Il sistema viario degli inca
La rete viaria si estendeva su 16.000 chilometri di strade e univa il nord al sud dell’impero lungo due arterie principali, collegate fra loro da almeno sei cammini secondari. I sentieri erano lastricati e resi più agevoli con gradini, gallerie, ponti e carrucole per superare pareti impervie e fiumi. La ruota non era usata, d’altra parte le asperità del terreno rendevano più semplice e veloce il procedere a piedi e, inoltre, gli inca non possedevano animali da tiro.
Il camino de la sierra, da Cusco si dirigeva a nord, fino alla seconda città del regno -Quito, in Ecuador- e a sud, verso il lago Titicaca, Potosí e Tupiza, in Bolivia e Tucumán in Argentina, coprendo una distanza di oltre 5.000 chilometri. La strada costiera univa invece la città di Tumbes, nell’estremo nord dell’odierno Perù, con quella di Talca, in Cile, lungo 4.000 chilometri di coste, deserti e oasi.
Nate essenzialmente come strade militari, divennero, in seguito, importanti vie commerciali attraverso le quali avvenivano scambi di alimenti, materie prime e manufatti. Oltre alle lente carovane di commercianti e lama carichi di mercanzie, le vie erano percorse dai chasqui, giovani e aitanti staffette che recapitavano messaggi e beni di prima necessità in ogni angolo dell’impero. Questi postini delle Ande arrivarono persino a rifornire di pesce fresco la mensa del Sapa Inca –il sovrano- trasportando in breve tempo il pregiato alimento dal porto di Chala, nella costa sud del Perù, sino a Cusco, sulla sierra, a 3.400 metri di altitudine.
La strada costiera possedeva un’ampiezza variabile fra i tre e i quattro metri ed era in alcuni tratti stretta tra pareti d’argilla; tuttavia, nelle regioni desertiche, spesso non era tracciata a causa delle difficili condizioni atmosferiche. In quei casi, gli inca utilizzavano come punti di riferimento robusti pali conficcati nel terreno per segnalare la via da seguire. Le strade di montagna erano costruite con maggior cura: per quanto possibile, la via della sierra procedeva in linea retta e ad altezze vertiginose che spesso raggiungevano i 4.000 e, talvolta, superavano i 5.000 metri di altitudine. I tragitti più importanti erano larghi anche oltre tre metri, con pareti di pietra su ambo i lati, lastricati e provvisti di canali per il drenaggio delle acque. Costruite con maestria, le vie di comunicazione erano ricavate scavando le reni della cordigliera, spezzando il duro granito andino, incidendo gradini per superare barriere di roccia a picco sul baratro e, qualche volta, forando le montagne per creare gallerie lunghe e sicure che nessun terremoto è mai riuscito a scalfire. Il sistema viario era completato da ponti sospesi ad altezze da capogiro sopra fiumi impetuosi e da teleferiche che univano montagne separate da orridi.
In runa simi –l’idioma inca-, Apu rímac significa “la divinità parlante” o “il grande parlante” e Apurímac è pure il nome di uno dei fiumi più importanti della Sierra Centrale peruviana. E’ un corso d’acqua che scorre tortuoso fra alte pareti di roccia, a volte tranquillo, altre turbolento. Nel trascorrere dei millenni, il rio Apurímac si è scavato un letto profondo nella massiccia roccia andina, senza concedere, per lunghi tratti, guadi al passaggio dell’uomo. Ostacoli di tale portata si presentavano spesso a contrastare i cammini imperiali. L’unica possibile soluzione era la costruzione di ponti, a volte lunghi oltre 40 metri e alti anche 36 sul livello dell’acqua. I genieri inca incidevano le pareti rocciose sino a ricavare solidi supporti o innalzavano piloni in muratura ai quali assicuravano grosse funi di giunco annodato. Intrecciavano, poi, robuste corde vegetali con le quali costruivano la base del pavimento dove poggiavano traversine di legno. Il ponte era quindi completato con ulteriori funi che fungevano da corrimano. Il risultato era una struttura solida, ma in costante oscillazione e incurvata verso il centro. Attraverso queste passerelle, transitavano gli eserciti, i mercanti e le greggi di lama e alpaca. Ponti di tale tipo, seppur rari, esistono ancora oggi, periodicamente ricostruiti dalle popolazioni andine.
Tempo fa, ebbi l’occasione di attraversare una di queste opere; un’esperienza che difficilmente ripeterò. Quando mi trovai di fronte al ponte, provai un formicolio al capo e sentii le orecchie fischiare, segni inequivocabili di cedimento psicofisico. Le corde, per fortuna nuove e ben tese, cigolavano maliziose, quasi volessero sfidarmi ad affrontarle. Spinto più dalla necessità di proseguire il cammino che dal coraggio, iniziai la traversata del fiume aggrappato con entrambe le mani alla fune che fungeva da parapetto. Passo dopo passo, acquistai un minimo di sicurezza, ma giunto al centro, un soffio di vento, che a me parve una tromba d’aria, fece ondeggiare il ponte e non potei trattenere un urlo. Controllato l’attimo di panico, la forza della disperazione mi catapultò verso la sponda opposta. Al ritorno, alcuni giorni dopo, allungai il tragitto di parecchie ore, pur di non ripetere l’avventura.
Per attraversare i fiumi, gli inca utilizzavano altri due sistemi: le oroya e gli huaro. Le prime erano una sorta di teleferiche fabbricate con grosse corde vegetali tese sopra ai corsi d’acqua, lungo le quali scorrevano ceste cariche di mercanzie o di animali imbragati. Gli huaro erano strumenti simili alle prime, ma utilizzati dalle persone che, a forza di braccia, si trasportavano al di là del fiume, senza necessità di aiuto altrui.
Lungo tutte le strade, gli inca predisposero una rete di tambo, i magazzini-alloggio dove gli eserciti e i funzionari governativi riposavano e si rifornivano di armi, vestiario e alimenti. Tali costruzioni strategiche erano distribuite lungo il percorso, ad una distanza approssimativa di 20 chilometri l’una dall’altra. La manutenzione delle strade e la gestione dei tambo erano affidate agli abitanti dei diversi villaggi che contribuivano con la mita –il lavoro comunitario- alla prosperità dell’impero. Le foto in: