La città di Mostar
Siamo andati in moto, Sandro ed io.
Abbiamo risalito la nostra bella Italia verso est passando da Firenze, Bologna, Ferrara, Rovigo, Padova, Venezia, attraversando il Piave, Portogruaro, Monfalcone, Trieste, oltrepassando il confine Sloveno a Sezana, alla volta di quello croato a Rupa per poi scendere su Rijeka, chiamata da noi italiani Fiume.
E’ stata per noi una vacanza bellissima, penso proprio di poter usare la parola indimenticabile, ma ciò che ho voglia di fermare su questo foglio è un’esperienza umana che mi sono trovata a vivere, un’esperienza importante anche se non bella.
Dopo il nostro soggiorno a Split, in italiano Spalato, abbiamo ripreso il nostro viaggio verso sud, passando per le isole di Brac e Hvar, tornando a scendere sulla costa da Drvenik a Gradac tra le insenature della terra e il blu molto forte del mare, fino a Ploce dove dall’estuario del fiume Neretva siamo risaliti contro corrente fino a Metkovic.
Metkovic è una nuova città di confine, perché chiaramente prima della guerra in quel punto non c’era la dogana.
A Metkovic pernottiamo da una famiglia contadina, con la quale non siamo riusciti a scambiare una parola, abbiamo comunicato completamente a gesti e a sguardi.
Il mattino successivo abbiamo passato il confine con la Bosnia ed Erzegovina e siamo stati subito fermati, perché un contingente ONU spagnolo stava annientando delle mine.
Dopo una ventina di minuti siamo ripartiti destinazione Mostar e raggiungendo i primi paesi siamo subito stati incuriositi dalle tante bandiere croate che sventolavano sulla strada e dalle case, c’erano inoltre delle scritte della Comunità Democratica Croata con espressioni tipo “Restiamo uniti e insieme”, che stavano a rappresentare la volontà della gente di questi paesi, in altre parole la volontà di staccarsi dalla Bosnia e unirsi alla Croazia, indipendentemente dal fatto che anch’essa sia stata riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Continuando il viaggio verso Mostar la strada attraversava campagne che parlavano ancora di guerra: molte case distrutte e poche in ricostruzione, colline e montagne nere, incendiate, cimiteri composti da croci di soldati croati-cattolici e lapidi di soldati bosniaci-musulmani, caduti durante il conflitto.
L’entrata a Mostar mi ha scosso.
Immaginavo di trovare una città ancora molto distrutta, ma non sapevo precisamente cosa sarei andata a vedere, non ero mai stata così vicina alla guerra.
Veramente la guerra è finita ormai da cinque, sei anni e ciò che ho visto io sono soltanto muri con crepe, squarci, case sbriciolate, sventrate, schegge di pietra ovunque e ancora case e palazzi rimasti in piedi ma con segni evidenti di grossi colpi di cannone o non meno terrificanti a vedersi, piccoli e migliaia buchi di mitraglia.
E’ stata l’esperienza più terribile che io abbia avuto, i miei occhi hanno visto per la prima volta la guerra, o meglio, in realtà ho visto soltanto il passaggio della guerra… Ho visto solo i muri della guerra…Ma il dopo guerra mi è sembrato altrettanto duro, ‘quanto’ la guerra stessa.
La città di Mostar è divisa dal fiume Neretva, molte case e il Ponte Vecchio, sono ancora distrutte, ma un enorme muro si è invece innalzato, sì, la guerra ha distrutto tanti muri, ma ne ha innalzato uno invisibile che solo la pace potrebbe far cadere… Abbiamo visitato la città, la parte croata non ha molto da offrire dal punto di vista culturale, quindi abbiamo passato più tempo nella parte islamica, più caratteristica e quasi completamente ricostruita: dove abbiamo pranzato e abbiamo a lungo parlato con il ristoratore e con un artigiano, entrambi molto gentili e disponibili.
Il ragazzo della trattoria (del quale con dispiacere non riesco a ricordare il nome e chiamerò il nostro amico) parlava molto bene italiano, perché ha trascorso un anno a Bologna per imparare l’arte della ristorazione e devo dire che l’ha appresa bene.
Egli ci ha spiegato appunto che il fiume Neretva divide Mostar tra occidente e oriente, tra croati e bosniaci, tra cattolici, ortodossi e musulmani.
In questi luoghi il cristianesimo e l’islamismo si sono incontrati e scontrati, la diversità delle fedi si è andata trasformandosi in contrapposizione, la contrapposizione in intolleranza e l’intolleranza in odio.
Un tempo, ci raccontava il nostro amico, la maggioranza degli abitanti di questo territorio non si odiavano fra loro, vivevano e morivano gli uni accanto agli altri, per lo più in pace e comprensione: ”…Siamo affini per origine, parliamo la stessa lingua, ci assomigliamo…” Questa guerra l’hanno cominciata i serbi ortodossi, l’hanno continuata i croati cattolici, ma non si tratta né di serbi, né di croati e ancora meno di ortodossi, musulmani o cattolici, si tratta di uomini malvagi, poiché la guerra si nutre d’insensatezza e malvagità, le conseguenze diventano nuove motivazioni e queste provocano a loro volta nuove conseguenze: il male si rafforza e si conferma col male.
Un’alternanza di tale genere non si può arrestare, simili guerre, una volta innescate, durano anche dopo che sono state deposte le armi, com’è successo al nostro amico, che non solo ha perso delle persone nel conflitto, ma ha anche perduto degli amici dopo il conflitto, a causa dell’odio etnico.
Non c’era ragione alcuna, ci ripeteva il nostro amico, perché tutto questo dovesse accadere, e in questo modo, appare evidente, con feroce decisione: non c’era ragione che s’innescasse l’odio etnico, si compiessero terribili e atroci delitti, si distruggessero case, chiese, templi, moschee, ponti, il Vecchio ponte sulla Neretva, neppure le chiese cattoliche sono state risparmiate, è stata distrutta la chiesa con il monastero francescano, sulle pendici del monte Podvelezjc la bella chiesa ortodossa che sovrastava la città e le moschee musulmane sono state distrutte tutte, dai cristiani dell’una e dell’altra confessione.
Un discorso particolare devo fare per il Vecchio Ponte di Mostar , sì , si chiama proprio come il nostro ponte fiorentino, che per più di 400 anni unì i mondi del Mediterraneo con quelli ottomani, la cristianità con l’islam, l’est con l’ovest, così come per i viaggiatori che venivano fin da Glasgow e da Istanbul.
Tutto ciò ebbe fine con la guerra quando il fiume divenne una linea di fronte, quando il mattino del 19 novembre 1993 il ponte cedette e spari nelle acque verdi del fiume.
Ovunque nel mondo, in qualsiasi posto il pensiero mi porta, un ponte è il desiderio e l’esigenza dell’uomo di collegare, rappacificare, unire, affinché non ci siano divisioni, contrasti distacchi.
I ponti appartengono a tutti e appartengono a tutti, sempre sensatamente costruiti nel punto in cui s’incrocia la maggior parte delle necessità umane.
In una terra, come la Bosnia Erzegovina, che è già di per sé un ponte tra i mondi, i ponti hanno un significato ancora più speciale: ogni ponte che cade è un confine in più e una possibilità di riconciliazione in meno.
In otto anni di guerra i ponti più antichi sono stati distrutti più per sradicare i simboli dell’appartenenza e per dividere le etnie che per motivi militari: con la distruzione dei ponti si è resa più manifesta la distruzione dell’unità di un popolo.
C’era un artigiano presso il ponte Vecchio, che vendeva oggetti fatti da lui con il piombo usato nel conflitto, che ci ha fatto capire bene quanto ha contribuito il crollo del ponte nella divisione della città, ma ci ha anche espresso la sua felicità nel vedere iniziare la ricostruzione.
Infatti, con l’aiuto della comunità internazionale, è iniziata ricostruire del ponte, con le antiche pietre ancora rimaste: la ricostruzione durerà molti mesi, ma ancora più tempo sarà necessario per sanare le ferite tra la comunità. Da Mostar durante e subito dopo la guerra è andata via molta gente, sono rimasti quelli che non sapevano dove andare, fra le rovine la maggior parte di loro ha perduto la fiducia negli altri, talvolta anche in se stessi, ma ci diceva il nostro amico “…Molte case sono state ricostruite, si comincia a vedere qualche persona che ritorna, ora si rialzerà anche il ponte, tanta gente ha fatto molto per noi e per la nostra opera di ricostruzione ma…Solo la gente di Mostar, può salvare Mostar…”
Paola & Sandro