Viaggio in Iran 4

1/4/’99: tutto comincia ieri sera, mercoledì 31. Vado a letto alle 10:30, e dopo aver dormito per ben due ore suona la sveglia, ci prepariamo e partiamo. Le mie ultime parole famose sono ”Ma pensa se dovessimo fare il viaggio in piedi!” Infatti il treno è stracolmo di militari che tornano a casa in licenza per Pasqua, e...
Scritto da: Elena Mainardi 1
viaggio in iran 4
Partenza il: 01/04/1999
Ritorno il: 08/04/1999
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
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1/4/’99: tutto comincia ieri sera, mercoledì 31. Vado a letto alle 10:30, e dopo aver dormito per ben due ore suona la sveglia, ci prepariamo e partiamo. Le mie ultime parole famose sono ”Ma pensa se dovessimo fare il viaggio in piedi!” Infatti il treno è stracolmo di militari che tornano a casa in licenza per Pasqua, e facciamo dall’1 alle 6 del mattino seduti sui seggiolini pieghevoli che vengono fuori dalle pareti del treno, in uno scompartimento per non fumatori dove tutti fumano come turchi. Al nostro timido “Scusate, qui è vietato fumare…” la risposta è “Tanto fumano tutti…” Tento di sdraiarmi su due seggiolini contigui, con la schiena appoggiata alla valigia, ma tra la scomodità della posizione, il fumo, le urla dei militari e la ressa umana passo decisamente la notte in bianco.

Dopo il riposante viaggio in treno, a Roma incontriamo il resto del gruppo, diciotto persone in tutto comprese le due guide, una organizzativa, Giorgio, e l’altra culturale, Maurizio.

L’aereo della Iran-Air ha due ore di ritardo, e quando infine il veivolo è pronto, chiedo “Ma ci fanno mettere il velo già sull’aereo?” Giorgio pronuncia la fatidica frase “Ma no, siamo tutti turisti…” Infatti, all’imbarco, le uniche due avventuriere decise a mettersi il fazzoletto solo su suolo iraniano, cioè io e mia cugina Sabrina, vengono richiamate dallo steward prima ancora di sfiorare la carlinga “Beh, e il velo?” ci dice, e ci deride pure mentre lo mettiamo “Ah, che peccato coprire quei bei capelli” riferendosi soprattutto a Sabrina, che ha lunghissimi capelli rosso fuoco. Veramente simpatico! Una volta a bordo, il volo è regolare. Ci servono un pranzo in cui tutte le pietanze hanno lo stesso anonimo sapore, e le ore scivolano così, lunghe e assonnate, mentre voliamo lungo il Mediterraneo, superiamo la Calabria, le coste greche, le montagne innevate di Creta, la Turchia e finalmente l’Iran, in un itinerario allungato a causa della guerra in Kossovo.

Arrivati a Teheran, dopo le formalità burocratiche incontriamo Hussein, la nostra guida locale, e ci rechiamo in albergo con un pullman che visto da fuori mi lascia un po’ perplessa , ma che invece non è malaccio.

L’albergo, che secondo l’Iran ha quattro stelle, in Italia potrebbe arrivare forse a due, ma almeno è pulito, e questo conta.

Qua si usa dare le mance, perciò il facchino che ci porta su le valigie poi si pianta sulla porta e l’unica cosa che dice è, allungando la mano, “Dinero”. Ci vuole un po’ perché capisca che le mance per tutti noi gliele avrebbe date la guida! Dopo una breve rinfrescata, verso mezzanotte andiamo a cena in un vicino ristorante, essendo ovviamente la cucina dell’hotel chiusa a quell’ora. Il pasto comincia con una sorta di scodella di yogurt alla cipolla con sfogliatine di un pane molto sottile, seguiti da riso senza condimento (premetto che però il riso iraniano è un po’ saporito di suo) e spiedini di pollo che mangio con le mani perché inizialmente non portano il coltello.

Verso l’una andiamo a letto. Io e Sabrina piazziamo una valigia davanti alla porta d’ingresso, dall’interno, perché dinero non c’è piaciuto, e l’altra davanti alla porta del balcone, che non si riesce a chiudere.

2/4/’99: la mattina ci sveglia una voce telefonica cha blatera qualcosa di incomprensibile in persiano, verso le 7:30, così ci alziamo e, superato lo shock alla vista del mio viso decisamente segnato dal viaggio e dall’aver dormito ben 6 ore in due giorni, ci prepariamo. Visitiamo la città di Teheran, che a dir la verità non mi entusiasma, così piena di quartieri con casermoni di cemento. Verso nord, però, a poca distanza si innalzano montagne innevate alte più di 4000 metri, sulle quali gli iraniani sciano tutto l’anno (naturalmente piste per uomini e donne separate).

Visitiamo due musei, uno di reperti islamici e preislamici, l’altro di vetro e ceramica. La guida intanto ci spiega la storia della Persia e dei vari popoli che l’abitarono, dai medi, ai persiani di Ciro il Grande, ai greci di Alessandro Magno, ai parti, alle invasioni arabe del VII° secolo dopo Cristo e a quelle mongole e turche, e narra delle varie religioni, da quella islamica a quella zoroastriana, anch’essa monoteista.

Ovunque, per le strade di Teheran, ci sono militari col mitra in mano e gigantografie di Komeini e Kamenei, il precedente e l’attuale ayatollah, attaccate ai palazzi, nelle stazioni, all’aereoporto.

Mangiamo in un ristorante con un pranzo a buffet. Non ho proprio idea di cosa mi finisca nel piatto, però è tutto buono.

Poi visitiamo piazza Azadi, (Azadi= libertà), una piazza con un grande monumento moderno addobbato con palline colorate. La guida ci spiega che le decorazioni sono dovute alla vicinanza del capodanno iraniano, che è il 31 marzo (tra parentesi qui siamo nel 1379, secondo il loro calendario). Oggi è dunque il 13° giorno dall’inizio del nuovo anno, un giorno particolare che bisogna trascorrere fuori casa per scacciare la sfortuna. Un’altra tradizione legata a questo giorno è partire in macchina con un vaso d’erba sul tettuccio della vettura e farlo cadere per terra. L’erba simbolegia la cattiva sorte che verrà allontanata per l’anno nuovo. Infine visitiamo un museo di bellissimi tappeti. Ce ne sono alcuni veramente enormi, credo che ci potrei corpire l’intero mio appartamento! Verso sera torniamo in aeroporto per prendere il volo per Shiraz. Naturalmente ci sono ingressi separati per uomini e donne, e due addette alla sicurezza mi perquisiscono da capo a piedi. Mi fanno tirare tutto fuori dallo zaino, osservano sospettose la mia bomboletta di lacca spray e quando spiego che è un prodotto per capelli mi guardano come avessi mostrato loro un segno di perdizione.Qui infatti non tutti tollerano che le donne si trucchino. Figurarsi la lacca per capelli! Il nostro aereo è di fabbricazione russa, e tra steward dalla pelle scura e hostess imbacuccate nei loro chador neri sbuca il pilota, evidentemente russo, con barba e capelli rosso fuoco. E’ uno strano contrasto di colori.

Di fianco a me è seduto un gentilissimo signore armeno col quale scambio qualche parola e che mi mostra i doni che ha comprato per le sue figlie. Il volo è breve, e per le nove siamo già all’albergo, molto più carino di quello di Teheran .

3/4/’99: qui a Shiraz, oltre a portare il velo, (che ormai è diventato parte di me tanto che me lo sento addosso anche le rare volte in cui non ce l’ho), non posso neanche girare liberamente in pantaloni e giubbino. La mamma mi presta una jalleba blu, un vestito lungo marocchino. Sembriamo un gruppo di suore, e in mezzo alla folla di donne locali, quasi tutte nei loro lunghi abiti neri, ci confondiamo tanto che da dietro quasi non ci riconosciamo nemmeno.

La mattina visitiamo Persepoli, la città di Dario e Serse di cui sono rimaste grandiose rovine. I palazzi e alcune scalinate sono in basalto, è pieno di colonne e bassorilievi interessantissimi. E pensare che la storia dei persiani l’ho studiata ben tre volte, alle elementari, alle medie e alle superiori, ma vedere queste rovine con i miei occhi è tutta un’altra cosa. Dai muri di Persepoli mi guardano i guerrieri immortali, barbuti guardiani di antichi re, sfilano le processioni dei traci, dei libici, degli etiopi e di numerosi altri popoli che appartenevano alle satrapie, cioè province, dell’impero persiano, che andava dall’Africa al Kashmir ed era quindi immenso. A quel tempo uno stesso popolo parlava lingue diverse, sudditi lontani portavano doni all’imperatore, presi per mano dagli immortali guardiani, più religioni convivevano nelle stesse terre. Non erano più forti allora la tolleranza e quello spirito universalistico verso cui tende questa nostra nazionalista umanità? Questo mi viene da pensare mentre lascio l’enigmatica Persepoli.

Nel pomeriggio ci aggiriamo per Shiraz, che è una bella città situata in mezzo a montagnole desertiche e brulle. Visitiamo una moschea, due parchi pieni di fontane e alberi e il mausoleo di Hoafez, un bellissimo luogo pieno di verde e di pace. Il poeta Hoafez, il cui nome significa “colui che ha memoria”, è in pratica l’equivalente del nostro Dante, in quanto a fama, e conosceva il Corano appunto tutto a memoria. Per questo era un personaggio anche religiosamente molto importante. La sua tomba, visitata ogni giorno da molti persiani che vi si recano per chiedere consiglio allo spirito del poeta, è un sarcofago molto semplice in alabastro, che si illumina con la luce del sole e sul quale sono scolpiti alcuni suoi versi. Il tutto è molto semplice ed elegante.

La nostra guida locale oggi è una donna di nome Mitra (Mitra era un’antica divinità). Io l’ho scherzosamente soprannominata Kalashnikov, naturalmente senza che lei lo sappia. Durante le pause ci spiega alcune abitudini iraniane. Per esempio ci dice che molti uomini, tra cui i suoi fratelli, trovano sciocco perdere tempo nel cercare una ragazza che piaccia loro, per cui spiegano alla mamma e alle sorelle il loro ideale di donna, sia dal punto di vista fisico che caratteriale, morale, e poi le parenti si mettono in cerca. Quando ne trovano una che soddisfi i requisiti combinano un incontro in casa sua, dove la ragazza si può togliere il velo se non ci sono uomini estranei alla sua famiglia, e se lei accetta poi le faranno incontrare l’aspirante marito. Quando i due si incontrano, decidono se sposarsi oppure no. Oggi le donne possono persino divorziare in casi gravi in cui per esempio il marito non lavori e sia povero, o le maltratti, o non possa avere figli. Kalashnikov ci spiega che per uno dei suoi fratelli, molto religioso, avevano trovato una brava ragazza, ma quando lui ha scoperto che lei non portava il velo a casa l’ha considerata poco seria e non se n’è fatto nulla. Mah! A metà del pranzo Kalashikov si scusa e ci lascia per andare a pregare, e al ritorno le chiedo cosa succederebbe qui se una donna uscisse di casa senza il velo. Mi risponde che nessuna ci ha mai provato. Personalmente io il velo lo detesto e lo considero un’assurda restrizione della libertà femminile da parte degli uomini. Infine ci spiega anche che al mare le donne possono stare in costume e senza velo! Ma naturalmente le spiagge per uomini e bambini sono separate da quelle per donne e bambine (c’era, la fregatura!). L’ultima visita della giornata è riservata al bazar, che è esattamente come si vede nei film, ovvero un intrico pazzesco di stradine coperte con mille bottegucce minuscole ai lati, così piccole che nemmeno a volte ci si sta in piedi, e un sacco di gente che contratta, mercanteggia, bambini che ti si avvinghiano vendendoti ogni cosa. Qui la nostra povertà sarebbe una notevole ricchezza. Ovviamente non esistono cartellini coi prezzi e ogni negoziante, a seconda di quanto crede di poterti fregare, ti spara un prezzo esorbitante che poi cala con la contrattazione, che è una pratica sacrosanta e quasi obbligatoria. La moneta è il rial, che vale 0,25 lire (esiste anche il toman, 10 rial).

La cena è costituita dall’onnipresente zuppetta di verdure e orzo, riso scondito e carne di manzo o pollo. Avrei tanta voglia di un bel piatto di maccheroni con pomodoro e grana! Dopo aver cenato salutiamo Kalashikov dandole la mano. Ci prova anche il papà, molto innocentemente, ma lei si ritira spaventata e dice “No, no, scusa…” Così scopriamo che qui è vietato agli uomini e alle donne stringersi per mano in pubblico, tranne che per moglie e marito. Rimango senza parole.

Verso le nove usciamo per andare a visitare una bellissima e grandiosa moschea illuminata contro il buio della notte. Stupenda. Come non fossimo abbastanza coperte, ci fanno indossare il chador, il lungo pastrano nero che copre dalla testa ai piedi. Per me è una brutta sensazione averlo addosso, ma solo così noi donne straniere possiamo entrare, in silenzio e senza ridere, perché questo è un luogo sacro, dov’è sepolto il fratello di uno dei dodici himam, i “santi” dei musulmani sciiti. Dove sono sepolti gli himam, invece, gli occidentali non possono proprio entrare. Ci togliamo le scarpe ed entriamo, ovviamente ogni sesso nella metà separata di moschea di propria competenza. Dentro pare un altro mondo. Donne con anche tutto il volto coperto, cosicché non si capisce neanche qual è il davanti e quale il dietro, alcune sdraiate per terra, altre prostrate nella posizione della preghiera, con un mattoncino rotondo e piatto sotto la fronte per non toccare il pavimento, coperto di tappeti. La moschea è tutto un brillio di specchietti, con ornamenti tanto carichi che abbagliano e stupiscono, ma io apprezzo le cose un po’ più sobrie, anche se mi colpisce molto. Tutte le donne ci guardano meravigliate, alcune sorridono, ci indicano col dito. Mi sembra di essere un animale raro. Ad un certo punto un uomo, dall’altra parte, intona una preghiera a tutto fiato. Ha una voce stranissima, che assomiglia, senza scherzi, al verso di una capra, e mi verrebbe da ridere, ma qui non si può. Così mi faccio seria e continuo ad aggirarmi meravigliata, nascosta sotto al mio chador, pensando all’assurdità di tutti questi precetti religiosi imposti soprattutto alle donne, che non possono neanche rimboccarsi le maniche quando fa caldo o girare senza calze.

Comunque qui di stranieri ne devono girare pochini, perché i più ci guardano come fossimo marziani. A volte il nostro pullman affianca carri vecchissimi pieni di persone, bambini che ci salutano sorridenti con la mano, e quando vedo queste cose penso a come doveva essere l’Italia durante la guerra, o anche prima. Ma la gentilezza e la semplicità di questa gente mi piace molto, e così come a volte chiediamo loro di ritrarli in foto, così a volte loro si avvicinano timidamente e ci chiedono il permesso di fotografarci. Insomma, attrazione e curiosità sono reciproche. Qualcuno, poi, in inglese ci chiede di dove siamo, ma dalle loro facce, quando dico Italy, dubito che tutti sappiano dov’è. Altri, invece, ridacchiano nel vederci passare, forse perché non siamo abituate a vestire il chador e siamo un po’ buffe.

4/4/’99: lasciamo Shiraz alla volta di Pasargade, una distesa di erba secca dalla quale sbucano a grappoli pezzi modesti di rovine. Però la tomba di Ciro il Grande è perfettamente conservata, e si erge solitaria ai confini del deserto. Aristobulo., storiografo di Alessandro, diceva “Il sepolcro di Ciro si trova a Pasargade..Circondato da un bosco con ogni tipo di albero, ben irrigato, con uno spesso tappeto erboso…” Di tutto quel verde non c’è più traccia. Siamo in una zona semidesertica. Come sempre cerco di immaginare questo posto com’era nei tempi antichi, ricreo con la mente i templi là dove ci sono solo colonne spezzate e penso ai guerrieri, agli antichi re. Persa nel vento, col velo e la jalleba che si agitano, rifletto sui tanti misteri del passato che l’uomo non è riuscito a svelare. Tutto questo mi rende un po’ triste, ma mi affascina immensamente. Riprendiamo il viaggio per Yazd, e quando ormai siamo in pieno in mezzo a questo strano deserto nel quale sbuca di tutto (dai paesini fatiscenti con oche e maiali che attraversano la strada agli incroci senza cartelli, dagli improvvisi campi d’erba solitari e verdissimi senza apparente dislocazione logica, né vicine pompe d’acqua, né mezzi per lavorarli, ai filari di alberi in fiore che poi cedono di nuovo il passo al nulla, agli accampamenti di nomadi che non si sa di cosa vivano in mezzo alle pietre) ci fermiamo a mangiare ad Abarq, di cui visitiamo l’antica ghiacciaia e la piazza principale. Chiamare Abarq città è un eufemismo, in quanto è più uno sperduto gruppetto di case di fango desolate e strade fantasma che sorge in mezzo al niente. Solo in centro c’è un po’ di vita, e frotte di bambini ci attorniano incuriositi, si fanno scattare fotografie, ci chiedono di vedere i nostri orologi e seguono ogni nostro movimento. L’approdo di turisti credo che sia un evento molto, molto raro. Forse sperano di ricevere qualcosa. Qua c’è una povertà sconcertante, spero sconosciuta, da noi.

Ripartiamo e ci fermiamo di nuovo a visitare il mausoleo di Ali (il “successore” di Maometto) uno sperduto edificio che si erge su una collina. Dicono che quando un occidentale vede il deserto se ne innamori e ne provi nostalgia. E’ quello che è successo a me. Con la jalleba e il velo che fluttuano nel vento mi perdo a guardare l’infinita distesa di niente contornata da montagne di sola e nuda roccia, senza un arbusto, sormontata dal cielo nuvoloso, colorato dall’ultima luce del giorno. E’ una cosa che lascia senza parole. La mano dell’uomo è totalmente assente, spesso non esistono nemmeno i pali della luce. In più c’è il fascino di un paesaggio a me totalmente sconosciuto, che mi incanta. Già adesso ne provo nostalgia.

Dopo aver percorso centinaia di chilometri di deserto approdiamo in serata a Yazd, che è una città vera e propria. Ceniamo in un bellissimo ristorante con i tavoli e le sedie rivestiti di tappeti, vasche piene d’acqua, candelabri accesi e volte ad arco. Oltre al solito menù ci portano una sorta di crema di melanzane e formaggio molto buona. Infine arriviamo in albergo, che, ci avvertono, per questa notte sarà un po’ più modesto delle precedenti. La stanza in cui siamo io e Sabrina ha una finestra. La apro per avere un po’ d’aria e mi ritrovo a guardare dentro ad uno sgabuzzino delle donne delle pulizie, allora vado in bagno, mi siedo sul vater e quasi mi ribalto per terra, dal momento che è solo appoggiato, non fissato al pavimento. Ho riso per un quarto d’ora. Questo viaggio è una bella avventura in una terra lontanissima, sia geograficamente che culturalmente, dalla mia, e sono contenta di poterlo vivere ridendo di questi piccoli inconvenienti, e di non alloggiare in super hotel. Così il mio spirito di adattamento si tempra, il che è sempre una cosa positiva.

5/4/’99: di Yazd visitiamo per prima cosa il luogo di sepoltura degli zoroastriani antichi, ovvero le due torri del vento, (le dakhme), una per le donne e una per gli uomini. Gli zoroastriani credono che i cadaveri non debbano “inquinare” i cinque elementi. Bruciandoli sporcherebbero il fuoco, seppellendoli toccherebbe alla terra e così via, perciò mettevano il morto su una sorta di graticcio in cima alla torre, e quando era stato scarnificato da intemperie e rapaci le ossa cadevano dentro alla torre cava, restando separate dalla terra per mezzo della roccia (oggi vivono ancora circa 12000 zoroastriani a Yazd).

Devo dire che Yazd non la visito con grande interesse perché non sto tanto bene, ma verso mezzogiorno torno in forze e, in un’altra moschea, incontro un gentilissimo iraniano che è ansioso di parlare in inglese. Mi chiede da dove vengo, cosa studio, poi tutto orgoglioso mi dice che lui è un “Iranian English teacher” e chiede di fare una foto con me, dopo di che ci saluta con un “I’m glad to have met all of you”. Penso che una simile gentilezza da noi si incontri raramente. Intanto frotte di bambini continuano a seguirci. Tra di loro ce n’è uno piccolo e simpaticissimo, con gli occhioni da furbetto.

Dopo Yazd ripartiamo verso Esfahan e ci fermiamo a mangiare ad Ardakan, poi torniamo ad attraversare il deserto, che è meno bello di quello di ieri ma rimane comunque uno spettacolo affascinante. Ad un certo punto, guardando fuori dal finestrino, non vedo più assolutamente niente, nemmeno le montagne ma solo una piattissima distesa di terra chiara e ciuffetti d’erba secca. A Nain visitiamo un’altra moschea e dopo l’ennesima, estenuante traversata desertica approdiamo in serata ad Esfahan. Con il pullman attraversiamo le strade illuminate, i ponti stupendi sul fiume Scyoianderut, i giardini verdi e pieni di gente. Qui si respira un’aria da città moderna. L’albergo questa volta è veramente di lusso, la hall è tutto un brillio di specchi e lampadari di vetro, alla reception sono tutti in livrea e parlano tutti inglese, e pure la cena è un po’ diversa dal solito. Il direttore dell’albergo cena con noi a sottolineare l’importanza degli ospiti stranieri, e dopo aver finito di mangiare, mentre io e la mamma stiamo tornando in camera, un cameriere ci rincorre, ci ferma e comincia a parlare e ad inchinarsi. La guida ci spiega che fa così il cerimonioso appunto perché siamo stranieri. Dopo cena facciamo una passeggiata fino alla vicina Piazza dei Re, che è lunghissima, con fontane a spruzzo e lunghe vasche d’acqua nel mezzo, giardini che fiancheggiano l’acqua e mille luci basse che illuminano la notte senza infastidire gli occhi. Lungo i lati della piazza ci sono due moschee e un palazzo chiamato Halikapu, ovvero la sublime porta, e questi monumenti, illuminati, sono collegati da un portico con una doppia fila di archi ad ogiva, anch’esso illuminato. Sembra di essere in una favola delle Mille e una notte. E’ una piazza romantica, forse la più bella che io abbia mai visto.

6/4/’99: la mattina visitiamo il palazzo delle 40 colonne (in verità ne ha 20 che si specchiano nella vicina vasca d’acqua, sicchè 20 reali più venti riflesse fa 40). La guida locale, un ragazzo molto spiritoso che parla bene l’italiano, ci spiega che 40 è un numero speciale per l’Islam in quanto proprio a 40 anni Maometto divenne il Profeta. 40 è anche un numero usato per esagerare, come noi diremmo un miliardo. Per questo si usa dire Ali e i 40 ladroni, non perchè fossero 40 ma perché comunque erano molti. Dopo di che torniamo alla Piazza dei Re, che anche di giorno è bellissima, e visitiamo le due moschee e la Halikapu. La prima moschea è costruita in modo tale che, stando all’ingresso, il raggio di luce che entra da una finestra faccia un riflesso tale da sembrare la coda di un pavone dipinto all’apice della cupola. La sublime porta invece ha una stanza con le pareti piene di incavi a forma di strumenti, costruita in modo che suonando musica qui dentro le note si diffondano attraverso i muri e tale musica si possa sentire perfettamente anche agli altri piani del palazzo. Questo perché quando lo scià se ne stava con le donne dell’harem non voleva essere visto dai musicisti. E’ una cosa molto ingegnosa. Beh, devo dire che la struttura di tutti questi edifici mi colpisce molto. Sono maestosi, decorati o in stucco o in mattonelle quasi sempre azzurre (il colore dell’acqua, qui molto amata in quanto rara. Tra parentesi i colori oro, argento e rosso sono vietati, così come ogni raffigurazione umana e animale). Eppure, a parte i tappeti, non esistono altri ornamenti come statue, pinnacoli, altari. Insomma, sono edifici molto semplici e armoniosi, e spesso si trovano all’aperto, non sono chiusi, e in mezzo al cortile e alle piazze interne ci sono vasche d’acqua per purificarsi prima di pregare, in cui si specchia il cielo, altro elemento molto amato. Mentre la guida ci spiega qualcosa della religione islamica, a parte le assurdità del chador e via dicendo, che sono imposte dall’uomo e non scritte sul Corano, penso che questa religione sia molto buona e affascinante, e che noi occidentali facciamo molto male a criticarla senza conoscerne che la punta dell’iceberg. Tutto ciò mostra ancora una volta la nostra profonda ignoranza, la nostra presunzione nel giudicare ciò di cui nulla ( o poco) sappiamo.

Comunque, nonostante questa sia una città un po’ più moderna delle altre, anche qui di turisti ne devono arrivare pochini. Tutti ci guardano meravigliati, addirittura una signora chiede di poterci riprendere con una telecamera, come fossimo extraterrestri, e un bambino, mentre passiamo, capendo che siamo italiani ci dice “fascisti”. Dubito che sappia anche lontanamente il significato di tale parola, ma è bizzarro notare che, così come noi spesso pensiamo a questa gente come a un branco di integralisti terroristi, loro pensino a noi come a dei mafiosi fascisti. I luoghi comuni sono duri a morire.

Tornando in hotel, due ragazze della reception, sentendo che parlo inglese, mi chiedono subito quanti anni ho, da dove vengo, cosa studio. Una delle due ha un nome simile al mio, tipo Elaha, o qualcosa del genere.La sera prima, uno dei due ragazzi in livrea mi aveva chiesto le stesse cose. Ormai, comunque, credo di aver capito che gli iraniani che hanno studiato hanno una voglia matta di parlare coi turisti, di conoscere qualcosa del mondo fuori dal loro paese. Forse sono affascinati dall’ovest come io lo sono dall’oriente. Nel pomeriggio visitiamo la più grande moschea di Persia, con una superficie di circa 23000 metri quadri. Sotto ad una delle immense cupole c’è un punto in cui si creano un’eco e un’amplificazione incredibili, usate per far sentire ovunque la voce del mullah. La guida si china per terra e dà un cricco ad una banconota, e il suono prodotto è veramente potente. Un signore intanto ci racconta alcune cose molto interessanti: per esempio che nel palazzo delle 40 colonne sono dipinte alcune scene (usando i colori vietati oro e rosso) che alcuni trovano pornografiche (capirai, sono castissime donne con capelli e seno scoperti). Tutto ciò è proibitissimo, perchè i musulmani considerano l’uomo fatto a immagine di Allah, ed Egli è troppo perfetto per essere rappresentato. Poi racconta che, nonostante le imposizioni, nelle case private succede di tutto. Per esempio al suo matrimonio, ci dice, c’erano donne in minigonna e vino a volontà! (comprato al mercato nero). Il resto del pomeriggio lo dedichiamo al bazar, che è lungo 3 chilometri e ha 12000 negozietti. La mamma ha paura che qualcuno mi rapisca e vorrebbe che le stessi sempre appiccicata, ma io mi stufo e me ne vado in giro con Sabrina. Nei negozi ho imparato che bisogna decisamente contrattare, anche se non è una cosa di mio gusto. Ma in fondo è anche un gioco: ridiamo sia io che il negoziante quando lui mi dice 50, io propongo 40, lui abbassa a 48, io arrivo a 43 e alla fine compro a 45. Ci sono altri turisti, ma vedo che alcuni italiani trattano male i negozianti pretendendo prezzi troppo bassi e regali, dando loro pacchette sulle spalle dicendo “Va bene così” come fossero cani da rabbonire invece che persone. Questo mi dà molto fastidio. Dopo aver comprato regali e cartoline, parlando un po’ in italiano e un po’ in inglese, torniamo all’hotel. Il ragazzo della reception mi saluta per nome e mi dà la chiave della mia stanza senza che io gli dica il numero, e quando vede che salgo da sola, senza mia cugina, furtivamente corre su per le scale e tutto trafelato mi dà il suo indirizzo. Poi mi guarda e mi dice: “You are beautiful”. Fa tutto questo come in gran segreto, perché penso che abbia paura che qualcuno lo veda. Forse anche il suo comportamento non sarebbe ritenuto religiosamente corretto.

7/4/’99: ci alziamo alle 6 e partiamo subito. Visitiamo una moschea a Natanz e una casa Kajara a Kashan (i Kajari erano la dinastia degli scià dell’800). Maciniamo centinaia di chilometri nel deserto, incontrando anche un grande lago salato, tutto bianco. A metà pomeriggio arriviamo a Qom, la città santa dove insegnò Komeini, perciò dobbiamo di nuovo metterci il chador anche solo per camminare per strada. Fa un caldo insopportabile. Mi viene il nervoso guardando il papà e lo zio belli come il sole nelle loro camicie a maniche corte e noi avvolte in quell’odioso pastrano nero. Comunque, la moschea dalla cupola d’oro che vorremmo visitare è grandissima e ha una piazza centrale circondata da un muro. I non musulmani qui non possono entrare, nemmeno nel cortile esterno, per cui vediamo il tutto da una delle porte della cinta muraria, alla quale ci è permesso avvicinarci uno alla volta per scattare una foto. Ma dopo che Maurizio, che conosce la lingua, la storia e la cultura del paese a menadito, fa un quarto d’ora di salamelecchi al guardiano, incredibilmente ci viene dato il permesso di attraversare il cortile, in silenzio e senza ridere. Mi compiaccio nel constatare che gli altri italiani sopraggiunti dopo di noi, tra cui quelli che trattavano male i negozianti al bazar, non ottengono di fare altrettanto.

Dopo la sauna di Qom ripartiamo e in serata torniamo a Teheran. Ceniamo in un ristorante bellissimo che era una casa Kajara. E’ pieno di tappeti, di cose tipiche, ci sono i musicisti che con sirtaki, tamburi e fisarmonica si esibiscono in canti arabi e russi e ad un certo punto, su richiesta, ci cantano persino Torna a Surriento in un italiano un po’ buffo. Questo è proprio un locale di lusso, si vede che ci sono i ricchi di Teheran. Tutti i ragazzi e gli uomini, pettinati all’occidentale, sono in giacca e cravatta, e le donne lasciano scoperti lunghi ciuffi e frangette di capelli. Qui finalmente vige la tolleranza.

8/4/’99: ci alziamo alle 4, stracciati, e alle cinque e mezza siamo in aeroporto. Ci fanno passare attraverso interminabili controlli, mi perquisiscono di nuovo. Al free shop compro le ultime cose e alle 8:30, come da programma, si parte.L’hostess ci accoglie a bordo con le parole “In the name of God, welcome on board”. Alle nove, quando l’aereo è in quota, ci servono un misto tra la colazione e il pranzo: latte e succo di arancia, brioches, patate e frittata di solo albume.C’è parecchia turbolenza, l’aereo continua a traballare. Mi vengono dieci minuti di inspiegabile panico, ma poi passa.

Le nuvole, viste dall’alto, sono stupende. Ad un certo punto voliamo tra due strati di bianco infinito, separati da una fettina di cielo azzurro, e più oltre i nembi si fanno movimentati e animano scenari mozzafiato. Arriviamo a Roma alle 10:30 ora italiana, e ancora sull’aereo mi tolgo il velo, che non sopporto più.

Passiamo controlli e dogana, in treno torniamo alla stazione Termini e ormai è già ora di pranzo. E finalmente mangio un bel piatto di lasagne in una trattoria! Tornando verso casa guardo fuori dal finestrino del Pendolino che sfreccia nella campagna romana. E’ così strano vedere prati e boschi e colline verdi e fiorite, dopo sette giorni di deserto.

Il giorno dopo riprendo l’università. Per arrivare all’aula 7 cammino per il corridoio in cui tutti, sotto alla scritta “vietato fumare”, fumano come turchi, e ogni istante volano parole poco gentili che ormai si usano nel normale gergo giovanile. Mi viene fin troppo spontaneo pensare alla gentilezza delle persone che ho conosciuto in Iran. Siamo noi i popoli civili? Certo da loro c’è molta meno libertà, le donne hanno moltissime restrizioni, ma da noi spesso la “libertà” sfocia in maleducazione e prepotenza, due cose che personalmente detesto. E mentre penso ai computer, al mio futuro di ingegnere, in mezzo alla bolgia di studenti che affumicano il corridoio mi tornano in mente le moschee all’aperto, sotto il cielo azzurro, semplici e armoniosi luoghi di preghiera, e il deserto silenzioso dell’Iran, dov’è rimasto un pezzetto di me.

E’ proprio stato un viaggio bellissimo.



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