina e attraversiamo la parte nuova della città: è molto estesa con palazzi moderni e belle strade, affiancate da zone verdi. Noto molti contrasti, tipici di questo paese: i quartieri ben curati si alternano a strade piene di immondizia, c’è molto smog per il traffico intenso di automobili, tuk-tuk, autobus vecchi. Ci sono nove linee di metropolitana, sia sotterranea che a vista.

Il programma del nostro tour ci costringe a percorrere molti chilometri inutili per andare a visitare il Museo dei Trasporti situato fuori Delhi, nella direzione opposta alla nostra prossima meta, Nawalgarh. Per arrivare al Museo percorriamo una strada che in Italia sarebbe una provinciale, invece qui è considerata una autostrada: il pedaggio si paga ogni tanto e accanto alle file di automobili, presso i caselli, ci sono parecchi venditori, anche di ciambelle. Arrivati a destinazione, facciamo un giretto tra auto d’epoca americane, portantine antiche, un treno del Maharaja, moto e rickshaw. Se fosse stato di strada, la sua visita avrebbe avuto più senso, permettendo una sosta pranzo in un luogo igienicamente più decente rispetto agli altri, cosa importante da considerare in India. Invece noi, non essendo un gruppo numeroso che avrebbe motivato una prenotazione e organizzazione più accurata del cibo, rinunciamo a patatine fritte poco invitanti (solo per un discorso di igiene, in quanto siamo abituati a pasti leggeri anche in Italia) e dobbiamo affrontare un lungo viaggio nella nostra Toyota fino alle 15.30, quando ci fermiamo in un “ristorante” all’aperto. Per non rischiare, ordiniamo un brodino (almeno è bollito) che arriva con poche verdure poco cotte, accompagnato dal caratteristico pane indiano, senza lievito, chiamato naan. Quest’ultimo ci piace molto, perché generalmente arriva caldo e ci aiuterà a saziarci in molte occasioni.

Finalmente entriamo nel Rajasthan: è periodo di matrimoni e incontriamo moltissime macchine addobbate con tanti fiori colorati. Lungo la strada adocchiamo un gruppo di ragazze con sari variopinti, probabilmente pronte per una festa matrimoniale, e ci fermiamo per scattare delle foto insieme a loro. Sono sempre tutte molto gentili e sorridenti. Usciti dalla capitale ci addentriamo nel cuore dell’India ed entriamo in contatto con il suo paesaggio tipico, che impareremo a conoscere bene nei prossimi giorni. In questa zona le strade sono particolarmente dissestate e piene di rallentatori di velocità: per questo motivo i tempi di percorrenza si allungano molto. Ricordo benissimo le numerose vacche che girano indisturbate per le strade delle città indiane. In India questo animale (di razza zebù gir) è sacro, perché è considerato una “madre universale” che dona il proprio latte a tutti, non solo ai propri vitelli. Immersi nel traffico assordante dove i clacson sono quasi obbligatori, osserviamo la movimentata vita che si svolge lungo la strada: mercati di frutta e verdura, botteghe di ogni genere e venditori ambulanti.

Verso le 19.30 arriviamo a Nawalgarh al Roop Niwas Kothi, un hotel a tre stelle molto particolare: è un’antica tenuta di campagna nella periferia di Nawalgarh, che nel 1928 è stata restaurata dal suo proprietario, Rawal Madan Singh, per trasformarla nella sua residenza privata. La famiglia, nel 1981, ha aperto la sua casa agli ospiti, trasformandola in hotel. E’ una esperienza particolare assaporare questo tipo di soggiorno dove, più che cliente, ti senti un ospite. La camera è accogliente, con un letto in legno scuro e copriletto verde oliva, due poltrone a riquadri e un piccolo disimpegno che precede un bagno un po’ spartano. Ci meritiamo una bella doccia e soprattutto la cena che ci viene servita nella sala da pranzo, arredata in modo molto familiare. Ci vengono serviti piatti tipici in tante ciotole. Per fortuna il cibo non è troppo speziato e poiché siamo all’inizio del viaggio, assaggiamo tutto con curiosità. Pollo, patate, germogli di bambù, ceci, riso e un dolce fatto con zucchero, burro e ceci.

Dopo cena ci accomodiamo nel portico antistante l’ingresso dell’hotel: è un luogo molto accogliente, soprattutto grazie al calore emanato dalla legna che arde in bracieri strategicamente disposti accanto ai tavolini. Di sera la temperatura si abbassa e fa un po’ freschino e ci fa piacere essere coccolati da questo tepore. Casualmente facciamo amicizia con la proprietaria della residenza che è molto simpatica e affabile: ci offre un ottimo whiskey indiano e ci sollecita a visitare le stalle e i suoi cavalli prima di ripartire. Apprendiamo poi che appartiene alla famiglia di un Maharaja. Dai suoi modi e dall’abbigliamento europeo, capisco che rappresenta il tipo di donna indiana moderna, mentre quelle che vedremo spessissimo durante il viaggio, che indossano ancora i bellissimi sari colorati, credo siano più tradizionaliste.

Mercoledì 20 febbraio 2019: Nawalgarh-Bikaner

Sveglia presto e dopo una abbondante colazione ci accompagnano a visitare i 70 cavalli Marwari che sono a disposizione degli ospiti della residenza per passeggiate, gare o stage. Questa razza è originaria dei territori del Marwar, la regione sudoccidentale del Rajasthan intorno a Jodhpur. Tra le caratteristiche più apprezzate di questa specie, ci sono le tipiche orecchie curve con la punta rivolta all’interno e il carattere tenace e imprevedibile che la rende adatta soltanto a cavalieri esperti. Oltre ai cavalli c’è anche un dromedario, accanto al quale mi faccio fotografare. Stiamo andando verso il deserto e d’ora in avanti vedremo parecchi di questi animali, anche adoperati per trainare dei carretti.

Ci dirigiamo poi verso il centro di Nawalgarh, fondata nel 1674 dal circondata da alte mura, interrotte da quattro ingressi di accesso, con porte di ferro. Questa città oggi sembra quasi abbandonata e diroccata, ma un tempo era considerata la più moderna della sua regione (Shekhawati) ed era abitata da ricchi mercanti che vivevano in splendide dimore chiamate Haveli (ce ne sono circa 200), che sono la principale attrazione di questo luogo. Nel tempo le ricche famiglie di Nawalgarh si sono trasferite in altre zone dell’India, continuando a mantenere il loro importante ruolo imprenditoriale: attualmente molte stanno restaurando le loro Haveli per mostrarle ai turisti.

Noi visitiamo la bellissima Haveli Morarka, divenuta ora un Museo. Appena entro nel primo cortile (chowk) ammiro gli affreschi colorati che sono quelli originali, realizzati con colori naturali. Questi dipinti erano motivo di competizione tra i vari proprietari e rappresentavano, oltre a soggetti della tradizione locale, anche invenzioni e personaggi famosi ammirati durante i viaggi all’estero, come treni, automobili, mongolfiere e uomini e donne in abiti europei. Lo spazio intorno al cortile era riservato alle camere degli ospiti. Entriamo nel secondo cortile, al centro del quale c’è della sabbia, usata dalle donne per lavare o per altre faccende domestiche: questa zona infatti era riservata alla famiglia, le cui stanze sono abbastanza grandi, con dei soppalchi per la zona letto e rigorosamente separate quelle delle donne da quelle degli uomini. Il chowk era uno spazio fondamentale in questa tipologia di abitazioni, usato per vari scopi: separare alcune aree della casa consentendo riservatezza, creare ventilazione naturale dell’aria nei climi caldi, svolgere compiti domestici o usato per feste e matrimoni. Per le soluzioni adottate nella progettazione, le Haveli sono un vero gioiello architettonico. Attraverso una bassa porta, saliamo delle scale strettissime, con gradini più alti del normale e accediamo al secondo piano, con camere simili al primo e con un ballatoio che si affaccia sul cortile interno. Al terzo piano c’è una terrazza panoramica che si affaccia su un tempio indù e su un altro cortile, destinato alle stalle dei dromedari.

Ci rimettiamo in macchina per affrontare un tragitto di circa quattro ore e mezzo per raggiungere Bikaner. Il paesaggio è più monotono, con tratti desertici, punteggiati da qualche arbusto, che si alternano a zone più verdi, irrigate. Oltre alle numerose vacche che attraversano la strada, incrociamo carretti trainati da dromedari: stiamo andando verso il Deserto del Thar: ci sono meno centri abitati e il traffico è più scarso. Purtroppo continuo a vedere tanta spazzatura gettata lungo i bordi delle strade. In questa nazione la raccolta dei rifiuti non ha una vera e propria pianificazione: in alcune città la stanno iniziando ora, mentre prima era affidata a privati che passano per le case ad acquistare materiali riciclabili. Da come vedo, penso che la popolazione sia abituata a sbarazzarsi semplicemente della spazzatura, buttandola per strada: non c’è un’altra spiegazione.

Siamo nella regione del Rajasthan, nome che vuol dire “terra dei re”, precedentemente chiamato Rajputana, situata nel Nord-ovest dell’India, occupando circa il dieci per cento del suo territorio globale ed essendo quindi il più grande stato per superficie e il settimo per popolazione. Comprende una parte del Deserto del Thar e confina con il Pakistan. Tra le sue attrazioni ci sono rovine dell’antica civiltà indù, templi e parchi nazionali dove sopravvivono le tigri. La capitale è Jaipur, ma sono molte le altre città, importanti per la ricchezza dei loro forti e retaggi culturali.

Le famiglie del Rajput (la casta più alta e guerriera dello stato), iniziarono ad acquistare importanza dal sesto secolo A.D. e difesero strenuamente i loro regni contro le invasioni dei turchi, afgani e islamici, come l’imperatore Indù Hem Chandra Vikramaditya (1501-1556), finché Rana Sanga, uno dei più importanti Raj della regione, fu sconfitto da Babur che iniziò la dominazione moghul nel 1526.

