Kenia yetu

Ogni volta la stessa sensazione. E’ sufficiente sbarcare dall’aereo sentendo sulla pelle la calda umidità dei tropici; immediatamente ti sovviene la sensazione di entrare in un’altra realtà, in un mondo diverso dalla nostra grigia quotidianità, un mondo fatto di vita all’aperto, di occhi color cioccolato con venature amarena nel...
Scritto da: Valeria d.
kenia yetu
Partenza il: 28/10/2008
Ritorno il: 05/11/2008
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
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Ogni volta la stessa sensazione.

E’ sufficiente sbarcare dall’aereo sentendo sulla pelle la calda umidità dei tropici; immediatamente ti sovviene la sensazione di entrare in un’altra realtà, in un mondo diverso dalla nostra grigia quotidianità, un mondo fatto di vita all’aperto, di occhi color cioccolato con venature amarena nel contorno di panna, occhi specchio di una vita semplice, densa di complessità. E ogni volta ti chiedi quale sia la vita giusta, dove sia l’equilibrio tra un mondo che pare darti tutto ciò che puoi desiderare (strappandoti più di quanto riesci a comprendere) ed un mondo fatto di niente, ove la gente riesce a ridere, socializzare e divertirsi sapendo gioire del poco che possiede. Forse è proprio la ricerca di questo equilibrio a spingerci a conoscere altri mondi ed altre popolazioni.

Il viaggio era cominciato con una partenza avventurosa: giunti a Malpensa dopo aver viaggiato attraverso la prima giornata di pioggia e nebbia autunnale, eravamo stati avvisati del possibile annullamento del nostro volo, giacché il nostro aereo era stato colpito da un fulmine nel trasferimento da Roma a Milano. Si poneva il problema di riuscire a reperire un altro aeromobile adatto al trasporto di oltre 300 persone ed a un volo a lungo raggio. Se la compagnia aerea non fosse riuscita a trovare un aereo ed un equipaggio, il volo sarebbe stato rimandato al giorno successivo. La fortuna fu dalla nostra parte e riuscimmo a partire con soli 30 minuti di ritardo. Viaggiammo di notte avvistando all’alba l’estremità troncata del Kilimanjaro! La nostra avventura, bramata e sognata da mesi, incominciava davvero! Dopo un breve scalo a Zanzibar, isola verdeggiante con un aeroporto ed una pista incredibilmente piccoli, atterrammo finalmente a Mombasa.

I 30° centigradi, insieme all’umidità superiore al 60%, ci riscaldarono immediatamente l’animo, anche grazie al forte contrasto con la nebbia e la pioggia milanesi.

Abbiamo subito capito che il tipico detto keniota “Hakuna matata” (nessun problema), rappresenta molto più di un semplice modo di dire. In due parole è racchiusa l’essenza di uno stile di vita ed il motto di un paese intero.

I pulmini ci attendevano all’esterno dell’aeroporto e, con le valigie stipate e grossolanamente legate sopra i portapacchi, siamo partiti alla volta dei nostri alberghi.

L’attraversamento del tratto di costa tra Mombasa e Watamu ci ha permesso di entrare subito in contatto con la realtà locale.

Ambiente, difficile da credere, anzitutto costituito da una città congestionata dal traffico ed immersa nell’inquinamento.

L’asfalto, in tutta la costa, è riservato esclusivamente alla strada principale, mentre tutte le vie collaterali sono in terra battuta, con buche molto profonde e spesso di dimensioni inconcepibili. La vita si svolge lungo la via principale contornata di botteghe, negozi e locali. Numerose sono le falegnamerie con mobili e lettiere depositati fronte strada così come anche i rigattieri con decine di nuovi divani impolverati esposti lungo la via. Chi può, invece di viaggiare a piedi, imbraccia la propria bicicletta, frutto di risparmi accumulati con fatica. Se gli spazi da percorrere sono molto ampi, si può anche utilizzare un “matatu”, pulmino solitamente antidiluviano traboccante di umanità. Molto in fretta comprendiamo che la maggior parte delle persone vivono ancora oggi in capanne di fango realizzate su di un’intelaiatura costituitada pali in legno con un tetto di foglie di palma.

Quasi tutti i villaggi non hanno, ovviamente, energia elettrica ed acqua corrente, mentre a volte è presente una piccola costruzione in muratura che distribuisce a pagamento acqua potabile. Capita spesso di incontrare uomini che trasportano acqua in taniche gialle da 20 litri saldamente legate alle biciclette. Fuori dalla capanna c’è un piccolo steccato di foglie di palma che funge da “bagno” e, qualche volta, un’altra staccionata più grande realizzata con pali o cespugli spinosi e destinata ad accogliere il bestiame. Ovunque razzolano galline e caprette che, spesso, costituiscono un ottimo incentivo allo “strombettare” dei clacson, peraltro sempre molto utilizzati dagli autisti locali.

Dopo oltre 2 ore di sballottamenti e scricchiolii, arrivammo finalmente al nostro albergo: il Barracuda Inn di Watamu.

E’ carino, composto da un gruppo di casette bianche distribuite intorno a una struttura in makuti di grandi dimensioni ove è sito il corpo centrale del villaggio: reception, bar, sala tv, piscina, boutique e sala ristorante, il tutto ovviamente all’aperto.

Il tetto in makuti è spettacolare: è un intrico di pali apparentemente senza alcuna logica architettonica, o quantomeno geometrica. Le camere sono essenziali, ma comode e pulite, con letti a baldacchino in legno intarsiato, ricoperti da una fitta zanzariera. Il balconcino, attorniato da buganvillee, ospita spesso le scimmiette che popolano il giardino di palme del villaggio.

La spiaggia in questa stagione è, purtroppo, ancora ricoperta parzialmente da alghe che, ci dicono, andranno a scomparire completamente entro 15/20 giorni. L’effetto della bassa marea provoca lo svuotamento di tutta la cala, permettendo di raggiungere a piedi alcuni verdeggianti scogli che si affacciano sulla baia.

L’arenile brulica di beach boys; si tratta di ragazzi e uomini del posto organizzati in veri e propri branchi, all’interno dei quali ognuno ha il proprio oggetto o servizio da venderti: dai portachiavi scolpiti in legno, ai quadri, ai parei, a bracciali e collane di ogni genere, fino alle escursioni ed ai safari organizzati.

Durante quest’ultimo anno i turisti sono diminuiti in maniera considerevole, pertanto il folclore e la simpatia dei vu’ cumprà locali finisce per essere surclassato dalla noia provocata dalle continue insistenze; a loro dire oggi ci sono almeno 5 beach boys per ogni turista… Approfittiamo subito della vicinanza al sito di Gedi per visitare le antiche rovine. Si tratta di una città araba risalente al 1300 d.C. Circa. Parrebbe abbandonata all’improvviso per motivi che ancora si ignorano, forse il prosciugamento delle falde acquifere. Molto emozionante la visita di ciò che rimane della città, ora invasa da enormi alberi: baobab, acacie, palme e ficus cresciuti sulle antiche mura. All’interno di questa folta vegetazione imperano famiglie di cercopitechi che, con salti di oltre 1 metro, si impossessano delle banane che gli porgiamo.

All’uscita visitiamo un villaggio Giriama dove possiamo entrare in una capanna separata in due zone: un letto per i genitori ed uno per tutti i bambini. I letti sono costituiti da intelaiature in legno con una rete realizzata con corde molto tese. I vestiti sono sparsi ovunque, sopra e sotto i letti. Gli abitanti del villaggio cantano e danzano per noi, mentre i bambini, in un angolo, imparano la danza imitando i genitori. Giunti a Malindi, visitiamo la fabbrica di oggetti in legno dove ci lasciamo abbindolare acquistando souvenirs, pur sapendo che incontreremo prezzi migliori. Infatti, la mia giraffa da 1800 scellini sarà il jingle di tutta la vacanza. Ci rechiamo poi la falconeria ove ammiriamo volatili di tutti i generi, una grande tartaruga di circa 85 anni, coccodrilli e serpenti. Particolarmente interessanti sono state le civette ed i gufi enormi, alcuni dei quali, addormentati, russavano rumorosamente. La visita della città, invece, ci ha deluso molto: veniamo scortati nel mercato locale da alcuni ragazzi (town boys?) che ci procurano, a prezzi stellari, biscotti da distribuire ai bambini lungo il percorso come noccioline agli animali dello zoo… Nel mercato ci sono bancarelle e casette costituite da pali ed assi di legno grezzo ed irregolare. Sulle bancarelle piccoli pomodori, banane, radici, cavoli, fagioli, patate, ma anche melanzane ed ananas. Concludo la gita acquistando le famose infradito in perline, più che altro per questione psicologica, così dice il mio amico venditore, in quanto questa sera sarà molto triste se non venderà qualcosa! Lasciamo una mancia esorbitante ai nostri accompagnatori (ancora non conosciamo il valore del denaro, qui), e, mentre il buio incombe, si torna a Watamu.

Il Barracuda è di proprietà di un siciliano residente in loco, il quale ha insegnato personalmente l’arte culinaria ai cuochi locali. Dall’amalgama di prodotti locali con pasta e pane italiani, si ottiene un risultato divino che minerà profondamente il risultato di mesi di dieta… La sera, passeggiatina per Watamu, con caffè e gelato italiano. Si tratta di una coppia di ragazzi lombardi che da un paio di anni si sono trasferiti qui, aprendo una gelateria, coronamento invidiabile di un sogno comune a molti di noi.

Watamu è una cittadina di mare e di ex-pescatori; ex, perché l’avvento del turismo dagli anni ’90 ha, nello stesso tempo, arricchito ed impoverito l’economia locale. Infatti, la lira prima e l’euro poi, hanno stimolato facili guadagni sopprimendo i precedenti equilibri economici e, con loro, i mestieri tramandati da generazioni. Oggi un beach boy riesce quasi sempre a racimolare più di quanto non frutti un lavoro vero, oltretutto senza fatica. E qui entra in gioco l’altro motto keniota: pole pole (piano piano). La vita va vissuta tranquillamente! Nasce un forte contrasto con la fretta che, anche in vacanza, noi non riusciamo più a scrollarci di dosso. Tutto, anche in vacanza, va fatto con la massima efficienza, al fine di non sprecare neanche un po’ del nostro prezioso tempo. Ma avremo veramente ragione noi? Watamu è principalmente musulmana con una moschea che richiama alla preghiera fin dalle 4 del mattino (a volte il muezzin sveglia anche noi nel cuore della notte…). Le cittadine vicine, Gedi e Timboni, sono invece cristiane, di professione cattolica o battista.

La via principale di Watamu, l’unica asfaltata, è fiancheggiata da piccole bancarelle e casette di assi che vendono ai turisti ogni tipo di souvenirs. I “negozi” sono aperti sino al tramonto in quanto non forniti di energia elettrica, appannaggio di soli alberghi e ville private.

Turismo in Kenia significa soprattutto Italia; perciò quasi tutte le scuole si stanno attrezzando per l’insegnamento dell’italiano, oltre che dello swahili e dell’inglese, da sempre presenti nel programma. Ci sono scuole pubbliche o private; chi può permetterselo manda i figli alla scuola privata, soprattutto perchè il numero di bambini per ogni insegnante è inferiore (da 20 nel privato ad oltre 60 nel pubblico). Oltre all’acquisto di divisa, calzoncini e camicia, nella scuola privata si spendono almeno 2500 scellini al mese (circa 25 euro) per la frequenza.

Le scuole migliori sono costruite in mattoni e cemento, con il tetto in foglie di palma ed ampie aperture al posto delle finestre. E’ obbligatorio frequentare la scuola primaria per otto anni; alcuni proseguono con la secondaria e l’high school, solo private.

Passeggiare per le vie di Watamu vuol dire avere al tuo fianco almeno 3 o 4 “accompagnatori” che si faranno dare la mancia da tutti i negozianti presso cui tu acquisterai qualcosa. In ogni caso non c’è alcun pericolo, è sicuramente più sicuro che camminare in alcuni quartieri delle nostre città. Tutti i locali sanno che i turisti rappresentano la loro sopravvivenza e, non solo non farebbero loro del male, ma cercano di metterli quanto più a loro agio. E poi c’è il safari! Andare in Kenia senza visitare almeno uno dei parchi nazionali sarebbe un’eresia. E così, anche noi siamo partiti alla volta dello Tsavo East, il parco più vicino alla costa. Abbiamo scelto un safari di due giorni trascorrendo una notte in un campo tendato nei pressi del parco stesso. Da Watamu sono necessarie circa un paio d’ore di jeep per raggiungere l’ingresso del parco, 100 km di pista in terra battuta quasi sempre rossa. Lungo la pista piccoli villaggi o gruppi di capanne immersi nella foresta.

Affrontiamo il viaggio nell’orario in cui gli uomini si recano al lavoro ed i bambini a scuola. Alcuni percorrono quotidianamente oltre 5 km. E’ bello vedere macchie di colore: in alcune zone verde e rosa, in altre giallo e blu, a seconda del colore della divisa della scuola del luogo. Quasi tutti viaggiano a piedi ove presente, su di una pista che costeggia quella principale. In alcuni tratti, invece, il nostro autista deve districarsi tra i numerosi pedoni e le varie biciclette che attraversano la foresta direttamente sulla nostra pista, portando carichi di vario tipo come caschi di banane, foglie di palma, taniche di acqua o cesti enormi. Spesso incontriamo delle donne con pesanti fardelli trasportati in perfetto equilibrio sulla loro testa. Attraversano la strada caprette e galline ed ogni tanto anche qualche gruppo di mucche. Allontanandoci dalla costa, i villaggi si fanno più distanti l’uno dall’altro e la foresta prende il sopravvento. Maestosi baobab spuntano improvvisamente dalla vegetazione e riusciamo a scorgere anche alcuni alberi di cotone. Enormi termitai paiono gruppetti di comignoli per abitazioni sotterranee. Il fiume Galana scorre alla nostra destra e ci regala panorami mozzafiato. Poi la foresta si dirada, il fiume si allontana un po’ ed il bush lascia intravedere qualche piccolo animale: i minuscoli dik dik e gruppi di faraone dalle piume azzurrate. Giungiamo all’ingresso del parco, dove ci fermiamo per vedere i coccodrilli. Alcuni uomini gettano loro pezzetti di carne ed ossa di capra, mentre i rettili pian piano escono dall’acqua e vengono a far colazione. Tornando verso la jeep, incontriamo una famiglia di scimmie. E’ bello vederle giocare fra i cespugli con i cuccioli aggrappati alla pancia e le codine dei piccoli arrotolate insieme a quella della mamma. Si parte! Il nostro safari comincia. L’ingresso al parco, circa 12.000 kmq, costa 40 euro a persona e dà diritto ad una permanenza di 24 ore esatte. Marco, la nostra guida, ci dice che non dobbiamo illuderci perché lungo il cammino potremo percorrere anche più di 5 km senza incontrare nessun animale. E’ assolutamente vietato scendere dalle jeep. Per questo motivo, al fine di poter riprendere meglio gli animali, il tettuccio degli automezzi viene sollevato e le nostre teste possono emergere dalle auto. Il nostro safari, la parola in swahili significa viaggio, consisterà nel percorrere circa 300 km sulle piste del parco alla ricerca degli animali, game in inglese, da cui deriva il nome della pratica: Game drive.

Siamo fortunati perché quasi immediatamente avvistiamo un gruppo di gazzelle e poi antilopi d’acqua, animali che restano nei pressi del fiume perché devono bere continuamente. La loro mole ci permette di scorgere gli elefanti da lontano. Sono enormi, pacifici e la loro pelle è stranamente rossiccia. Si tratta della terra della savana rimasta incollata al corpo degli elefanti strusciatisi nel terreno dopo un bagno al fiume. Quando la terra sarà essiccata il pachiderma si sfregherà contro il tronco di un albero e, staccandosi, il fango porterà con sé anche le zecche, recando sollievo all’elefante.

Anche le giraffe ci appaiono da lontano con la loro eleganza; attraversano la strada davanti a noi fermandosi a distanza di sicurezza per osservarci. Non saprei se attribuirlo alle macchie, o alle strane corna, ma la giraffa suscita una simpatia immediata.

C’è un pulmino davanti a noi: ha lasciato la pista principale ed i suoi occupanti stanno osservando qualcosa dietro ad un cespuglio.

Il leone! Si tratta di un maestoso leone disteso su di una roccia in attesa dei bufali che solitamente giungono al fiume sottostante per abbeverarsi.

Elefanti, giraffe ed ora questo leone fanno scaturire in noi delle emozioni meravigliose ed allo stesso tempo indescrivibili. E’ difficile esprimere o descrivere la sensazione derivata dall’incontro con animali indomiti, liberi e fieri. Nulla e nessuno potranno mai restituire ad un animale in cattività la maestà, l’eleganza e l’orgoglio che lo caratterizza nel suo ambiente naturale. Sposto lo sguardo dalla savana verso mio figlio ed a un tratto mi sorprendo a sorridere con la speranza e l’auspicio che tutto questo possa insegnargli una lezione profonda, importante ed assoluta che mi auguro porterà con sé per tutta la vita. Ma non c’è tempo da perdere! Raca raca, veloci, andiamo a continuare il nostro game-drive.

