I grandi parchi Usa

Viaggio on the road su cabrio alla scoperta dei parchi: info pratiche
Scritto da: aldo neirotti
i grandi parchi usa
Partenza il: 18/09/2011
Ritorno il: 01/10/2011
Viaggiatori: 3
Spesa: 2000 €
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Domenica 18 settembre 2011

Finalmente è arrivato il gran giorno: sono le sette del mattino e si parte; Milano, forse dispiaciuta per la seppure momentanea separazione, ci lascia sotto un autentico diluvio. Alla Malpensa primo dramma: Marta ha dimenticato a casa la marca del passaporto e, senza di quella, addio viaggio; fortuna che un provvidenziale tabaccaio malpensino ne è provvisto! Secondo dramma: non sono stati prenotati i posti a sedere e l’aereo è pieno, così non ne troviamo tre in fila; pazienza, basta stare seduti. O Dio, seduti: compressi come tonno sott’olio; è un volo Alitalia o Nostromo? Inoltre saranno più di nove ore senza sigarette!

Finalmente alle quattordici di New York (ma le venti nostre) si atterra al Fitzgerald Kennedy con qualche minuto di anticipo, subito perso in attesa che l’aereo parcheggi, poi quasi un’ora all’immigrazione, dove ti guardano il passaporto col microscopio, e sei subito in ritardo per la coincidenza. Ritiriamo le valige ma siamo ancora al teminal tre, dove sarà mai il terminal otto? Qui è un gigantesco labirinto in cui parlano una lingua che, nonostante le vaghe assonanze con l’inglese, risulta pressoché incomprensibile. Grazie a Maurizio, che qualcosa capisce dei latrati degli indigeni, finiamo su un treno che ci scodella al terminal otto e da qui all’aereo per Los Angeles, che è in normale ritardo di un’ora: abbiamo corso come centometristi e adesso ci giriamo i pollici. Si riparte e, dopo altre sei ore e un quarto di volo senza sigarette, arriviamo nella città degli angeli che sono le ventuno e trenta locali, ma per noi le sei e mezzo del mattino. Sorpresa! Alla mia valigia deve piacere molto New York, visto che ha deciso di fermarvisi per qualche ora in più. Mi fa sapere che mi raggiungerà col prossimo volo. Semisvaligiati andiamo a ritirare la macchina: una splendida Crysler (ora Fiat) 200 cabrio praticamente nuova, con meno di 700 miglia. Si caricano le valige rimaste e facciamo conoscenza con Maria, la simpatica voce femminile del navigatore satellitare che ci indicherà le giuste strade. Sulle prime Maria è restia a svegliarsi ma, dopo qualche minuto di nostra apprensione, finalmente si desta e ci guida verso l’albergo, non dopo aver mangiato un panino in un drive in (cena o colazione?). Sono le ventitré e trenta locali, ma per il nostro orologio biologico le otto e mezzo del mattino, ora di svegliarsi più che di andare a dormire. L’albergo è decente, ma ho già visto di meglio e il guardiano notturno non è certo dei più svegli. L’orologio interno vince su quello al polso e non ho affatto sonno: alle tre del mattino esco a fare una passeggiata intorno all’isolato e al ritorno mi ricongiungo col mio bagaglio. Finalmente un po’ di sonno e cerco di dormire qualche ora.

Arrivo a Los Angeles. Miglia 696 Miglia 709 Miglia percorse 7 pari a Km 11

Lunedì 19 settembre 2011

Inizia l’avventura. Lasciamo Los Angeles sotto un cielo coperto e con un’aria frescolina. Prima lezione: qui i semafori sono dall’altra parte dell’incrocio e così se vai ad allinearti sotto il rosso come fai da noi, ti trovi fermo in mezzo alla strada con tutti che ti vengono addosso strombazzando; è una lezione che s’impara facile. Los Angeles non è una città, è una regione tutta piena di casette ad un piano attraversata da un groviglio di autostrade urbane a cinque o sei corsie. A prima vista non sembra interessante, ma approfondiremo la conoscenza alla fine del viaggio, se ne avremo tempo.

Sotto la sapiente guida di Maria riusciamo a districarci con sicurezza tra incroci e diramazioni e in tre quarti d’ora buoni a settantacinque miglia all’ora, sono i nostri centoventi, siamo fuori dalla sterminata città, sull’autostrada 15 diretta a nord verso Barstow. Ben presto l’autostrada si fa diritta come una fucilata. A Brastow lasciamo la 15 per la 40, erede della mitica Route 66, e filiamo ad est in direzione Kingman. Prima sosta in un distributore di benzina con annesso chioschetto dove vendono un sacco di porcherie, alimentari e non. Compro subito un cappellino dedicato alla Route 66 perché siamo dalle parti dei trenta gradi, il sole s’è fatto alto e, dentro la cabrio, picchia in testa; per sovraprezzo prendo anche una spilla da attaccarci sopra. Anche la 40 è piena di rettilinei ed attraversa un paesaggio che ricorda il bush africano: una spianata semirocciosa tra i seicento e mille metri sul livello del mare coperta da fitti cespugli rinsecchiti. Senza nemmeno accorgerci lasciamo la California ed entriamo in Arizona. Percorriamo, su una breve diramazione parallela all’autostrada, anche un tratto delle 66 “storica” (si fa per dire, compie quest’anno il suo ottantacinquesimo genetliaco e già l’hanno dismessa; che dire nostre delle vie consolari, con più di duemila anni sulle spalle?); una stradina stretta, ad una sola corsia per marcia e tutta piena di buche, una delusione. Dopo circa duecentotrenta chilometri, a Needles, lasciamo la 40 e, in direzione nord sulla 93, puntiamo verso l’ingresso ovest del Grand Canyon, meta della nostra giornata. Il paesaggio comincia a farsi ondulato, dapprima lievemente poi quasi aspro con profondi calanchi, mentre il termometro arriva a quaranta.

Quel che immediatamente mi stupisce di questa parte degli Stati Uniti è il nulla che ci circonda. Da noi una decina di secoli di storia avrebbe costellato i dintorni di castelli, torri, chiese, monasteri, paesini dalla case in sasso. Qui solo pianure e colline coperte di cespugli e qualche rada pianta, strade che non conoscono curve e che raramente incrociano altre strade anche loro dirette verso il nulla; percorri anche settanta, cento chilometri senza trovare traccia di vita umana, poi quattro baracche e, se hai fortuna, un distributore di benzina. Da cui la seconda lezione: quando vedi un benzinaio, anche se hai ancora mezzo serbatoio, fermati e fa il pieno.

Un nostro errore d’interpretazione della sagge parole di Maria ci porta fuori strada, a Chloride: duecentocinquanta abitanti in poche casupole che sembrano uscite da un film western, un paesino a 1200 metri di altitudine nato nel 1860 attorno ad una miniera d’argento, e le tre miglia di deviazione sulla strada 125 valgono alcune belle foto. Si torna sulla 93 e all’incrocio successivo si punta da est, sulla Diamond Bar Road, ventitre chilometri di comodo sterrato, fino al Gran Canyon West, nella riserva degli indiani Hualapai.

La riserva ci riserva una sorpresa: il costo. Quarantaquattro dollari a cranio per entrare; siamo venuti fin qui per fare una passeggiata sullo Skywalk, un’impressionante passerella di cristallo in aggetto sullo strapiombo di milleduecento metri sul fondo del canyon, quindi entriamo. Ma per andare sulla passerella sono altri ventitre dollari a cranio. Tradotto nella nostra moneta, fanno più di cinquanta euro a testa. Per le chincaglierie rigorosamente made in Cina che vendono nel negozietto sono altri fior di dollari. Chiamali scemi questi indiani: li hanno relegati in un deserto in mezzo al nulla e loro han trovato il modo di vendicarsi spillando quattrini. Paghiamo col cuore più leggero pensando che, in fondo, sessantatre dollari sono poca cosa se paragonati a quanto i bianchi han rubato agli indiani: un’intera nazione. La vista è da mozzafiato. Siamo prossimi al tramonto e la roccia si presenta con tutti i colori dell’arcobaleno che, pochi minuti prima dell’oscurità, convergono verso le gradazioni del rosso e dell’arancio. Ora so che certe foto dominate da un colore innaturale sono invece naturalissime. Una passeggiata breve ma indimenticabile nella poesia del silenzio. Poesia ma anche brivido. La passerella è sicura e ben protetta, ma lì vicino si può arrivare fino al ciglio del precipizio senza alcuna protezione, sulla roccia viva fino allo strapiombo verticale: un salto di almeno sette-ottocento metri, una breve cengia e altri quattro-cinquecento metri fino al fondo. Penso che al primo giapponese che vola giù seguito da tre o quattro macchine fotografiche metteranno una balaustra, non foss’altro che per salvare le macchine.

Ormai è scuro, e cominciano i problemi. Già, perché siamo al buio a più di cento chilometri dal più vicino centro abitato e non abbiamo prenotato nessun albergo. Un consiglio ai simpatici ma esosi indiani Hualapai: perché no, oltre alla passerella, un bel motel e un distributore? Farebbero soldi a secchiate. Con un po’ di apprensione ci dirigiamo a sud su una comoda strada locale e, centotrenta chilometri dopo, arriviamo a Kingman dove, fortunatamente, troviamo un motel. Fra il canyon e Kingman assolutamente nulla, solo un paio di volpi che attraversano la strada abbagliate dai fari.

Los Angeles (CA); Barstow (CA); Needles (CA); Chloride (AZ); West Gran Canyon (AZ); Kingman (AZ)

Miglia 703 – Miglia 1191 – Miglia percorse 488 pari a Km 785 –

Martedì 20 settembre 2011

Da Kingman dirigiamo verso est sulla Route 66. Tutta diversa da quella di ieri: è una strada normale, dapprima tagliata nella roccia con qualche sali-scendi e dolci curve poi, sull’altipiano, una sfilza di rettilinei di qualche decina di chilometri ciascuno, fiancheggiata da una ferrovia su cui transitano treni merci lunghi come la Quaresima; tre o quattro motrici diesel che tirano settanta o novanta vagoni ad una considerevole velocità e senza apparente fatica; da noi la motrice sarebbe già nella stazione successiva e l’ultimo vagone ancora nella stazione precedente. Il paesaggio è mutato un poco: sempre piatto, ma ai cespugli s’è sostituita l’erba su cui sonnecchiano alcune vacche, intimorite per l’enorme quantità di prato che devono mangiarsi. I distributori sono sempre rari come i calli sulle mani di un sindacalista.

Tutto così fino a Seligman, dove la 66 torna ad essere l’autostrada 40, sempre verso est fino a Williams, una ridente cittadina a 2060 metri di altitudine. La via principale è un tripudio di simboli della Route 66, con tanto di autorimesse finte con fuori macchine anni ’50, negozietti che vendono ricordini, bar e ristorantini stile vecchia America; un giro a piedi merita il tempo che richiede. Un portale a cavallo di tutta la via avvisa che siamo al “Gateway to the Grand Canyon”, e infatti da lì parte la statale 64 che in un centinaio di chilometri a nord raggiunge la nostra meta quotidiana.

Certo quanto visto ieri era fantastico, ma per lo spettacolo di oggi non ci sono parole, molto, molto più grandioso. L’immensa forza della natura, uno spacco rossastro nel terreno largo ventisei chilometri e profondo fino a milleseicento metri e, piccolo piccolo in fondo, il fiume Colorado, il tutto al prezzo di soli 80 dollari a macchina, il costo dell’abbonamento annuo a tutti i parchi nazionali americani; lo useremo spesso. Solito negozio fornitissimo di ricordini: prendo un’altra spilla da attaccare al cappello: d’ora in poi lo farò in tutti i posti che visiteremo. Sull’orlo superiore del canyon, oltre i 2100 metri sul livello del mare, corre una comodissima strada asfaltata, tutta immersa in folte pinete, con numerosi punti di vista sullo spettacoloso panorama. Anche qui l’orlo del precipizio non sempre è protetto da ringhiere ed i più spericolati si siedono con le gambe nel vuoto; si vede che la caduta di giapponesi e macchine fotografiche non impressiona nessuno. Si cammina lenti e, a un certo punto, l’urlo di Marta: il cervo!. Ci fermiamo ed effetti i cervi sono tre, vicinissimi alla strada e per nulla turbati dalla nostra presenza. Il più vicino rumina tranquillo sdraiato all’ombra di un pino (o abete? o qualcos’altro? Boh. Ha gli aghi e le pigne). Quando mi avvicino a piedi per le fotografie, quello si alza senza fretta per sdraiarsi un poco più in là, come dire: fa tutte le foto che vuoi, ma stammi almeno a venti metri e non rompermi troppo le balle. La strada interna al parco, è sempre la 64, procede ancora ad est fino a Desert Wiew da cui, come dice il nome, si ha un magnifico panorama sul Painted Desert. Per capire perché l’abbiano chiamato deserto colorato, basta andare lì e vedere.

Usciti dal parco, la strada scende rapidamente costeggiando un affluente del Colorado, chiamato appunto Piccolo Colorado, anche lui con i suoi bei canyons. Ci fermiamo a vederne uno approfittando degli ultimi raggi di sole che trasformano i colori rendendo tutto più surreale. Bellissimo panorama anche questo. Al ritorno verso la macchina siamo incuriositi dalla vegetazione, fatta di piccoli fichi d’india e agavi alti una ventina di centimetri e altri strani cespugletti spinosi, il tutto su un terreno secco sassoso e sabbioso. Io resto sul sentiero, ma Marta e Maurizio vanno a pascolare in quello strano prato quando un signore, un indiano del posto, mi dice “Be carefull, a lot of snakes” e, agitando l’indice in alto, fa “grgrgrgr”. Allora: “Marta, il signore dice che è pieno di serpenti a sonagli”. Veloce ritirata sul più rassicurante sentiero.

La strada raggiunge presto i 1500 metri di Cameron, un paesone abitato da indiani Navajo. Si potrebbe dormire qui, ma siamo un po’ in anticipo sulla giornata e un po’ in ritardo sul programma generale, quindi imbocchiamo la 89 che, dopo circa centocinquanta chilometri verso nord, porta a Page. Arriviamo in città che ormai è notte da un pezzo e cerchiamo un motel per dormire. Sorpresa: per essercene, di alberghi ce ne sono molti, ma sono tutti pieni per via di non so quale raduno. Una ragazza molto gentile ci informa che, forse, potremmo trovare qualcosa nei paesi vicini, ma per “vicino” si intende tornare a Camerun o andare a Flagstaff, ancora più lontano e ancora più fuori strada. Disperati pensiamo già di dormire in macchina quando facciamo un ultimo tentativo in un albergo in cui non avevamo ancora chiesto; tripla disdetta: la prima di uno che aveva prenotato ma proprio in quel momento ha telefonato che non viene; la seconda è che si tratta dell’albergo più caro della città, al di sopra del nostro standard; la terza che c’è una sola camera, seppure con due letti matrimoniali. La prendiamo e ci dormiamo in tre.

Terza lezione: se possibile, la mattina prenotare l’albergo per la sera; ti vincola un po’, ma almeno sei sicuro di dormire in una stanza sotto una coperta.

Kingman (AZ); Seligman (AZ); Williams (AZ); South Gran Canyon (AZ); Cameron (AZ); Page (AZ) Miglia 1191 – Miglia 1528 – Miglia percorse 337 pari a Km 542.

Mercoledì 21 settembre 2011

Il nostro programma prevedeva, da Page, un giro sul lago Powell, che le guide dicono essere bello. Ma siamo in ritardo sul programma generale e, considerato il fatto che di laghi belli ce ne sono anche in Italia mentre di canyon siamo scarsi e che dovremmo andare un centinaio di chilometri a nord per poi tornare indietro dalla stessa strada, saltiamo la tappa del lago e andiamo direttamente all’Antelope Canyon, che è vicinissimo a Page, pochi minuti davvero. I canyon sono due, uno si visita da sopra, l’altro da dentro; molti dicono che il più bello è il secondo, soprattutto se visto al mattino presto o alla sera tardi. Visto che è mattino presto, ne approfittiamo. Anche questo luogo è una proprietà gestita dagli indiani. Molto spartano: solamente un parcheggio polveroso sotto il sole, un baracchino di legno per pagare l’ingresso, venti dollari a testa, nemmeno un distributore automatico di coca cola, nemmeno una cartolina. Bisogna che qualcuno spieghi agli indiani come si fanno gli affari. Il canyon è fantastico: si entra da una stretta fessura nel terreno, troppo stretta per gli obesi, e si cammina sul fondo in un tripudio di rocce levigate e striate ora orizzontalmente, ora quasi verticalmente in straterelli rossi, rosa, arancioni, marroni illuminati dal sole che filtra dall’alto, in un gioco di chiari e scuri che nemmeno il miglior pittore saprebbe inventare. Una guida indiana davanti, un’altra dietro a tenere unito il gruppo. Infatti una lapide all’ingresso ricorda i nomi di una decina di turisti che anni fa si sono allontanati per i fatti loro quando un’improvvisa piena ha allagato tutto facendoli annegare; io, fossi stato negli indiani, quella lapide non l’avrei messa: mena gramo. L’ora e mezza della visita passa che non te ne accorgi in un’orgia di fotografie.

Saltiamo la visita all’altro Antelope perché a mezzogiorno abbiamo un appuntamento con John Wayne nella Monument Valley. Percorriamo la statale 98 verso sud e poi la 89 a est fino a Kayenta: sono centocinquanta chilometri con un solo distributore all’incrocio tra le due strade. A Kayenta, poco più che una estesa baraccopoli ma con un Mac Donald, inizia la 163 che più avanti attraversa la Monument Valley. La solita distesa arida di arbusti rinsecchiti da cui, però, si cominciano a veder sorgere in lontananza i famosi monoliti di arenaria rossa. Dopo una settantina di chilometri, a metà strada tra Kayenta e Mexican Hat, inizia lo spettacolo vero e proprio, il pianoro tra Arizona e Utah a circa 2000 metri sul livello del mare reso famoso da centinaia di film di cow boys. L’ingresso costa solo cinque dollari a persona, ma ne vale molti di più. Qui gli indiani sono meglio organizzati: una moderna costruzione con museo, negozio, bar e quant’altro; da lì parte una strada sterrata sufficientemente agevole anche per la nostra cabrio, il problema è la polvere, un anello di circa venticinque chilometri che ti porta proprio in mezzo al set cinematografico, attorno e sotto i monoliti. Ogni tanto vedi in lontananza una nuvola di polvere e ti aspetti il settimo cavalleggeri al galoppo, invece si tratta di un più prosaico camper made in USA, uno di quelli con tre camere, doppi servizi e piscina in veranda. Il giro dura un paio d’ore, ma anche di più: dipende dal numero di foto che fai.

Lasciata La Monument Valley decidiamo di fare una galoppata per recuperare il ritardo sul programma generale. Il nodo è Las Vegas: dobbiamo arrivarci entro domani perché i prezzi, da venerdì a domenica, sono più che triplicati. Allora via: con la 163 si scende verso nord est, dopo Mexican Hat, fino ai 1300 metri di Bluff; da lì con la 191 si punta decisamente a nord, salendo ai 2100 di Monticello per tornare ai 1200 di Moab; Prima dell’oscurità facciamo tempo a vedere un paesaggio di colline rocciose e calanchi da far invidia alla tavolozza di un pittore: tutte le tonalità del rosso e del marrone con vistose pennellate di grigio, giallo, vede, azzurro. E pensare che non è il Painted Desert, centinaia di chilometri più a sud ovest. Poco prima di Green River con la 191 ci si innesta verso ovest sull’autostrada 70 ed infine, a Cove Fort, si punta a sud sull’autostrada 15 fino a Parowan, a 1850 metri di altitudine, dove in un motel ci riposiamo per la lunga galoppata. Praticamente dalla Monument Valley abbiamo percorso un lungo semicerchio a nord aggirando una zona montagnosa poco servita da strade agevoli e passando vicino a bei posti, tra cui Canyonland e Arches Park che meriterebbero una sosta. Ma per vedere tutto ci vorrebbe almeno un mese, e noi non l’abbiamo.

Page (AZ); Antelope Canyon (AZ); Cayenta (AZ); Monument Valley (AZ/UT); Mexican Hat (UT); Bluff (UT); Monticello (UT); Green River (UT); Cove Fort (UT); Parowan (UT)

Miglia 1528 – Miglia 2098 – Miglia percorse 570 pari a Km 917

Giovedì 22 settembre 2011

Da Parowan un breve tratto sulla statale 20 fino a Panguite e da lì a sud sulla statale 89 fino ad una diramazione per il Bryce Canyon. Lungo la cinquantina di chilometri percorsi, il paesaggio è cambiato: ora si vedono campi coltivati ed immensi sistemi di irrigazione: qui l’acqua c’è e, naturalmente, queste terre non sono riserve indiane. Poveri indiani, li hanno relegati in deserti bellissimi, ma pur sempre deserti, caldissimi in estate, freddissimi in inverno e scarsi d’acqua tutto l’anno, dove a seminar patate raccogli pietre; ora cercano di raggranellare qualcosa col turismo, ma sono ancora indietro con le strutture ricettive; hanno ben ragione ad essere inferociti e a vendicarsi con prezzi alti. Forse ieri abbiamo offeso Maria perché questa mattina ci fa girare a destra, poi a sinistra una volta di più di quanto avrebbe dovuto, e ci spedisce su una stradina in terra battuta dapprima passabile ma via via sempre più stretta e ondulata; ci viene il dubbio che l’accesso ad un canyon così famoso dovrebbe essere più agevole, ma la nostra fiducia in Maria è tanta: “sarà una scorciatoia …”, ma col passare del tempo e lo stringersi della strada il dubbio si fa sempre più pressante finché incrociamo un furgoncino sgangherato e, mentre ci fermiamo e facciamo manovra per farlo passare, gli indiani che lo guidano ci confermano che siamo completamente fuori strada. Questa sera Maria a letto senza cena!

Dopo questa non voluta deviazione di una mezzoretta, arriviamo al Bryce Canyon, proprietà federale in cui si entra con l’abbonamento acquistato al Gran Canyon sud, e dove tutto è ben organizzato. Anzitutto non è un canyon, ma un enorme calanco ad anfiteatro, eroso dalla pioggia e dal vento il cui bordo superiore si trova tra i 2400 ed i 2700 metri di altitudine. Sembra che la natura si sia sbizzarrita a fare pinnacoli di fango, come quelli che fanno i bambini al mare giocando con la sabbia bagnata. Migliaia di enormi torri irregolari di colore dal rosa al rosso all’arancio al bianco e la strada, che corre alta sull’orlo del calanco, offre molti punti panoramici.

Lasciato il Bryce, la strada 89 porta a sud fino ad incrociare, verso ovest a Sprigdale, la 9 che attraversa lo Zion Park, la seconda meta di oggi, Anche qui l’ingresso è compreso nell’abbonamento. Una comoda strada asfaltata lunga una decina di chilometri percorre il fondo della gola profonda ottocento metri, quasi oppressa dagli strapiombi rocciosi che la sovrastano. La gola in certi tratti è strettissima, ci stanno giuste la strada e il fiume impetuoso, in altri punti si allarga lasciando spazio a folte pinete. Certo un bel parco ed un bel paesaggio, ma tutto sommato sa di dejà vu: somiglia a certe nostre valli alpine e da solo non varrebbe certo il viaggio, come invece lo vale tutto quanto sinora visto. Lasciato lo Zion Park, a 1200 metri di altitudine, la statale 9 scende tortuosa e ripida dall’altipiano alla piana desertica che circonda la capitale del gioco d’azzardo fino a confluire, a 850 metri nei pressi di Washington, omonima della ben più famosa capitale, con l’autostrada 15 e da qui in direzione sud ovest, lasciato l’Utah per il Nevada, raggiungiamo i 600 metri di Las Vegas. A prima vista la città non è un granché: la solita autostrada a sei corsie che attraversa un mare di insignificanti casupole a uno o due piani ma, in lontananza verso il centro, spicca il profilo degli alberghi-grattacielo. Quello dove noi abbiamo prenotato, lo Stratosphere, non è tra i più grandi e alti, ma è sovrastato da trecentosessantacinque metri di torre con in cima un ristorante girevole. Maria, al solito, ci indica con sicurezza e gentilezza la strada, ma comunque ci arriveremmo lo stesso: la torre si vede da ogni punto della città. Il parcheggio non è un problema: sono numerosi i palazzi adibiti a parcheggio con migliaia di posti ciascuno e tutti gratuiti; lo Stratosphere ne ha uno proprio lì attaccato. D’altronde un albergo di venticinque piani con duemilacinquecento camere e certo più del doppio di slot machines deve pur pensare al parcheggio dei suoi avventori. La hall è una bolgia. Un immenso open space circondato da negozi, bar, ristoranti di ogni genere e letteralmente saturo di macchinette mangiasoldi, tavoli di roulette, dadi, chemin de fer ed altri giochi di cui non conosco neppure il nome, con un sacco di persone che si affannano per riempire le casse dell’albergo. Alla reception c’è la coda, ma anche molti receptionisti, quindi si fa veloce. Abbiamo prenotato due camere e la cena al ristorante girevole. A me tocca un stanza al ventitreesimo piano, a Marta e Maurizio una al terzo piano; il receptionista vede la delusione dei due e, strizzando l’occhio, dice che, con un piccolo extra, può assegnarne una molto più grande al ventiquattresimo piano; dieci dollari passano furtivamente di mano ed i due si trovano in una suite di lusso. Che il receptionista abbia origini italiane? Bho, tutto il mondo è paese e dieci dollari son sempre dieci dollari.

Durante la settimana Las Vegas non costa molto: con meno di novanta dollari a testa, una notte e una cena in uno dei più famosi alberghi in una delle più famose città del mondo; ma il fine settimana costa tutto tre o quattro volte di più. La cena a trecentosessantacinque metri sopra una città che ti gira intorno è un’esperienza che va fatta. Da lassù vedi che Las Vegas è al novanta percento una città come tutte le altre, con i suoi viali illuminati, le viette trasversali, le case con le finestre accese, i fari delle macchine che passano. Ma c’è un dieci percento folle: il Las Vegas Boulevard, la famosa Strip, il vialone dei Casinò e anche da lassù capisci che è un casino. Lunga sette chilometri, la Strip ospita diciannove tra i venticinque alberghi più grandi del mondo; quella strada da sola possiede più di sessantacinquemila stanze ed ha la più alta concentrazione di casinò che si possa vedere. E tu vuoi che non ci facciamo un giretto in macchina? Non sia mai detto! E allora tutti giù dalla torre per vedere la pazzia della città.

Il Caesar Palace, tutto in stile romano, il Venice con tanto di campanile di San Marco, ponte di Rialto e gondole, il Bellagio con quattromila stanze e l’acqua delle sue fontane che danza a suon di musica, il Paris con davanti la Tour Eifell, il Tresaure Island dove vanno in scena battaglie navali tra pirati; c’è tutto il kitsch più kitsch che puoi immaginare, un finto vulcano che erutta, un’ottovolante che gira tutto attorno e sopra ad un albergo, la statua della Libertà, il tutto che sovrasta un mare di gente; proprio per questo non puoi non vederlo, e noi l’abbiamo visto. Ma che contrasto con gli spazi ed i silenzi del Bryce Canyon!

Parowan (UT); Bryce Canyon (UT); Sprigdale (UT); Zion Park (UT); Washington (UT); Las Vegas (NE)

Miglia 2098 – Miglia 2468 – Miglia percorse 370 pari a Km 595

Venerdì 23 settembre 2011

La mattina, prima di abbandonare lo Stratosphere, Marta e Maurizio decidono di lasciare un obolo all’albergo e giocano trenta dollari alle slot machines e alla roulette: la fatica è durata pochi minuti, una tradizione che può costare molto e che contribuisce al PIL cittadino. Un giro mattutino sulla Strip che, con la luce del sole, appare altrettanto stravagante, meno affascinante ma altrettanto affollata. Una visitina anche in quelle pseudo cappelle dove, pagando, ti sposi in pochi minuti e senza chiedere niente a nessuno: il regno del cattivo gusto con amorini di plastica e fiori finti.

Ancora in viaggio, verso nord-ovest sull’autostrada 15, che corre parallela alla Strip; poco dopo che la 15 è diventata la strada 95, ad Amargosa, in mezzo al deserto, si devia a sud-ovest sulla 393 e, qualche chilometro più in là ci incrocia la 190 che attraversa la Death Valley. Il deserto è proprio deserto: una distesa di sassi e sabbia con qualche rado cespuglio: il nulla tagliato da un pressoché ininterrotto rettilineo asfaltato. Ne abbiamo misurato uno: trentasette chilometri tra una curvetta e l’altra. Il villaggio di Amargosa è costituito da un distributore con annesso negozietto dedicato agli alieni del campo 55; alcuni sostengono che nel campo 55, una proprietà dell’aviazione USA lì da quelle parti, siano conservati i resti di una nave aliena con tanto di equipaggio.

All’ingresso della Valle della Morte si trova Zabriskie point, reso famoso dal film di Antonioni. Chi si aspetta un piccolo villaggio resta deluso: è, effettivamente, solo un punto. Un parcheggio neppure grande, due gabinetti, peraltro chiusi per manutenzione, ed una breve stradina che porta su una modesta altura dalla quale si può vede un tratto della desolatissima valle sotto un sole rovente, tutta sassi, borace e sabbia senza neppure una pianticella. Ancora qualche chilometro e si arriva a Furnace Creek, che rende onore al nome: sono le cinque di un pomeriggio di fine settembre siamo a 45°, dai 1500 – 2000 metri dei giorni scorsi siamo scesi a quasi 100 metri sotto il livello del mare. Qui a Furnace c’è tutto, bar, ristorante, negozi, perfino un ufficio postale; non che li abbia cercati con attenzione, ma è il primo che vedo e ne approfitto per spedire le cartoline scritte nei giorni passati. Si prosegue sulla 190 sempre in direzione sud-ovest attraversando desolate dune di sabbia, rocce, pietraie senza mai vedere un filo d’erba. Il paesaggio è quanto di più arido uno possa immaginare ed il caldo si fa sentire, ma è caldo secco, e si sopporta bene: ho provato di peggio in Africa, con umidità spaventose. Le guide mettono in guardia da radiatori che bollono e da insolazioni, consigliano scorte abbondanti di acqua, ma è, secondo me, un atto di terrorismo psicologico per far apparire la cosa più avventurosa di quel che davvero è. Certo andarci in giro a piedi sarebbe tutta un’altra cosa, ma ad attraversarlo anche con la macchina scoperta è roba facile; non è particolarmente lungo, una o due ore contando le fermate per le fotografie, c’è un distributore, ci sono bar, si incontrano molte altre macchine e tanta gente, anche italiani.

Lasciata la Death Valley raggiungiamo, a Olancha, la 395, a tratti strada normale, a tratti autostrada che, andando prima a sud, poi ad ovest, poi a nord, diventa autostrada 14 e poi 58 fino a Bakersfield, a 140 metri di altitudine, dove dormiamo. In pratica abbiamo fatto un giro a sud, verso Los Angeles, attorno alle montagne della Sierra Nevada che racchiudono il Sequoia Park, meta di domani; la carta indica alcune stradine che l’attraversano, ma la saggezza di Maria ci ha consigliato la via più lunga ma più veloce. Poi è buio e, comunque, non si vedrebbe il paesaggio. Brava Maria.

A Bakersfield un’esperienza atroce: la pizza. Era tardi, tutto chiuso ma qualcosa sotto i denti si doveva mettere; unico posto trovato aperto una pizzeria. Tutte pizze dai nomi esotici e allora, tentando di capire qualcosa dai componenti, scelgo quella che sembra la meno tossica. Arriva un affare tondeggiante, sotto una roba piatta e sottile, forse cartone bruciacchiato simile a pane, sopra cinque centimetri di formaggio fuso di ignota natura e, sparsi qua e là in superficie, olive, cetrioli, peperoni sott’olio e fette di pomodoro, il tutto così gocciolante di grasso bollente che mi son macchiato i pantaloni; naturalmente tagliato a spicchi e da mangiare senza posate. Marta mi vendica giocando ad una di quelle macchinette a gettone dove devi sparare in modo opportuno a oggetti che cadono dall’alto dello schermo: al primo tentativo sbaraglia la concorrenza indigena alzando il record da trentamila a trecentomila punti e il suo nome resta immortalato nella memoria elettronica della macchina a perpetuo ricordo del suo passaggio.

Las Vegas (NE); Amargosa (NE); Death Valley (NE); Olancha (NE); Bakersfield (NE)

Miglia 2468 – Miglia 2899 – Miglia percorse 431 pari a Km 694.

Sabato 24 settembre 2011

Usciamo da Bakersfield sull’autostrada 99, a nord verso Visalia ed il paesaggio è decisamente cambiato. Sono circa centoventi chilometri attraverso ininterrotte distese di vigneti, frutteti e campi di mais. Colpa della Sierra Nevada che ferma le correnti d’aria umide che arrivano dall’oceano facendo piovere molto di qua e niente al di là, dove tutto diventa deserto. Le distanze tra centro abitato e centro abitato, pur restando considerevoli, si riducono ed il clima è più di tipo europeo: sono le dieci del mattino e ci sono 24°.

Usciti dall’autostrada, dirigiamo sulla 63 prima a nord poi a est fino a Woodlake sempre immersi in piantagioni di arance. Ora la strada diventa la 198 e comincia a salire. Dapprima sembra una delle nostre tante strade alpine che ben conosciamo, tutta curve tra alberi che sembrano i nostri, col fiume che scorre impetuoso poco sotto, tanto che uno può dire: “Bhe, tutto qui il Sequoia Park?”; poi, verso i 1500 di altezza, cominciano le sequoie e allora capisci che è tutto diverso: sberle di conifere alte cinquanta, sessanta o più metri, con tronchi dal diametro spropositato, il tutto in un penetrante profumo di resina. Il cercatore di funghi che è in me va in fibrillazione: urca, se le piante sono così grandi, qui i porcini devono essere almeno di quindici chili l’uno! Ma invece di un fungo, salta fuori un orso. Un piccolo di orso bruno che attraversa sculettando la strada e scende tranquillo nel bosco, mettendosi in posa su un tronco per farsi fotografare, e noi l’abbiamo accontentato con una decina di scatti, senza scendere dalla cabrio perché la madre potrebbe essere nei paraggi e non essere d’accordo con le nostre intenzioni. Certo le sequoie sono davvero grandi ma per capirlo devi andarci vicino perché, da lontano, non si capisce, non essendoci termini di paragone di altezza normale. Anche il Sherman Tree, una delle più grandi e vecchie, quasi quattromila anni d’età, ottanta metri di altezza, come un palazzo di venticinque piani, visibile a poche centinaia di metri dalla strada, non dà l’impressione di essere così gigantesca perché circondata da sorelle tutte sui sessanta, settanta metri.

La strada 180, dopo essere salita nel punto più alto ai 2500, prosegue ora verso ovest, costeggiando il King National Park, anch’esso saturo di sequoie, enormi seppure di dimensioni più modeste, e scende rapidamente; le sequoie finiscono, poi finisce anche il bosco di alberi normali e la strada torna a correre in piano, diritta come un fuso in mezzo a vigneti e aranceti. A Fresno si prende l’autostrada 99 che, in direzione nord-ovest, porta a Merced, a soli 100 metri di altitudine.

Bakersfield (NE); Visalia (NE); Woodlake (NE); Sequoia Park (NE); King Park (NE); Fresno (NE); Merced (NE)

Miglia 2899

Miglia 3191

Miglia percorse 292 pari a Km 470

Domenica 25 settembre 2011

Da Merced la statale 140 porta rapidamente, verso nord-est, al Yosemite Park. Come ieri, dapprima pianeggiante in mezzo a piantagioni e coltivazioni poi, entrata in California, tutta curve in salita tra boschi e pinete. Fin qui niente di straordinario, sembra un normale paesaggio alpino che noi ben conosciamo. Man mano che si sale i pini diventano sempre più maestosi, compaiono le sequoie, non gigantesche come quelle di ieri ma pur sempre di tutto rispetto. Verso i 2000 metri, quando comincia a far fresco, la strada compie un anello e mostra il bello del parco: giganteschi monoliti di roccia nuda che, come enormi panettoni, incombono con le loro vertiginose pareti verticali sul bosco; un paesaggio che ricorda un po’ le nostre Dolomiti: bosco fitto dal quale spuntano ripidissime pareti di roccia viva. Una altissima cascata, la più alta della California, in tre salti viene giù a strapiombo dalla parete di un roccione poco distante dalla strada, e tutto intorno altre altissime cascate. Molti i cartelli che annunciano la presenza di orsi, ma nessuno si fa vedere, cartelli tristi: ne mettono uno in ogni punto dove un orso è stato ucciso da un’automobile. Rispetto a ieri, orsi più riservati o più prudenti?

Terminato l’anello, proseguiamo sulla statale 120 che attraversa tutto il parco ora in mezzo ad una fitta foresta, ora in mezzo a ciò che resta di una foresta dopo un incendio, ora tagliando scoscese pietraie, ora tra rocce nude e lisce, levigate dal ghiacciaio. Uno spettacolo difficile da vedersi altrove per le brusche differenze di paesaggio concentrate in pochi chilometri. La strada raggiunge, proprio al confine del parco, i 3086 metri di altitudine del passo Tioga, con vicino un laghetto alpino circondato da gruppi di pini e la temperatura è freddina, 8° appena; fa piacere il tepore di una stufa a legna del negozietto pieno di ricordini, dove compero l’ennesima spilla per il mio cappello. Sono tremila metri sul livello del mare, ma clima e paesaggio sono dei nostri millecinque.

Ora dobbiamo fare una scelta se vogliamo questa sera dormire a San Francisco. O tornare indietro per tutta la strada fatta oggi fino ad arrivare all’autostrada, o tirare diritto, allungando decisamente il percorso, e aggirare a nord il parco. Visto che è ancora presto e ci sarà luce per almeno un’ora, decidiamo per la seconda soluzione, ed è un bene. Infatti scendiamo rapidamente fino ai 2000 metri di Lee Vining, dove vediamo dall’alto un grande lago glaciale, qualche chilometro a nord sulla 395 fino ad imboccare, a ovest, la 108. La strada ricomincia ad inerpicarsi attraverso la foresta di Toulumne fino ad un altro passo oltre i 3000 metri, il passo di Sonora,. Ancora maestosi pini e profumo di resina, panorama simile a quello di Yosemite senza però i picchi vertiginosi, ma reso suggestivo dall’imminente tramonto. Poco dopo l’abitato (si fa per dire, sono quattro case) di Sonora si ritrova la 120, ora ad una carreggiata, ora a due, che scende comoda ai 100 – 200 metri di altitudine. Inizia quindi l’autostrada verso San Francisco, molto trafficata ma scorrevole; in prossimità della metropoli le autostrade si moltiplicano in un nodo che farebbe impallidire Gordio, ma che non scompone la tranquillità di Maria. Arriviamo così in centro città dove dovrebbe esserci l’albergo economico che avevamo scelto. Per esserci, c’è ed è proprio in mezzo alla parte turistica, solo che è pieno. Vicino ce ne sono altri, ma tutt’altro che economici. Chiediamo quindi a Maria di portarci dalle parti dell’aeroporto e lì troviamo quel che fa per noi.

Merced (NE); Yosemite Park (CA); Tioga Pass (CA); Lee Vining (CA); Sonora (CA); San Francisco (CA)

Miglia 3191

Miglia 3623

Miglia percorse 432 pari a Km 695

Lunedì 26 settembre 2011

Si parte alla conquista della città con l’aiuto di una guida trovata in albergo. Strano: una guida scritta in italiano vero, non cioè quell’italiano tipico delle guide all’estero, pieno di strafalcioni di sintassi da renderlo a volte incomprensibile; leggo il nome di chi l’ha scritto: la direttrice di non so quale ufficio turistico, ma un nome squisitamente italiano. Prima di partire mi tolgo uno sfizio: colazione all’americana; uova, prosciutto, pancetta abbrustolita ed altre porcherie grasse e untuose. Arrivo stoicamente quasi a finirla, ma poi smetto perché temo sia lei a finire me; in fatto di calorie vale più di uno dei nostri pranzi ed è un insulto ai duemila anni di filosofia culinaria mediterranea ma tant’è: non si può non provare, non fosse altro che per dire: “Capisco perché qui sono tutti obesi”.

A pancia piena e con l’indispensabile aiuto di Maria ci dirigiamo verso il centro e, lungo la strada, incontriamo un amico: un vecchio tram di Milano; proprio lui, colorato di giallo con le pedane di legno che si abbassano per far salire la gente, con le scritte in italiano e lo stemma della città; ci lasciamo con la promessa che tra una settimana saluteremo i suoi fratelli rimasti all’ombra della madonnina. Girando alla cieca raggiungiamo la parte collinosa della città, con le vie strette e quasi verticali tanto son ripide, con un salto per ogni trasversale; vien voglia di buttarsi giù a rotta di collo per vedere se davvero la macchina decolla ad ogni incrocio, come vedi fare nei film, ma se davvero lo faresti, certo riaprirebbero il carcere di Alcatraz solo per te; qui la polizia non scherza, meglio lasciar perdere. Passiamo anche per gli otto tornanti di Lombard Street, ormai famosi in tutto il mondo, come Piccadilly Circus e Time Square. Finito il giretto andiamo, sempre sotto la sapiente guida di Maria, al Pier 39, il molo di Fisherman’s Wharf, paese dei balocchi per turisti: una fila ininterrotta di tavole calde, friggitorie, bar, negozi di magliette, di chincaglierie e di porcherie di ogni fatta. Proprio in fondo al molo, su alcune chiatte ormeggiate, c’è una colonia di leoni marini; penso che la locale azienda di turismo li paghi con pesce fresco perché stiano lì a fare versacci e darsi spintoni per la gioia dei turisti e delle loro macchine fotografiche.

Ora Marta si dà allo shopping sfrenato in salsa femminile: un primo minuzioso giro per osservare attentamente tutto l’osservabile e catalogare tutto il catalogabile; un secondo giro per rivedere e rivalutare quanto di meglio visto nel primo giro; un terzo giro per riempirsi di sacchetti con dentro magliette ed oggettini di poco conto da regalare ad amici e parenti lontani, i quali potranno dire con invidia: “Guarda quella stronza dov’è andata” e dimenticare la maglietta troppo larga o l’oggetto totalmente inutile in fondo ad un cassetto.

Finito il primo round di compere, ma con ancora qualche dubbio su qualche regalino non comperato, saliamo sul tram classico di San Francisco, quello piccolino che corre in salita con le persone appese fuori, trainato da un filo sotto la strada. Anche noi appesi fuori come tutti i turisti che si rispettano, arriviamo in Union Square, la piazza principale di San Francisco, la più lussuosa. Qui si comperano i regali seri, quelli per te stesso e per i parenti prossimi. Gira e rigira, compra e ricompra, sta facendosi tardi. Torniamo al Pier 39 per andare a vedere l’acquario: c’è un’enorme vasca piena di pesci con sul fondo un tunnel di cristallo dentro il quale camminano i visitatori; ti sembra di essere sott’acqua con i pesci che ti girano attorno e sopra. Suggestivo, ma chi ha visto quello di Genova dice che questo, al confronto, non è nulla. Ancora l’acquisto di una maglietta e di un oggettino, così tanto per non perdere l’allenamento; spinti dalla fame e nonostante la tremenda esperienza di due sere fa, ci infiliamo in una pizzeria; questa ha fuori scritto il nome di un italiano e, infatti, la fiducia è ben riposta: la “margarita” sembra quasi una vera pizza margherita.

Ancora un giro notturno a caso per le vie sali-scendi del centro, ancora i tornanti di Lombard Street, poi Maria ci guida senza fallo al motel di ieri sera. Stanchi più di quando abbiamo girato per parchi, ma soddisfatti: San Francisco è davvero bella.

San Francisco (CA)

Miglia 3623

Miglia 3664

Miglia percorse 41 pari a Km 66

Martedì 27 settembre 2011

Ancora una scappata al Pier 39 per l’ultimissimo regalino che ieri non c’era tempo, poi un’idea bislacca fuori dal programma ufficiale: siamo vicini alla faglia di Sant’Andrea. Possiamo non vederla? Sembra siano solo trenta chilometri a nord ma, anche se noi dobbiamo andare a sud, cosa saranno mai trenta più trenta di chilometri in più? E vada per la faglia! Invece i chilometri sono una sessantina, più altrettanti a tornare fanno oltre centoventi, tutti sulla strada 1 che, in quel tratto, è in salita, stretta e tortuosa; in più un camion insuperabile che correva come un funerale non ha certo favorito i tempi. La faglia c’è, ma non si vede: è sotto i prati e sotto un laghetto paludoso. Così siamo tornati a San Francisco che era quasi mezzogiorno. Unica nota positiva: abbiamo attraversato due volte il Golden Bridge; ma quello avremmo potuto farlo in mezzoretta risparmiando due ore e centoventi chilometri. Si riattraversa tutta la città districandoci nel gomitolo di autostrade solo grazie a Maria e, fuori città, con la 17 si punta a sud fino a Monterey, graziosissima cittadina in riva al Pacifico, patria di Zorro con un fornitissimo negozio di felpe. Si, perché da ieri mancava il regalo ad un ragazzotto che, da quel che ho capito, più che di una felpa, avrebbe bisogno di scarpate nel sedere a due a due finché non diventano dispari. Ma tant’è: dopo decine di tentativi la scelta, peraltro non convinta, è fatta e finalmente, ma sono le sedici, si riparte. Siamo ancora sulla strada 1 verso sud, che corre per lunghi tratti a mezza costa a picco sull’oceano; anche qui i paesi, a volte solo poche case, distano decine e decine di chilometri e i distributori son molto rari. Bel paesaggio ma, francamente, ho visto di meglio in Sardegna e in Corsica; qui ciò che affascina è che quello che vedi sotto è l’Oceano Pacifico. Poco dopo il tramonto, a Sant Louis Obipso, la 1 diventa l’autostrada 101 e, con relativa celerità, si arriva a Santa Barbara che son quasi le undici di notte. Lungo la strada si cena in un’altra pizzeria, ormai abbiamo fatto la pace con la categoria. Anche se il pizzaiolo non capisce e non parla una parola nella lingua di Dante, la pizzeria si autodefinisce italiana, con tanto di bandiera tricolore e foto di Venezia e Roma appese ai muri. Facciamo un po’ di confusione: ordiniamo tre pizze, il tipo capisce due e due ce ne fa pagare; quando ci serve, protestiamo: dov’è la terza? Quello balbetta una scusa, prepara subito la terza e, per farsi perdonare, vuole offrirci le bibite; noi non vogliamo strafare e ci accontentiamo di fregargli una pizza.

A Santa Barbara ci sono molti motel, ma i prezzi sono piuttosto alti, d’altro canto devi pur pagare qualcosa per la fama del nome, ma poco fuori sono più abbordabili, e per quanto più alti del nostro standard, ci installiamo in uno. Pagheremo qualcosa in più, ma vuoi mettere? Siamo a Santa Barbara, California.

San Francisco (CA); Monterey (CA); Sant Louis Obipso (CA); Santa Barbara (CA)

Miglia 3623

Miglia 4114

Miglia percorse 450 pari a Km 724

Mercoledì 28 settembre 2011

Il programma prevede una giornata sulla spiaggia al sole della California ma oggi, dopo averci accompagnato per tutto il viaggio, il sole decide di restare sopra una cortina pressoché interrotta di nuvole. Poco male: anticipiamo la visita a Los Angeles e posticipiamo il bagno. Allora giù per la 101 attraversando una sfilza di località che sembra una litania: Santa Barbara, ora pro nobis; Santa Paula, ora pro nobis; Santa Monica, ora pro nobis. Una timida apparizione di un pallido sole ci fa pensare che il tempo voglia mettersi al meglio; ci fermiamo a Santa Monica. In attesa di una più decisa e calda presenza del sole, facciamo una passeggiata sul molo dove termina, o meglio, terminava la Route 66, in questo tratto fagocitata e digerita da Los Angeles. Il molo è, manco a dirlo, un susseguirsi di negozietti per turisti. Spicca una friggitoria che prende il nome dal film Forrest Gump; la scena in cui lui, correndo per tutta l’America arriva in fondo a un molo e si gira per tornare di corsa sulla costa atlantica, è stata girata qui, il molo è questo. E qualcuno ha pensato bene di metter su una catena di friggitorie di gamberetti e chiamarla Buba Gamp, ne avevo vista una anche a San Francisco. Non manca il negozietto pieno di oggettini dedicati al famoso personaggio. Il tempo di uno spuntino e il nostro astro decide di lasciarci nascondendosi definitivamente sopra le nubi. In ogni caso, sull’arenile fanno bella mostra di sé cartelli con su scritto: divieto di balneazione, acque inquinate; sulla spiaggia non c’è quasi nessuno, salvo qualche temerario che approfitta delle onde per fare surf. Le famose spiagge della California inquinate come quelle napoletane? Da non credere!

Allora via per Beverly Hills. Fortuna che Maria conosce le strade meglio di un nativo, altrimenti non ci saremo mai arrivati. Invece eccoci nella famosa Rodeo Drive. Pretty Woman non c’è ma ci sono tutti i negozi di lusso; sembra di essere in via Montenapoleone a Milano: gli stessi negozi, e le firme italiane abbondano: Ferragamo, Gucci, Loro Piana, Fendi, Missoni, Frette, Zegna e così via. Anche le automobili non scherzano: qualche Bentley e, parcheggiata nuova nuova in vendita, una Bugatti Veyron; una macchina che fa i 400 all’ora e costa un milioncino di euro, ma non mi piaceva il colore e l’ho lasciata lì. Un salto da Tiffany e Marta si compera un anello, un giretto senza pretese in altri negozi di lusso con prezzi di lusso. Non capisco la mentalità femminile: attraversano un oceano e un continente per entrare in botteghe che possono trovare a tre fermate di tram da casa; dice che lì le cose costano meno e c’è più gusto. Sarà.

Finito col lusso, ci facciamo guidare da Maria fino a Hollywood, sulla via delle stelle, la Walk of Fame. Nomi di attori racchiusi in stelle di bronzo murate sul marciapiede, alcuni totalmente sconosciuti, atri che ricordi vagamente, altri famosissimi e, in uno slargo davanti Grauman’s Chinese theatre, le firme e le impronte di mani e piedi impresse nel cemento. Però: tanta fatica per essere tramandato ai posteri e poi il tuo nome finisce calpestato dai piedi di una folla anonima di turisti, e la folla c’è davvero, che si fa fotografare vicino alla stella del proprio idolo. Un dubbio tutto mio: passi per le stelle con i nomi in bronzo, quello è resistente, ma le impronte e le firme nel cemento, un materiale che si consuma presto; tutti i marciapiedi ogni tanto vanno rifatti, soprattutto se sono affollati come quello. Come mai le impronte di John Waine e di altri non meno famosi sono lì dal 1950, calpestate ogni giorno da migliaia di piedi e sembrano appena fatte? C’è forse il trucco? Bho, Hollywood è la patria dei trucchi.

Abbiamo sentito di un grosso centro commerciale a Beverly Hills, per l’appunto il Beverly Hills Center. Ci può mancare un centro commerciale? Non sia mai. Solo che non conosciamo l’indirizzo e Maria non può che portarci nelle vicinanze. A furia di chiedere e girare, finalmente lo troviamo. Per essere grande, è grande, quattro piani di parcheggi e quattro piani di vendita, ma da noi ne ho visti di più grandi ancora. All’interno troviamo un ristorantino, questo sì, italiano con cuoco italianissimo e mangiamo a prezzi di liquidazione roba nostrana dal gusto nostrano.

Ora è buio e dobbiamo trovare un letto. Puntiamo verso Malibù ma, temendo un colpo al portafogli, ci fermiamo poco prima, a Thousand Oaks.

Santa Barbara (CA); Santa Monica (CA); Beverly Hills (CA); Hollywood (CA); Thousand Oaks (CA)

Miglia 4141

Miglia 4283

Miglia percorse 169 pari a Km 272

Giovedì 29 settembre 2011

Non si può dire che oggi sia una giornata di sole. Andiamo a Malibù sperando che venga fuori, ma la speranza è vana. Anche Malibù non è quel granché. Una strada costiera con chilometri di villette una attaccata all’altra che non solo ti impediscono di avvicinarti al mare ma, spesso con l’aiuto di alte palizzate, ti nascondono completamente la vista dell’acqua, tanto che capisci di non essere sulle Dolomiti solo perché la strada è pianeggiante e non vedi montagne. La prossima volta a Malibù vacci tu.

Insistiamo per tentare un bagno e vedere le torrette di Baywatch e, se per caso passa di lì, anche Pamela Anderson. Proseguiamo quindi a sud addentrandoci sempre più in Los Angeles e chiediamo a Maria di portarci a Venice, il cui nome è una promessa. Lei ci porta e ci accorgiamo di essere ancora a Santa Monica, poco distanti dal molo di ieri. Il sole non c’è ma una camminata sulla spiaggia si può sempre e, anzi, si deve fare; e quando se no?. Parcheggiamo la Cabrio lungo il marciapiede in un posto a pagamento, ma non paghiamo, tanto ci fermiamo poco. Passeggiata su una spiaggia tanto immensa quanto vuota, foto sulla torretta dei bagnini ma senza Pamela, piedi a mollo, ma solo quelli perché l’acqua non è calda e continua ad essere inquinata; torniamo alla macchina nello stresso momento in cui un poliziotto sta facendo la multa: due piagnistei e risparmiamo un po’ di soldi.

Niente bagno? Allora Disneyland. Restiamo sempre a Los Angeles, ma da qui a là sono più di sessanta chilometri di autostrada a cinque corsie; il traffico è intenso ma abbastanza scorrevole, comunque è più di un’ora di macchina. Finalmente Disneyland: un immenso parcheggio, una fila di autobus che fanno la spola con le biglietterie, ottanta dollari a testa per il pacchetto più economico e ci troviamo nel regno di Topolino. Nonostante oggi sia un giovedì qualsiasi, il parco è affollato e la coda per le varie attrazioni va dalla mezz’ora in su; chissà che carnaio nei giorni di festa. È tutto un brulicare di negozietti che vendono ogni ben di Dio rigorosamente marchiato Disney e rigorosamente made in Cina. Ci facciamo l’ottovolante trenino del far west, i tronchi che scivolano nell’acqua, l’ottovolante del Cervino, che qui chiamano Matterhorn e credono sia solo svizzero, due volte un altro ottovolante, il sottomarino, il simulatore di volo tipo guerre stellari, il tutto intervallato da un bratwurst teutonico negli intenti ma molto americano nel gusto. Naturalmente ci scappa ancora qualche piccolo acquisto, giusto per non perdere l’abitudine.

Lasciamo Disneyland che è già buio e torniamo al motel di Thousand Oaks per la nostra ultima notte americana.

Thousand Oaks (CA); Malibù (CA); Santa Monica (CA); Disneyland (CA); Hollywood (CA); Thousand Oaks (CA)

Miglia 4283

Miglia 4453

Miglia percorse 170 pari a Km 274

Venerdì 30 settembre 2011

Cribbio, è davvero finita. L’ultima mesta colazione da Starbuck’s, poi di nuovo in autostrada verso il Beverly Hills Center perché abbiamo sentito che lì vicino c’è un altro centro commerciale dove vendono felpe e magliette che sembra abbiano un che di speciale. La fida Maria ci guida con sicurezza nei paraggi, ma poi dobbiamo far da soli perché non conosciamo l’indirizzo giusto. Maurizio se la cava egregiamente e riusciamo a trovare anche questo. Ultimo frenetico acquisto e via di corsa per l’aeroporto. Lungo la strada, o meglio: l’autostrada, Los Angeles ci riserva un’ultima sorpresa; d’un tratto, d’ambo i lati, finiscono le case e cominciano … i pozzi di petrolio; proprio così: quei pozzi bassi a torretta con un braccio orizzontale che oscilla su e giù movendo un contrappeso e una pompa aspirante; quattro – cinquecento metri di serbatoi e di pozzi in piena attività, poi ricominciano le case come se nulla fosse accaduto.

Dobbiamo restituire la cabrio, ma ci viene uno scrupolo: quando l’abbiamo ritirata era nera, ora è grigiastra con sbaffi rossi sui parafanghi ma, soprattutto, all’interno aveva dei normali tappetini neri, ora sono fatti di sabbia, terriccio, briciole e altre porcherie minute; non solo: da un paio di giorni ci siamo accorti che viaggia clandestinamente insieme a noi un piccolo scarafaggio, comodamente nascosto sotto i sedili posteriori; sarà forse caduto da qualche albero quando avevamo il tetto aperto?. Per il clandestino, basta che se ne stia nascosto, per lo sporco di fuori non abbiamo certo il tempo di portare la macchina a lavare, ma per i tappetini possiamo far qualcosa: li sbattiamo e li puliamo alla meglio. Per dire noi che la macchina era sporca, si può immaginare quanto davvero lo fosse! Fatte le sommarie pulizie, andiamo in coda per la restituzione e l’addetto manco guarda l’interno, si contenta di controllare che non vi siano vistose ammaccature; potevamo risparmiarci la fatica dello sbattimento di tappetini.

Ora è davvero finita: coda per il check in all’Air France per Parigi De Gaulle, controllo passaporti, duty free dove non comperi niente perché costa come fuori e non hai più posto nel bagaglio a mano. Ultimo spuntino americano, manco a dirlo un’altra pizza, che riesco a rovesciarmi sui calzoni. Il volo, seppure schiacciato tra due sedili, passa veloce tra la visione di un film e il tentativo, peraltro fallito, di un sonnellino. Il volo Los Angeles – Parigi è molto più lungo di quello Milano – New York, c’è in più da attraversare tutto il continente americano che, per farlo all’andata, ci abbiamo messo sei ore e passa, ma dura solo un’ora di più; misteri dell’aeronautica: passa più a nord e accorcia: sarà, ma non capisco bene. A Parigi La tratta da Parigi a Malpensa dura solo un’ora e mezza: un batter di ciglia in confronto a quanto già fatto, e siamo a Milano, stanchi, dispiaciuti per la fine del viaggio ma contentissimi di averlo fatto. L’ultima fatica è trascinare le valige sull’autobus che da Malpensa porta a Milano e, da ultimo, sulla metropolitana fin sotto la solita porta di casa.

Thousand Oaks (CA); Beverly Hills (CA); Aeroporto Los Angeles (CA)

Miglia 4453

Miglia 4526

Miglia percorse 73 pari a Km 117

Giornata tipo

Sveglia alle sette e mezza per esser pronti a partire alle otto; programma sempre rispettato o, comunque, con ritardi più che tollerabili.

Ricerca della colazione, quasi sempre in una bottega della catena Starbuck’s, dove ti danno una brioche che somiglia quasi ad una brioche e una passabile imitazione di cappuccino, non fosse che lo impacchettano in un bicchierone di cartone plastificato con coperchio e buchetto per bere; per non sbrodolarsi, è consigliabile infilare nel buchetto una cannuccia da Coca Cola, tanto lo pseudo cappuccino non s’offende.

A pranzo roba acquistata in supermercato, meglio se frutta, che è identica alla nostra. In America non sanno cosa siano salame e prosciutto; esistono buste con manciate di roba affettata a metà strada tra roastbeef e prosciutto cotto che risulta abbastanza commestibile. Pane indegno di tale nome. Insalate di vario tipo in comodi contenitori di plastica idonei sia per condirla, sia per rovesciarla sui sedili della macchina. Attenzione ai supermercati: ne esistono di giganteschi e, in quelli, la donna media italiana impiega mezza giornata solo per scegliere quale porcheria comperare; fatica sprecata perché le porcherie hanno tutte lo stesso gusto, cambia solo l’etichetta. Meglio negozi piccoli annessi ai distributori di benzina. Evitare i Mc Donald’s per la pericolosità dei suoi panini, causa principale dell’obesità media degli americani.

Cena, se possibile, da Denny’s per una sostanziosa e appetitosa bistecca con patate o fagiolini o altri piatti altrettanto accettabili, un giusto compromesso tra prezzo e qualità. In caso d’emergenza, chiudere gli occhi ed entrare in una pizzeria sperando di non venire avvelenati.

Scorte di acqua. Meglio quella comprata al supermercato in strani contenitori pseudo cubici da due litri; quella attinta dai rubinetti, per quanto potabile, spesso non è acqua ma cloro leggermente diluito. Attenzione: l’acqua deve essere bevuta entro quindici minuti dal suo inserimento in macchina, altrimenti il sole la fa cuocere rendendola disgustosamente tiepida.

Cabrio: scoperta a partire dai 22° esterni, che si raggiungono generalmente nelle prime ore del mattino. A sera, al primo fresco, si chiudono tetto e finestrini, tranne un filino giusto per non morire soffocati (l’aria condizionata fa venire mal di testa a uno di noi), poi si accende il giradischi con l’unico cd portato da casa e la cui parte più pregevole sono i brevi attimi di silenzio tra un fastidioso rumore a l’altro.

Maria, gentile voce femminile che, caso più unico che raro, dice in estrema sintesi e al momento giusto solo le cose essenziali, poi tace; per di più non s’arrabbia se sbagli. Quante voci di donna saprebbero fare altrettanto? Necessaria più che altro per una conferma su strade e autostrade, basta una tradizionale carta stradale tanto città e incroci sono rari; quasi indispensabile per muoversi nelle grandi città e utilissima la sera per trovare alberghi senza girovagare alla cieca. Preziosa compagna di viaggio.

Albergo: se possibile, catena di motel 6, altrimenti qualcosa di similare, se non nella qualità, quanto meno nel prezzo. Se non lo si trova al primo colpo, non disperare e cercare in giro, ce ne sono molti.

Considerazioni finali

L’impressione più significativa che questa parte d’America ti lascia è la vastità degli spazi. Pianure, o meglio altipiani, sconfinati e spopolati, attraversati da strade con rettilinei che si perdono all’orizzonte in mezzo al nulla; decine, decine e decine di chilometri prima di trovare un piccolo centro abitato, spesso poche case, un negozietto e un distributore di benzina, un fast food, strade e autostrade dove manca completamente il concetto di autogrill. Vastità che si manifesta anche nella natura: il Gran Canyon è davvero imponente, il Bryce spettacolare nella sua vastità, la monumentale Monument Valley, e gli altri non sono da meno, foreste gigantesche, e non solo le sequoie, orsi in libertà a portata di sguardo. Le coltivazioni sono sconfinate: chilometri e chilometri quadrati di pianura a piantagione, vigneto, grano, ortaggi; si capisce perché le produzioni agricole e vinicole della California siano così abbondanti.

Le città sono del tutto diverse dalle nostre. Anzitutto non hanno un centro storico per il semplice fatto che non hanno storia: sono nate tutte nella seconda metà dell’ottocento durante la corsa all’ovest; costruzioni degli anni trenta sono già considerate monumenti storici e quel poco di “vecchio” che hanno, baracche in legno della fine ottocento, è per lo più rifatto di recente come scenario per le fotografie dei turisti locali. Non avranno un centro storico, ma sicuramente hanno almeno un centro commerciale. L’abbondanza di spazio disponibile comporta anche la larghezza delle strade, la dimensione e il numero dei parcheggi; la distanza tra una casa e l’altra, l’altezza stessa della case, quasi tutte villette mono familiari di uno o due piani al massimo con giardino e autorimessa, richiedono molto spazio, pochissimi i condomini cui le nostre città ci hanno abituati.

Poi la gente: con la logica eccezione dei luoghi turistici, non si vedono i marciapiedi affollati, i bar dove non riesci a sederti e la concentrazione di persone cui siamo abituati. Ma la gente stessa è fisicamente diversa. Una quantità impressionante di obesi, più donne che uomini, molti giovani o giovanissimi, dalla stazza intorno ai duecento chili; addirittura alcuni girano per strada seduti su quelle sedie a motore per disabili, a Disneyland le noleggiano apposta; i sovrappeso sono la norma, i magri l’eccezione. Per capire il perché basta entrare in un fast food e calcolare a mente le calorie di ogni piatto; in molti locali, se prendi qualcosa da mangiare, ti danno gratis quanta coca cola o altre bibite gassate vuoi, basta andarsi a riempire il bicchierone. Hanno addirittura dato il nome di “Fatburgher” ad una catena di “ristoranti”.

Più in particolare il nostro viaggio. Tutto bellissimo ma, se dovessi rifarlo, cambierei qualcosa.

Salterei il Gran Canyon West; certamente bello, ma meno bello ed imponente del South, la passerella è curiosa ed affascinante, ma troppo corto il tempo per percorrerla e goderne lo spettacolo in confronto al tempo della deviazione per arrivarci, e spropositato il costo. Al suo posto visiterei qualcuno dei canyon o parchi “minori” cui siamo passati vicino senza aver avuto il tempo di entrarci.

Dedicherei più tempo ai posti davvero unici, magari con qualche passeggiata sui numerosi sentieri: Gran Canyon, Antelope, Monument Valley, Bryce, Death Valley, Sequoia e meno tempo a quelli, pur sempre bellissimi, ma più “europei”: Zion e Yosemite.

Salterei la costa pacifica da San Francisco a Los Angeles: ne abbiamo di altrettanto belle, se non più belle, a portata di mano in Italia. Acquisterei invece una giornata di sole per le spiagge di Santa Barbara e Santa Monica, che promettevano bene anche senza sole; sempre col tempo adatto ai bagni, andrei a vedere Long Beach, ma lascerei perdere Malibù; peccato per l’acqua inquinata.

Cosa m’è piaciuto di più? Classifica difficile per l’estrema differenza della natura in posti peraltro geograficamente vicini; nelle loro differenze, tutti i canyon e parchi naturali sono indimenticabili. La giornata più bella è forse la terza, con l’Antelope e la Monument Valley.

Tra i “prodotti” umani Las Vegas è talmente pazza e di cattivo gusto che non si può non vederla per una notte e fuggire via; San Francisco è bellissima e da sola richiederebbe la permanenza di qualche giorno; Los Angeles, al contrario e con poche eccezioni, è monotona ma merita comunque di provare la sua immensità e visitarne le spiagge.

Sono stato felice? Esiste l’equazione Felicità = Realtà/Aspettativa; l’aspettativa era alta, ma la realtà lo è stata di più: il risultato della frazione è decisamente superiore a uno, che vuol dire certamente molto felice. Adesso ho un cappellino con ventuno spille e posso dire di essere stato in tutti quei magnifici posti in allegra compagnia.

Spese

1 euro = 1,3388 dollari all’1 ottobre 2011

ingressi a testa grand canyon west $201,00 € 150,13 € 50,04

Antelope $78,00 € 58,26 € 19,42

Abbonamento parchi $80,00 € 59,76 € 19,92

Monument $15,00 € 11,20 € 3,73

Disneyland $240,00 € 179,27 € 59,76

Acquario $51,00 € 38,09 € 12,70

totale ingressi $665,00 € 496,71 € 165,57

Alberghi a camera:

Los angeles $119,60 € 89,33 € 44,67

kingman $77,12 € 57,60 € 28,80

Page $283,00 € 211,38 € 105,69

Parowan $110,00 € 82,16 € 41,08

Las vegas $154,56 € 115,45 € 57,72

Bakervile $89,96 € 67,19 € 33,60

Merces $95,76 € 71,53 € 35,76

San francisco $143,58 € 107,25 € 53,62

San francisco $143,58 € 107,25 € 53,62

Santa barbara $186,00 € 138,93 € 69,47

Thousand Oaks $106,96 € 79,89 € 39,95

Thousand Oaks $106,96 € 79,89 € 39,95

totale alberghi $1.617,08 € 1.207,86

Dettaglio spese a testa nolo automobile $552,00 € 412,31 € 137,44

Alberghi $1.617,08 € 1.207,86 € 402,62

Ristoranti – fast food $645,00 € 481,77 € 160,59

Supermercati – bar $506,00 € 377,95 € 125,98

Benzina $653,87 € 488,40 € 162,80

Ingresso parchi $665,00 € 496,71 € 165,57

totale spese $4.638,95 € 3.465,01 € 1.155,00

Statistiche

Percorrenze 1 miglio = 1,60934

Chilometri da a miglia – chilometri

Domenica 18 settembre 2011 696 703 7 11

Lunedì 19 settembre 2011 703 1.191 488 785

Martedì 20 settembre 2011 1.191 1.528 337 542

Mercoledì 21 settembre 2011 1.528 2.098 570 917

Giovedì 22 settembre 2011 2.098 2.468 370 595

Venerdì 23 settembre 2011 2.468 2.899 431 694

Sabato 24 settembre 2011 2.899 3.191 292 470

Domenica 25 settembre 2011 3.191 3.623 432 695

Lunedì 26 settembre 2011 3.623 3.664 41 66

Martedì 27 settembre 2011 3.664 4.114 450 724

Mercoledì 28 settembre 2011 4.114 4.283 169 272

Giovedì 29 settembre 2011 4.283 4.453 170 274

Venerdì 30 settembre 2011 4.453 4.526 73 117

Totale 3.830 6.164

Giorni effettivi di permanenza: 12

Chilometri/giorno 513

Benzina consumata 617 litri

Consumo medio 9,99 Km/l

Prezzo medio benzina 1,06 $/l (pari a 0,76 €/ l)

Costo medio giornaliero viaggio 385,15 $ (128,39 $ a testa pari a 95,90 €)

Costo medio giornaliero alberghi 134,76 $ (44,92 $ a testa pari a 33,55 €)

Costo medio giornaliero viveri 95,92 $ (31,97 $ a testa pari a 23,88 €)



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