Durante il regno dell’imperatore Akbar (che regnò dal 1556 al 1605) i re del Marwar (regione di Jodhpur) e del Mewar (regione di Udaipur) rifiutarono ogni forme di alleanza e subirono forti ritorsioni. Il Maharana Pratap Singh (1540-1597), vendicò il popolo di Mewar e divenne famoso in tutta l’India. Il Raj Singh I (1652-1680) ebbe il coraggio di opporsi più volte all’imperatore Aurangzeb, l’uomo più potente della sua epoca. I Raja di Amber, Udaipur e Jodhpur opposero una strenua resistenza agli attacchi dell’imperatore Bahadur Shah I, figlio di Aurangzeb, che regnò dalla morte del padre, 1707 fino al 1712. Un altro importante regnante del Rajasthan fu Maharaja Suraj Mal (1707-1764), descritto come il Platone del suo popolo o l’Ulisse, per la sua acutezza e intelligente visione politica.

Quando l’impero moghul cominciò a indebolirsi, il Rajputana cadde sotto l’influenza dell’impero Maratha, un regno che si espanse nel territorio indiano durante il diciottesimo secolo e terminò con la dominazione inglese nel 1818. A questo punto i re Rajput, esausti per le guerre e spogliati economicamente dalle tasse dei precedenti imperi, accettarono la sovranità inglese in cambio di autonomia interna.

Il Rajasthan è molto ricco culturalmente grazie alle sue tradizioni artistiche, che spaziano dalla musica alla danza, dall’architettura alla pittura.

Alle 13.30 arriviamo a Bikaner, situata nell’arida zona del deserto del Thar, nello scenografico hotel The Lallgarh Palace, (a cinque stelle) appartenente alla famiglia del Marahaja Ganga Singh. Nel 1902 egli spostò la sua residenza dal forte Junagarh, il cui nome significa “forte vecchio” per questo motivo, al presente palazzo, ora adibito a hotel, mentre la famiglia continua ad abitare nella parte più interna dell’ampia residenza. Il Wi-Fi funziona solo nella hall dell’hotel e si devono pagare 50 rupie, un prezzo talmente irrisorio (circa 65 centesimi) che potrebbero non richiederlo! Alle 15 andiamo nel centro della città.

Bikaner è stata fondata nel 1472 da Rao Bika, figlio del Maharaja Rao Jodha di Jodhpur: non essendo il primogenito, non poteva ereditare da suo padre il titolo e regnare sulla sua città, quindi decise di costruirsi un proprio regno. Scelse questo territorio che, pur essendo desertico, aveva corsi d’acqua e quindi considerato un’oasi. Diede il suo nome alla città e allo stato intorno e costruì, nel 1478, un forte che ora è in rovina. Il periodo d’oro di Bikaner iniziò circa cento anni dopo, alla fine del 1500, durante il regno del Raja Rai Singh (1571-1611), che accettò l’importante ruolo di generale di armata presso gli imperatori moghul Akbar e di suo figlio. Ripagato con possedimenti e rendite, poté edificare il forte Junagarh.

E’ uno dei pochi forti non costruiti sulla cima di una collina e iniziamo a visitarlo colpiti da tanta ostentazione di ricchezza e dalle avanzate soluzioni architettoniche, dovute alle conoscenze artistiche del sovrano, acquisite nei suoi numerosi viaggi in paesi stranieri. Il forte è in arenaria rossa e i cortili interni sono arricchiti da marmi bianchi intarsiati. E’ notevole il contrasto tra l’architettura medioevale più severa dell’esterno e gli ambienti interni riccamente decorati. Attraversiamo sale con soffitti dorati e pilastri ornati che sorreggono archi a sesto acuto.

I regnanti successivi aggiunsero alla residenza iniziale altri palazzi, il quartiere dello “zenana”, riservato alle donne della famiglia reale, e una sala per le udienze (diwan). Tra questi è da menzionare Ganga Singh (1880-1943), uno dei più famosi re di Bikaner e di tutto il Rajasthan, nonché costruttore del nostro hotel. Molte delle hall da lui aggiunte al forte sono state ora trasformate in museo, rendendo così la sua proprietà economicamente produttiva e non cedendola completamente allo stato, politica seguita da molti altri Maharaja. Ganga Singh acquistò una posizione molto importante durante il dominio inglese, ottenendo prestigiose onorificenze militari per il suo servizio nell’esercito indiano. Visitiamo quindi le sale interne dove sono esposti dipinti che illustrano la storia locale o oggetti appartenuti alle varie famiglie reali. Saliamo poi sulla terrazza dalla quale si ha una visione panoramica sugli spazi esterni, destinati alle stalle per i cavalli e gli elefanti, agli edifici dell’armeria e ai giardini.

Ci aspetta ora un bel giro in tuk-tuk (che a differenza del rickshaw a pedali, è una specie di “apetta” a motore) nella città vecchia. A differenza di New Delhi, oggi i negozi sono aperti ed è tutto più bello e allegro. Non so cosa fotografare prima nelle strade di questa incredibile India, nazione veramente unica per i colori accesi dei sari delle donne, il traffico indescrivibile e il rumore assordante e continuo dei clacson. Tutto intorno è un fervore di vita. Percorriamo un tratto a piedi per ammirare delle bellissime haveli del 1500, costruite in mattoni rossi intagliati a merletto e intervallati da finestre turchesi.

Tornati in hotel, dopo una doccia veloce, verso le 18 saliamo su una jeep che in circa 45 minuti, ci conduce al luogo della famosa “cena nel deserto”, che ci aveva tanto attirato nella lettura del nostro programma di viaggio. Sarà che le nostre aspettative sono alte o perché abbiamo visto deserti più affascinanti e pieni di atmosfera, ma questo è proprio una delusione. Ci addentriamo su una lunga strada sterrata, in una zona sabbiosa con arbusti scarsi, qualche casa abitata e pali della luce. All’arrivo, accanto a un grande casolare, c’è una parte rotonda con tavolini disposti su due livelli. Noi ci sistemiamo in “prima fila” e assistiamo a uno spettacolino di danze e brevi intrattenimenti, veramente pietoso, degno di un villaggio-club di basso livello. Il buffet, sistemato poco oltre, offre pochi piatti speziati, ma mangiabili. Ci servono al tavolo pollo e patatine fritte e alla fine una specie di dessert con una banana. Molto delusi, verso le 20.30 (eravamo arrivati alle 19 ci rimettiamo in macchina. Il ritorno stranamente è più veloce e ci colpisce il fatto che qui in India, lungo le strade, di notte i fari abbaglianti vengono mantenuti sempre alti: una cosa veramente fastidiosa e anche pericolosa.

Giovedì 21 febbraio 2019: Bikaner-Jaisalmer

Stamattina il cielo è nuvoloso, c’è nebbia e fa più freddo e ci attende un lungo viaggio per Jaisalmer sperando che il tempo migliori. Il paesaggio di oggi è più desertico. La strada per fortuna è buona perché questa zona si trova a soli 150 chilometri dal confine con il Pakistan ed è piena di basi militari. Per consentire agli aerei mig di atterrare, vengono usate le carreggiate stradali, naturalmente chiuse al traffico, e quindi l’asfalto è molto liscio. L’India investe moltissimo in spese militari: hanno anche fatto esperimenti nucleari di nascosto agli Usa. In queste vastissime aree ci sono, oltre agli alloggi per le famiglie, anche scuole specifiche, che offrono una buona qualità di istruzione (diversamente dal livello standard delle istituzioni statali del resto del paese). Dopo il recente attentato, l’India sta preparando pesanti rappresaglie.

Arriviamo a Jaisalmer alle 14: l’hotel Marriott è nuovo, internazionale e molto bello con una camera grande e una doccia confortevole. Posiamo le valigie e andiamo a pranzo: leggero potage alle verdure con ottimo pane brioche. Birra a 350 rupie circa e acqua free (in questo viaggio in ogni albergo troveremo sempre parecchie bottigliette di acqua gratuita, che usiamo anche per lavarci i denti e preparare caffè o thè).

Alle 16 arriva la guida e poiché c’è il sole, decidiamo di anticipare ad oggi l’escursione sul dromedario (che, diversamente dal cammello, ha una gobba sola). Ci vogliono circa 40 minuti per arrivare alla zona dove ci sono molti campi tendati. Saliamo su due dromedari, ognuno guidato da un ragazzino. Il percorso all’inizio è deludente: piatto, sabbioso e anonimo. Per fortuna l’ultimo tratto è più bello, con dune abbastanza carine che rendono la gita piacevole. Come in tutto il paese, anche qui la spazzatura è disseminata dovunque. Qui tra le dune vediamo bottiglie di plastica e di vetro, sia intere che rotte, cartacce e buste. I venditori se ne vanno senza raccogliere la spazzatura. Non esistono cestini. Per questo motivo molti T.O. non fanno questa escursione. Camminiamo in pianura e poi saliamo e scendiamo tra la sabbia, mentre la zona è sempre più affollata di persone che cavalcano da sole o in due sullo stesso animale, oppure su carretti trainati da un dromedario. La scena è piacevole. Poi quasi alla fine del percorso tutti scendono e si godono il tramonto.

Venerdì 22 febbraio 2019: Jaisalmer

Stamattina si parte alle 9 e per prima cosa ci dirigiamo verso il lago artificiale Gadi Sagar Tank, a sud delle mura cittadine, un tempo riserva d’acqua. Mentre percorro la stradina per raggiungerlo, capisco subito che questa città mi affascina, con le sue case in arenaria gialla piene di intagli e decorazioni scolpite nella pietra. Infatti è stata soprannominata la “città d’oro” per via del colore che assumono i suoi edifici al tramonto, illuminati dalla luce del sole. Il lago è carino e vi si accede anche da una bella porta ad arco, che pare sia stata fatta costruire con i soldi di una famosa prostituta, alla quale il maharaja aveva negato il permesso, perché non avrebbe potuto oltrepassare la porta senza perdere la sua dignità. Allora, mentre questi si trovava fuori città, la donna fece comunque costruire la porta, aggiungendo in cima un tempietto dedicato a Krishna, per evitare al re di distruggerla.

Jaisalmer è una fortezza, circondata dalla sabbia dell’arido Deserto di Thar, di circa 58.000 abitanti, che si trova nella parte centro-occidentale dello stato del Rajasthan: qui è ancora possibile gustare veramente lo spirito, le tradizioni e la cultura dei secoli di maggior splendore di questa regione. La posizione strategica di Jaisalmer, posta sulla via dei cammelli che collegava l’India all’Asia centrale, fu fonte di grande ricchezza per la città. I mercanti e gli abitanti fecero costruire dimore e abitazioni magnifiche, in legno e arenaria giallo oro, tutte squisitamente lavorate da artigiani di rara maestria. Haveli simili a quelle di Jaisalmer si trovano ovunque nel Rajasthan, ma qui hanno una carica più esotica. Lo sviluppo dei traffici mercantili e la conseguente ascesa in importanza del porto di Bombay, segnarono l’inizio del declino politico ed economico di Jaisalmer (come anche era accaduto per Nawalgarh), insieme alla scarsità di risorse idriche, ma le guerre indo-pakistane del 1965 e del 1971 evidenziarono nuovamente l’importanza strategica dell’abitato, scongiurandone la fine.

Ci avviciniamo alla grande piazza, piena di bancarelle, che si trova alla base della fortezza: l’atmosfera è magica. Il nucleo più antico della città vecchia era circondato da mura, distrutte in epoche più recenti, ma una parte del vecchio tracciato murario è ancora visibile. Vi entriamo attraverso una porta dove sono impresse nella pietra le impronte delle mani, questa volta rosse, che ricordano il macabro rito del Sati, ossia l’immolazione delle vedove sulla pira dei mariti defunti. Iniziamo a salire nelle viuzze labirintiche, che sono un misto di Marocco, Uzbekistan e Iran, ma con le caratteristiche dell’India. Molte case sono abitate, ma qualche residenza no.

Poi andiamo in un tempio giainista, costruito tra il XII ed il XV secolo e splendidamente decorato in modo molto elaborato.

La guida ci spiega che il giainismo è una religione fondata da Jina (Vardhamana) e basata sul rifiuto di tutti i beni terreni, praticando l’austerità. Fa riferimento a testi che riportano l’insegnamento del fondatore, che però viene ritenuto il ventiquattresimo dei maestri che hanno iniziato a diffondere queste idee. Il giainismo tende ad uscire dal ciclo delle vite continue del “samsara” (vita, morte e rinascita) e a liberarsi del “karman”. I giainisti ritengono che le buone azioni della vita hanno karma positivo, permettendo una rinascita superiore, e che gli atti immorali, al contrario, attirano un karma negativo che fa reincarnare in forme inferiori. Per questo danno molta importanza al comportamento morale. Generalmente non hanno una casa e girano scalzi, vestiti di bianco. Non mangiano al buio per paura di ingoiare insetti che non vedono, e non si cibano nemmeno di prodotti provenienti da sotto terra. Sono vegetariani e pochissimi (pare solo 25 in India) girano completamente nudi.

Scendendo dal forte, giriamo negli stretti vicoli della città pieni di negozietti ricchi di merci colorate: il traffico di moto, tuk tuk e vacche è impressionante. Noto numerosissimi ristoranti e piccoli hotel, che denotano un grande incremento turistico. Compriamo dei borsellini in pelle di dromedario, che hanno un inserto di tessuto con un disegno tipico solo di questa città.

Facciamo una camminata lungo una strada, fiancheggiata da bellissime haveli riccamente intagliate e ci sediamo in una piazzetta dove vendono delle marionette tipiche, in abiti dai colori sgargianti, chiamate kathputli (kath significa legno e putli bambola), un’arte molto antica portata, durante le feste folcloristiche e religiose, di villaggio in villaggio dagli artigiani locali, che tramandava i racconti tradizionali, non menzionati in testi scritti. Gli stessi re e le famiglie nobili sostenevano queste rappresentazioni per pubblicizzare le loro gesta eroiche e conquistare l’ammirazione del popolo. Col tempo il marionettista, assistito da un collaboratore che canta e racconta la storia, e da musicisti, ha affrontato anche temi scomodi e delicati relativi al lavoro, alle donne e alla povertà. Attualmente questi spettacoli sono sempre più un attrazione riservata ai turisti.

Dopo il pranzo e il relax in albergo, il pomeriggio inizia con una visita a una casa di un fabbricante di stoffe pregiate che produce in Kashmir pashmine, shahtoosh, copriletti e pullover di diversa qualità e prezzo. La lana più pregiata dipende dalla parte del corpo dell’animale da cui viene rasata. Al primo posto c’è lo shahtoosh che si ricava dal sottopancia del chiru, un’antilope tibetana a rischio d’estinzione: per tosarla bisogna ucciderla e per questo è ora illegale, anche se in India continua a essere venduta illegalmente a prezzi altissimi. C’è poi la Pashmina, il cui originale è realizzato solo con cashmere e seta, ma il termine viene usato in modo molto generico per sciarpe di vari materiali, molto più economici. Il cashmere si ricava dal sottopelo della capra Kel, che, vivendo al freddo dell’Himalaya, sviluppa un pelo morbido e caldo.

Il pomeriggio continua con una visita al cimitero (150 rupie all’ingresso). Qui ci sono degli antichi cenotafi e delle pensiline in ferro sotto le quali avvengono le cremazioni. Il posto ha un suo fascino, soprattutto per la posizione che permette di guardare l’intera cinta muraria del forte di Jaisalmer, che si staglia sul cielo, oggi azzurro, con un colore oro rossastro. Qui i turisti aspettano il tramonto, anche se l’aria si è fatta più fresca.

Quando una persona muore, viene avvolta in un telo di cotone bianco e portata al cimitero su una portantina in legno di bambù, sulle spalle di quattro famigliari, che si danno il cambio in continuazione e che si devono rasare i capelli, eccetto un ciuffetto, da donare al morto come protezione, mentre gli altri lo faranno durante il rito. Il figlio maggiore deve spaccare il cranio per liberare l’anima e accendere il fuoco per la cremazione, che non può avvenire dopo il tramonto e che dura circa tre o quattro ore. Nella pira vengono usati fino a 1000 chilogrammi di legna (a seconda delle possibilità economiche). La moglie deve rompere i suoi braccialetti vicino al cadavere e, come vedova, non potrà indossare abiti molto colorati né truccarsi. Dopo la cremazione tutti i parenti tornano a casa e devono rispettare il lutto per 12 giorni senza lavorare, per preparare il cibo (solo derivati dalla terra senza dolci) da offrire alla famiglia e agli amici che vengono a porgere le condoglianze: ogni sera, un sacerdote legge un testo sacro. Il terzo giorno si torna al cimitero dove il figlio maggiore raccoglie le ceneri per spargerle in un fiume sacro. L’undicesimo giorno si offre una cena solo ai brahmani ai quali si regalano cose preziose. Secondo la religione induista l’uomo è composto da cinque elementi: acqua, terra, fuoco, aria e cielo. Quando si muore, bruciando il corpo, questi elementi vengono restituiti alla natura. A secondo del comportamento in terra si rinasce in un essere superiore, fino ad arrivare alla casta più alta dei brahmani. Raggiunto il vertice non ci si reincarna più.

Sabato 23 febbraio 2019: Jaisalmer-Jodhpur

Oggi trasferimento lungo di circa 5 ore per Jodhpur, la città blu, dove arriviamo verso le 13.30 e pranziamo nell’hotel Itc, molto bello. dopo aver finalmente pranzato con una zuppa di broccoli non speziata e un pollo ottimo con purea di patate, alle 15 si parte per la visita della città.

Andiamo prima ad ammirare il Jaswant Thada, il cenotafio reale costruito dal Maharaja Sardar Singh nel 1899, in memoria di suo padre, il Maharaja Jaswant Singh II. La costruzione principale, alla quale si accede da una doppia scalinata e attraverso un giardino, è un vero palazzo, in marmo bianco squisitamente lavorato con lastre molto sottili e levigate. All’interno ammiro delle ante di porte e finestre con intricati adornamenti. Nella vasta area del cimitero ci sono tanti altri cenotafi di varia grandezza, che commemorano i membri della famiglia reale: quelli più grandi sono per i mariti e quelli più piccoli per le mogli.

Non riesco ancora a capire bene l’attuale stato delle donne in India. Ho capito che l’uomo generalmente ancora prevale sull’altro sesso e che i retaggi degli antichi confinamenti delle donne negli zenana dei palazzi e dietro alla finestre-grata, sono ancora presenti in questa nazione, anche se in netta evoluzione, soprattutto nelle città più grandi. Una cosa però è visibile: la grande maggioranza delle donne indossa ancora il sari, diverso a seconda delle caste, e alcune, seguendo l’influenza musulmana, tendono a coprirsi il viso con il velo sulla testa.

Dopo il cimitero riprendiamo la macchina per salire al forte Mehrangarh, una delle più grandi fortezze del Rajasthan, il cui nome significa “forte del sole” perché fu fondato Rao Jodha (1438-89), del clan Rathores, che si vantava discendente dal dio del sole. La città alla sua base, Jodhpur, prese il nome dal sovrano. Il castello si erge su una ripida altura che domina la zona sottostante, delimitata da lunghe mura. La prima impressione è quella di una rocca medioevale molto imponente, ma quando mi avvicino noto l’architettura tipicamente indiana, riccamente elaborata e merlettata. La conquista di questa posizione privilegiata fu spesso motivo di guerriglie che si protrassero nel tempo, anche se sotto la dominazione Mughal, i successivi regnanti diventarono alleati e feudatari dell’impero, per mantenere il controllo sulle loro terre.

Per salire nel cortile intermedio è consigliabile prendere l’ascensore che costa 250 rupie (3 euro circa): questo importo è comprensivo anche della tassa per scattare le foto. Il forte non era solo una base militare, ma anche un palazzo per la famiglia reale, sede per praticare le arti, la musica e la letteratura e anche luogo di culto. Infatti percorriamo sale riccamente decorate, alcune con soffitti, pareti e colonne dorate, altre con vetri colorati, altre con grandi pannelli di stoffe preziose, appesi ai soffitti per abbassarli. Molti spazi sono adibiti a museo, con oggetti esposti come armi, spade, scudi, foto o dipinti dei vari membri della famiglia reale. È in corso il “World Sacred Spirit Festival”, che riunisce eccezionali artisti provenienti da tutte le parti dell’India e del mondo: giorni e notti pieni di musica, danza e poesia.

Notiamo il trono di dimensioni ridotte che ricorda l’incoronazione, a soli quattro anni dopo la prematura morte del padre, dell’attuale maharaja, Gaj Singh II (1948), appartenente all’antico clan Rathore e ancora proprietario dell’edificio-museo. Per dare lavoro a migliaia di persone che volevano abbandonare la regione molto arida per le frequenti siccità, il sovrano ha fatto costruire una nuova residenza, che ha chiamato Umaid Bhawan Palace, in ricordo di suo nonno. Dalla terrazza del forte si vede benissimo questa splendida dimora, una parte della quale è adibita a hotel di lusso e in un’altra vi abita il Maharaja, con la moglie e i suoi due figli.

Credevo che il Maharaja fosse una figura del passato, oggi decaduta: invece constato che, pur non avendo più cariche politiche e amministrative, come un tempo quando erano re, capi di eserciti e amministratori di giustizia, mantengono ancora oggi grandi ricchezze. Sono rimasti in possesso dei loro favolosi forti che utilizzano come musei di famiglia, con notevoli introiti. Hanno enormi terreni, che coltivano, e vivono ancora in palazzi principeschi con moli servitori e guardie personali.

Finita la visita iniziamo a piedi la discesa che ci porta giù nella città blu, detta così perché molte case della parte antica sono dipinte di blu indaco, diverso da quello più smagliante del Marocco. C’è un po’ più di atmosfera, ma è tutto più turistico. All’inizio questo colore era una prerogativa dei brahmani, poi ci si è accorti che teneva lontano le zanzare e molti altri hanno iniziato a usarlo. Mi gusto piacevolmente gli scorci delle case colorate, lungo la strada antica, nella solita confusione assordante dei clacson incessanti dei tuk tuk e delle moto, che sfrecciano veloci, sfiorandoti nelle strette stradine. Le immancabili mucche, con i loro escrementi disseminati ovunque, ti costringono a stare attenti a dove si mettono i piedi evitando di essere investiti mentre scatti le foto.

Domenica 24 febbraio 2019: Jodhpur-Ranakpur-Udaipur

Stamattina si parte alle 9. Verso le 12.30 interrompiamo il viaggio per Udaipur, con una sosta al villaggio di Ranakpur, per visitare un meraviglioso tempio giainista. Secondo una leggenda locale, il tempio fu edificato da un giainista del luogo, nel XV secolo, dopo una visione divina: è dedicato al primo dei ventiquattro profeti che hanno diffuso concetti simili al giainismo. Sia questo luogo che la città di Ranakpur hanno preso il nome dal re Rana Kumbha. Ci fanno pagare 100 rupie per fare foto anche con il cellulare. Si devono togliere le scarpe, ma si possono tenere i calzini. La guida non entra nel tempio: ci dà le audio guide che in sostanza parlano della religione giainista, del loro Dio e delle regole di comportamento. Mi ricorda in alcune forme i templi cambogiani, ma il colore è completamente diverso: qui è tutto in marmo bianco, con oltre 1400 colonne riccamente e diversamente intagliate. La caratteristica dello stile di questa architettura è di essere trattata dal punto di vista scultoreo. Solo un pilastro è storto, perché la perfezione è propria solo della divinità ed è stata collocata così anche per scongiurare il malocchio.

Questa zona ha una vegetazione più folta: è una giungla nella quale organizzano safari, prevalentemente per vedere i leopardi. Dopo pranzo percorriamo una strada tortuosa, in salita, per scavallare una piccola montagna. Lungo i bordi si vedono spesso dei babbuini. Ci racconta la guida che all’interno della regione abita una tribù molto pericolosa che, dopo le 19, può attaccare chiunque passi per strada, per derubarlo.

Verso le 1630 arriviamo all’hotel Tat Saarasa, che si trova a circa 20 km dal centro di Udaipur, in aperta campagna. La gestione dell’albergo e la fruizione dello stesso sono tipicamente indiani. Al primo impatto si presenta bello, con una hall molto ampia e spoglia, una grande vetrata che mostra la piscina e un vasto prato verde con sullo sfondo colline e montagne. Stessa visuale dalla camera, spaziosa, con bagno separato a vista da una vetrata. Però constatiamo subito che la manutenzione e il servizio lasciano a desiderare e il ristorante offre un buffet poco vario e molto speziato.

Lunedì 25 febbraio 2019: Udaipur

Oggi tempo è bello e fa caldo. Prima tappa Nagda, oggi un piccolo paese a circa 20 chilometri a nord di Udaipur, ma anticamente un’importante città e capitale della regione di Mewar (zona centro-sud del Rajasthan). Noi visitiamo la sua principale attrazione: i resti dei templi Sahastra Bahu, in marmo rossiccio, che mi ricordano la Cambogia: risalgono al decimo secolo A.D. e il nome significa “colui dalle mille braccia”, facendo riferimento a una forma di Vishnu, a cui sono dedicati. I templi sono riccamente ed abilmente scolpiti con immagini di divinità indù, i cui volti risultano cancellati dagli invasori moghul i quali, essendo mussulmani, non ammettono iconografia per le divinità.

A circa due chilometri e mezzo si trova Eklingji, un altro luogo sacro che comprende un insieme di templi indù e risale all’ottavo secolo. Il suo nome è quello della divinità del Mewar, di cui il Maharaja è il suo ministro: l’attuale regnante, che è proprietario del luogo, nel quale più tardi verrà a pregare in una zona privata, pare essere più povero dei Maharaja di Johdpur e Jaipur, pur essendo ricchissimo di innumerevoli proprietà. Qui non si possono fare foto e devo solo imprimere i ricordi nella mente. Il posto mi piace moltissimo perché è una esperienza particolare. Ci allineiamo in fila con tanti indiani devoti e pochi turisti, prevalentemente francesi. Ci togliamo le scarpe e i calzini (solita mancia di 10 rupie) ed entriamo. All’ingresso ci sono molte donne, sedute in terra, che vendono collane di fiori, prevalentemente gerbere gialle, bianche e arancioni, per le offerte. Ci sono oltre 100 tempietti lungo i piccoli viali che percorriamo, sempre in fila, fino al tempio più grande di Shiva, il dio della distruzione, che viene venerato in particolare oggi. I fedeli arrivano davanti al suo altare e offrono il cestino con i fiori, come fa la nostra guida che ci fa sedere in terra, insieme a lui e a tutti gli altri, accanto a una statua di una mucca sacra, che tutti si inchinano a baciare. Mi sembra di essere nella chiesa messicano di San Juan Chamula: lì sgozzavano le galline, qui baciano le mucche.

Nell’induismo la Trimurti è la triade delle tre principali divinità: Brahma è il dio creatore. Dalle sue quattro bocche sono usciti i quattro testi sacri Veda. E’ il consorte di Saraswati e padre di moltissimi figli: Vishnu è il conservatore e Shiva il distruttore.

Finora non ho percepito quell’alta spiritualità che viene sempre associata all’India, ma solo tanta superstizione e idolatria.

All’uscita ci colpiscono i venditori di cibo che friggono appetitosi peperoni ripieni di patate, spezie piccanti e farina di ceci. Mentre la guida ne compra due e se li gusta avidamente, noi preferiamo, come sempre durante il viaggio, di evitare i cibi pericolosi, soprattutto dopo aver visto il bugigattolo nel quale è riposta la farina e il cibo, sicuramente infestato dai topi. Cenare negli hotel a quattro/cinque stelle ci dovrebbe garantire una migliore igiene e, per precauzione, ci laviamo anche i denti con l’acqua minerale. Prima di risalire in auto ci soffermiamo a guardare delle donne che, indossando imperterrite il loro sari tradizionale, lavorano in un cantiere stradale, trascinando carriole piene di cemento, mentre degli uomini, sedute, le guardano.

Il pomeriggio è dedicato alla visita di Udaipur, chiamata la “città dei laghi” per i sette laghi che la circondano.

E’ stata fondata nel 1558 dal Maharaja Udai Singh II, che spostò qui la sua capitale da Chittorgarh, quando questa fu assediata dall’imperatore Akbar. Nel 1818 diventò uno stato principesco sotto il dominio inglese fino al 1947, quando fu inglobato nel Rajasthan dopo l’indipendenza indiana. Questa città si trova a metà strada tra le due importanti città di New Delhi e Mumbai ed è sede di molti uffici statali e regionali (specialmente relativi a miniere) e di università e collegi.

Iniziamo con il City Palace, la residenza di città del maharaja, che vive in una parte del palazzo che sembra la prua tondeggiante di una nave. Il posto è molto bello soprattutto perché si affaccia sul lago.

Percorriamo le molteplici sale, salendo e scendendo stretti gradini di passaggi segreti e ammiriamo le stalle pulitissime, stanze con vetri colorati o specchietti riflettenti, porte in avorio intarsiate, cortili interni o panoramici, zone museali con armi del maharaja. Fotografo con ammirazione degli splendidi mosaici in rilievo, rappresentanti pavoni in varie posizioni e adornati con molteplici specchietti.

Terminata la visita, scendiamo verso il lago artificiale Pichola, che prende il nome dal vicino villaggio Picholi. Fu creato nel 1362, e come gli altri laghi circostanti, all’inizio fu costituito costruendo delle dighe per ottenere bacini di acqua potabile e per l’irrigazione. Fu proprio lo charme di questo luogo, circondato da colline verdi, che spinse il maharaja Udai Singh a edificare la romantica città di Udaipur sulle sue sponde. Insieme ad altri turisti, soprattutto americani, saliamo su una barca che parte da un molo. Indossiamo i giubbotti salvagente e iniziamo la navigazione costeggiando le mura del City Palace e una strada parallela al lago. Al centro dello stesso mi colpisce subito un’isola- palazzo che emerge, tutto in marmo bianco, dall’acqua: il Lake Palace hotel (originariamente Jag Niwas), costruito intorno al 1743 come residenza estiva del maharaja dell’epoca. Dall’esterno sembra una grandissima nave da crociera, ma all’interno è ricco di giardini, cortili colonnati, fontane e terrazze. Con la barca passiamo accanto all’attracco delle imbarcazioni che ha gli scalini ricoperti da tappeti rossi. Sulla terrazza del ristorante si intravedono molte persone. La clientela è sia internazionale che indiana. Sembra un luogo da favola e ha avuto come ospiti personaggi reali e importanti personalità: è stato anche usato come set di alcuni film famosi, come Octopussy di James Bond.

Una curiosità: durante la rivolta dei sepoy del 1857, molte famiglie europee si rifugiarono in questa residenza (e anche nella vicina isola), ospitate dal maharaja regnante che distrusse tutte le imbarcazioni della città per proteggere i suoi ospiti dai ribelli. In seguito il palazzo cominciò a poco a poco a deteriorarsi a rimanere abbandonato. Intorno al 1960 il sovrano Bhagwat Singh decise di trasformare il luogo in un hotel di lusso: il Taj Lake Palace. Salito al trono, si era trovato a fronteggiare vari problemi economici e la scelta di rendere il Palazzo un albergo a 5 stelle fu l’unico modo per poterlo recuperare. Ma l’hotel più caro di tutti è Oberoi Udavilas, che si intravede sulla costa del lago con cupole rosate.

La barca fa una sosta in un’altra isola che sorge sul lago Pichola: Jag Mandir, dove entriamo nell’omonimo palazzo, chiamato anche “The Lake Garden Palace”. Dopo aver visitato una parte interna, ci attardiamo nel giardino, dove ci sono alcuni caffè, ma noi ci sediamo all’aperto accomodandoci su sedioline tonde che si affacciano su grandi statue di elefanti che guardano il lago e il palazzo reale. Il posto è molto bello e pieno di atmosfera.

La costruzione del palazzo, iniziata nel 1551, fu completata verso la metà del 1600 dal Maharana Jagat Singh I, in onore del quale fu chiamato “Jagat Mandir”. Venne usato dalle varie famiglie reali come residenza estiva o per organizzare feste. Questo luogo fu il rifugio del principe Moghul Khurram, che si era ribellato al padre imperatore nel 1623, chiedendo ospitalità al Maharaja di Udaipur, insieme alla moglie Mumtaz Mahal e ai loro due figli. Dopo un breve soggiorno nel City Palace, si spostarono su quest’isola, nel Gul Mahal, un precedente padiglione a cupola espressamente ristrutturato per loro, e successivamente ingrandito nel Jag Mandir Palace. Il principe in seguito diventò il famoso imperatore Shah Jahan, che costruì il Taj Mahal anche ispirandosi all’architettura di questo palazzo.

Tornando verso l’hotel dobbiamo fare una sosta obbligata a una fabbrica di miniature, artigianato caratteristico di questa città: sono molto belle, dipinte ad acquarello con grande cura, su seta, carta o osso di cammello.

Martedì 26 febbraio 2019: Udaipur-Jaipur

Oggi si parte alle 9 e sarà una lunga giornata di trasferimento verso Jaipur, lontana oltre 400 km. Per fortuna verso le 11.30 facciamo una bella sosta a Chittorgarh, l’antica capitale prima di Udaipur.

Qui c’è lo spettacolare (per dimensioni) forte Chittor, le cui mura abbracciano gran parte della montagna, situato a 180 metri di altezza rispetto alla pianura sottostante. Purtroppo è stato distrutto da varie invasioni moghul che nel 1567 hanno costretto il re Udai Singh II a rifugiarsi nella giungla e a spostare poi la capitale a Udaipur. Durante questi assalti per più volte le donne e i bambini dei soldati sconfitti, hanno affrontato il Jauhar, ossia il rito di suicidio di massa per evitare schiavitù e violenze da parte dei vincitori. Le parti che rimangono in piedi, in pietra arenaria elegantemente scolpita, sono i resti di palazzi, porte, templi e torri.

Ci spostiamo poi verso il Tempio Kumbha Shyam, costruito nell’ottavo secolo e poi ristrutturato nel XV secolo dal Maharaja Kumbha che gli diede il nome: è dedicato a Varah, una reincarnazione del dio Vishnu. Ha un tetto piramidale con un’alta torre. Entriamo velocemente nella zona sacra riccamente scolpita con immagini di varie divinità.

Poco oltre c’è il Tempio Meera, dedicato al dio Krishna del quale Meera Bai, una poetessa appartenente della famiglia reale, era devotissima credente.

Ci spostiamo poi in un’altra zona del forte, posto molto bello pieno però di scimmie aggressive che mi fanno paura. Davanti a noi spicca un’alta colonna, la Vijaya Stambha, celebrativa di una vittoria del sovrano Rana Kumbha, nel 1448, su due eserciti rivali. Vi sono incisi soltanto i nomi e le gesta dei regnanti di Chittorgarh insieme a immagini di divinità, e non le scene commemorative delle battaglie o delle vittorie come vediamo in colonne in altri paesi. Purtroppo questi monumenti indiani, pur essendo bellissimi, hanno molti elementi in comune e sono un po’ ripetitivi e monotoni. Per fortuna in questo viaggio possiamo ammirare sia le attrazioni architettoniche e sia le scene di vita vissuta della popolazione. Infatti intorno a noi si muovono leggere e colorate donne indiane di tutte le età. Il sari scintillante e smagliante dona fascino e femminilità anche a quelle più anziane e rugose. Fotografo anche un gruppetto nel quale la più elegante è avvolta in un tessuto avorio, rosa e oro e nasconde il volto che è completamente coperto.

Scendiamo dei gradini fino a un bacino di raccolta dell’acqua: il Gaumukh Reservoir, alimentato da una sorgente, che fu una importante riserva idrica durante i ripetuti assedi al forte. Da qui si vede la città sottostante che mostra case bianche o colorate di blu indaco, come Johdpur.

L’ultima tappa è veloce. Entriamo in un palazzo bianco, il Padmini’s Palace, una ricostruzione del diciannovesimo secolo della struttura originale a tre piani, circondato da uno stagno. Il castello apparteneva alla regina Padmini, consorte del Maharaja Ratan Singh e figura semi-leggendaria del quattordicesimo secolo, di incredibile bellezza, che pare si fosse suicidata pur di non cadere nelle mani del sultano di Delhi che aveva attaccato il forte. Ascoltando la sua storia, fonte d’ispirazione per molti poemi epici e film, percorriamo velocemente il cortile del palazzo con i roseti e le stanze ormai prive di ornamenti saccheggiati.

Mercoledì 27 febbraio 2019: Jaipur

Oggi intera giornata a Jaipur, detta anche “la città rosa” per il particolare colore predominante delle sue abitazioni.

Questa tinta fu usata nel 1876 per accogliere la visita del Principe di Galles che poi divenne il re Edoardo VII. Fu fondata nel 1727 dal re di Amber Jai Singh II, dal quale prese il nome, che la concepì in sei blocchi attraversati da larghi viali. Durante la dominazione inglese era la capitale dello Stato di Jaipur e, dopo l’indipendenza del 1947, del nuovo stato del Rajasthan.

Per prima cosa andiamo a fotografare il palazzo dei venti, l’Hawa Mahal, icona tipica di Jaipur, con la sua caratteristica facciata in arenaria rosa. Affianca il City Palace ed è principalmente uno “zenana” o quartiere delle donne.

Fu costruito nel 1799 dal Maharaja Sawai Pratap Singh, che si ispirò al Khetri Mahal, un simile palazzo dei venti situato in un’altra città. La sua particolarissima facciata a cinque piani, sembra un alveare, con le sue 953 piccole finestre, chiamate jharokhas (che sporgono dall’edificio tipo “bow-windows”), decorate con elaborate grate. Questo sistema consentiva alle donne della famiglia reale di osservare la vita quotidiana, le parate e le feste cittadine senza essere viste: infatti erano costrette a rispettare le severe regole del “purdah”, che vietava loro di apparire in pubblico a viso scoperto. Un effetto positivo di questo tipo di architettura era di far passare l’aria fresca durante le afose estati. Guardando il palazzo, questa facciata sembrerebbe la parte anteriore, in realtà è quella posteriore: vi si accede infatti, attraverso una porta imperiale, dal City Palace e si entra in un cortile fiancheggiato su tre lati da edifici a due piani, con l’Hawa Mahal che chiude il quarto lato.

Mentre risaliamo in macchina rimaniamo colpiti dalle moltissime donne, in abiti coloratissimi, che salgono su varie camionette per dirigersi verso un tempio per una festa delle donne. Sono una infinità e ci affanniamo a fotografarle dai finestrini. Tornando verso il centro dopo pranzo, vedremo da un cavalcavia la infinita massa umana femminile, questa volta a piedi, che sfila verso il luogo della celebrazione. È veramente una cosa impressionante sia per il numero di donne e sia per i colori sgargianti e la tipicità dell’evento.

Ci dirigiamo poi verso il Forte Amber (o Amer), situato a 11 chilometri dalla città: è bellissimo, arroccato su un’altura e circondato da una lunghissima muraglia che ricorda, in piccolo, quella cinese. Un’esperienza bellissima è la salita al forte in elefante. La strada che conduce alla cima è stretta e a doppio senso. Saliamo su una piattaforma alta e da qui ci accomodiamo sul baldacchino posto sull’elefante: siamo solo in due sul nostro “sedile” e ci godiamo l’esperienza appieno.

La costruzione del Forte fu iniziata dal Raja Man Sing (1550-1614), re della vicina città di Amber e fidato generale dell’imperatore moghul Akbar, e si prolungò negli anni successivi, con continue aggiunte e modifiche, finché la capitale fu spostata a Jaipur. L’imponente costruzione, in arenaria e marmo, residenza di Maharaja e delle loro famiglie, si presenta come un miscela di stili architettonici hindù e mussulmani.

Prima di scendere dall’elefante, attraversiamo la Porta del sole (Suraj Pol), così chiamata perché guarda il sole che nasce, ed entriamo nel primo ampio cortile panoramico (Jaleb Chowk), che si affaccia sul lago artificiale Maota (la principale risorsa idrica del palazzo) e su dei giardini. Questo era lo scenario per le grandi parate militari e le celebrazioni di vittoria: adiacenti allo spiazzo principale, c’erano le stalle, con gli alloggi delle guardie al piano superiore.