Altre gazzelle, dik dik e poi finalmente i bufali, un gruppo di bufali che sta attraversando la strada proprio davanti a noi. Uno di loro resterà separato dagli altri, in attesa del nostro passaggio e noi potremo immortalarlo nella sua imponente figura. Costeggiando il fiume vedremo da lontano le “schiene” degli ippopotami emergere dall’acqua come grandi sassi. Ancora giraffe, elefanti e quasi ovunque gazzelle, dik dik, antilopi d’acqua, impala e zebre, decine e decine di zebre: a fine giornata, Alessio, da vero juventino, ne avrà contate oltre 50. Pausa pranzo appena fuori dal parco, in un ristorante panoramico realizzato sulla punta di una collina nelle vicinanze della città di Voi. Il posto si chiama Lions’ Hill, la collina dei leoni, ed offre una vista splendida sul parco. Dall’alto scorgiamo un piccolo branco di elefanti che spiluccano tra i cespugli. Vicino a noi, durante il pranzo, alcuni gechi prendono il sole sullo steccato: hanno la testa arancione ed il capo azzurro! Splendidi! Nel pomeriggio, onde evitare di disturbare la nostra digestione con il continuo sballottamento provocato dal dissesto della pista, visitiamo un villaggio masai sito nelle vicinanze. Queste persone vivono lì forse proprio a vantaggio dei turisti, ma ci danno l’opportunità di avvicinarci allo stile di vita effettivo di questa caratteristica popolazione keniota. I “guerrieri” masai sono uomini perlopiù molto alti, abbigliati con kanga coloratissimi soprattutto rossi a strisce, o quadri, blu, gialli verdi e viola. E’ come trovarsi d’un tratto proiettati ne “La masai bianca”, il libro dell’incredibile vita di Corinne Hofmann, ragazza svizzera che, per amore, ha vissuto per quasi quattro anni in un villaggio masai partorendo e crescendo una bambina in condizioni per noi inimmaginabili. Le magnatte, abitazioni costruite con fango ed intonacate con sterco di mucca, sono piccole capanne buie con due minuscoli ambienti separati, ove dormono genitori e figli; tra le due “camere” si trova l’angolo cottura sormontato da una piccola finestrella che permette la fuoriuscita di parte del fumo che annerisce le pareti ed ogni oggetto presente. In quest’angolo si svolge la vita della famiglia dopo il tramonto. Il Kenia è situato a cavallo dell’Equatore, perciò le stagioni sono molto simili tra di loro e giorno e notte hanno una durata pressoché uguale tutto l’anno. L’alba si situa tra le 5,30 e le 6, mentre il tramonto sopraggiunge entro le 18,30 oscurando completamente il sole nel giro di pochi minuti. Assistiamo alle 3 tipiche danze masai: quella di benvenuto, quella della caccia al leone e quella della cerimonia di matrimonio. Nella prima danza, la più interessante, gli uomini si esibiscono in salti a piedi giunti. Ognuno di loro cerca di sollevarsi più in alto degli altri. Al termine della visita è impossibile resistere all’acquisto di braccialetti in perline, tipici ornamenti masai. Ricomincia il game drive! Il sole è a picco e fa veramente molto caldo, così è più difficile avvistare gli animali. Per questo motivo l’autista aumenta la velocità scotendo e frullando tutti i nostri muscoli, per superare rapidamente le zone più aride dove è più difficile scorgere gli animali che in queste ore cercano riparo all’ombra di piante e cespugli. La polvere rossa costituisce ormai un tutt’uno con i nostri vestiti, la nostra pelle, i nostri capelli. La sensazione che induce non è delle migliori, ma ne vale sicuramente la pena. Il bush è messo a dura prova da oltre 8 mesi di siccità, ma, per fortuna, la stagione delle piccole piogge è alle porte. Ci dicono che siamo fortunati ad essere capitati in questo periodo, in quanto la scarsità della vegetazione rende più facilmente avvistabili gli animali. I colori della natura sono splendidi ed entusiasmanti, perciò tutti continuiamo a scattare un’incredibile quantità di fotografie, con la speranza che possano immortalare la vivacità dei colori e restituirci almeno in parte queste emozioni, quando saremo nuovamente nel grigio delle nostre città.

L’azzurro intenso del cielo ed il rosso della pista offrono un insolito, piacevole contrasto che viene accentuato anche dal verde dei pochi cespugli sopravvissuti e dal grigio di quelli rinsecchiti. Elefanti, gazzelle e zebre costituiscono al tramonto un suggestivo ed irreale soggetto per le nostre fotografie. Per non parlare delle giraffe che, spinte dalla loro curiosità, non appena si sentono a distanza di sicurezza, si mettono in posa per noi, osservandoci simpaticamente. E’ bellissimo, ammirando una giraffa in corsa, scorgere gli uccellini che dimorano sulla sua schiena mentre cercano di rimanere saldamente aggrappati al loro ospite! Anche gli ippopotami accolgono dei pennuti sulle loro immense schiene ed a volte si intuisce la presenza degli ippopotami soltanto osservando degli uccellini che paiono camminare sull’acqua del fiume. E’ veramente difficile avvistare un ippopotamo fuori dall’acqua, in quanto questi animali passano tutta la giornata nel fiume, uscendo dall’acqua solo di notte. Mentre osserviamo una famiglia di cinque elefanti, il capo del branco, probabilmente spaventato per i suoi “cuccioli”, barrisce con rabbia cercando di caricare la nostra jeep. Prontamente l’autista decide di togliere il disturbo, partendo rapidamente. L’unico punto del Parco in cui è concessa la discesa dai fuoristrada è Lugard Falls, dove la presenza di strane rocce erose provoca grandiose, particolari cascate nel fiume Galana.

Quando il sole sparisce all’orizzonte raggiungiamo la nostra location per la notte, il Kiboko Camp.

Si tratta di un campo tendato nella savana, sito in un’ansa del fiume.

Ogni tenda, con basamento in pietra, è provvista di pavimento in parquet e di bagni in muratura con acqua (quasi) corrente ed energia elettrica fornita da un generatore che viene acceso al tramonto e spento improrogabilmente entro le 22,30. Ogni ospite ha con sé una torcia elettrica per le emergenze, ma è assolutamente vietato uscire dalla propria tenda dopo lo spegnimento del generatore. Una passeggiata tra le tende, mi fa tornare alla mente i libri letti nella preparazione di questo viaggio: infatti ogni “abitazione” porta il nome di famosi personaggi che ci hanno fatto conoscere il Kenia; primo fra tutti Hemingway, poi Karen Blixen… Manca al mio appello solo Kuki Gallmann, donna italiana emigrata in Kenia per amore dell’Africa e rimastaci nonostante la morte del marito e del figlio in onore dei quali ha costituito una importante fondazione volta alla salvaguardia del patrimonio florofaunistico del paese d’adozione. Grazie a lei sono riuscita a vedere il Kenia con la mente prima che con gli occhi! La cena, ottima nonostante i pochi mezzi a disposizione dei cuochi, viene servita in una terrazza sul fiume, sotto la quale ci tengono compagnia alcuni coccodrilli. Dopo cena, nel buio assoluto, ripartiamo per un game drive notturno. Abbiamo a disposizione una torcia faro che ci aiuterà a scorgere gli animali al buio. Nonostante il nostro scetticismo iniziale, siamo fortunati e, dopo aver scorto alcuni dik dik, ci imbattiamo in un tranquillo elefante che sbuca all’improvviso nella notte stellata. L’avventura prosegue e con il fuoristrada guadiamo il fiume su di una passerella di rocce che ha un’aria tutt’altro che rassicurante! Ai lati del guado brillano gli occhietti di decine di coccodrilli… Proprio in mezzo al fiume l’autista spegne il motore e smorza i fari per permetterci di godere appieno del buio più totale, ammirando il cielo stellato dell’emisfero sud; nessuno di noi è in grado di riconoscere la Croce del Sud, ma, in compenso, cogliamo la rapida scia di una stella cadente! Chissà se i nostri desideri si avvereranno!!! Torniamo al campo ed andiamo a dormire con la compagnia di un geco aggrappato (dall’esterno) alla zanzariera che funge da finestra della nostra tenda. Sveglia all’alba e, dopo colazione, partenza per un nuovo game drive.

