Viaggio nel Far West americano

In auto da San Francisco a Los Angeles, attraverso 11 parchi nazionali del Southwest degli Stati Uniti, percorrendo 4.500 chilometri
Scritto da: andremary
viaggio nel far west americano
Partenza il: 16/08/2016
Ritorno il: 04/09/2016
Viaggiatori: 4
Spesa: 4000 €
Viaggio nel Far West americano

Protagonisti

Due coppie “rodate” nei viaggi itineranti: Marilena e Andrea, Mariella e Riccardo, età compresa tra 58 e 63 anni, di Pesaro.

Il progetto del viaggio

Il grande viaggio lungamente sognato inizia a prendere forma a gennaio 2016, quando si comincia a raccogliere informazioni e documentazione dai siti internet e da agenzie di viaggio.

Nel corso della ricerca, approfondendo la conoscenza dei territori interessati attraverso la lettura di reportage di viaggio, guide turistiche e l’esame delle mappe stradali, emergono alcune evidenze:

– Le cose da vedere sono moltissime e tutte di grande interesse;

– Il mezzo indispensabile per visitare il maggior numero di siti consentendoci una discreta libertà di movimento e una relativa flessibilità di scelta dei percorsi è l’automobile a noleggio;

– È prevedibile una forte affluenza turistica estiva, specie in alcuni parchi, e quindi è bene evitare il periodo di punta, che va dal 15 luglio al 15 agosto.

– È opportuno prenotare per tempo il volo e i pernottamenti presso gli alberghi meglio collocati nei punti di accesso ai parchi, per garantirsi anche costi più contenuti;

– Bisogna considerare una durata del viaggio di almeno 20 giorni, per ottimizzare le tappe, le permanenze nei siti, l’adattamento al fuso orario, e ammortizzare i costi del volo.

Ai fini della progettazione del viaggio, la documentazione risultata utile è la seguente:

– Carta stradale Michelin n. 585 – USA West

– Reportage di viaggio scaricati dal sito “Turisti per caso”

– Materiali scaricati dai siti dei Parchi nazionali

– Distanze chilometriche e tempi di percorrenza delle tappe, ricavati dal sito internet della Michelin.

Mediando tra le preferenze e gli impegni dei quattro viaggiatori, stabiliamo il periodo compreso tra il 16 agosto e il 4 settembre. In questo ambito temporale, definiamo alcune ipotesi di percorso con relativi tempi di sosta nelle varie tappe. Si individuano inoltre gli alberghi preferiti per caratteristiche e localizzazione, con relativi costi, facendoci una prima idea del budget economico da impegnare.

Una volta individuato il percorso prescelto, lo sottoponiamo ad alcune agenzie turistiche della città, per verificarne la fattibilità, le alternative e i costi che ci verranno proposti, da confrontare con i conti che abbiamo ipotizzato.

Scegliamo di affidarci ad una delle agenzie consultate, sia per i costi risultati più convenienti, sia soprattutto per la conoscenza diretta dei luoghi che il gestore dell’agenzia mostra di avere, intrattenendoci con miriadi di informazioni e aneddoti di viaggio.

A conti fatti i costi degli hotel che ci propone l’agenzia risultano un po’ inferiori a quelli che figurano nei siti internet degli stessi alberghi. Evidentemente il tour operator gode di tariffe agevolate presso alcune catene di hotel. Mediamo con l’agenzia la scelta di alcuni alloggi e quindi fissiamo il percorso di viaggio definitivo, affidando al sig. Marino la prenotazione del volo, dell’auto a noleggio, degli hotel.

La preparazione al viaggio

Ai primi di marzo abbiamo tutte le prenotazioni, saldiamo un anticipo all’Agenzia, e stiliamo l’elenco delle cose da fare, cadenzate secondo una scaletta temporale:

– Assicurazione per i casi di rinuncia forzata al volo – in agenzia;

– Compilazione telematica del permesso di accesso turistico in USA (ESTA) – costo di 14 euro a testa – in agenzia;

– Verifica validità passaporto con marcatura elettronica, presso Questura;

– Assicurazione sanitaria (ca. 100 euro a testa con massimale di copertura di 250.000 euro) – in agenzia;

– Abilitazione tessere bancomat all’utilizzo in USA – in banca;

– Attivazione seconda carta di credito con massimale elevato temporaneamente, a garanzia di eventuali furti, smarrimenti, smagnetizzazioni, e per eventuale blocco a garanzia di noleggio auto e pernottamenti (la C.C. è richiesta al check in di tutti gli hotel);

– Prenotazione collocazione posti in aereo – in agenzia;

– Acquisto lucchetti per valige, ispezionabili da autorità USA;

– Acquisto adattatori spine elettriche a due lamelle;

– Prenotazione valuta in banca;

– Verifica validità patente, carta di identità, tessere sanitarie;

Nel frattempo si cerca da arricchire il bagaglio informativo sugli aspetti pratici specifici del territorio e sugli aspetti turistici da privilegiare nel viaggio. Molto utile e interessante si rivela la guida Routard blu – USA Ovest – Parchi Nazionali, consigliata anche da viaggiatori che hanno lasciato testimonianze di viaggio sul sito di “Turisti per caso”. Acquistiamo anche la recentissima (giugno 2016) guida Lonely Planet USA West, ma restiamo delusi dalla sommarietà delle info relative ai parchi.

Occorre dimensionare il bagaglio considerando le diverse esigenze di vestiario: il ricambio per 20 gg. di viaggio itinerante, i cambi climatici tra i diversi siti che comportano escursioni termiche da 10 a 50 gradi centigradi, i percorsi a piedi cittadini e le escursioni in terreni montani accidentati. Ma occorre anche contenere i volumi e i pesi di bagagli che vanno spostati e sollevati quasi tutti i giorni, ed anche la necessità di trovare rapidamente in valigia l’indumento ricercato. Optiamo per una soluzione che, anche a posteriori, si rivela valida: due valige del tipo morbido a coppia, una di dimensioni medie ed una piccola (tipo bagaglio a mano), entrambe con 4 ruote piroettanti e maniglione retraibile.

Per stare nei volumi disponibili la dotazione minima necessaria di vestiario, per viaggiatore maschio, è la seguente:

– 2 pantaloni corti e 2 lunghi di foggia comoda e con più tasche;

– 2 camicie a maniche lunghe e 2 maglie polo;

– 10 magliette a maniche corte;

– 5 magliette “della salute” e 6 mutande;

– 6/8 paia di calzetti corti e 4 lunghi;

– 1 felpa;

– 1 giacca impermeabile con cappuccio;

– 1 berretto con visiera;

– 1 paio di ciabatte di plastica;

– 2 paia di scarpe comode e già “rodate”, 1 del tipo Snikers per percorsi urbani e piani, 1 paio più robusto e tecnico per le escursioni più accidentate e i climi montani.

Per le donne, che in genere utilizzano tessuti più leggeri, il numero di capi consentiti è maggiore.

Tale dotazione richiede naturalmente almeno una tappa di lavaggio intermedia al viaggio che, all’atto pratico, si rivela molto semplice e anche piacevole, in quanto gli alberghi e i motel sono dotati di un locale lavanderia con macchine lavatrici e asciugatrici a gettone e dispenser di detersivi, ed inoltre le camere sono dotate di asse e ferro da stiro.

Questi volumi di vestiario consentono inoltre di riservare spazio in valigia per gli acquisti e i regali che inevitabilmente si accumulano nel corso del viaggio.

Definiamo inoltre una lista di farmaci che possono risultare utili: antipiretico, antidolorifico, antispastico, disinfettante urinario, pomata dermatologica a base di cortisone, collirio anti-infiammatorio, supposte glicerina, antidiarroico, antibiotico per uso generale, anti-istaminico, schiuma o pomata per distorsioni e dolori articolari, gocce per il male d’orecchi, pomata per puntura di insetti, bende e cerotti.

Per contenere i volumi si ripartiscono i prodotti tra le due coppie, evitando di portare doppioni.

Ci dotiamo inoltre di un piccolo borsello con cinghia a tracolla e vari comparti interni con cerniere, da portare costantemente addosso con documenti e denaro, per esigenze di sicurezza e pronta disponibilità.

Quindi, mentre nel portafoglio che normalmente sta nella tasca posteriore dei pantaloni, possibilmente chiusa con bottone, si tengono le carte di credito, i bancomat, la carta di identità, la tessera sanitaria, e il denaro di uso corrente, nel borsello trova posto il passaporto, l’ESTA, la fotocopia dei documenti di identità, delle tessere magnetiche, i codici di sicurezza delle tessere, copia del documento di volo, la riserva di contante, la tessera Pass dei Parchi Nazionali.

Tale disposizione dei documenti e dei valori è risultata sicura e funzionale, in ragione del fatto che, in tutti gli alberghi viene richiesto, al momento del check in, il passaporto e la carta di credito (come garanzia). All’ingresso di tutti i Parchi, inoltre, è richiesta la tessera Pass e il passaporto, mentre per gli acquisti con CC, viene spesso richiesto il passaporto.

Indispensabili gli occhiali da sole e almeno una fotocamera di uso agile, robusta, con zoom e grandangolo, possibilmente con filtro UVA. In alternativa uno smart phone con buona definizione di immagine e adeguata capienza di memoria, perché in questi posti non si può fare a meno di scattare moltissime foto.

È utile anche un quaderno di viaggio, dove annotare percorsi, località, chilometraggi, indirizzi di siti, ecc. e dove riporre, in apposita tasca, i biglietti, gli scontrini, le tessere, le carte intestate degli hotel e i tanti piccoli stampati che si raccolgono durante le visite, e che possono essere utili a comporre la memoria del viaggio (se si ha interesse a farlo, naturalmente).

Riguardo ai cellulari, non attiviamo nuovi appositi contratti telefonici, ma ci limitiamo a potenziare il credito con una scheda pre-pagara aggiuntiva, e usiamo giornalmente messaggi whats App. Ai familiari a casa lasciamo i recapiti telefonici di tutti gli alberghi prenotati e le date di permanenza.

Diario di viaggio

Martedì 16 agosto: volo Bologna – San Francisco

Tutto OK per il disbrigo delle pratiche di imbarco e partenza in orario (8,15) per Londra. L’arrivo pare un po’ difficoltoso, in quanto l’aereo sorvola più volte l’aeroporto prima di atterrare, con ritardo, a Heathrow. Il terminal 5 e piuttosto caotico e di difficile comprensione nei percorsi. Dopo i controlli di sicurezza, giro consueto nel Duty free, piuttosto scontato e costoso, per raggiungere il gate della British Airways con discreto anticipo. L’attesa della partenza si rivela infinita per i continui rimandi di orario, causa avaria ai flaps dell’aereo, un Airbus A 380 piuttosto recente come costruzione. Partiamo infine con 3 ore di ritardo, per un volo di circa 9 ore di durata. L’aereo è enorme (i sedili sono distribuiti su due piani) e ben dotato di servizi. Ogni sedile dispone di proprio computer di viaggio, con ricca scelta di programmi, videogiochi e film recenti. Tre giri di distribuzione di cibo e bevande ci saziano abbondantemente e la qualità non è malvagia. Tra un film e uno spuntino, si riesce anche a fare qualche dormitina, quindi il lungo volo sarebbe anche abbastanza gradevole e riposante, se non fosse per la temperatura dell’aria, che è decisamente bassa e obbliga a tenere addosso la felpa, la giacca impermeabile e anche la copertina di pile che ci viene fornita.

Atterriamo a S. Francisco alle 19 circa. Formalità di sbarco e ritiro bagagli abbastanza rapidi e poi taxi fino all’Hilton Financial District, un grande albergo un po’ datato e anonimo che occupa un mezzo grattacielo di cemento e vetro in posizione abbastanza centrale. La camera ha, stranamente, un unico letto ad una piazza e mezza e il condizionatore è acceso “a palla”, nonostante la temperatura esterna sia di 13 gradi.

Non abbiamo fame, a causa dello sconvolgimento degli orari e dei pasti fatti in aereo, ma facciamo un’uscita in città attraversando il quartiere di Chinatown, semideserto e piuttosto buio. Il primo impatto con la città non ci entusiasma, ma i giudizi sono condizionati dalla stanchezza e dal freddo che abbiamo accumulato.

Mercoledì 17 agosto: San Francisco

Abbiamo puntato la sveglia alle 7 ma siamo già svegli da un po’ di tempo in quanto la notte è stata un po’ travagliata, causa il fuso, il freddo, e anche il rumore dell’ascensore che è attiguo alla camera. Un rapido sguardo alla tipologia di colazioni offerte e ai costi, ci fa decidere a ricercare una soluzione esterna all’albergo. Troviamo un discreto posticino che propone vari tipi di muffin, brioche, yogurt con frutta, oltre ai consueti bicchieroni di caffè e bibite. Ce la caviamo con circa 10 dollari a testa.

Tornati in hotel, consultiamo mappe della città e mappe di mezzi pubblici per decidere il percorso di visita.

Partiamo a piedi verso i quartieri residenziali alti per poi raggiungere la zona dei moli. Attraversiamo paesaggi urbani visti tante volte nei film americani, le strade in forte pendenza con in fondo il mare, schiere di casette basse, prevalentemente di legno dipinto, pali della luce di legno che sopportano grovigli di cavi elettrici e trasformatori, i tipici tram old style, con i passeggeri aggrappati a pali e balaustre esterni.

Raggiungiamo Lombard street nel suo tipico tratto a serpentina che scende in mezzo ad aiuole di ortensie e fiori vari. Qui i turisti si cominciano a vedere, e di tutti i colori. Dopo le immancabili foto, da varie angolazioni, scendiamo verso il mare, al Fisherman’s wharf, l’area più turistica, ricca di locali, negozi e ristoranti, barche e navi storiche ormeggiate, porticcioli, banchine di legno, bandiere al vento e leoni marini che oziano sui loro zatteroni di legno. Ci fermiamo a mangiare in una famosa panetteria che produce in continuazione, in un laboratorio a vista, il tipico pane di S. Francisco, a pasta acida.

Giro al Pier 39, con i suoi molteplici negozi di souvenir, poi percorriamo tutta la zona dei vecchi moli commerciali, in gran parte in disuso con i loro magazzini di legno vuoti, e raggiungiamo Market street, l’arteria cittadina più movimentata, dove si susseguono banche e negozi di livello. Curiosiamo tra negozi di abbigliamento per trovare jeans e magliette della Levi’s a buon mercato, ma, niente da fare, i prezzi sono più alti che da noi. A Union square prendiamo un taxi per Coit Tower, la torre a forma di accendino, per vedere panorami della baia, ma è troppo tardi per la visita e ci accontentiamo delle vedute dalla collina, da cui discendiamo per una lunga scalinata in mezzo a ville e giardini. Passiamo per Levi’s plaza, dove si trova la sede storica della ditta, struttura in mattoni a vista, bella e ben tenuta, e poi ci avviciniamo all’Hotel, fermandoci a mangiare in un locale che fa Tapas. Qualità discreta e simpatica cameriera (ragazza slava che stà girando il mondo mantenendosi con lavori stagionali), ma prezzi eccessivi rispetto alle quantità. La stanchezza si fa sentire ed anche il fuso orario, per cui ci ritiriamo in camera, ora finalmente un po’ meno fredda.

Giovedì 18 agosto: San Francisco

Colazione nello stesso locale di ieri; è un posticino semplice e tranquillo con personale multietnico cortese e svelto. Decidiamo di visitare i quartieri residenziali più interni rispetto alla costa e più caratteristici per storia e aspetti socio-culturali. Partiamo da Mission, sede dei primi insediamenti di coloni spagnoli e poi messicani del ‘700, e ci facciamo portare da un taxi a Mission Dolores, la chiesa e l’insediamento più antico della città, con affreschi, decorazioni dorate, vetrate colorate, e reperti dell’epoca. La chiesa è circondata da un piccolo cimitero storico alberato e l’insieme è abbastanza suggestivo. Il quartiere appare molto vasto e tranquillo, con casa basse e un reticolo di strade senza fine. Cerchiamo la zona dei murales di protesta degli anni ’70, ma fatichiamo ad orientarci nel quartiere che non ha punti di riferimento individuabili. Troviamo finalmente una piccola strada secondaria dove pareti di case, porte di garage e muri di giardini sono tapezzati di disegni colorati. I dipinti sono manifestazioni di avanguardie artistiche, culturali e politiche che hanno animato la città negli anni 60-80, e che hanno connotato la città come centro della controcultura e del non convenzionale. Belli i dipinti e i messaggi che trasmettono ma il contesto urbano è un pò trasandato e in alcune parti fatiscente. Passiamo dalla “casa delle donne”, un edificio interamente affrescato che rappresenta una realtà di supporto sociale alle problematiche della donna e dell’infanzia, e appare come una esperienza assistenziale forse unica nella società statunitense.

Non proseguiamo oltre in questa zona e decidiamo di tornare verso il centro cittadino, per poi dedicare il pomeriggio al Golden Gate, e proviamo l’esperienza della Metro cittadina, il BART. Il sistema dei trasporti pubblici non è semplice da comprendere, sia nei percorsi che nelle modalità di pagamento, e l’attraversamento della città richiede comunque il cambio di più mezzi. Scendiamo su Market street in corrispondenza del capolinea del Cable Car, ma la fila di persone in attesa ci fa desistere, poi, a Union square, prendiamo un bus turistico che ci porta gratuitamente alla zona dei moli. Affrontiamo il giro del ponte con bici a noleggio così, indossiamo il caschetto e, con la mappa del percorso, partiamo lungo la costa in un saliscendi piuttosto lungo, con salite impegnative in prossimità della rampa di accesso al ponte.

Il Golden Gate si svela gradatamente man mano che ci si avvicina, ma la visione completa dei piloni non è possibile, sono troppo alti! La struttura del ponte è affascinante per le dimensioni, lo stile vagamente Art Deco e per il colore arancio-amaranto molto singolare. La massa dei ciclisti è notevole ma si scorre bene lungo la passerella riservata al percorso ciclabile. Gradevole è poi la discesa verso Sausalito, località balneare graziosa ed elegante, da cui partono i traghetti di ritorno alla città. La traversata in battello regala belle visioni del ponte, dell’isola di Alcatraz e lo skyline della città vista dal mare.

Chiudiamo con cena al Crab House, sul Pier 39, dove facciamo l’esperienza della zuppa di granchio e del granchione bollito del Pacifico, con salsa all’aglio. Non male i sapori ma a fronte di un gran lavoro di tenaglie per estrarre il commestibile da zampe e chele, il ricavato non è poi molto abbondante. L’ambiente è comunque gradevole e gli aromi di pesce sono forti.

Venerdì 19 agosto: da San Francisco al parco delle Sequoie

Chilometri di percorso: 400

Dopo la colazione al solito baretto, prendiamo il taxi per l’aeroporto con tutti i nostri bagagli. La destinazione è l’agenzia di noleggio “Alamo”, in sede attigua all’aeroporto.

Come preannunciato dall’agenzia di Pesaro, l’addetto al bancone prova in tutti i modi a venderci un’auto di categoria superiore e con coperture assicurative maggiorate, ma noi resistiamo e, a posteriori , possiamo dire di aver fatto bene. Poi passiamo al garage per la scelta dell’auto, dove scopriamo di essere liberi di provare, confrontare, valutare capienze, comodità e chilometraggi delle auto disponibili nella stessa categoria. Scegliamo una Ford Escape (analoga ad una Ford Kuga commercializzata in Italia) di colore bianco (scelta azzeccatissima !). Miglia segnate a contachilometri: 17.593.

Carichiamo e partiamo con l’auto che viene registrata semplicemente con la lettura di un codice a barre all’uscita dalla rimessa.

Mentre Riccardo, già esperto di auto a cambio automatico, affronta gli svincoli dell’aeroporto, Mariella e Marilena cercano di attivare il navigatore satellitare. L’operazione si profila complessa, ma è un problema di inesperienza su questi dispositivi, e presto la “signorina” comincia a darci le indicazioni stradali in italiano. Allontanandoci dalla baia di S. Francisco, il paesaggio dell’entroterra si fa arido e desolato, fino a quando ci avviciniamo alla Sierra Nevada, la catena montuosa parallela alla costa dove si trovano i primi grandi parchi nazionali: lo Yosemite e il Sequoia, dove siamo diretti.

Gli accessi stradali possibili sono due, uno più a nord, attraverso la statale 180, da Fresno, ed una più a sud (statale 198) da Three Rivers. Avendo noi l’albergo prenotato in quest’ultimo paese, ed avendo a disposizione mezza giornata per la visita al parco, prendiamo l’accesso sud, pensando di avere tempo sufficiente per visitare i punti salienti del parco, in particolare patriarchi arborei, e tornare allo stesso punto di accesso, presso cui abbiamo l’alloggio. In realtà l’ingresso del parco è a circa 500 metri di altitudine, in ambiente pietroso e con vegetazione rada, ma l’area delle foreste si estende a circa 2000 metri, e quindi occorre percorrere una lunga strada molto tortuosa e ripida per arrivare alla prima sequoia gigante, il generale Sherman, raggiungibile con un sentiero pedonale ben delimitato, ma che impegna tempo per la visita. La visione e il contatto con questi alberi straordinari stupisce e affascina; la sensazione di essere piccoli e insignificanti di fronte a giganti millenari, incute un po’ di soggezione. Si ammira la foresta in silenzio, avendo la percezione di essere in un ambiente fragile, che la siccità degli ultimi anni, il fuoco, l’invadenza degli uomini, potrebbero compromettere o addirittura distruggere facilmente. Gli alberi secchi e sofferenti sono tanti, specie alle quote più basse, e l’area è a rischio di disseccamento progressivo.

Il tempo vola e non ci consente di percorrere altri sentieri della foresta che sembrano bellissimi. Inoltre, dalle mappe che ci hanno consegnato all’ingresso del parco, ci rendiamo conto che l’altra sequoia millenaria, il generale Grant, alta più di 100 metri, è ancora molto distante e vicina all’ingresso nord del parco. Purtroppo, nonostante ci siamo documentati con due guide turistiche e vari reportage di viaggio, non abbiamo trovato indicazioni attendibili sulla dimensione del percorso di visita e quindi il tempo programmato per questo parco è risultato insufficiente. Un suggerimento da dare a chi proviene da nord, come noi, è quello di entrare dall’accesso nord (statale 180), percorrere la foresta verso sud, fermandosi ai vari punti di interesse,e uscire dal parco a Three Rivers, dove pernottare.

Si rileva inoltre che le guide da noi consultate sono molto povere di informazioni riguardanti un parco che meriterebbe maggiori attenzioni.

All’ingresso del parco acquistiamo per 80 dollari la tessera di accesso a tutti i Parchi Nazionali degli USA; l’Interagency Annual Pass è indispensabile e molto conveniente per chi vuole visitare queste meraviglie della natura, in quanto da diritto a mappe e materiale illustrativo molto dettagliato e, in alcuni casi tradotto in italiano. Con il Pass si utilizzano inoltre gratuitamente i bus navetta che percorrono la viabilità interna ai parchi interdetta alle auto private.

Il Best Western Holiday Lodge di Three Rivers, è un motel modesto ma comodo, mentre la cena in un locale molto americano, che sembra fermo agli anni ’60, è molto piacevole, con hamburger e patatine servite da cameriere molto “pittoresche”.

Sabato 20 agosto: dal Sequoia alla Death Valley

Chilometri di percorso: 500

Oggi è il mio compleanno e non penso che potrei festeggiarlo in circostanze migliori.

Colazione frugale in motel quindi giro allo store di Three Rivers, dove compriamo il contenitore in polistirolo per tenere in fresco l’acqua, il ghiaccio, bottigliette e tanica d’acqua da 10 litri, succhi di frutta e panini per un pranzo veloce di viaggio, che si prevede lungo e impegnativo, soprattutto per il clima che troveremo procedendo verso la Death Valley. In effetti il paesaggio si fa progressivamente più desolato e desertico, a parte una deviazione che facciamo per attraversare le ultime propaggini meridionali della Sierra Nevada, passando per il Lake Isabella, un invaso artificiale con un paesello misero e spopolato, dove l’unico angolo di vita è un enorme supermercato nel quale sembra che gli abitanti siano tutti lì, a comprare cibi confezionati e bevande multicolori.

Ci fermiamo a mangiare i panini in un modesto parco pubblico e poi riprendiamo il viaggio verso uno dei luoghi più caldi della terra, percorrendo interminabili strade diritte in mezzo ad un deserto che muta continuamente per tipo di terreno e per i colori che le sabbie e le rocce assumono in relazione alla esposizione al sole. Sembra di essere su marte, se non fosse per i radi cespugli e le piante grasse che punteggiano le pianure disabitate. Dopo alcune ore di queste vedute appaiono improvvisamente le palme, alcune abitazioni, prati verdi. No, non è una allucinazione, è un’oasi vera e propria, chiamata Furnace Creek, dove si trova il nostro albergo. È un grande Rance in stile western, con piscina, campo da golf, vecchia locomotiva e vecchie diligenze: la visione è un po’ surreale e la temperatura, vicina ai 50 gradi, non è poi insopportabile, grazie alla estrema secchezza dell’aria.

Avvicinandosi l’ora del tramonto, decidiamo di andare ad ammirarlo in un posto mitico, che dovrebbe essere lì vicino: Zabrinsky Point. In effetti, a pochi minuti di macchina, ci fermiamo all’apposito parcheggio e una breve salita a piedi ci porta sulla cima di una collinetta da cui si apre un panorama magico, con luci e colori caldi in un silenzio assoluto. Intorno, picchi rocciosi e calanchi dai colori chiari e scuri, come se fossero stati macchiati. E’ una emozione grande vedere calare il sole su questo paesaggio inaspettato, dove si sta veramente bene, in tutti i sensi .

Rientriamo in hotel che è quasi buio e ceniamo al ristorante western, con ottima carne di manzo e una grande coppa di gelato. Poi… regalini di compleanno a sorpresa.

Domenica 21 agosto: da Death Valley a Las Vegas

Km. 230

Dedichiamo la mattinata ai giri nella valle e il pomeriggio al viaggio verso Las Vegas.

La giornata è magnifica, il sole scotta ma la temperatura dell’aria è sopportabile. Facciamo colazione al locale in stile Country dell’Hotel, con cameriere attempate in tenuta jeans dai modi bruschi, ma veloci e cortesi. Scendiamo lentamente per una grande vallata desertica fino a Badwater, il punto più basso d’America (86 metri sotto il livello del mare). Siamo sul fondo di un antico lago salato, dove è rimasto solo il sale. Dopo una larga pedana di legno che fa da ponte su piccoli stagni, si cammina su uno strato di sale verso l’infinito. Anche qui il silenzio, la vastità del luogo, la mancanza di un’orizzonte, danno una sensazione di sperdimento mai provato, ma piacevole. Tornando indietro per la stessa strada, prendiamo la deviazione per “Palette of colors”, un percorso a senso unico che si addentra in un’area di colline rocciose di vari colori, dove dobbiamo fermarci più volte per ammirare e fare foto. proseguendo per la strada principale che riporta a Furnace Creek, prendiamo la deviazione per Golden Canyon. Nell’apposito parcheggio troviamo cartelli che illustrano un percorso a piedi di risalita del canyon, di 30 minuti, fino ad una parete di roccia colorata chiamata “la Cattedrale”. L’euforia per i luoghi straordinari che stiamo visitando ci fa dimenticare le condizioni climatiche del luogo e l’ora prossima al mezzogiorno; così entriamo nel canyon lasciando in auto le scorte d’acqua. Salendo a piedi per lo stretto crepaccio, la temperatura sale e la sete comincia a farsi sentire. Incrociamo altri turisti che scendono un po’ provati ed una di queste, una signora francese non più giovane, vediamo che barcolla e poi cade a terra. La soccorriamo tamponando le escoriazioni che si è provocata, ma poi la raggiunge il marito, che la rimette in piedi in apparenti buone condizioni. Proseguiamo il cammino ma poco dopo Marilena e poi Mariella cominciano ad avvertire sensazioni di malessere e sete intensa. Decidiamo di tornare rapidamente verso la macchina, ma nel tragitto troviamo la turista francese stesa a terra con evidenti sintomi di un “colpo di calore”. Altri escursionisti la assistono, mentre il marito è corso alla macchina per prendere l’acqua. Appena questi torna a rifocillare la donna con abbondante acqua, riprendiamo la discesa con rapidità in quanto i malesseri peggiorano. Raggiunta l’auto ci reidratiamo con alcuni litri d’acqua fresca e decidiamo di concederci una sosta nel locale condizionato dell’hotel dove abbiamo fatto colazione.

Nel primo pomeriggio si parte per Las Vegas. Il tragitto non è lungo ma la città è grande e l’avvicinamento all’Hotel Venetian sarebbe molto difficoltoso se non avessimo “la signorina” del navigatore che ci guida. Il traffico diventa veramente intenso soltanto nelle vicinanze della Strip, la strada dei Casino, dove si affacciano enormi e pacchianissimi hotel, pieni di sale da gioco. Il nostro hotel è veramente immenso (7000 camere) e sconcertante per lo sfarzo e l’opulenza che ostenta. Dalla strada si presenta con una piazza San Marco in scala ridotta, con tanto di canali, ponti e gondole. Gli interni sono faraonici, con ori, affreschi e colonne, tutti finti, naturalmente, per non parlare poi della camera da 75 metri quadri, con doppio letto king size, salotto e mega bagno accessoriato di tutto.

La smania di vedere da vicino e capire questa Disneyland per adulti ci prende e ci immergiamo nella follia delle immense sale da gioco, intercalate da fontane, ristoranti, negozi di tutti i generi, dove una variegata umanità è preda della febbre del gioco e mangia, beve e fuma mentre gioca alle macchinette. L’età della clientela è medio-alta, la stazza media è molto elevata e lo stato socio-economico appare medio-basso. In sintesi è il ceto medio americano che si concede questo tipo di evasione, forse sognata da tempo, o tenta la fortuna in modo compulsivo. Dopo vari giri tra i Casino, alla euforia iniziale subentra un po’ di stanchezza per l’ubriacatura di luci, suoni e colori artificiali, e anche un po’ di mestizia, acuita dal fatto che, a notte inoltrata, per le strade si cominciano a vedere ragazzi e adulti ubriachi, soggetti sbandati e prostituzione.

Mangiamo in un self service con formula “all you can eat”, a prezzi contenuti ma di qualità appena sufficiente, e visitiamo il Mirage, il Caesar’s Palace, il Bellagio con i suoi giochi d’acqua, il Paris, ma niente gioco, appena un drink per chiudere la nottata e poi a letto nella “cameretta”.

Lunedì 22 agosto: da Las Vegas allo Zion park

Km. 263

Una rapida colazione appena fuori il Venetian e poi via di nuovo verso il selvaggio west. Arriviamo allo Zion attraverso l’ingresso sud, vicino a Springdale, verso mezzogiorno. E’ un parco relativamente piccolo, per gran parte costituito da un lungo canyon che si risale dal fondovalle, ai lati del fiume Virgin, ammirando le altissime pareti rocciose, quasi verticali, dal basso. Un efficiente sistema di navette percorre la parte bassa del canyon, con varie soste da cui si dipartono sentieri di diversa difficoltà, punti di ristoro e servizi. Mangiamo un pasto veloce ad una di queste fermate della navetta, che poi riprendiamo fino al capolinea, da cui inizia un sentiero che si inoltra nella valle, che si restringe sempre più . Durante l’escursione facciamo i primi incontri con gli animali selvatici: gli scoiattoli, tanto domestici che li puoi toccare, i daini, gli uccelli di vari colori. In fondo al sentiero, per proseguire, bisogna togliere le scarpe e guadare il torrente. L’ambiente naturale è ben conservato e bellissimo. L’accesso e le informazioni agli escursionisti sono facilitati da servizi molto funzionali. Rientriamo al parcheggio e usciamo dal parco attraverso l’uscita est, che si raggiunge attraverso una valle laterale alla precedente, che ci regala panorami incredibili con pareti rocciose dai colori brillanti dovuti ai forti contrasti tra i raggi del sole che si alternano a nuvoloni in procinto di scaricare acquazzoni. Si sale parecchio tra pini montani contorti che crescono in mezzo a rocce levigate e panorami sempre mutevoli. Sarebbe un territorio bellissimo da attraversare a piedi per gustarlo appieno. Attraversiamo due gallerie completamente buie e dalle pareti di roccia viva che presentano alcune “finestre” aperte sugli strapiombi, poi percorriamo un altopiano con pascoli montani, dove vediamo branchi di bovini, cavalli, cervi e anche bisonti.

Dopo 135 km. arriviamo in prossimità del Bryce Park, sulla statale 12, e troviamo subito il Best Western Plus Ruby’s Inn, un albergo storico degli anni trenta, fondato da uno dei primi pionieri della zona, che si è esteso fino a formare un vero villaggio in stile old west, dotato di vari locali e negozi. Cena in Hotel con gli immancabili piatti di carne e… penuria di pane.

Martedì 23 agosto: Bryce Canyon National Park

Colazione in hotel, scadente e costosa, poi entriamo nel parco, distante pochissimi chilometri. Una unica strada, aperta al traffico privato, percorre il ciglio di un lungo costone roccioso che sale fino a circa 2.800 metri, con molti punti di sosta che corrispondono a luoghi di affaccio su panorami veramente unici. Ci fermiamo ad uno dei primi parcheggi che incontriamo e ci avviamo a piedi verso la balaustra del Sunset Point. L’affaccio lascia increduli per la bellezza del posto. Restiamo vari minuti incantati e senza parole; avevamo visto tante foto su riviste e depliant illustrativi di questo posto, ma la vastità della foresta di pinnacoli rocciosi dai colori che sfumano dall’ocra all’arancio, al crema e al bianco, non si poteva immaginare e non si può descrivere. Come ci viene spontaneo dire più volte durante la vacanza: “questo posto, da solo, vale il viaggio !”. percorrendo il sentiero del crinale, il panorama si arricchisce di mille forme bizzarre delle rocce, con quinte di verde scuro di pini e abeti, che fanno da sfondo a guglie sottili e alte molti metri. Consultando la preziosa guida Routard, decidiamo di scendere a piedi nel canyon, prendendo il “Navajo loop trail”, un percorso tortuoso e ripido che si infila tra le guglie, arriva al fondovalle boscoso e qui si connette con un altro sentiero, il “Queens Garden trail”, che risale dolcemente ad un altro punto panoramico del costone, il Sunrise Point. Due ore di cammino veramente straordinario e ricco di interesse per le tante particolarità delle rocce, delle piante e i tanti animali che popolano questo luogo da favola. Lungo il percorso due simpatici Rangers si mostrano disponibili a fornire indicazioni e a farsi fotografare con noi.

Una volta risaliti al parcheggio, troviamo servizi, fontanelle e vari locali dove mangiare. Il tutto molto pulito ed efficiente. Scegliamo un locale in una casetta di legno con tavoli all’aperto, dove fanno insalate e pizze (surgelate naturalmente). Come spesso abbiamo trovato in USA, non hanno il pane e quindi accompagnamo l’insalata con una grande pizza bianca, che non sarebbe prevista nel menu, ma ci accordiamo con la cassiera per farci preparare una pizza incompleta, che la simpatica ragazza definisce “bread like pizza”.

In sintesi, improvvisiamo un pranzo leggero, alternativo al solito fast food, in un ambiente tranquillo e gradevole simile ad una baita alpina.

Nel pomeriggio proseguiamo nella strada che attraversa il parco, fermandoci a vari punti panoramici contrassegnati da apposita segnaletica, ammirando tratti del canyon che presentano particolari rocce rosse e gialle, archi di pietra, pinnacoli e boschi. Nel frattempo le condizioni climatiche peggiorano e la temperatura scende. La pioggia arriva a raffiche e, salendo di quota ,si tramuta in nevischio e poi grandine. Il paesaggio, inaspettatamente, si imbianca, ma di grandine e ci dobbiamo fermare con l’auto in una piazzola di sosta per attendere il passaggio della perturbazione. Rientriamo verso l’hotel attraversando un paesaggio boschivo semi-invernale, con branchi di cerbiatti nelle radure ai lati della strada.

In albergo ci organizziamo per la cena, cercando di prenotare un tavolo in un locale indicato dalla guida, dove il pasto si accompagna ad uno spettacolo western. Nella hall dell’albergo scopriamo che il locale che cerchiamo fa parte della stessa gestione Rubys e che si trova dall’altro parte della strada principale. Ce lo rivela un ragazzo rumeno che parla molto bene l’italiano e che ci prenota i posti. Il ristorante è collocato in un grande capannone, con palcoscenico e tanti tavoli rotondi, arredato in stile Country e addobbato con bandiere e coccarde dei colori nazionali. Ci accoglie un cordiale Cow Boy con cappello a tesa larga e camiciona decorata con lustrini, che spiega l’organizzazione della serata e si interessa della nostra nazionalità. Il programma segue una sequenza temporale molto ferrea: alle 19,30 si apre il self service e ci mettiamo tutti in fila con il vassoio, ci serviamo di stufato di maiale, patate e verdure, dolcetto e birra, e poi si torna ai tavoli a mangiare. È tutto di buona qualità e a prezzi modici, ma alle 20,30 bisogna sgomberare i tavoli perché alle 20,45 inizia lo spettacolo, che consiste in una serie di gag western, con uso di funi, fruste e battute che naturalmente non capiamo, ma gli americani presenti, di età abbastanza matura, sembrano divertirsi molto. Poi un complessino di cantanti e suonatori (tastiera e chitarre), intona pezzi più o meno noti del Far West cinematografico. Alle 10,30 è tutto finito e si va a nanna.

Mercoledì 24 agosto: da Bryce Canyon a Moab

Km. 430

Facciamo colazione in camera comprando cibi e bevande allo store, e poi prendiamo la statale 12, una strada storica, a due sole corsie, che corre sinuosa attraverso bei paesaggi, in gran parte montani. L’area è praticamente disabitata e in 180 km incontriamo non più di due piccoli gruppi di case. La strada sale attraverso boschi di pini e poi di betulle fino a circa 3.000 metri di altitudine e poi scende in un paesaggio sempre più arido. All’innesto della statale 12 nella 24, c’è finalmente un “centro abitato” : Torrey, dalla tipica struttura urbanistica a strada centrale fiancheggiata da casette di legno con piccolo giardino e cortile posteriore, l’emporio, il fast food, il distributore di benzina, l’ufficio postale, e… basta.

Allo store ci facciamo preparare dei panini al formaggio, prendiamo acqua e bibite e continuiamo il viaggio cercando un punto tranquillo dove pranzare, ma il paesaggio si fa sempre più desertico e inospitale, finchè incontriamo una zona di nuovo verde, con una fila di alberi di lato alla strada, alcune case malmesse e un locale non ben definito, con insegne poco comprensibili. L’ambiente è desolante, tutto è un po’ in rovina e non ci arrischiamo ed entrare nel locale, così mangiamo i nostri panini sulla strada, appoggiati alla macchina, nel posto forse più brutto del West. Riprendiamo il tragitto attraversando Capitol Reef, un parco nazionale molto selvaggio e poco visitato, in quanto percorso da piste non asfaltate e più adatto ad escursioni a piedi per soggetti esperti e attrezzati. Il breve tratto del parco che attraversiamo non ha molte attrattive, se non alcuni graffiti indiani, antichi di 1.000 anni, che vediamo su una parete rocciosa vicino alla strada, e l’oasi di Fruita, lungo il Fremont river, una piccola vallata verde dove nell’800 i pionieri mormoni piantarono alberi da frutta di diverse specie, e dove si possono raccogliere i frutti di stagione, ma solo per consumarli in loco. Raccogliamo qualche pera e mela con gli appositi bastoni con cestelli, per partecipare a questo rito di ospitalità verso i viaggiatori, che si tramanda da tempo.

A metà pomeriggio arriviamo a Canyonlands National Park, un parco veramente grandioso e con paesaggi inaspettati. Entriamo nel parco da nord, in un altopiano di forma triangolare, chiamato “Island in the sky”, delimitato dai profondissimi canyon del Colorado e del Green River che più a sud confluiscono. In auto raggiungiamo due punti panoramici, dei tre consigliati dalla guida, che ci lasciano ancora una volta senza parole: lo Shafer Canyon Overlook: precipizi e panorami grandiosi, tra rocce rosse e piste che scendono in un canyon da brividi, fino al Colorado, che vediamo per la prima volta, ma che seguiremo nei prossimi giorni in più tratti a valle. Ci rechiamo quindi al Green River Overlook, sull’altro lato dell’altopiano, che non è meno spettacolare dell’altro: sotto di noi, che siamo a circa 1800 metri di altezza, un vastissimo piano roccioso, una Mesa, come viene chiamato in linguaggio dei nativi, è solcato da un reticolo di canyons dove scorre questo affluente del Colorado, che è più piccolo ma molto più tortuoso. E’ un luogo selvaggio e potente che il tempo semi burrascoso e i raggi intermittenti del sole rendono davvero emozionante: anche questo posto “Vale il Viaggio”, ma lascia la voglia di venire ad esplorarlo con molto più tempo e con un altro tipo di viaggio, più avventuroso. Esaminando il bellissimo materiale informativo che ci hanno lasciato all’ingresso, ci rendiamo conto che abbiamo attraversato frettolosamente solo una delle tre grandi aree che compongono il parco, quella più a nord. Manca la regione del Maze, a ovest e quella di Needles, a est, che si raggiungono con altre strade molto distanti tra loro. Vorremmo arrivare alla punta sud dell’Island in the sky, per vedere la confluenza dei due fiumi, ma il tempo stringe e rischiamo di perdere l’altro parco previsto per la giornata, adiacente a questo, che è il Dead Horse Point, molto più piccolo di Canyonlands ma più noto perchè utilizzato come scenario di film famosi. Lo raggiungiamo in tempo per vederlo con i colori del tramonto, a tratti oscurati dalle nubi, ma i panorami e la gamma cromatica sono, manco a dirlo, unici e inaspettati.

Raggiungiamo Moab e il nostro “Super 8 Motel”, dove passeremo due notti; è l’ora di cena, così ci dirigiamo subito al ristorante che ci ha consigliato l’agenzia di Pesaro: il Sunset Restaurant. Si sale una ripida stradina fino al locale, posto su un belvedere che spazia sulla cittadina e sui monti circostanti. Il ristorante occupa la casa di un pioniere delle ricerche minerarie nella zona, ricca di uranio. Buona la cena ed ottimo il servizio.

Giovedì 25 agosto: Arches National Park

La giornata è dedicata alla visita di uno straordinario parco, e, se avanza tempo, all’abitato di Moab con eventuale shopping.

La giornata appare splendida e, dopo i piovaschi del giorno prima, i colori delle rocce sono brillanti, per cui andiamo diritti al parco, che dista pochi km. Oggi ricorre il centenario della fondazione dell’istituto che gestisce i parchi nazionali americani, per cui l’accesso è libero e più rapido. Vi è una unica strada carrabile che percorre il parco, con alcune diramazioni e alcuni sentieri da fare a piedi per raggiungere luoghi di particolare interesse paesaggistico e le particolarità geologiche che distinguono il parco: gli archi di pietra. La guida dice che ce ne sono circa 2.000 e che l’erosione dell’arenaria rossa, modella, crea e disgrega in continuazione questi monumenti naturali.

La prima sosta, Park Avenue Wiewpoint, ci dà subito le prime emozioni. Ci si affaccia su una piccola vallata rettilinea fiancheggiata da alte pareti e colonne di arenaria, con in cima blocchi di roccia sporgenti e in equilibrio precario. C’è da chiedersi se è tutto vero quello che vediamo o se è un set cinematografico di cartapesta. Vengono alla mente film western e i cartoni del Warner Bross, con beep beep che corre tra queste rocce bellissime inseguito dal cojote.

La strada corre su un altipiano di sabbie e colline rocciose colorate, ad una quota di circa 1300 metri e ai lati si avvistano gruppi di roccioni dalle forme bizzarre. Sostiamo al Balanced Rock, un pinnacolo solitario sostenuto da un sottile stelo, e ci dirigiamo all’inizio del sentiero che porta al Delicate Arch, un percorso di un’ora di cammino che sale fino ad un arco di pietra molto particolare che è stato assunto come immagine simbolo dello stato dello Utah. La passeggiata è bellissima, la temperatura è gradevole, le rocce levigate e le sabbie rosse danno una sensazione di calda accoglienza. Durante la discesa facciamo una piccola deviazione verso un sito di graffiti rupestri antichi raffiguranti branchi di cervi.

In auto ci avviciniamo al capolinea della strada, da cui si diparte il sentiero che si spinge più all’interno del parco, ma è l’ora del pranzo e prima di affrontare un’altra camminata, decidiamo di fermarci a mangiare i nostri panini in una piccola area di sosta incastonata in mezzo alle rocce ma molto ben attrezzata con tavoli e panche, bagno e fontana dell’acqua. Gli immancabili scoiattoli ci fanno compagnia. Il tempo comincia a peggiorare per cui ci affrettiamo a partire per il nuovo percorso, che è ricco di archi di tutte le dimensioni: vediamo il Tunnel arch, il Pine tree arch, e il Landscape arch, che è veramente impressionante per la dimensione e per la relativa sottigliezza della roccia: con i suoi 88 metri è l’arco naturale più largo del mondo. Vedendo il sentiero salire notevolmente e i nuvoloni neri che si addensano, decidiamo di rientrare al parcheggio, appena in tempo per non essere sorpresi da una tempesta di vento, con la sabbia che ci sferza la faccia negli ultimi metri di percorso. Attendiamo in macchina il passaggio della bufera e poi prendiamo la strada a ritroso fermandoci a vedere lo Skyline arch, che si apre come una finestra su un’alta parete. Il Sand Dune arch si raggiunge attraverso uno stretto corridoio tra le rocce dove soffia un forte vento continuo che solleva sabbia rossa, creando così ,davanti all’arco, mulinelli di sabbia. La luce diafana filtrata da questo ”fon” saturo di polveri da all’ambiente una nota surreale.

Grande e massiccio i Broken arch, che si raggiunge con un sentiero in mezzo ad una macchia di ginepri e altre piante tipiche di ambienti semi-desertici.

Ultima deviazione della giornata la dedichiamo alla “Parata degli elefanti”: serie di rocce mastodontiche e arrotondate, tra le quali una in particolare presenta un enorme arco che si sdoppia in due bracci che divergono: uno sballo!

Torniamo in albergo molto soddisfatti della giornata ma un po’ provati dalle camminate e dal tempo così mutevole: abbiamo vestiti, scarpe e capelli pieni di sabbia e mastichiamo sabbia, per cui urge una doccia. La broda rossa che scende nella vasca rischia di intasare lo scarico ! Approfittiamo della sosta anche per sperimentare la lavanderia del Motel, tutta funzionante a monete, sia la lavatrice che la asciugatrice, che il distributore del detersivo. Tra i detersivi da scegliere c’è il Tide, quello che mia madre usava quando ero bambino e che tutti i bambini preferivano perché dentro c’era il giochino di plastica in regalo. Erano 50 anni che non vedevo il Tide in Italia e non ho potuto fare a meno di prenderlo e di tenermi la scatolina vuota come ricordo. Dopo il bucato in motel e il ripristino del guardaroba pulito, non abbiamo più nessuna voglia di girare per il paese e neanche di cercare un ristorante caratteristico, per cui approfittiamo di Denni’s, una catena di fast food di qualità che si trova proprio davanti all’albergo. Quindi, viva il “sano” mangiare americano, con grande hamburger, patatine e… Coca Cola, dato che il locale non serve birra nè altri alcolici.

Venerdì 26 agosto: da Moab a Mesa Verde

Km. 210

Colazione in motel e partenza verso sud. Il paesaggio diventa collinare e verde, per le grandi coltivazioni agricole, i pascoli con i bovini, le grandi fattorie con i silos. Percorriamo la statale 191, poi deviamo per la 491, entriamo in Arizona e arriviamo a Cortez, dove abbiamo fissato l’albergo, ma ci fermiamo solo per uno spuntino, per poi continuare il percorso verso Mesa Verde, imboccando la 160. Dopo ca. 15 km. c’è la deviazione per il parco, preceduto dal Visitor Center, bellissima struttura, ricca di mappe e informazioni sull’area del parco, la storia delle popolazioni native, gli studi archeologici in corso. Cominciamo a renderci conto della vastità del luogo e della complessità dei percorsi stradali e pedonali da fare per visitare tutto il parco, e decidiamo di puntare su due circuiti stradali da cui si visitano parecchi insediamenti dei Pueblo Ancestrali. Con i gentilissimi Rangers del Centro Visite, fissiamo l’appuntamento per la visita guidata al Cliff Palace, che dista quasi un’ora di macchina. La strada sale a tornanti fino al livello della mesa, che si mantiene ad una altitudine di 2.200-2.400 metri. L’ambiente è fresco e, all’inizio, boscoso ma, purtroppo, ha subito negli ultimi anni vari incendi e quindi l’altopiano è ricoperto, per la gran parte, di una bassa macchia di cespugli. Attendiamo la visita su un balcone che guarda un profondo canyon e da dove si vede dall’alto la grande grotta al cui interno è stato costruito il villaggio dei Pueblo. La giovane Ranger che ci accompagna è molto in gamba e spiega moltissime cose sulla vita degli antichi abitanti del luogo, la tecnica e le funzioni delle costruzioni che compongono il villaggio; peccato non riuscire a comprendere tutto! Il percorso di discesa è molto ripido e stretto tra le rocce, ma poi quello di risalita, è ancora più impegnativo, dovendo utilizzare scale a pioli di legno, senza balaustre e sistemi di sicurezza. L’ambiente è veramente suggestivo e interessante: case, torri e luoghi religiosi, datati attorno al 1.200 d.c., sono stati restaurati in modo conservativo e alcuni interni presentano tratti di intonaco dipinto con decorazioni sui toni del bianco e del rosso. La visita impegna circa 40 minuti e così è già ora del pranzo. Raggiungiamo una area servizi con ristorazione e dopo un pranzo veloce su tavoli all’aperto, torniamo alla macchina, ma nel breve tragitto a piedi ci imbattiamo in un bel serpentello, dalle sembianze di una vipera, che sta arrotolato al sole e non si cura di noi. Un po’ sorpresi e preoccupati , giriamo al largo.

Imbocchiamo il Mesa Top Loop, un circuito di circa 10 km. che consente di visitare insediamenti più antichi sul piano della mesa, e vedute su villaggi e case isolate incastonate sui fianchi del canyon, dove i nativi si sono rifugiati in epoche successive, non si sa bene per quale motivo. Arriviamo quindi al tempio del sole, posto su uno sperone roccioso alla biforcazione del canyon, da cui la vista spazia sul Cliff Palace e su molti altri insediamenti che occupano tutte le grotte e tutti gli anfratti della roccia, in posizioni decisamente inaccessibili. Da qui si ha l’idea di un unico grande villaggio rupestre, che occupava più canyon attigui, e che doveva avere percorsi di collegamento, oggi non individuabili e non immaginabili. Anche gli interrogativi che rimangono aperti concorrono a dare fascino a questo luogo, che lasciamo con il dispiacere per le cose non viste, ma, sulla strada del ritorno, la mesa ci regala un’ultima sorpresa: un cojote ci attraversa la strada e raggiunge un branco di 5 individui che corre in mezzo alla boscaglia.

Torniamo a Cortez, al Baymont Inn Suites, una specie di motel a più piani, con piscina in un cortile interno.

Le signorine alla reception non sono per niente accoglienti, ma le camere sono belle e confortevoli, con i due grandi letti che ci aspettano per il meritato riposo. Ma dobbiamo cenare e puntiamo su un locale indicato dalla guida (Steak house Silou) che, guarda caso, è rinomato per le carni alla griglia. Solite bistecche, costate di manzo con salsa Barbecue, e io provo l’hamburger di bisonte, che però non ha nulla di speciale. Anche qui il personale è piuttosto freddo e sbrigativo e ci fanno chiaramente capire che siamo arrivati tardi e vogliono chiudere. Hanno evidentemente orari da montagna !

Sabato 27 agosto: da Cortez alla Monument Valley

Km. 235

Direzione statale 160 sud: il territorio ritorna ad essere semi-desertico ed entriamo nella “Nazione Navajo”.

Arriviamo a Four Corners, il punto di congiunzione di quattro stati: Utah, Colorado, New Mexico, Arizona. Il posto è recintato e bisogna pagare ad una guardiana Navajo 20 dollari per entrare in un piazzale circondato di mercatini indiani, con al centro una pavimentazione di granito e una stella a quattro punte indicante la direzione degli stati. L’usanza è quella di stendersi sulla stella allargando braccia e gambe per toccare contemporaneamente i 4 stati.

Procediamo verso Mexican Hat, con la singolare colonna di arenaria sormontata da un disco piatto con una punta al centro, che riproduce un sombrero. Poi si cominciano a profilare i massicci rocciosi e le guglie della Monument. Una lunghissima strada diritta ci avvicina lentamente al territorio del parco. Ai lati della strada si allineano bancarelle di bigiotteria Navajo, sopra di noi gran movimento di nuvoloni. All’ingresso del Parco nazionale, gestito dagli indiani locali, la tessera che abbiamo non vale e bisogna pagare l’ingresso, ricevendo una mappa molto sommaria del parco. Si sale al Visitor Center, una grande struttura occupata da negozi, bar, ristorante, attiguo ad un grande albergo moderno, il View Hotel, che occupa un crinale panoramico sulla valle: una vera bruttura, attenuata dal colore dei muri che è molto simile a quello delle rocce. In compenso, volgendo lo sguardo alla valle, la visione è quella ammirata fin da bambini nei film western e che abbiamo sognato da anni di venire a vedere. I tre massicci più famosi, le “Butte”sono lì di fronte a noi, come le vedeva John Wayne e John Ford e si vorrebbe che tutto quello che c’è dietro di noi scomparisse, ma così oggi è e anche noi siamo parte del turismo che ha modificato questo luogo.

Un pasto veloce e panoramico e poi ci buttiamo nella Valley Drive, una pista sterrata che forma un anello di 27 km. e che passa in mezzo ad un labirinto di giganteschi blocchi rocciosi. Il fondo sabbioso, e a tratti accidentato, è comunque affrontabile anche da auto normali, e quindi la pista è certamente il modo più semplice e meno costoso per visitare la valle. La bassa velocità e le frequenti soste consentono di apprezzare al meglio questo posto straordinario. Alcuni belvedere sono emozionanti, come il John Ford’s point, l’Artist Point, o la visione di una serie di sottili colonne di arenaria che comprende il Totem Pole, sottilissimo e altissimo. Il sole comincia a sbucare a tratti e ci regala magnifici contrasti e colori abbacinanti. Usciamo dalla pista soddisfatti e ci dirigiamo al nostro hotel, il Gouldings Lodge, un albergo storico, il primo costruito nella zona negli anni trenta, che si è sviluppato fino a diventare un vero villaggio, dotato di tutto. Ci sistemano in un cottage dislocato in una piccola valle tra le rocce rosse. Il posto è bellissimo e gli spazi a disposizione sono esagerati, in quanto ci assegnano due appartamenti completi di cucina, due camere e soggiorno. Viste le comodità degli appartamenti, decidiamo di andare a fare la spesa al Super market, che è sempre della Gouldings, e di prepararci la colazione in casa, dopo essere andati a vedere l’alba alla Monument.

Dopo una attenta scelta dei cibi, tra la miriade di prodotti confezionati che occupano le scaffalature del market, usciamo dal locale e siamo colti dallo stupore per il bellissimo arcobaleno che incornicia i massicci rocciosi. Rimaniamo a lungo ad ammirare e fotografare un fenomeno che evolve, diventa doppio e poi si trasforma in una larga banda di colori che sale da un roccione fin dentro una nuvola. Che dire, un’altra meraviglia che…vale il viaggio!

Finiamo la serata al ristorante del Goulding, mangiando una specialità navajo: una specie di grande crescentina con sopra verdure e carne speziata piccante: non male. Nel locale attiguo, che ospita una piccola sala cinematografica, proiettano “Ombre rosse” in lingua originale; sarebbe da rimanere ma l’indomani ci attende una alzataccia !

Domenica 28 agosto: da Monument Valley a Page

Km. 190

Sveglia alle 5, rapidi preparativi e partenza per il belvedere del Visitor Center, in attesa del sorgere del sole. Fa freddo ma i turisti arrivano e preparano macchine fotografiche e cavalletti. L’atmosfera è magica, specie quando il silenzio è rotto dall’ululato di un cojote, che precede la comparsa del disco di fuoco, ed è un trionfo di colori e ombre lunghe…e rosse !

Rientro in appartamento, caffè alla macchinetta con le cialde, latte caldo , yogurt, biscotti vari, succhi, ecc…, poi, con la destrezza ormai acquisita da turisti itineranti, pratiche igieniche, riassetto bagagli e caricamento auto a tempo da primato, senza dimenticare nulla. La fretta è motivata dall’appuntamento che abbiamo alle 12 ad Antelope Canyon, dove abbiamo prenotato il tour guidato.

Le preoccupazioni per gli orari si rivelano però eccessive, in quanto la strada è diritta, deserta e veloce e, inaspettatamente, l’orario di Page è un’ora indietro. Arriviamo quindi in anticipo, troviamo il parcheggio e il punto di partenza dei gruppi di visita al canyon, verifichiamo la prenotazione e gli orari, e decidiamo di approfittare dell’ora abbondante di attesa per fare un giro a Page. La cittadina, che è sorta nel 1958 come villaggio degli operai che costruivano la diga Glen Canyon Dam, non ha attrattive; è preceduta da una grande centrale elettrica con altissime ciminiere fumanti, ha una quantità di chiese di varie sette religiose e i soliti fast food e store. Unica nota caratteristica è un anziano benzinaio alquanto squinternato, che gestisce una pompa scassata come lui, dove impieghiamo una eternità per fare il pieno.

Si torna all’Antelote, paghiamo 40 dollari a testa e una enorme Navaja ci suddivide in gruppi che devono salire su altrettanti fuoristrada, affidati ognuno ad una guida che ci accompagnerà anche nel percorso a piedi. La nostra guida è una ragazza indiana molto in gamba e molto simpatica. Nell’attesa della partenza ci da utili suggerimenti sul percorso e su come fare le foto nel canyon. Regola addirittura l’esposimetro di tutte le macchine fotografiche e di tutti i cellulari del gruppo, per garantirci la migliore qualità delle foto che faremo. Si parte risalendo il letto di un torrente asciutto, tra scossoni violenti e polveroni di sabbia sollevati dalle jeep che si precedono, poi si arriva ad una parete di roccia che presenta un crepaccio verticale largo non più di un metro e mezzo. Il piccolo canyon è lungo circa 200 metri, ma una volta risalito tutto, bisogna percorrerlo a ritroso, quindi i gruppi di visitatori, che entrano distanziati di qualche decina di metri, devono incrociarsi con i gruppi che discendono, e qui gioca la grande destrezza delle guide che devono fare procedere i gruppi in modo intermittente, utilizzando le brevi soste per illustrare le caratteristiche del luogo, suggerire i punti da fotografare, prestarsi per fare le foto con le nostre macchine, sia a noi che agli scorci più curiosi… il tutto in spazi sempre molto angusti, rispetto al volume di persone che transitano. Il posto è di una bellezza eccezionale, sembra di scorrere nelle morbide viscere della terra, inondati da luci calde colorate, ma non c’è alcun effetto speciale. L’acqua e il vento hanno scavato per secoli questo crepaccio nella arenaria multicolore, creando forme arrotondate dove la roccia sembra pettinata, quasi un tessuto increspato dal vento. I raggi del sole, specie in queste ore centrali della giornata, fanno il resto della magia, penetrando nel canyon e riflettendosi sulle pareti e creando una illuminazione indiretta di varie tonalità di colore.

Un vero prodigio naturale! Ringraziamo la bravissima ragazza che ci ha fatto da guida e le lasciamo una adeguata mancia, poi riprendiamo l’auto e attraversiamo la diga sul Colorado per esplorare l’altro versante della valle e dare uno sguardo al lago Powell. La distesa d’acqua in mezzo a questa area desertica è di singolare effetto, con grandi ammassi rocciosi che si tuffano direttamente nel lago blu intenso. Dal numero di barche e di case galleggianti, si comprende come il lago sia una meta turistica molto frequentata. Fortunatamente siamo a fine agosto e la stagione delle ferie sta per finire, per gli americani. Ne approfittiamo per recarci al nostro hotel, il Lake Powell Resort, che si trova nei paraggi, per prendere possesso della camera , fare una sosta e uno spuntino nei bellissimi spazi comuni, nei locali e nei giardini dell’hotel, frequentati da parecchi leprotti. Oziamo un pò tra queste comodità in attesa dell’ora che precede il tramonto, che vogliamo dedicare ad un’altra attrattiva del posto: Horseshoe Bend. Poco a sud di Page, un parcheggio segna l’inizio di un sentiero pietroso che sale abbastanza ripido per poi discendere verso una grande fossa circolare. Soltanto quando si arriva al ciglio del burrone, privo di alcuna protezione, si scorge il fiume Colorado che disegna un anello quasi completo attorno ad un cono di roccia. Lo strapiombo è molto profondo, con le acque limpide blu scuro e le rive verdi per la ricca vegetazione, che contrastano con le pareti di roccia rossa. Laggiù, vicino al fiume, si scorge una casa piccola piccola, che dà una scala di misura della dimensione del sito. È un altro luogo straordinario che desta forti emozioni. Rientrati nel resort, ceniamo su una terrazza all’aperto con vista lago, molto gradevole e rilassante. Le numerose barche ormeggiate nella Marina accendono le luci e l’immagine magica è quella di un villaggio galleggiante.

Lunedì 29 agosto: da Lake Powell al Grand Canyon

Km. 215

Il percorso è semplice: statale 89 verso sud e a Cameron si devia a destra per la 64, che sale in un paesaggio che muta dal deserto ad una verde montagna coperta di boschi di conifere. In prossimità del Grand Canyon Village, iniziano le indicazioni per i molteplici punti panoramici, serviti da apposite piazzole di sosta e quadri esplicativi sulle caratteristiche geologiche e biologiche del sito. I primi approcci con il parco sono entusiastici per la grandiosità che ci appare e per i colori delle rocce, fatti risaltare dalla giornata stupenda. Siamo su un enorme altopiano a 2.000 metri di altitudine, davanti ad un “crepaccio” largo fino a 50 Km. il Colorado non si vede ancora ma scorre sotto di noi ad un dislivello di oltre 1.000 metri. La temperatura è ottimale, grazie anche al bosco che arriva fin sul ciglio dello strapiombo. La fauna sembra molto ricca e domestica: a parte gli onnipresenti scoiattoli, i cervi brucano sul ciglio della strada e una quantità di uccelli volteggia sui dirupi.

Raggiungiamo il Visitor Center, lasciando l’auto nel grande parcheggio a lato, che è quasi pieno di auto. Il posto è decisamente molto frequentato. Una grande struttura fornisce ogni tipo di informazione e documentazione su come visitare il parco: a piedi, in bici, a cavallo, o navigando lungo il fiume. I mezzi audiovisivi mostrano la storia geologica, gli animali, le piante, l’archeologia visitabile nel parco: c’è da perderci delle ore per vedere tutto.

All’esterno del centro visite ci sono servizi, negozi, noleggio bici, bar e piazzole di sosta, tutto molto pulito ed efficiente, nonostante il volume di gente che transita. Decidiamo di fermarci per un panino e caffè, consumato nelle apposite aree all’aperto, assistiti da scoiattoli, cornacchie e altri volatili, che aspettano residui alimentari.

Torniamo sul ciglio del canyon, che è percorso da un sentiero lastricato, il Rim Trail, con vedute magnifiche.

Una parte del sentiero è dedicato ad una mostra delle tipologie di rocce presenti nel canyon, disposte in sequenza cronologica, in base alla loro età geologica; si chiama “sentiero del tempo” e consente di vedere e toccare bellissime pietre sezionate che datano molti milioni di anni.

Terminiamo il percorso nei pressi della stazione ferroviaria che collega il Village alla cittadina di Williams, posta nel fondovalle a sud dal canyon, e prendiamo il bus navetta della linea rossa, che costeggia il South Rim verso ovest. Questa è una delle tre linee di autobus gratuiti che percorre l’area di visita e che consente di scegliere i tratti da percorrere a piedi tra una fermata e l’altra. Simpatici rangers autisti illustrano il percorso e le attrazioni presenti in ogni tappa. Non arriviamo al capolinea ma facciamo un percorso a piedi intermedio tra due belvedere da cui la guida indica che si possono vedere tratti del fiume e che sono consigliati per la visione del tramonto. In effetti, aguzzando la vista, vediamo, molto distante, il Colorado, torpido e con le rapide, poi il fondovalle va in ombra, man mano che il sole scende. Il margine nord e le punte rocciose si arrossano sempre di più, finchè il sole cala sulla mesa e il cielo limpidissimo si infiamma. Struggente!

Prendiamo il bus del ritorno, alla stazione facciamo il cambio sulla linea blu che attraversa il Village fino al parcheggio auto, dove è tutto buio e con un po’ di difficoltà troviamo la nostra macchina. Con questa raggiungiamo lo Yavapai Lodge, grande complesso distribuito in più fabbricati con camere a schiera, in mezzo al bosco, sempre con tipologia motel.

Cena al self service tecnologico del lodge, dove il pasto si ordina e si paga al videoterminale, non facile da usare, ma non c’è alternativa.

Martedì 30 agosto: dal Grand Canyon a kingman

Km. 300

Sveglia con sorpresa: appena fuori dalla camera, troviamo un cervo femmina, e poi mentre camminiamo verso la direzione dell’hotel, ne vediamo un altro, e poi un cerbiatto giovane e poi un maschio con un bel paio di corna. Pascolano tranquilli tra la strada, i turisti che li fotografano, le auto parcheggiate. Anche noi li avviciniamo per fare foto, finchè una ranger molto arrabbiata ci urla di non dare disturbo agli animali.

In auto raggiungiamo il capolinea di partenza dei bus della linea rossa, con cui raggiungiamo l’Hermits Rest, all’estremo ovest del South Rim (a 11 km. dal Village). Un vecchio rifugio di pietra con grande camino, offre servizio bar e shop. All’esterno un’area di sosta molto gradevole e ben tenuta, con uno straordinario panorama sul canyon. Ci incamminiamo sul sentiero del crinale, verso est, godendo delle visioni del precipizio e dei tratti di Colorado che ogni tanto si scorgono. La giornata è magnifica e si cammina in uno stato di benessere termico che indurrebbe a proseguire all’infinito, anche per sentieri più selvaggi, ma il tempo a disposizione è limitato alla mattinata, così si riprende il bus per rientrare al Village. Nei pressi del capolinea c’è l’imbocco del Bright Angel Trail, il più noto sentiero che scende per 16 km. fino al fiume. Deve essere una esperienza magnifica, che richiederebbe tempo e allenamento, in quanto è necessario passare una notte in tenda nel fondovalle per poter dedicare la giornata successiva alla risalita, che deve superare un dislivello di 1.200 metri. Lasciamo quel luogo con rimpianto, anche perché molto vicino al sentiero, volteggiano due coppie di Condor: animali rari e protetti che nidificano su queste pareti a strapiombo.

Facciamo uno spuntino sul Rim Trail, sotto la costante attenzione dei voracissimi scoiattoli, uno dei quali tenta di rubarmi una mela, e poi si parte verso sud.

Prima tappa a Williams, sulla mitica Route 66. E’ una bella cittadina, capolinea della ferrovia che sale al Grand Canyon, con locomotiva e vecchi vagoni in esposizione. Le strade sono piene di negozi e locali che perpetuano il mito degli anni ‘50 e ’60 “on the road”. L’offerta è ricca di oggettistica, targhe e abbigliamento che richiamano quegli anni ruggenti e, davanti agli store, fanno bella mostra Cadillac e altre auto d’epoca.

Riprendiamo il tragitto uscendo dalla autostrada 40 per passare su uno dei pochi tratti superstiti della originale Route 66.

Il paesaggio è molto desolato e misero. I pochi centri abitati sono piccoli paesi semi-disabitati, dove rimangono vecchie stazioni di servizio, case di legno stile western, scritte luminose al neon, e qualche vecchia auto arrugginita. Il tutto appare un po’ decadente.

Kingman è invece un agglomerato moderno molto esteso e anonimo, dove alloggiamo al Ramada Motel. Una struttura bianca, a pianta quadrata con piscina al centro, sulle cui pareti spiccano i ritratti di attori cinematografici. In hotel ci imbattiamo in una convention locale repubblicana, dove osserviamo con interesse un campionario di personaggi tipici del luogo, vestiti a festa per l’occasione, dal gigantesco cowboy attempato, al notabile in abito scuro e camicia ricamata, alla ragazza patriottica con abito lungo a balze di colore rosso, bianco e blu.

Per la cena scegliamo una Steak House segnalata dalla guida, che assomiglia, sia negli esterni che negli interni, ad un grande Ranch. Sul tetto spicca la statua, forse di polistirolo, di una grande mucca.

La carne è, come sempre, buona e l’ambiente molto informale e simpatico. Le tovaglie, di plastica, sembrano pelli di bovini pezzati.

Mercoledì 31 agosto: da Kingman a Los Angeles

Km. 515

E’, purtroppo, l’ultima grande tappa del viaggio, ci attendono molte ore di autostrada e preoccupa, in particolare, l’ultima parte del percorso con l’attraversamento della megalopoli, ma decidiamo comunque di passare per un ultimo tratto autentico di Route 66. La strada sale attraverso colline semi-desertiche e qua e là si vedono vecchie pompe di benzina in disuso, rottami di vecchie auto, negozi di oggettistica per nostalgici, bancarelle di pietre, ossa e cristalli raccolti nella zona. Si incontrano anche branchi di motociclisti con Early Davidson, che ti salutano in modo cameratesco. Sostiamo a Oatman, piccolo villaggio di minatori che in anni recenti è stato adattato a set cinematografico di film western, e oggi è una attrazione turistica per le tipiche case di legno, oggi occupate da negozi e bar, e per la colonia di asini che abita stabilmente per le strade del paesello. Sono di una specie particolare, con una caratteristica striscia nera che scende dalla criniera alla articolazione della zampa anteriore. I cuccioli in particolare, sempre attaccati alla madre, sono bellissimi. Nel breve giro a piedi del luogo, ci colpisce il gestore di un negozio che indossa il cinturone con pistola, ma non si tratta di un travestimento western, è una pistola vera e il soggetto ha tutta l’aria di saperla usare, per eventuali evenienze.

Torniamo sulla Interstate 40 e via verso ovest nello sterminato deserto californiano. Gli unici segni della civiltà, a parte l’autostrada, sono le ferrovie, dove transitano in continuazione lunghissimi treni merci, trainati da due o tre locomotori. La temperatura aumenta e la benzina comincia a scarseggiare. Lungo le autostrade non ci sono stazioni di servizio e quindi per rifornirsi bisogna uscire in prossimità di un centro abitato. Fortunatamente il navigatore indica i distributori presenti lungo il percorso e quindi sappiamo che all’uscita di Ludlow troveremo la pompa. La località consta di qualche costruzione ai lati della autostrada e da due distributori; quello dove ci fermiamo è dotato di “ristorante” e quindi ne approfittiamo per il consueto spuntino. È caldissimo e quindi ci rifugiamo nel locale, che naturalmente è ipercondizionato, e piuttosto che l’ennesimo Hamburger, ordiniamo coppe di gelato. I contrasti termici sono estremi!

Ci avviciniamo a Los Angeles e cominciamo a vedere il traffico che cresce. Entriamo in un reticolo di autostrade che si intersecano e che aumentano il numero di corsie. Il navigatore è vitale, ma il difficile è posizionarsi nella corsia giusta e riuscire a cambiarla nei tempi giusti, così da poter uscire allo svincolo che consente il cambio di autostrada. Siamo tutti e 4 incollati al video del navigatore per tenere la giusta posizione e per azzeccare bene gli svincoli. Nonostante tutte le attenzioni, non è facile muoversi in questo flusso di auto continuo che occupa tutte le corsie, così sbagliamo strada due volte e ci tocca, con la paziente assistenza del navigatore, rifare la strada a ritroso e spesso a passo d’uomo, causa l’intenso traffico. Dopo oltre due ore di percorso urbano, troviamo finalmente l’uscita per nostro quartiere: Westwood, ove si trova il nostro albergo: il Royal Palace Westwood. Nonostante il nome roboante, l’albergo è piccolo, a due piani, e piuttosto modesto, ma comodo e tranquillo. Inoltre è circondato da ristoranti di ogni tipo, e allora scegliamo di mangiare un piatto messicano a base di tacos.

Il locale è gradevole ma la cena è piuttosto speziata e piccante. Nel dopocena passeggiamo per il quartiere, che è gradevole e vivace, anche culturalmente, dato che sono presenti musei e una sede universitaria, la UCLA, che troviamo inaspettatamente aperta per una manifestazione artistica. La struttura architettonica moderna e l’arredo creano un ambiente accogliente e spazioso. Una “scultura luminosa” proiettata su una parete, completa l’ambiente.

Giovedì 1 agosto: Universales Studios di Los Angeles

Dopo l’esperienza di guida di ieri per le strade della città, decidiamo di recarci agli Studios in taxi. È l’occasione per attraversare alcuni quartieri, grandi come città, tra cui Beverly Hill, che è una lunga sequenza di viali alberati e giardini, all’interno dei quali si scorgono ville sontuose. Nessuna traccia di negozi e centri commerciali: è una impeccabile città giardino.

Gli Studios, un iper-frequentato parco giochi per tutte le età, sono in realtà una macchina da soldi molto efficiente e ben organizzata, che ha un costo di accesso molto elevato (115 dollari a testa). All’interno, una atmosfera di festa continua con musiche, colori e attrazioni varie, che attraggono verso bar, locali e negozi di ogni genere. La prima attrazione che visitiamo è un viaggio nel mondo fantastico di Harry Potter, all’interno di un villaggio medioevale molto ben riprodotto. Il percorso all’interno del castello è accompagnato da varie magie presenti nel film e poi si sale su un ottovolante che fa rivivere uno sfrenato volo tra mille pericoli e allucinazioni. Due di noi ne escono un po’ sconvolti, con nausea e sudarelle che durano nel tempo. Decidiamo di assestarci lo stomaco andando ad assistere ad uno spettacolo che illustra gli effetti speciali dei film. Le cose migliorano e quindi proseguiamo verso altre attrazioni: Jurassik Park, i Simpson, il giro dei capannoni e degli ambienti all’aperto dove sono stati girati vari film e serial televisivi: da “lo squalo” a “la signora in giallo, a “terremoto”, ecc. . Poi, nel pomeriggio, giriamo per “quartieri”, che riproducono alcune città europee, ognuno con i suoi ristoranti e negozi di souvenir. Entriamo nel padiglione dei Minions, con effetti speciali molto simpatici, ed infine assistiamo allo spettacolo degli animali ammaestrati, usati naturalmente nelle riprese cinematografiche; molto carino anche questo.

Alle 5 del pomeriggio siamo saturi di questo bombardamento sensoriale, e rimpiangiamo le atmosfere naturali dei parchi nazionali, quindi si riprende il taxi verso l’hotel. È un altro viaggio di almeno mezz’ora, che ha i suoi costi, ma che ci permette di attraversare altre porzioni di questa città immensa.

La sera abbiamo appuntamento con Dino, un amico italiano che vice e lavora a Los Angeles da circa un anno. Ci porta a mangiare in una Steak House di buon livello, dove assaggiamo finalmente il vino rosso californiano. Buona cena e serata interessante per i racconti e le informazioni che Dino ci fornisce sulla città e su come si vive in questo mega-agglomerato composito per razze e ceti sociali.

Il ristorante si trova nella zona del Farmer Market, recentemente ristrutturata e ricca di bei negozi, dove facciamo una passeggiata rilassante, prima di ritornare nei rispettivi lettoni.

Venerdì 2 agosto: Walk of Fame e spiagge di Santa Monica e Venice

Dedichiamo la mattina ad una classica e obbligata visita ad Hollywood, recandoci in taxi sul Walk of Fame. Si cammina sui marciapiedi con le stelle dedicate ai divi del cinema, del teatro e del mondo dello spettacolo. Sosta davanti al teatro cinese a misurarsi con le mani e i piedi di attori e registi, impressi nel cemento del piazzale, poi giro nei locali circostanti, tutti dedicati al mondo del cinema. Infine foto di prammatica alla scritta bianca sul fianco della collina.

Vorremmo visitare altri quartieri utilizzando mezzi pubblici, ma i percorsi sono molto complicati e i tempi di spostamento non prevedibili, quindi riprendiamo un taxi per l’albergo e muoviamo la macchina per recarci a Santa Monica. Studiando la mappa della città, ci rendiamo conto che il percorso è semplice e le distanze sono ragionevoli, per cui ci avventuriamo per strade cittadine con un traffico scorrevole.

Arriviamo rapidamente alla spiaggiona oceanica, “arredata” dai classici casottini di legno dipinto dei bagnini di salvataggio, con a lato tavole da Surf e auto Pick Hup di colore fiammante. Sembra di essere sul set di Bay Watch! non si vedono lettini né ombrelloni e tutti i bagnanti usano teli sulla sabbia. Il molo di Santa Monica completa il quadro con la sua fila di piloni che si allunga verso il mare aperto. Tanta gente è in acqua e non possiamo fare a meno di bagnare i piedi nel Pacifico. La spiaggia continua verso sud all’infinito e, pur essendo una spiaggia libera, non si vedono rifiuti. Pranzo veloce sul molo, che rappresenta il punto di arrivo della Route 66, attrezzato di locali, servizi e con un piccolo Luna Park, poi ci addentriamo nell’abitato di santa Monica, dove una strada pedonale è meta di shopping, ma non vediamo nulla di interessante da acquistare.

Riprendiamo quindi la macchina e percorriamo la litoranea verso sud, fino a Venice. Qui l’ambiente cambia decisamente: è un posto informale, alternativo e anche trasgressivo, dove gruppi di ragazzi variopinti, fanno sport, suonano, vendono paccottiglie e dove la cannabis si commercia e si fuma liberamente.

Il lungomare è un mercato senza fine di abbigliamento leggero, dove troviamo finalmente magliette caratteristiche a prezzi accettabili. La grande spiaggia libera, le piste ciclabili e per skate board che serpeggiano tra le altissime palme, insieme alla varia umanità che circola in questo posto, dà la netta sensazione di vivere nel mito californiano più autentico, quello che probabilmente ci siamo costruiti in testa dopo decenni di film ambientati in questi luoghi.

Rientrati in hotel ci prepariamo per la cena, l’ultima del viaggio (sigh !), che facciamo in una pizzeria italiana consigliata dal nostro amico. Si chiama “800 gradi” che corrisponde alla temperatura del forno a legna.

La formula del locale è singolare e simpatica: si scorre lungo un bancone dove una serie di ragazzi compone, in catena di montaggio, la tua pizza, secondo le specifiche che tu scegli per l’impasto e per la guarnizione. Alla fine del bancone la pizza arriva pronta sul tagliere per essere infornata, e mentre scegli il beveraggio e paghi, la pizza è cotta e te la porti al tavolo. Le materie prime utilizzate sono tutte certificate e la pizza è veramente ottima. Complimenti per l’iniziativa!

Sabato 3 agosto: Getty Center e volo di ritorno

Abbiamo la mattina libera e decidiamo di andare al museo del Getty Center, che si raggiunge facilmente dall’hotel. All’uscita apposita dell’autostrada 405, si trova un parcheggio sotterraneo a pagamento (15 dollari pagabili solo con carta di credito), sopra il quale un trenino navetta sale sulla collina fino al complesso architettonico che ospita le gallerie d’arte. La struttura, tutta bianca e vetro, è molto articolata e molto luminosa. Quattro stabili distinti ma collegati, contengono opere pittoriche di tutte le epoche e di tantissimi artisti. È in sostanza un campionario di stili, di epoche e di paesi diversi, che vorrebbe abbracciare gran parte della storia dell’arte figurativa. Il tentativo non sembra pienamente riuscito, perlomeno agli occhi di un italiano abituato a visitare musei e mostre, ma nel complesso, il luogo merita di essere visto.

Gli esterni di questa galleria sono splendidi, con piazze, scalinate e giardini molto gradevoli e ben curati.

Anche la ristorazione self service offre una ricca scelta e una ottima qualità.

Dopo pranzo scendiamo all’auto e riprendiamo la 405 per raggiungere l’aeroporto internazionale, il LAX.

Impostiamo il navigatore per la sede della Alamo in cui lasceremo l’auto. Nel piazzale di arrivo della agenzia di noleggio, i controlli e le formalità amministrative sono minime, e quindi scarichiamo rapidamente i bagagli, salutando la fida compagna di viaggio che ha fatto il suo onesto servizio senza darci alcun problema. Prima di consegnare le chiavi all’addetto, mi annoto le miglia segnate sul contachilometri: sono 20.400 tonde.

Facendo la differenza con il dato di partenza, risulta che le miglia percorse sono 2.807, pari a km. 4.491. Sullo stesso marciapiede dove scarichiamo le valige passa, dal lato opposto, l’autobus navetta che porta ai diversi terminal. L’aeroporto è naturalmente enorme e non è facile trovare l’indicazione del volo a video e relativo gate, ma il personale è disponibile a dare informazioni e ad aiutarci nel check in elettronico.

Il decollo avviene in orario e ci apprestiamo a passare la notte seduti, con qualche film da vedere a video.

Domenica 4 agosto: ritorno a casa

Anche l’arrivo a Londra è in orario, così come l’imbarco per Bologna, ma l’aereo non parte. Ci tengono seduti ai nostri posti ma non ci dicono cosa impedisce di partire. Capiamo che ci sono problemi tecnici ma non sappiamo di che tipo. Dopo circa un’ora si parte ma, arrivati sopra Bologna, l’aereo continua a girare senza atterrare. L’equipaggio della British non parla una parola di italiano a passeggeri che sono in gran parte italiani, ma fortunatamente una ragazza che ha il posto dietro di noi ci traduce le informazioni ufficiali che parlano di un danno alla pista di atterraggio di Bologna, causato da un aereo turco in emergenza. Per tale motivo sono in corso lavori di ripristino che a breve dovrebbero essere completati. Nel frattempo il nostro aereo deve rifornirsi di carburante e quindi viene dirottato a Venezia. Lo sconforto è grande, come la preoccupazione per un ritardo che rischia di farci perdere il treno di ritorno a Pesaro. A Venezia si fa rifornimento ma non possiamo sbarcare e quindi attendiamo seduti ancora un’ora, finchè si riparte, atterrando a Bologna dopo 7 ore dall’imbarco a Londra.

A Bologna regna naturalmente il caos e anche il ritiro dei bagagli è molto rallentato.

Sono le 23 e sono sfumate le ultime possibilità di prendere un treno, così, sfiniti per le attese, chiediamo ad un taxista se ci porta direttamente a Pesaro, e questo accetta volentieri comunicandoci il costo previsto, che ci sembra ragionevole. Con 1,5 ore di auto siamo finalmente a casa.

Sintesi del viaggio

In 20 giorni abbiamo attraversato 6 stati, visitando 11 parchi nazionali, 3 grandi città e un numero indefinito di piccoli centri abitati, percorrendo in auto circa 4.500 chilometri e pernottando in 12 alberghi differenti.

Il costo complessivo pro capite è stato di circa 4.500 euro.

È stato un viaggio straordinario, la cui ricchezza di esperienze e di immagini, rimaste stampate nella mente, è stata certamente superiore alle nostre aspettative e non descrivibile con le parole che siamo stati capaci di scrivere in queste pagine.

È stato un viaggio di conoscenza di luoghi, persone e culture molto diverse dalle nostre, ma che non ci hanno mai fatto sentire in difficoltà o a disagio, o semplicemente estranei. Gli “americani” sono un aggregato di etnie diverse ma accomunate da un alto senso di appartenenza alla nazione, dal rispetto per i loro beni ambientali, dalla informalità e semplicità della loro vita e dei rapporti con gli altri.

Non è stata una vacanza riposante ma di grande movimento, dove però la stanchezza non si è avvertita perché costantemente saziati da bellezze assolute e in costante aspettativa per il luogo successivo da visitare, che riservava sempre sorprese positive.

La scoperta e lo stupore sono state le sensazioni che ci hanno costantemente accompagnato. Tutto è stato interessante e, anche a posteriori, non c’è una località che consiglieremmo di evitare. È fuori luogo fare graduatorie di gradimento di siti o città straordinari, ma il soggetto protagonista del viaggio è certamente la natura potente e ancora allo stato primordiale, che è stata conservata in vastissimi territori.

Non abbiamo avuto imprevisti negativi o inconvenienti: forse la fortuna ha fatto la sua parte, ma certamente ha giocato favorevolmente il fatto che il viaggio è stato ben progettato, ben preparato e ben condotto.

Bisogna anche dire che l’America è facile da girare: le strade sono poco trafficate (a parte Los Angeles) e ben tenute, con segnaletica chiara. Ci preoccupava la comprensione della lingua, ma gli americani, nonostante la pronuncia “arrotata”, usano un linguaggio semplice e quando vedono che fai fatica a comprendere, cercano di farsi capire.

Molto azzeccata la scelta del periodo, che ci ha evitato sovraffollamenti e code, anche nei siti più famosi. Negli USA infatti, le scuole riaprono dopo ferragosto e quindi le famiglie esauriscono le ferie estive entro quella scadenza.

Giusta anche la scelta del bagaglio limitato: non c’è bisogno di tanti ricambi, perché è facile lavare e asciugare biancheria e magliette. Non servono abiti eleganti ma capi molto comodi e pratici, e questo vale anche per le scarpe.

In sintesi, abbiamo fatto la cosa giusta nel modo giusto, con un unico effetto collaterale: la mente già elabora nuovi viaggi alla scoperta di aree attigue!

Andrea



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