Salendo una ripida scalinata, ci accoglie la Diwan-i-Aam, o sala delle udienze pubbliche, una piattaforma con 27 colonne, dove il raja riceveva le richieste del suo popolo. Siamo nel secondo cortile, nel quale spicca l’enorme Ganesh Pol, una porta a tre livelli, decorata con un elaborato disegno, usato anche sui tessuti tipici del posto. Nella parte superiore della porta c’era il Suhag Mandir, la zona dove le donne reali potevano guardare le cerimonie attraverso le grate ornate.

Superata la porta ci troviamo nel terzo cortile, zona del palazzo destinata alla famiglia reale: ammiriamo un giardino con aiuole geometriche che a primavera si ornano di fiori multicolori, dando l’idea di un tappeto persiano. Nel mezzo c’è una piscina a forma di stella con una fontana al centro. Da un lato c’è il padiglione invernale (Jai Mandir o Diwan-e-Khas), decorato con miriadi di specchietti che riflettendo il sole, trasmettevano calore all’interno. Doveva essere molto romantico quando le luci delle candele si riflettevano sulle superfici specchiate. Questa zona era riservata alle udienze private.

Ci spostiamo di fronte, verso il Sukh Mahal (sala del piacere), al quale si accede attraverso una porta in legno di sandalo. La guida ci fa notare un canale di marmo traforato nel quale l’acqua scorreva verso il giardino prendendo la forma di tante perle. Da qui possiamo vedere anche il Forte Jaigarh, ubicato un po’ più in alto e connesso al palazzo che stiamo visitando con un passaggio sotterraneo, creato dalla famiglia reale come via di fuga, in caso di assalti. Passiamo poi attraverso stretti corridoi e passaggi segreti per raggiungere stanze museali, con le foto e i vestiti dei vari Maharaja.

Entriamo infine nel quarto e ultimo cortile che immette nella zona più privata del Palazzo e ha decorazioni floreali azzurre sulle pareti. Al centro spicca un “baradari”, parola usata per indicare un padiglione quadrato con dodici porte (tre su ogni lato), che hanno la funzione di far circolare l’aria e renderlo più fresco in estate. Tutt’intorno si affacciano le numerose stanze dello “zenana”, la zona riservata alle donne (madri, mogli e concubine) della famiglia reale, che il re visitava a suo piacere.

Andando verso l’uscita passiamo nella zona delle cucine dove spiccano nel cortile due immensi pentoloni in ferro destinati a preparare i pranzi del Maharaja.

La discesa dal forte la faremo nella nostra Toyota e torniamo verso la città facendo una piccola sosta sulle sponde di un lago artificiale, il Man Sagar, che prende il nome dal suo costruttore, il Raja Man Singh, lo stesso che ha edificato il Forte Amber). Nel centro, emergendo dalle acque, spicca un palazzo in arenaria rossa: è il Jal Mahal, nel quale il maharaja invitava gli ospiti per caccia alle anitre.

Attraversiamo poi il quartiere mussulmano, molto povero, pieno di baracche in lamiera e completamente abusivo. Notiamo la tipologia delle macellerie indiane: dei bugigattoli con le gabbie piene di polli, di indubbia provenienza e scarsissima igiene. Qui c’è la mentalità di fare la spesa nei numerosissimi mercati di frutta e verdura, in queste pseudo macellerie e nei piccoli empori che vendono di tutto. Il concetto è di avere roba fresca e vicino a casa. Non si trovano facilmente supermarket, piccoli o grandi. Sicuramente nelle grandi città esisteranno, ma credo più per gli stranieri che per gli indiani. Alla mia domanda su dove comprano articoli, come per esempio la carta igienica, la guida mi risponde che loro non la usano, ma si servono solo dell’acqua.

Il pranzo è previsto un una haveli nella zona residenziale di Jaipur. Una casa tipica, di solito a due o tre piani. Non si usano piccoli appartamenti perché la famiglia indiana è molto numerosa considerando che i figli maschi vivono sempre insieme ai genitori con le mogli e i figli. Le donne invece si trasferiscono nella famiglia del marito

La nostra haveli è adibita a bed and breakfast e la nuora della famiglia proprietaria ci fa una dimostrazione di come si prepara una base tipica della cucina indiana: in una padella di ferro mette l’olio di senape e lo fa scaldare, poi aggiunge la cipolla e tutte le spezie (curcuma, paprica, pepe nero, coriandolo, cumino, noce moscata, chiodi di garofano, peperoncino, cannella e sale). Il miscuglio corrisponde al loro curry e lo fa imbrunire tutto. Poi aggiunge lo zenzero, l’acqua e continua la cottura. Dopo l’ebollizione mette del coriandolo fresco e poi il pane a piadina, spezzettato, con il pepe. Quando tutto si è amalgamato vuol dire che è pronto. Il sapore è buono, ma ovviamente è piccante. Poi a tavola ci portano delle ciotoline con riso bianco, patate allo zafferano, pollo stufato, carote e piselli non piccanti, insalata, zuppa di lenticchie, pane naan semplice e di miglio. Come aperitivo ci avevano offerto degli stuzzichini di julienne di cipolle e patate, impanate con farina di ceci e fritte (buone), accompagnate da pane sottile al pepe.

Dopo pranzo torniamo in centro per andare a visitare il City Palace. Per entrare nel palazzo reale si devono oltrepassare delle porte. Ricordo bene il posto e mi viene spontaneo paragonare le impressioni che avevo ricevuto quindici anni fa con le sensazioni che sto provando ora. All’epoca c’era una gran folla di mendicanti, storpi, venditori e lebbrosi che circondavano il nostro bus ogni volta che ci fermavamo. Sporcizia e cattivo odore pervadevano l’aria, anche perché era frequente vedere persone che urinavano per strada. Oggi non dico che siamo in Svizzera, ma certamente quel forte impatto mi sembra più smorzato e attenuato. La grande alfabetizzazione che si sta perseguendo, unita alla crescita economica, credo siano alla base di questo piccolo miglioramento.

Nel City Palace visitiamo subito il bellissimo e interessante Osservatorio Jantar Mantar (strumento che calcola), che raccoglie diciannove strutture architettoniche con funzioni di dispositivi astronomici che si riferiscono a tre dei cinque sistemi di coordinate celesti: quello orizzontale, equatoriale ed eclittico. Fu completato nel 1734 dal re Sawai Jai Singh II (il fondatore di Jaipur), molto interessato ai calcoli astronomici. Le coordinate celesti servono per stabilire la posizione degli astri nella sfera celeste, che è una sfera immaginaria che ingloba la terra con la quale condivide il centro. Le coordinate orizzontali fanno riferimento alla posizione dell’osservatore, che viene presupposto immobile e quindi, poiché la terra si muove, variano nel tempo.

In sintesi calcolano l’altezza di un astro (la distanza angolare tra l’astro e il suo piede, che è il punto in cui il meridiano che passa per l’astro incontra l’orizzonte) e l’azimut (la distanza angolare tra il punto Nord dell’orizzonte e il piede dell’astro), ambedue relativi all’osservatore. Le coordinate equatoriali fanno riferimento al centro della terra e all’equatore celeste, che è la proiezione dell’equatore terrestre. Le coordinate eclittiche fanno riferimento al piano dell’orbita terrestre intorno al sole.

Questo luogo mi affascina molto e mi concentro per seguire le spiegazioni della guida che ci illustra le varie strutture: per fortuna c’è il sole che rende più chiari alcuni concetti. Ci sono molte installazioni che mi colpiscono. Una di queste è Laghu Samrat Yantra, una piccola meridiana che ha due semisfere, inclinate a 27 gradi, la latitudine di Jaipur, che calcolano le ore della giornata: sei a sinistra e sei a destra, divise in segmenti per i minuti. Quando i raggi di sole colpiscono una linea non si può subito calcolare l’ora giusta perché a quella di Jaipur si deve aggiungere un numero che varia ogni giorno e viene riportato in un cartello. È il tempo che il sole impiega dalla posizione latitudinale di una determinata città dell’India a quella di Jaipur.

Un’altra struttura divertente e interessante è il Jai Prakash Yantra, inventata dal Maharaja Sawai Jai Singh e costruita per ultimo in modo da verificare l’esattezza delle altre istallazioni. Consiste in due semisfere vuote, che rappresentano gli emisferi celesti sistemati, al contrario, sul terreno e divise ognuna in sei spicchi chiari di marmo, che hanno delle linee che indicano i segni zodiacali. Dei fili sottili si intrecciano partendo dalla circonferenza delle semisfere. Al loro centro una rotella sospesa si riflette su un punto preciso di un pannello bianco, indicando in quel momento dell’anno in che segno zodiacale ci troviamo: ora naturalmente si trova su quello dei pesci. La cosa particolare è che un’ora indica il segno su un pannello bianco di una semisfera e l’ora dopo su un pannello bianco dell’altra.

In questo osservatorio c’è una delle più grandi meridiana in pietra, la Samrat Yantra, alta 27 metri. Ci avviciniamo poi a dodici piccole costruzioni che indicano i segni zodiacali. Si tratta del Rashi Valaya Yantra, strutture orientate ognuna verso la corrispondente costellazione in modo da rilevare la sua posizione. Vengono usati per fare accurati oroscopi, molti seguiti nella tradizione indiana.

Notiamo infine il Nadi Valaya Yantra, una installazione formata da una grande ruota in pietra inclinata che indica se il sole si trova nell’emisfero nord o in quello sud.

Entriamo poi nel City Palace, costruito dal Maharaja Sawai Jai Singh II, quando spostò la capitale da Amber a Jaipur, nel 1727. Ora ospita il Museo dedicato a questo sovrano e continua a essere la residenza della famiglia reale. Attraversiamo una bellissima sala con colonne rosate, decorate in bianco: la Sarvato Bhadra, una grande hall quadrata usata per le udienze private e per le incoronazioni dei Maharaja. All’ingresso spiccano due enormi giare in argento alte un metro e sessanta, che possono contenere 4000 litri di acqua. Sono state forgiate per ordine del Maharaja Sawai Madho Singh II per trasportare l’acqua del Gange, da bere durante il suo viaggio a Londra, nel 1901, in occasione dell’incoronazione del re Edoardo VII. Per questo si chiamano Gangajalis, urne di acqua del Gange.

Percorriamo sale per udienze, camere da letto, zone museali: tutte ricche di decorazioni e intagli. Non mancano naturalmente i quartieri per le donne reali che, sebbene osservassero il “purdah”, ossia la tradizione mussulmana e anche indù di rimanere coperte e segregate, godevano ugualmente di potere, consigliando i consorti anche negli importanti affari di stato. Molte avevano anche proprietà a proprio nome che amministravano riscuotendo le rendite che potevano spendere a loro piacimento: il tutto organizzato dagli zenana attraverso intermediari.

Torniamo infine al nostro confortevole hotel Hilton per un po’ di relax e per la cena, rinunciando a recarci (come da programma) nel lussuoso Ristorante 1135, situato nel Forte Amber. Ero molto curiosa di vedere questa sontuosa location, ma sarebbe stata una fatica inutile ritornare nel Forte, lontano undici chilometri, per mangiare il piatto tipico della cucina indiana, consistente in molteplici assaggini pieni di spezie.

Giovedì 28 febbraio 2019: Jaipur-Agra

Mattinata di trasferimento da Jaipur ad Agra dove arriviamo all’hotel Doubletree by Hilton che di questa catena mantiene un buon standard, anche se più piccolo e più semplice. Abbiamo meno di un’ora per lasciare le valigie in camera e alle 15.30 siamo pronti per la visita clou del viaggio: il Taj Mahal.

Per arrivare si deve percorrere un lungo viale pieno di bancarelle e mercati (che quindici anni fa non c’erano). Poi si varca una porta rossa e si deve passare attraverso il metal detector, con l’aggiunta di una perquisizione. Naturalmente anche le borse vengono controllate, ma noi per fortuna non le abbiamo portate. È vietato avere sigarette, accendini e caramelle per non sporcare il posto.

Arriviamo a un’altra grande porta, in pietra arenaria rossa, che ricordavo bene e dalla quale si vede questo monumento-meraviglia, preceduto da una lunga vasca rettangolare piena di poca acqua verde-azzurra che riflette per intero il Taj. Non so cosa lo rende tanto magico, ma è quasi impossibile non emozionarsi davanti alla purezza ed eleganza di questo Mausoleo in marmo bianco-avorio (proveniente dalla città di Makrana, nel Rajasthan), con intarsi di pietre semi-preziose, situato sulla riva sud del fiume Yamuna, ad Agra.

Uno dei fattori che contribuisce alla sua romantica fama è la grande love-story che lo ha ispirato. Infatti fu fatto costruire (con costi immensi), nel 1632, dall’Imperatore Moghul Shah Jahan, molto innamorato della moglie Mumtaz Mahal, una principessa persiana che morì dando alla luce il loro quattordicesimo figlio. Distrutto dal dolore per la sua scomparsa, decise di dedicarle questo mausoleo che doveva contenere la sua tomba e dove lui stesso fu, in seguito, sepolto. L’architettura è di ispirazione persiana e del primo periodo moghul.

L’attenzione è subito focalizzata dalla splendida tomba che si staglia in lontananza, elegante e perfetta come pochi monumenti: il cubo principale ha gli angoli smussati che formano una struttura ottagonale, sui cui lati si incuneano due file di nicchie. L’ingresso è preceduto da un “iwan”, uno spazio rettangolare, coperto, con tre lati chiusi e uno aperto con un arco ad angolo acuto. Il portale che lo incornicia si chiama “pashtaq”, generalmente decorato con scritte del corano e mattonelle ornate, qui è bianco avorio come il resto del monumento, che è circondato da quattro minareti, alti circa 40 metri, leggermente inclinati verso l’esterno, per non cadere sul monumento in caso di terremoti.

Pian piano ci avviciniamo, ascoltando la spiegazione della guida e scattando tante foto. Ai lati del mausoleo si ergono due moschee gemelle in arenaria rossa. Prima di salire sulla piattaforma del monumento, si devono indossare delle sovra scarpe. Ora che siamo più vicino posso ammirare la magnifica cupola “a cipolla”, alta circa 35 metri, poggiata su un cilindro di quasi 7 metri e circondata da altre quattro piccole cupole, della stessa forma.

Entriamo quindi per vedere l’interno, che non è molto grande: giriamo intorno alla zona dove sono sistemate le copie delle tombe della moglie con accanto il marito, portato qui alla sua morte da una delle figlie. In realtà quelle vere non sono visitabili e si trovano più in basso. Lo schermo ottagonale in marmo che circonda i cenotafi, qui è abbellito da intarsi e decorazioni ancora più importanti, perché realizzati con pregiate pietre preziose.

La costruzione del Taj Mahal richiese una spesa enorme (stimata in circa 827 milioni di attuali dollari usa), perché furono usati materiali provenienti da tutte le parti dell’India e dell’Asia: il marmo da Makrana, la giada dalla Cina, i turchesi dal Tibet, i lapislazzuli dall’Afghanistan, gli zaffiri dallo Sri Lanka, il tutto trasportato da oltre mille elefanti, per non parlare della grande quantità di materiali da costruzione.

Venerdì 1 marzo 2019: Agra-New Delhi

Stamattina si parte alle 9 per la visita del Forte Rosso (Lal Qila). Anche a Delhi ce n’è uno, ma è prevalentemente usato dai militari. Questo invece è visitabile in più zone. Vi entriamo attraverso la Porta Amar Singh, dopo aver attraversato un ponte. Lo ricordavo poco e mi colpisce subito per la grandiosità delle lunghissime mura merlate, alte 23 metri e intervallate da torrioni tondeggianti. Una delle particolarità è che è diviso in due parti distinte. La prima, in arenaria rossa (che dà il nome alla struttura), fu completata nel 1573, su un palazzo preesistente in mattoni, dall’imperatore moghul Akbar, che aveva spostato la sua capitale ad Agra. La seconda invece fu ampliata dal nipote Shah Jahan, che preferiva usare il marmo bianco. Per ironia del destino colui che aveva innalzato il meraviglioso Taj Mahal, fu qui rinchiuso dal figlio Aurangzeb, che voleva prendere il potere. Dalla sua prigione dorata, dove aveva a disposizione un tempio e numerose concubine, poteva vedere il Mausoleo dedicato alla moglie e il fiume, sulla cui sponda opposta avrebbe voluto costruire un monumento nero, identico a quello in marmo bianco, per la sua sepoltura.

Dopo una sosta pranzo in hotel, ripartiamo per l’ultimo viaggio in macchina. La distanza è più o meno uguale a quella da Jaipur ad Agra, ma in questa zona del cosiddetto triangolo turistico (Delhi, Jaipur e Agra) la strada per Delhi è una vera autostrada e il viaggio è comodo. Poiché arriviamo alle 16, la guida ci propone di anticipare a oggi le due visite del programma di domani. Rino all’inizio è perplesso perché è stanco del lungo tour e non ne può più dei lunghi percorsi in automobile, ma poi capisce l’opportunità di optare per questa soluzione, della quale saremo contentissimi. Il traffico in India è spaventoso dovunque, ma qui a New Delhi si raddoppia. Ci sono moltissime automobili e naturalmente meno camion, che possono attraversare la città solo di notte. Oltre al numero infinito di mezzi, c’è la totale indisciplina: ognuno segue la direzione che vuole e si creano molti ingorghi.

Arrivati in città, torniamo nella zona della porta dell’India per visitare uno dei più importanti templi sikh di Delhi, il Gurudwara Bangla Sahib, costruito nel 1783.

“Gurdwara” è il luogo dove la comunità sikh si riunisce e prega. Questa religione, monoteistica in contrapposizione a quella induista che adora innumerevoli divinità, è nata nel Punjab (regione del nord dell’India) verso la fine del XV secolo ed è stata trasmessa nel tempo da dieci Guru, l’ultimo dei quali ha raccolto i suoi principi fondamentali, nel libro sacro Guru Granth Sahib. Una copia di questo testo è presente in ogni tempio e viene trattata come una divinità perché ora è la guida spirituale per tutti i sikh che praticano la fede e meditazione nel nome di un unico Dio, che vogliono adorare direttamente, senza intermediari nei loro templi. Ricercano inoltre l’unità e l’uguaglianza per tutto il genere umano, l’impegno nel raggiungere giustizia e prosperità per tutti e una condotta onesta nella vita quotidiana. I sikh devono attenersi a cinque regole fondamentali: gli uomini non devono mai tagliarsi barba e capelli, che tengono avvolti dentro turbanti colorati; devono avere un pettine di legno nella chioma, un braccialetto di ferro, un pugnale e pantaloni corti alle ginocchia.

Nel tempio bisogna entrare a piedi nudi e con il capo coperto. Vengono fornite bandane arancioni, ma noi usiamo le nostre sciarpette. Dopo un ampio cortile pieno di gente, tra fedeli e turisti, si entra nel tempio vero e proprio, dove c’è una grande abbondanza di oro e non si possono scattare fotografie.

E’ una religione particolare: ricevono moltissime offerte che vengono registrate su un pc dietro all’altare, non vogliono intermediari con la divinità, ma comunque c’è un santone che legge il testo sacro, che ogni sera viene messo a “dormire” in una specie di teca, su un lettino, e addirittura in estate accendono l’aria condizionata. Molto interessante invece il fatto che in una grande sala si raccolgono poveri e non, che vengono qui a mangiare: infatti poco oltre visitiamo le cucine, dove molti volontari impastano il pane o preparano le formette di naan da offrire alle persone insieme al cibo, cotto in giganteschi calderoni in metallo. Siamo scalzi e dobbiamo camminare su un pavimento sporco e bagnato da strani fluidi, speriamo bene. Scendiamo poi alcuni gradoni per osservare una grande vasca sacra, chiamata Sarovar, sempre accompagnati da canti e musiche provenienti dagli altoparlanti.

Dopo questa visita, con un breve percorso in macchina, raggiungiamo il tempio indù Birla Mandir, dove è vietato scattare fotografie.