Troviamo subito diversi elefanti e giraffe; poi dopo aver osservato una famiglia di elefanti attraversare la savana sulla linea dell’orizzonte, il nostro “pilota” si ferma improvvisamente ascoltando richiami in swaili attraverso la radio del parco, fa inversione di marcia e parte a tutta velocità. Ci guardiamo l’un l’altro emozionati e speranzosi, tenendoci forte per non cadere, mentre un cappellino vola via… E’ proprio come speriamo: si tratta di una leonessa adagiata sul bush. E’ vicina alla pista e respira affannosamente. Si concede a noi per una decina di minuti, passeggiando su e giù tra i cespugli, poi flemmatica e impassibile, attraversa la pista davanti a noi, indifferente anche ad un gruppo di antilopi d’acqua che raddrizzano immediatamente le orecchie osservando attentamente le mosse della leonessa. Purtroppo non possiamo seguirla, in quanto è assolutamente vietato abbandonare la pista principale. Lasciamo il Parco, ma solo dopo aver raccolto un po’ di sabbia rossa, stranamente ancora esportabile senza incorrere in sanzioni. Mentre acquistiamo alcuni souvenirs nel bazar sito all’ingresso, giunge tramite la radio del parco la notizia dell’avvistamento di due ghepardi in una zona relativamente vicina. Partiamo di corsa, ottenendo il permesso straordinario di rientrare nel parco per alcuni minuti, ed arriviamo appena in tempo per vedere i felini che si allontanano dalla pista. Ora l’avventura è proprio finita, ma fuori dal parco abbiamo ancora la possibilità di effettuare un emozionante fuori pista sulle tracce dei kiboko, gli ippopotami. Siamo fortunati perché riusciamo ad avvistare un intero branco che sguazza nel fiume ed essendo fuori dal parco, possiamo scendere dal’automezzo ed osservarli relativamente da vicino. Lunch time al Kiboko Camp, ove alla luce del giorno, comprendiamo il motivo dell’assoluto divieto di uscita dalle tende impostoci la sera precedente. Avevamo pensato a montature dei nostri ospiti volte ad incrementare il folclore, ma la presenza di un branco di elefanti sull’altra sponda del fiume e le tracce biologiche del loro passaggio nelle immediate vicinanze delle nostre tende, ci fanno capire che era tutto vero… Fortunatamente la prossima notte non saremo più qui!!! Non possiamo lasciare il Kiboko senza nutrire quei dolcissimi, enormi coccodrilli che attendono fuori dal ristorante; poi via, si ritorna a Watamu. Durante il viaggio, Marco affronta un argomento stranamente non toccato sino a quel momento. Pare che i leoni dello Tsavo siano famosi per la loro particolare preferenza nel cibarsi di carne umana. Già nel secolo scorso, un branco di leoni dello Tsavo aveva per mesi disturbato i lavori per la realizzazione della ferrovia che da Mombasa sale verso Nairobi. Centinaia di operai furono uccisi dai leoni prima che un gruppo di cacciatori riuscisse ad annientarli. La storia recente, poi, narra un paio di episodi drammatici : quello di un gruppo di rangers rimasti in panne nella zona delle Lugard Falls e brutalmente uccisi dai leoni e quello di un gruppo di turisti inglesi che decisero di visitare il parco con un Pajero affittato senza conducente; l’auto sprofondò nel fango delle recenti piogge, lontano dalle piste principali e, privi di radio o trasmittente (il telefono non ha campo all’interno del parco), due di loro decisero di scendere dall’auto per cercare soccorsi. Pare che il leone fiuti l’odore delle prede da chilometri di distanza, e così i due turisti fecero una brutta fine… Gli altri compagni si salvarono appiccando fuoco all’auto ed attirando così l’attenzione dei rangers. Rientrati in albergo, dopo un viaggio di un paio d’ore, ci resta appena il tempo per una doccia ed un bagno in piscina e già ci aspetta la cena Africana. Alessio ha gradito particolarmente un antipasto molto simile agli involtini primavera, mentre io ho apprezzato le rondelle di banane che sembravano patatine fritte e Marco ha gustato con piacere gli spiedini di barracuda. Domenica gita alla spiaggia di Garoda: splendida sabbia bianca, assenza totale di alghe e mare verde-azzurro. La bassa marea crea un perfetto campo da calcio ove i ragazzini locali improvvisano una partita. Emerge anche una striscia di sabbia che permette di camminare sino all’isolotto sito di fronte alla spiaggia. I colori sono bellissimi ed invidiamo il sig. Morbidelli che ha acquistato la stupenda villa che si affaccia direttamente sulla spiaggia. Trascorriamo la mattinata a chiacchierare ed a contrattare con i beach boys che cercano di venderci ogni sorta di souvenirs. Acquistiamo anche un cd musicale con le tipiche musiche keniote, tra cui Jambo Jambo, da un bambino di 11 anni di nome Samuele. Oggi è domenica, le scuole sono chiuse ed anche i bambini cercano di guadagnare qualche soldino. Samuele mi chiede se ho qualche maglietta di Alessio da regalargli, ma purtroppo è più grande di lui, gli prometto comunque di fargli avere qualche maglietta delle mie tramite Marco, la nostra onnipresente guida. Il lunedì è la giornata del nostro Blu Safari all’interno del Parco Marino di Malindi. Attraversiamo il Parco su di una barca con il fondo di vetro (niente a che fare con quelle di Sharm…, qui il fondo di vetro è rappresentato da una finestrella di un metro per un metro) che ci permette comunque di ammirare vari tipi di pesci: ci sono cernie grigie, pesciolini gialli ed altri a strisce bianche e nere. Chi vuole, può fare snorkeling in mezzo a loro, attirandoli con mollica di pane che mangeranno direttamente dalle sue mani.

Giungiamo poi alle piscine naturali, ove possiamo fare il bagno in mezzo ad un mare splendidamente verde azzurro, con acqua calda, profonda non più di un metro! Quando giungiamo a Sardegna 2 ci sembra di essere in un vero paradiso. Il gioco delle maree crea degli isolotti in mezzo al mare ove stendersi comodamente sulla morbida sabbia bianca. Qui ci sono stelle marine di ogni sorta e colore, oltre a svariati pesci palla. E’ qui che l’equipaggio ci prepara un ottimo pranzo con barbecue adagiato a pelo d’acqua. Gusteremo barracuda ed aragosta dal sapore unico, acquistando souvenirs dai soliti beach boys giunti sin qui su canoe dall’aspetto preistorico, oppure arrivati addirittura a piedi col favore della bassa marea. Uno di loro, Erico, è un ragazzo di 18 anni che studia italiano e vorrebbe diventare insegnante. Purtroppo non ha denaro a sufficienza per frequentare la scuola ed al momento studia da solo. Non appena potrà permetterselo sosterrà gli esami per rimettersi in pari con gli studi. La scuola costa 2.500 scellini al mese, che per loro è una cifra enorme. Mi chiede se per caso ho con me un dizionario italiano-inglese o un libro da regalargli. E’ veramente una richiesta insolita: quasi tutti qui ti chiedono soldi, oppure magliette, al massimo biro, qualcosa insomma di più commerciabile… Probabilmente si tratta, in questo caso, di un vero desiderio. Erico ha perso la mamma ed il papà non poteva mantenerlo, così è venuto a Malindi dal padrino, visto che sulla costa è più facile guadagnare qualcosa. Mi dice che casa sua si trova “lontano, veramente lontano”, quasi 25 km da Malindi… Proverò a spedirgli l’agognato dizionario all’indirizzo della sua scuola, che mi scrive su di un foglio, insieme al suo indirizzo e-mail… Strana ingerenza della moderna tecnologia in un mondo tutt’altro che moderno… Il giorno successivo ci resta il tempo di attraversare le viuzze interne di Watamu sino al porto, dal quale, con il favore della bassa marea, ci rechiamo a piedi sino all’Isola dell’Amore, stupendo anfratto ove si svolge il matrimonio tra la murena ed il pesce rosso, macabra tradizione avviata dai beach boys per attirare l’attenzione dei turisti. Come evitare di acquistare una stupenda lancia masai in comodo formato safari? I nostri amici beach boys ci accompagnano ovunque, raccontandoci aneddoti della loro vita quotidiana sempre con la massima simpatia e disponibilità. Acquistiamo per loro alcuni chili di farina e riso, sperando che giungano sino alle loro case e non vengano barattati con altre cose… C’è ancora tempo per qualche acquisto: quadri masai, bracciali ed oggetti in pietra saponaria, ultimo espediente per cercare di non dimenticare questi luoghi e portare con noi una parte di questo affascinante paese. Questa realtà, tanto lontana dalla nostra, insieme alle emozioni così importanti ed elettrizzanti vissute in questi otto giorni, ci fanno vivere la sensazione di tornare a casa dopo un’eternità, con l’illusione o la speranza di aver imparato qualcosa in più.



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