L’architettura è moderna, di colore giallo e rosso scuro. E’ stato inaugurato nel 1938 dal Mahatma Gandhi, che lo rese accessibile a tutte le caste. È dedicato al dio Vishnu (Narayan), di cui vediamo la statua insieme alla moglie Lakshmi. La struttura è molto grande, a tre piani, e si estende su un terreno di tre ettari. Ammiriamo molte statue di Shiva e di altre divinità. Continuo a essere perplessa su questa religione che adora un numero incommensurabile di dei, assegnando a ognuno un fenomeno atmosferico o un sentimento. Quando poi la guida ci racconta un mito o una leggenda, lo fa con profonda convinzione, come se gli avvenimenti fossero realmente accaduti, anche se assurdamente irreali. Entrando nei templi la guida ci fa rimanere con le mani in atteggiamento di preghiera, anche se non siamo induisti. A proposito di questo termine voglio precisare che gli induisti sono i seguaci della religione induista e gli indiani gli abitanti dell’India.

Attraversato il tranquillo giardino, torniamo verso l’hotel Radisson Blu, situato a dieci minuti dall’aeroporto di Delhi. Impieghiamo molto tempo a causa del gran traffico e quando arriviamo resto sorpresa dalla lunghissima fila di hotel situati lungo la strada, dove ci sono anche moltissimi negozi. È proprio un affollato quartiere.

Sabato 2 marzo 2019: New Delhi-Varanasi

Avendo visitato gli ultimi templi nel pomeriggio di ieri, oggi abbiamo la mattinata molto tranquilla, fino alle 11. Poiché eravamo solo in due, questo tour è stata ugualmente una vacanza, anche se naturalmente è risultata stancante perché abbiamo percorso circa 3000 km. Lasciamo i due bagagli grandi al Radisson Blu e andiamo all’aeroporto, che dista circa dieci minuti. Il volo 9W 820 delle 1405 è in orario e dopo circa un’oretta, atterriamo a Varanasi: non si può venire in India senza fare questa esperienza.

All’arrivo veniamo prelevati da una macchina privata con un autista e un addetto dell’agenzia che ci portano in circa mezz’ora all’hotel Radisson, decisamente più datato e di livello inferiore di quello di Delhi. Alle 1645 arriva la nostra guida e ci avvisa subito che siamo capitati, casualmente, nel bel mezzo della festività di Maha Shivratri (la grande notte di Shiva), una delle più importanti di Varanasi, che si terrà dopodomani, il 4 marzo.

E’ dedicata a Shiva che, secondo la mitologia indù, ha la dimora in questa città, che è la principale meta dei pellegrinaggi. In questa occasione moltissimi pellegrini invadono la città per partecipare ai festeggiamenti, che rappresentano, secondo alcune leggende, la creazione del mondo e, secondo altre, le nozze del dio con la moglie Parvati, quindi una vera festa di matrimonio, ancora più solenne, trattandosi di una divinità. Il Maha Shivaratri, diversamente da altre festività che avvengono di giorno e sono basate su bagordi e gozzovigliamenti, si celebra di notte e consiste in digiuni, meditazioni e atteggiamenti introspettivi.

Non si può descrivere quello che vedremo in questi due giorni a Varanasi: soltanto chi è venuto in questa città può immaginarne l’atmosfera e io stessa che avevo fatto questa esperienza quindici anni fa, non ricordavo niente di così travolgente, nel senso letterale della parola. Con una vettura arriviamo al punto più vicino alla riva del Gange per poi percorrere un lungo tratto a piedi in mezzo a una folla indescrivibile e dobbiamo fare attenzione a camminare in fila indiana per non essere investiti dai diversi mezzi di trasporto che ci passano accanto, suonando gli immancabili clacson. Nella giornata di oggi hanno chiuso una importante arteria cittadina per poterla allestire per la festa di domani: di conseguenza tutto il traffico di automobili, tuk-tuk, rickshaw, moto e pedoni si affolla su un’unica strada non troppo larga, lungo la quale delle transenne di legno delimitano una chilometrica fila di pellegrini che vanno a visitare il tempio d’oro, il Kashi Vishvanath (Kashi è un altro termine per chiamare Varanasi e Vishvanath si riferisce a Shiva). Questo luogo, insieme al Gange, rappresenta una meta obbligatoria per i fedeli che almeno una volta nella vita devono venire a Varanasi. Giovani e anziane donne nei loro sari colorati e ricamati in oro, con i piedi scalzi, si alternano a uomini di tutte le età, mentre sulla destra, accovacciati in terra, anziani, santoni e non, che chiedono l’elemosina. Ai lati della strada, che non ha il marciapiede, ci sono tanti negozi con merce di tutti i generi e, man mano che ci si avvicina al fiume, aumentano i venditori di fiori e candeline da offrire al fiume durante la cerimonia serale.

Finalmente si intravede il Gange e i gradoni del suo gath principale, pienissimo di gente, per lo più pellegrini e pochi turisti. Sono circa le 18 e la guida ci fa imbarcare da un gath laterale su un mezzo riservato solo a noi due. Compriamo da un bambino due lumini infiorati che poi accenderemo e appoggeremo sull’acqua esprimendo un desiderio. Ci dirigiamo con la luce del tramonto verso le pire, dove bruciano in continuazione i cadaveri. Le foto si possono fare da lontano: quando ci si avvicina troppo è vietato. Sembra una scena dell’inferno dantesco: si vedono parecchi fuochi accesi con molte persone intorno. Alcune figure di intoccabili setacciano le acque del fiume in cerca di pezzetti d’oro provenienti dai corpi bruciati, dopo che le ceneri vengono gettate nel Gange. Alcuni famigliari hanno appena portato un congiunto defunto: dopo aver accatastato almeno quattrocento chilogrammi di legna da ardere, prendono il corpo coperto da un panno e lo adagiano sulla catasta prima di accendere il fuoco.

Torniamo verso il gath principale, il Dashashwamedh Ghat, costruito nel 1748, di fronte al quale si stanno addensando tutte le imbarcazioni per assistere dall’acqua alla cerimonia del Ganga Aarti: ogni sera sette brahmani, davanti a sette altari, celebrano la buonanotte al Gange. Dalle 18.45 alle 19.30 molti canti lamentosi e ripetitivi in sanscrito accompagnano gesti rituali che usano fiaccole e fuochi per eseguire il rito. I sacerdoti compiono i movimenti rivolgendosi prima al fiume e poi girandosi sui quattro lati. Oltre alle persone accalcate sulle barche, altrettante numerose sono sedute o in piedi lungo i gradoni del gath. Altre guardano da alcuni bar situati più in alto. La guida ci aveva anche proposto di sistemarci in quest’ultima postazione, ma noi abbiamo preferito restare comodamente seduti sulla nostra barchetta.

Il finimondo si scatena al termine del rito. Sebbene decidiamo di sbarcare un po’ prima della fine della cerimonia, sarà veramente un incubo risalire la scalinata e immettersi sulla strada principale. La guida procede davanti a me e man mano che la folla aumenta, il flusso delle persone che salgono viene ostacolato da quelle che scendono, da varie parti e in modo disordinato. Io mi aggrappo alla camicia della guida e alcuni iniziano a urlare acclamazioni a favore della dea Gange o del dio Shiva e le urla accrescono il nostro panico. La stessa guida si impaurisce e benedico il fatto di essere solo in due nel gruppo. Sicuramente la situazione da noi vissuta dipende dall’eccesso di pellegrini venuti in città per l’imminente festività di Maha Shivratri perché nel mio viaggio precedente non ricordavo assolutamente niente di simile. Ogni sera ci sono innumerevoli persone tra fedeli e turisti che partecipano al Ganga Aarti e bisogna fare molta attenzione a non perdersi tra la folla, né venire schiacciati, ma non è certo come stasera. Alla fine riusciamo a guadagnare la strada in pianura che, seppure affollatissima, non ha il pericolo dei gradini. Ripreso il cammino nel traffico intenso, stando attenti a evitare macchine, moto e risciò, alla fine prendiamo un tuk-tuk fino al parcheggio della nostra auto che ci riporta in hotel.

Domenica 3 marzo 2019: Varanasi-New Delhi

Da oggi inizia il tour de force del lungo ritorno: ci svegliamo all’alba e alle 6 circa ci viene a prendere la guida per l’ultima escursione qui a Varanasi. Torniamo verso il Gange ripercorrendo a piedi la strada che ieri era super affollata. Stamattina c’è sicuramente meno gente, ma il flusso dei pellegrini arrivati in città per la festa di domani è ancora notevole e la fila per il tempio d’oro è ancora lunghissima. Arrivati al fiume iniziamo a vedere persone di tutti i tipi che si bagnano dalla riva, immergendosi nelle acque (sicuramente super inquinate) del fiume sacro. Saliamo sulla nostra barchetta, la stessa di ieri, e nuovamente navighiamo sulle acqua illuminate dalla luce del sole sorgente. E’ tutto molto bello e pieno di atmosfera.

Al termine della navigazione ripassiamo davanti alle pire, che sono sempre accese: scendiamo a terra poco oltre. Il luogo è pienissimo di cataste di legna, ovviamente, e a poco a poco iniziamo una passeggiata nelle strette stradine della città vecchia. La guida ci fa osservare un fenomeno particolare degli ultimi tempi: la volontà del primo ministro di effettuare estese demolizioni delle case di questo quartiere, per far emergere dalle macerie un numero infinito di templi antichi. Gli abitanti del luogo hanno ricevuto copiose somme di denaro per allontanarsi dalle loro abitazioni. E’ molto strano vedere a destra e sinistra del nostro percorso detriti e demolizioni intervallati da guglie scolpite di vario aspetto. Finalmente vediamo in lontananza la cupola d’oro del tempio più famoso di Varanasi, situato accanto a una moschea. La zona è presidiata da militari perché spesso è terreno di scontro tra indù e mussulmani.

Salutiamo Varanasi e riprendiamo l’aereo che ci riporta a New Delhi, dove abbiamo prenotato una camera nuovamente all’hotel Radisson blu, scelto proprio per la sua vicinanza all’aeroporto. La camera non ci servirà per trascorrervi la notte, ma solo per riposarci prima del volo notturno. Purtroppo a causa dei recenti scontri con il Pakistan, l’Alitalia deve cambiare la rotta e il volo partirà con un ritardo di oltre due ore, impiegando dieci ore di volo, invece di otto. Termina così il mio secondo viaggio in India, paese veramente unico e particolare, che consiglio a tutti di visitare.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche