Tour della Birmania

Il Paese dei sorrisi in visi cosparsi di tanaka, dei variegati longyi, delle infradito, della meditazione, della modestia, delle foglie d'oro, dei lavori artigiani, di quelli sui campi perfettamente coltivati con grande fatica, delle etnie, del pesce essiccato, delle mongolfiere, delle albe e dei tramonti
Scritto da: Luna Lecci
tour della birmania
Partenza il: 28/01/2018
Ritorno il: 15/02/2018
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €

Birmania-Burma-Myanmar

Premessa

Ho diversi giorni e quindi la possibilità di vedere le principali mete turistiche e quelle un po’ più di nicchia del paese. La soluzione migliore è noleggiare un’auto privata con autista per un giro individuale. La mia ricerca si focalizza su alcuni operatori italiani e locali che propongono, più o meno, le stesse destinazioni, magari con un percorso differente e utilizzando mezzi di trasporto vari. Consiglio di contattare i seguenti tour operator per professionalità, velocità e precisione nel rispondere: Myanmarexperttours (Mutu Suresh mutu.myanmar@gmail.com), Tri Elephant – Evanoes (Yi Yi LeLe myanmartrielephant@gmail.com), Stelle d’Oriente (Roberto info@stelledoriente.it), Ciao Asia Travel (Diu diu@ciaoasiatravel.com) e Sonny della Travels and Tours co., LTD al quale diamo la nostra fiducia (www.sonny-myanmar-travelguide.com).

Tante sono le mail che scambio un po’ con tutti fino a quando non s’intensificano con Sonny che risponde in italiano e dal quale mi faccio prenotare, oltre al driver per due settimane, due voli interni e due giri in barca (Mandalay e Mingun/Inle).

Descrizione Costi Totali in $ o € o MMK A persona in €
Volo internazionale Qatar con scalo a Doha € 1.306 € 653
Autista completamente spesato per tutto il tour in Myanmar $ 1.005 € 428
Volo interno Heho-Ngpali $ 240 € 102
Volo interno Ngpali-Yangon $ 220 € 94
Barche (Mandalay/Mingun, Inle) $ 60 € 25
Hotel 2* o 3* $ 520 € 220
Entrate varie (tasse per le città, templi, macchina fotografica) $ 146,75 € 62
Calesse e barca a Inwa K 10000+2800 € 4
Cibo, mance e souvenir $ 272 € 115

28 Gennaio: ROMA FCO – DOHA – YANGON

Partiamo con il volo operato dalla Qatar Airways delle 8,20 (posti 22B) da Roma Fiumicino, ma in realtà il Boeing 787-8 è Dreamliner.

Durante le 5 ore e 35 di volo servono un’abbondante colazione: succo d’arancia, cornetto con marmellata, yogurt, frutta e, a scelta, omelette con wurstel, patate e fagioli, oppure tortino al cioccolato su marmellata di frutti rossi e pancake su crema di vaniglia (una vera bontà).

Prima dell’atterraggio, uno spuntino con tortino al cioccolato e sandwich vegetale o di pollo.

Atterriamo a Doha alle 15,55 ora locale, a Roma sono le 13,55, un giretto nel duty free e ci colleghiamo con wi-fi gratuito.

Dopo uno scalo di 4 ore, alle 20 ripartiamo – Airbus A330-200 Qatar Airways -, per Yangon.

Durante le ulteriori 6 ore di volo servono la cena: insalata di noodle con mostarda, brasato di manzo con verdure e riso oppure pollo, purea e vegetali, un dolcetto e si cerca di dormire.

Poco prima dell’atterraggio ci portano la colazione: tortino alla vaniglia e sandwich vegetale o con pollo.

29 Gennaio: YANGON (o RANGOON)

Compiliamo un form (confermiamo che non trasportiamo narcotici, droghe, sostanze stimolanti, psicopatiche, articoli che offendono la moralità, attacchino la sicurezza, fuochi, armi, esplosivi, munizioni, materiali osceni, oggetti immorali, specie selvagge, in estinzione o loro parti senza certificato, moneta contraffatta, biglietti falsi, banconote finte) e atterriamo a Yangon alle 5,30.

A darci il primo saluto=Min ga lar bar vi sono sia Sonny Tin Aung Soe con la sua macchina, sia l’autista Aung San che ci trasporterà per il lungo tour del Myanmar su un comodissimo pulmino a 8 posti, sedili in pelle, aria condizionata, una bottiglietta d’acqua e una salvietta rinfrescante al giorno.

Il fuso orario è di 5 ore e mezza in più rispetto all’Italia dove è mezzanotte.

È ancora buio pesto, arriviamo in una mezz’ora scarsa all’Hotel Rangoon 40TH prenotato, come tutti quelli della vacanza, da me su booking. Sono le sei ma ci danno la possibilità di fare il check-in, prendere possesso della camera standard e, alle 7, colazione (stamane non era inclusa).

Sonny si ferma un po’ con noi, scambiamo due chiacchiere, ci ha portato il contratto da firmare, lo schema di quello che sarà il giro e un po’ di moneta locale per il cambio.

Paghiamo in dollari tutto il tour (non avevamo avuto il tempo di effettuare un bonifico per il 30% così come solitamente chiede) e tramutiamo 325 $ in Kyat diventando “milionari” vista la quantità industriale di MMK ora in nostro possesso: 442 mila (1$=1360k, gli euro non li cambiamo 1€=1650k).

Tra grandi sorrisi e piena fiducia ci salutiamo, l’autista tornerà fra un’oretta lasciandoci il tempo per fare una doccia, indossare infradito, abiti estivi e avere la breakfast.

La posizione dell’hotel non è male e in un batter baleno raggiungiamo la Pagoda Botahtaung (6000k pp comprensive di salvietta umidificata, bottiglietta d’acqua e cartina) lungo il corso del fiume Yangon. È alta più di 40mt e per entrare, come faremo d’ora in poi, ci togliamo le scarpe. Passeggiamo all’interno della struttura, su un lungo corridoio dalle pareti di lastre d’oro incise e dedicate ai mille soldati che più di 2000 anni fa scortarono otto capelli di Buddha dall’India alla Birmania (ora qui, in un minuscolo cilindro d’oro, ve n’è solo uno).

Quasi tutta la popolazione (dai bimbi agli anziani) indossa il longyi, una sorta di pareo legato intorno alla vita e lungo fino ai piedi. Soprattutto le donne, ma anche molti uomini, hanno il viso, le gote, il naso e la fronte cosparsi di quella che, a prima vista, sembra una crema giallastra, ma che in realtà è la tanaka (o thanakha), una polvere ottenuta dalla corteccia di alcuni alberi, macinata su pietra e mischiata ad acqua per proteggersi dal sole. È in vendita in piccoli tronchetti e molte volte, nel corso del viaggio, mi fermeranno per applicarmela sostenendo che è anche rinfrescante, idratante e, con qualche ghirigoro, maquillage di bellezza.

È poi la volta, attraversando la verdissima Bank Street, della pagoda Sule che quasi fa da rotatoria a tutte le auto. Ha una pianta ottagonale, quattro ingressi principali e la sua guglia dorata spicca al centro della città. Anche qui si pensa vi sia un capello di Budda; d’altronde ogni sua reliquia ha creato un luogo di pellegrinaggio affinché il culto religioso si espandesse.

Nei pressi si trovano: il municipio, che è un grandioso edificio bianco, le imponenti sedi della Corte Suprema, della Compagnia dei trasporti e dell’autorità portuale del Myanmar, il curatissimo giardino Maha Bandoola con in centro un obelisco di 50mt (monumento all’Indipendenza), alla base del quale otto figure mitologiche col corpo di un leone e la testa di un drago. Due passi li facciamo anche a Pansodan Street che da nord a sud taglia il quartiere dagli eleganti edifici in stile coloniale. Una foto qua e là al suggestivo Strand Hotel, alla Dogana e al maestoso Palazzo di Giustizia.

Visitiamo la Chauck Htat Gyee Pagoda (entrata gratuita) dove si trova un Buddha sdraiato enorme di 65x16mt. Ha il corpo bianco, indossa una veste dorata, ha una testa enorme sulla quale una corona rivestita d’oro, ornata con diamanti e pietre preziose. Gli occhi sono azzurri, le labbra rosse e i piedi enormi con le dita smaltate sotto ai quali disegni dai vari significati (una sorta di 108 codici delle caratteristiche fisiche).

Brevi sono i tragitti in auto, la città si sta risvegliando, il traffico è un po’ più intenso e la temperatura sale a una trentina di gradi.

Piacevole la passeggiatina intorno al lago artificiale Kandawgyi che significa grande lago reale, uno dei due principali della città, su cui affaccia il Palazzo Karaweik, un ristorante semi galleggiante dalla forma di un galeone o chiatta reale dorata, esclusivo per i locali ma per noi molto abbordabile. Il lago ha una circonferenza di circa 8 km e diverse aree sono adibite a giardini zoologici.

Ultima meta la Pagoda Shwedagon (10000k pp cartina compresa) il cui nome deriva da oro=shwe e dagon (termine storico dell’area in cui fu edificata), il tempio più importante del Myanmar. Secondo la leggenda, fu costruita 2500 anni fa per ospitare sia 8 capelli del Buddha storico detto Gautama, sia tre reliquie (un filtro d’acqua, un pezzo di abito e un sostegno) rispettivamente di altri tre dei sette Buddha del passato. Ancora oggi è uno dei luoghi di culto preferiti dalle famiglie birmane e da chi proviene da tutto il sud est asiatico. Ci troviamo all’interno di un maestoso complesso di templi e santuari (circa 70 in tutto) e la stupa, interamente ricoperta d’oro con brillanti e pietre preziose incastonate (79569 tra diamanti e zaffiri, topazi, rubini e smeraldi), svetta a 98mt d’altezza. Dopo aver adagiato offerte in denaro, fiori e frutta, prima di iniziare a pregare, molti pellegrini versano dell’acqua sulle immagini sacre.

A ogni giorno della settimana (sono otto poiché il mercoledì è suddiviso in mattina e sera), è associata un’immagine di Buddha con riferimento a uno degli otto eventi fondamentali della sua vita.

Nel 1988 fu qui che Aung San Suu Kyi parlò a più di un milione di persone per opporsi al regime militare e nel 2007 i monaci buddhisti crearono il movimento anti-regime. Il tempo passa velocemente, non si può vedere tutto e per fortuna avevamo preso un punto di riferimento all’entrata (sono quattro), altrimenti ci saremmo quasi persi.

Ta tà (ciao) all’autista che si è svegliato all’alba, ma prima di rientrare in hotel, gironzoliamo tra le stradine che lo circondano soffermandoci a curiosare tra le numerose bancarelle che espongono mercanzia varia (frutta e verdura, cibi fritti al momento…).

Acquistiamo, per un totale di 2000k: un casco di banane, un cachi quadrato e schiacciato, un avocado, degli szidì ovvero frutti ovali e verdi, simili a delle grosse olive dolci, da un sapore non definito, e due manghi – che scopriamo essere acerbissimi e andrebbero mangiati dopo essere stati messi ammollo nell’acqua e conditi -. Io azzardo e gusto legumi bolliti che una donna mi consegna in una micro bustina trasparente (simili a ceci ma con un filino attaccato… forse un tipo a me sconosciuto di soia?) e una pannocchia cotta al vapore dai grani di tutti i colori.

La stanchezza si fa sentire, il caldo pure e alle 13 ci ritiriamo nella stanza 103, non male, ma che presenta subito un problema: non ha acqua calda. Lo segnaliamo, cercano di risolverlo, non ci riescono e ce la cambiano. Ci spostiamo alla 113, altrettanto decente con minibar, tv, condizionatore, spazzolini, dosatore con sapone e shampoo, ciabattine di cortesia e wi-fi gratuito. La doccia è bollentissima, cerchiamo di rilassarci, ma proprio sulle nostre teste i generatori di corrente procurano un rumore assordante e insopportabile. La stanza viene ulteriormente cambiata e la pace la troviamo, finalmente, nella 107 che diventa la soluzione ideale.

Alle 17 usciamo, la temperatura è perfetta per visitare la bellissima Cattedrale di Santa Maria di fine ‘900, fare un giro intorno a quelli che erano gli Uffici dei Ministeri – ora l’immensa area è in ristrutturazione – passeggiare lungo il canale Pazundaung (che sfocia nel fiume principale Yangon) e cenare al Pann Taw Win food house dove veniamo attirati dall’insegna Myanmar Traditional food, ma dove mangeremo un mix di pietanze cinesi: one plate menu per me ovvero riso bollito con sopra vegetali saltati, ovetto di quaglia, tofu, gamberi e calamaretti e un piatto unico con riso saltato con uovo, mini wurstel e pomodori per il mio boy. In alcune piccole ciotole proviamo un’insalatina piccantissima, dell’aglio a pezzi e un brodo di pollo (per fortuna, non in questo caso, quella dall’odore pungente di salsa di pesce fermentato). Compresa una lattina d’aranciata, spendiamo totali 6000k meno di 4€! Non ci siamo di certo abbuffati, ma i piatti non erano male, la gentilezza del cameriere Cago e il prezzo me lo fanno consigliare per un pasto veloce e dietro l’angolo.

Scopriremo in seguito, trovando simili cucine, uno dei modi migliori per conoscere la cultura di qualsiasi paese, che i piatti sono un mix d’influenze – oltre che cinesi -, indiane (ma meno speziate) e thailandesi (ma meno piccanti).

Saremmo voluti andare al grande mercato BogyokeAung San o Scott o al Museo Nazionale ma di lunedì sono chiusi.

Alle 21 rientriamo al Rangoon 40TH ($ 22,50 a stanza): domani sveglia alle 6,30!

30 Gennaio: YANGON – BAGO – KYAIKHTIYO – GOLDEN ROCK (circa 6 ore)

Colazione con toast e marmellata, tea, caffè americano, succo d’arancia, banane e lasciamo, a chi verrà, uova fritte, riso, pollo, vegetali e brodaglia varia.

Alle 7,45 partiamo da quella che erroneamente e ignorantemente pensavamo fosse la capitale, ma che in realtà lo è stata e ora è solo la più grande e importante città sul territorio conosciuta anche con il nome di Rangoon. L’effettiva capitale, meno nota, più piccola, con posizione centrale e senza neppure un aeroporto internazionale, ma che ospita tutti gli edifici dei ministeri e le strutture del Parlamento (quindi solo governativa), è Naypyidaw dal 2005.

Facciamo tappa a Bago, antica capitale del regno Mon e dall’esterno fotografiamo sia la pagoda Kyaik-pun con 4 gigantesche statue (27mt), orientate secondo i punti cardinali, degli Illuminati seduti che hanno raggiunto il Nirvana, sia la Shwemawdaw = Grande Dio dorato, simile a quella di Yangon ma più alta di tutto lo Stato (114mt), nei pressi della quale migliaia di pipistrelli dormono o svolazzano.

Siamo nello Stato Mon e la nostra destinazione finale è Kyaikhtiyo ovvero Golden Rock=Roccia d’Oro.

Una volta giunti a Kinpun, l’autista ci lascia perché in vetta alla montagna si accede solo su camion scoperti (4000k pp A/R – i posti davanti costano 1000k in più ma non vale proprio la pena occuparli). Insieme a una quarantina di persone – il mezzo parte solo se è pieno, non ha orari stabiliti -, partiamo e, per fortuna, eravamo tutti schiacciati l’uno all’altro, perché altrimenti saremmo stati sballottati ancor di più rispetto a come lo siamo stati, causa una guida molto sportiva tra tornanti. Arriviamo dopo tre quarti d’ora e per vedere la Roccia dovremo affrontare una bella salita a tratti scalinata.

Già nel parcheggio, ci “assalgono” sia i trasportatori di valige con grossi cesti di bambù che portano a mo’ di zainetti e dentro i quali ripongono tutto ciò che uno consegna loro (i turisti le valige, i fedeli le offerte), sia i (minimo 4) portantini di una sorta di lettiga che ci vogliono far sedere, issare ed evitare il percorso a piedi di circa 500mt (sicuramente utili a chi ha difficoltà nel deambulare).

Iniziamo il lungo percorso durante il quale un grosso cartello ci avverte che, essendo stranieri, dobbiamo pagare una tassa di 10000k pp. Ci appendono al collo, con un laccetto, la foreigner entrance fee card.

A metà strada, tra bancarelle varie, notiamo un bancale di mattonelle di marmo quadrate che chiunque può portare fino in cima (dove si tengono dei lavori di ristrutturazione) in cambio di una fetta di cocomero peiedì. Vediamo donne metterne in testa anche 6, uomini caricarli sul dorso della schiena e fare la salita quasi carponi, bambini portarne anche un paio. M’incuriosisce quest’atto di volontariato, mi avvicino e appuro che ogni mattonella pesa 4kg. Resto di stucco per l’eleganza con la quale soprattutto le ragazze ne impilano una sull’altra e senza alcun visibile sforzo, con estremo equilibrio, le consegnano come atto di fede.

Tra una fermata e l’altra per riprendere un paesaggio rurale o qualche particolare situazione (l’atmosfera è carica di magia e venerazione), in un’oretta scarsa arriviamo alla pagoda d’oro appoggiata su un masso stondato, in bilico su un costone. In effetti, sembra proprio che stia per cadere. È rivestito di tanti fogli d’oro che i fedeli continuano ad apporvi. L’accesso alle femmine non è consentito. Il mio boy invece può andare a toccarlo.

Io riesco a mangiare qualcosa acquistata in giro, evitando il cibo che mi sembra immangiabile anche da un umano (pollo essiccato, fritto, esposto al sole, con colata di soffritto di teste d’aglio e completamente ricoperto di mosche). Molti gustano il sambiù o mon lessà, riso cotto nel latte di cocco con zucchero e messo a mollo con blocchi di ghiaccio che dall’interno di un pentolone servono in bicchieri (passo anche questa volta… ma non deve essere male).

Riprendiamo il camion (l’ultimo parte alle 18) per discendere la montagna e dopo una breve passeggiata ci ritiriamo all’Hotel Shwe Hinn Thar (33750k, l’unico non pagato con $25).

Ci rilassiamo nell’ampio e ben curato giardino, sicuramente migliore della camera budget con vecchia moquette che non offre un granché e che è pulita solo a uno sguardo veloce e complessivo… meglio non cercare nulla sotto il letto o mettere qualcosa nel simil frigorifero. Per una notte in un paesino come questo va più che bene. Fa freddino e non poco, figuriamoci in cima alla montagna! Sono contenta, al contrario del mio boy, di aver prenotato nella “bassa montagna” e non al Top Mountain.

Siamo tentati di cenare in hotel perché i paraggi non offrono veramente nulla, ma poi decidiamo di percorrere un tratto di strada buia e ai lati sabbiosa (come nella maggior parte del paese) e ci fermiamo al Shwe Zin Myine Restaurant, un ampio locale verde acqua. Troviamo una donna che parla un inglese comprensibile (è sempre una piacevole scoperta! E vi è pure il menu non solo in birmano) e, affamati, ordiniamo un riso fritto con verdure, due piatti di vegetali misti serviti con due porzioni di riso bollito, due piatti di patatine fritte e una coca cola (totale 10500k). Siamo pieni e sazi, salutiamo la sorridente signora che nel frattempo (e tra una portata e l’altra) si rilassa su una sdraia raso terra a vedere una puntata di qualche soap opera e nel giro di un quarto d’ora stiamo già sotto spesse coperte.

31 Gennaio: GOLDEN ROCK – BAGAN

Colazione un po’ scarsa per noi occidentali, solo cibi cotti con i quali eventualmente pranzeremmo (riso e spaghetti fritti). Ci facciamo preparare due toast con marmellata e delle uova sode che arrivano alla coque quando avevamo perso le speranze ed eravamo già saliti sul mezzo; le mangeremo durante la mattinata nel lungo viaggio che ci porterà a Bagan.

L’idea iniziale era quella di tornare a Yangon e viaggiare tutta la notte con un autobus di una delle numerose compagnie ($ 18 pp – Jjexpress, Mandalar Min Express, Bagan Min Thar, Shwe Man Thu, Elite, Boss, Shwe Sin Setkyar, Goldenshuttle express, Shwe Mandalar Bus, Khine Mandalay e Famous Express); avremmo risparmiato un centinaio di dollari, ma non avremmo visto una parte del territorio, avremmo dovuto cambiare autista, pulmino e sacrificare mezza giornata a Bagan.

Lungo la strada decine di bancarelle espongono grossi pompelmi, in realtà sono pomeli che pesano anche 4kg l’uno! Non resistiamo, ci fermiamo ad acquistare un tuégodì e a sbirciare i campi pieni di alberi ordinatamente in fila. Ne compriamo uno da 1800k che davanti a noi puliscono e consegnano in una piccola bustina (ridotto l’ampio volume). La buccia degli spicchi è molto spessa e va tolta, la polpa è dolciastra e rosata, assolutamente non aspra e, da come segnalato in un cartello, facciamo un pieno di vitamine e minerali.

Per il pranzo ci fermiamo in quello che da noi si potrebbe definire un autogrill; presso una pompa di benzina, in cui lavora personale prevalentemente femminile, faremo rifornimento (diesel 860k al lt) e nell’attiguo market, mentre l’autista ordina una zuppa, noi acquistiamo degli stuzzichini: bustina di mini arachidi fritte (1000k) e bicchierone di popcorn (1000k) dolciastri (che le prime fossero saltate e i secondi caramellati lo scopriamo a posteriori, ma tutto sarà commestibilissimo)!

Un’altra sosta prima dell’arrivo a Bagan, dove sborseremo 25000k pp per la tassa di accesso all’intero sito, la facciamo lungo un fiumiciattolo nel quale tanti pescatori tirano su, puliscono e mettono a seccare una quantità enorme di pesci dalla stranissima forma e dall’odore quasi insopportabile.

Non compreremo, invece, delle fragoline di cui la zona è produttrice perché vendute in enormi scatole di cartone a 8000k (non riusciremmo a mangiarle tutte in pochi giorni).

L’autista ha bisogno di riposare, ci lascia, siamo nella New Bagan, all’hotel Shwe Poe Eain presso cui avevo prenotato in due differenti momenti pagando questa notte $ 31,50 e le due successive $ 58,95 per la medesima camera standard.

L’albergo è in un’ottima posizione, la stanza ampia e pulita si trova al piano terra, affaccia sulla piscina e sul ristorante (oltre il primo piano sarebbe stata meglio per rumori, luminosità e panorama). In bagno un fornito set di cortesia e poi phon, accappatoi, ciabattine, sui due letti da una piazza abbondante gli asciugamani sono a forma di elefantino, il bollitore con bustine di tea o Nescafé, due bottigline d’acqua e la tv che non accenderemo.

L’illuminazione in bagno è un po’ scarsa e l’acqua della piscina gelida, fosse stata riscaldata, sarebbe stata perfetta.

Per cena guardiamo i menu e i prezzi dei numerosi localini sulla strada principale, alcuni sono anche consigliati da Lonely Planet e da Trip Advisor. Io mangerei come la gente locale (su sedioline davanti banchettini sui marciapiedi), il mio boy non cede e cerca la struttura fissa. Dopo una decina di minuti a piedi dall’albergo, imbocchiamo Kayay Street, la prima grande strada a sinistra rispetto a quella in cui siamo, e troviamo il giusto compromesso al Min Myat Paing Restaurant nei pressi del Southern Bagan Market. Ci accoglie una sorridente mamma di due bimbi che, con il marito, gestisce il piccolo ristorantino con qualche tavolo all’aperto. Scopriremo una cucina genuina, curata, espressa, con ingredienti freschi per preparare piatti tradizionali presentati in maniera impeccabile e a prezzi ridicoli. Diventerà il nostro punto fisso per tutte e tre le sere e, a posteriori, non troveremo nulla di simile come costi-benefici.

Nell’attesa, il figlio maggiore porta un piattino di mini arachidi tostate, così com’è servito in tutti i locali del paese. Non abbiamo molta fame e ancora non conosciamo la bravura dei cuochi. Ordiniamo patatine fritte tagliate a mano tipo crik crok, un’enorme coppa di calda zuppa di lenticchie rosse con vermicelli (finissimi capelli d’angelo) che mi scalda e soddisfa, un’omelette e una coca cola (totali 5200k).

Nel rientrare ci fermiamo in un piccolo market e acquistiamo una bottiglia grande di aranciata e una bottiglia d’acqua da portare in stanza (1300k).

1° FEBBRAIO: BAGAN

Ci alziamo di buon’ora e dalla finestra della stanza ammiriamo il cielo pieno di mongolfiere che si alzano dolcemente sul magnifico sito, esperienza fattibile anche al tramonto (credo costi sui $250pp).

La colazione è ottima con due tipi di frutta fresca, cornettini, yogurt, cereali, latte, marmellata di fragole intere… oltre a cibo locale cotto.

L’autista, puntualissimo, ci segnala che ha avuto un problema con il pulmino per cui gireremo su un’elegante auto presa a noleggio, anche questa con sedili di pelle, cambio automatico, aria condizionata e parti in radica di noce.

Prima puntatina al mercato Nyaung U OO, dove gli abitanti vendono prodotti freschi. Un tripudio di colori e varietà di frutta, vegetali, tuberi (solo di patate ne avranno una decina di tipi, da quelle piccole quanto un’oliva a quelle dolci e lunghe). Compriamo dei piselli tostati da sgranocchiare (500k), 5 piccoli avocado e una bustina di longan un frutto simile ai lici (litchi, lychees) ma dalla buccia marroncina e meno rossastra (2000k tot).

Giunge l’ora di scoprire la storia e la religione di questo paese ed esplorare il sito archeologico di Bagan, uno dei più affascinanti di tutta l’Asia dove si trovano oltre 2000 templi sparsi su una superficie di 42 km2 e costruiti dall’11° al 13° secolo.

E’ un dedalo di viuzze in mezzo al verde, ogni tanto spunta un tempio che ci ricorda un piccolo trullo dai mattoncini ruggine. Stamane ne vediamo tre, segnalati per un qualche motivo.

Il primo è lo Shwezigone Paya la cui forma a campana ha ispirato la costruzione di tutti gli stupa successivi, in sostanza un prototipo e il primo in cui furono consentite le immagini Nat di spiriti pre-buddisti che avevano il potere di fare il bene o il male.

Il secondo è il Htilominlo Pahto che significa ombrello e da un re costruito per commemorare la sua elezione, dopo essere stato scelto tra cinque figli, perché l’ombrello bianco di suo padre era stato inclinato verso di lui, in segno di preferenza designandolo come successore ufficiale. La base quadrata di mattoni rossi misura 140mt su ogni lato, dove vi sono terrazze ed è a tre piani.

Il terzo è l’Ananda Paya, le cui 4 statue di Buddha in tek dorato di quasi 19mt, in piedi di fronte alle 4 direzioni cardinali, sembra cambino espressione secondo il punto da cui le si guarda; è ritenuto il più bel capolavoro simmetrico dello stile architettonico Mon e particolare con le numerose scene in rilievo in pietra arenaria.

Per pranzo torniamo in hotel, una pausa di un’oretta per rilassarci un po’ e poi si riparte.

Il nostro autista deve seguire i lavori della riparazione dell’auto, ci consegna a un ragazzo giovane, pieno di buona volontà ma che parla un inglese piuttosto incomprensibile. Con lui staremo il tempo necessario che servirà per aggiustare il pulmino (il pezzo del motore rotto deve arrivare con un bus da Yangon).

Il primo tempio è il That Byin Nyu, uno dei più alti (61mt), con una scala monumentale e due blocchi separati con due file di finestre per renderlo luminoso e arioso.

Poi ci fermiamo per una foto allo Shwe Gu Gyi il cui significato è caverna d’oro, pare sia stato costruito in 7 mesi e 7 giorni da un’enorme blocco di mattoni, ha 4 immagini di Budda e, ai lati, descrizioni originali.

Ci fermiamo per una veloce visita al grande Ywa Haung Gyi, un po’ più distante dai sentieri battuti e l’ultimo stop presso l’enorme Sulamuni conosciuto come gioiello con la combinazione dei piani orizzontali con linee verticali nel mezzo dall’effetto piramide, con pagode in ogni terrazza, uscite dai quattro punti cardinali e all’interno celle monastiche.

Già ci avevamo fatto caso, ma qui raggiungiamo la consapevolezza più assoluta e l’apoteosi: non troveremo mai il nome scritto – con riferimento allo stesso sito, monumento, tempio, pagoda, città – nella medesima maniera! Le “i” vengono inter scambiate con le “y”, a volte il termine è unico, altre è composto di due se non tre mini sillabe… Alcuni nomi sono impronunciabili, a volte è impossibile ricordarli, spesso non coincidono neppure le informazioni delle varie brochure con quelle dei drivers o delle poche targhe in inglese… ma noi godremo di ogni visione, a volte noncuranti di informazioni tecniche che nemmeno ricorderemo.

Terminiamo la giornata su una piccola collinetta all’interno della pianura di Bagan davanti a un tramonto spettacolare.

Torniamo molto soddisfatti in hotel; c’è molta escursione termica (35°C di giorno e 15°C la sera) e, nonostante il clima sia buono, nella piscina, dopo le 18, è impossibile tuffarsi… a meno che non ci si voglia ibernare.

Per cena diamo nuovamente fiducia al Min Myat Paing da Mg Phyo e Khin May Tun, contenti di rivederci. Stasera strepitosa tempura di vegetali – ovvero verdure in pastella fritte a puntino, per nulla unte e leggere –, riso saltato con vegetali sul quale adagiano un uovo ad occhio di bue e zuppa di verdure e noodle = tagliatelle. Spesa totale 5000k compresa una coca cola e doppia porzione di mini arachidi di benvenuto.

Rientriamo al comodo Shwe Poe Eain Hotel fieri di appartenere alla razza umana, come scrisse Tiziano Terzani dopo esser stato in questo luogo affascinante per grandezza, maestosità, ma anche decadenza di tanti templi isolati e lasciati in mezzo a non curate aree verdi.

2 FEBBRAIO: MOUNT POPA BAGAN

Colazione ricca e gustosa: andando a letto presto ci svegliamo con tanta fame, in vacanza siamo più rilassati, abbiamo tempo e spesso il pranzo è fugace.

Da Bagan partiamo in direzione Monte Popa, più precisamente del picco vulcanico Monte Popa Taung Kalat, quello originale, di fronte, pare sia per gran parte inaccessibile e impensabile da scalare in una mezza mattinata.

Ci fermiamo per vedere com’è raccolto il succo dalle palme per produrre caramelle, dolci aromatizzati al ginger, al tamarindo, al sesamo… o che viene fatto fermentare divenendo superalcolico. Assaggiamo tre-quattro tipi di liquorini, dal colore del limoncello o della grappa con una gradazione di circa 45°. Mi diletto a testare tutto ciò che le persone mi offrono utilizzando ingredienti naturali e salutari, ma per i miei gusti ogni cosa è smielata e zuccherosa. Vediamo anche un bue che, girando piano piano intorno a un torchio, al quale è legato, macina arachidi realizzando olio. 2 ore di girotondo + 4kg di noccioline = 3 lt di olio.

La zona che attraversiamo è a tratti un’oasi attorniata dal deserto per quanto arida e secca sia la vegetazione. Ogni tanto un laghetto dove contadini su carri trainati da buoi si accingono a riempire grosse bacinelle. La strada non è male; sul ciglio, a distanza di pochi metri, prevalentemente anziane, chiedono l’elemosina, ma l’autista dice di non prendersi troppa pena, è la loro cultura, non patiscono la fame. Non lo sapremo mai, ma certo non è un bel vedere e ci si stringe il cuore.

Come in gran parte dei nostri lunghi percorsi in macchina, spesso rallentiamo l’andatura per il pagamento, da parte dell’autista, di tasse locali per il passaggio dell’autovettura in mini centri. A volte i punti in cui si ferma sono irriconoscibili, a volte sembrano improvvisati, diciamo che sono pochi quelli ben visibili e segnalati. Per i caselli autostradali ufficiali, non funziona come da noi (entrata biglietto/uscita pagamento), ma è un continuo effettuare mini versamenti ogni tot km percorsi.

Talvolta ci fermiamo per decine di minuti davanti a passaggi a livello, le cui barre sono sempre azionate manualmente, per il transito di treni, che su piccolissime rotaie, trasportano passeggeri o merci. Frequentemente i convogli tagliano aperte campagne o passano proprio in mezzo a centri abitati in cui, per qualche istante, si ferma tutta la brulicante attività. A noi sembra un sistema molto pericoloso, ma si respira tranquillità e pacatezza anche in queste situazioni.

Arriviamo in un paio d’ore ai piedi del monte che si dice sia la casa degli spiriti perché dimora dei Nats, gli spiriti degli antenati, le cui 37 sette sono rappresentate come figure in un santuario. Saliamo una lunghissima scalinata coperta di 777 gradini, ma noi ne contiamo almeno un centinaio in più; ogni cinquanta di questi, ai lati dei quali, per la prima parte, migliaia di bancarelle, addetti alle pulizie chiedono una donazione per aver spazzato e tolto l’immondizia varia dovuta soprattutto alla presenza di numerose scimmie. Impossibile accontentare venditori e richiedenti contributi.

Il panorama a 737mt slm ci ripaga, respiriamo a pieni polmoni davanti a una foresta di sandalo. Avevamo letto contrastanti opinioni sull’escursione che personalmente, avendo una mezza mattinata a disposizione, sono contenta di aver fatta.

Riprendiamo la via del ritorno, un’altra tranche di templi di Bagan, simili ma contemporaneamente tutti significativamente diversi, isolati, ma parte di una specialissima unione, ci aspetta!

Scendendo in cunicoli sotterranei collegati tra loro, visitiamo le Grotte o Cave sotto il tempio Nanda Myanya. È poi è la volta del Paya Thone Zu, l’unico ad avere tre=thone pagode; una capatina a quello di fronte, il Thanbyla Paya chiuso, ma dal quale il panorama è bellissimo e ci spostiamo al Ta Yoke Pyay che dovrebbe significare “corsa cinese”, davanti al quale l’indicazione è Narathihpatae. Terminiamo la visita col Lay Myit Nar completamente bianco e abitazione, all’epoca, di un ministro e di sua moglie che decisero, appunto, di verniciarla candidamente.

Interrompiamo l’archeologia per tuffarci nella realtà quotidiana, molto distante dalla nostra, di un villaggio locale dove vivono 600 famiglie in strutture di bambù, paglia e purtroppo a volte con tetti di amianto. Assistiamo alle loro routine accompagnati da una ragazza che parla un ottimo inglese, vive qui con la famiglia e ci conduce in un giro tra botteghe, case, banchi in cui sono messi a essiccare piccoli frutti di sidi dalla cui buccia si ricava la marmellata e dalla cui polpa si realizzano medicinali. Da qualche anno hanno l’acqua potabile tirata su da pozzi e la corrente elettrica fornita dallo Stato. Le spiegazioni ci entusiasmano, lei è molto carina, la donazione è libera e noi lasciamo pure del materiale da cancelleria che avevamo portato dall’Italia e qualche cappellino, ma a saperlo avremmo provveduto di più.

Proseguiamo, tra mille considerazioni, con il tempio Pya Tha Gyi dall’enorme statua di Budda in piedi e finiamo con la Dhama Yazika Pagoda prima di andare ad assistere, su una collinetta sempre all’interno della vasta area, a un tramonto memorabile.

Volendo girare in autonomia, si può noleggiare calessi, bici o scooter elettrici (8000k) e, per orientarsi, scaricare l’applicazione GPS dal biglietto elettronico.

Rientriamo in hotel per una doccia, il mio boy fa un tuffo nella gelida piscina e siamo pronti per la terza e ultima cena al Min Myat Paing Restaurant. Ormai siamo di casa e ci sentiamo in famiglia tanto da portare al figlio della coppia, un ragazzino di una decina d’anni che bada alla sorellina e serve ai tavoli, dei pensierini. Non siamo i soli a trovare la cucina ottima; rincontriamo degli svizzeri che già erano venuti a mangiare la sera precedente e torneranno domani. Non essendo particolarmente affamati, ordiniamo solo il solito riso fritto alle verdure con al top l’uovo a occhio di bue, una ricca insalata di fagiolini lunghi spolverati di arachidi, riso in bianco e una coca cola (totali 3800k=€ 2,25, la cena più economica di tutta la vacanza).

Rientriamo soddisfatti allo Shwe Poe Eain e ci tratteniamo con un simpatico ragazzo della reception il quale, su un piccolo quaderno, come uno scolaro modello riporta, nella nostra lingua, le frasi principali da rivolgere ai prossimi italiani.

3 FEBBRAIO: BAGAN – PHOWIN CAVE – MONYWA

Colazione abbondante e si parte, con l’autista di ieri, il nostro ancora non ha risolto con il problema del motore del pulmino, in direzione Monywa.

La prima sosta è presso il mercato di Pakaukku per acquistare banane rosse 700k e una busta di longan 1500k.

La seconda interessante fermata la facciamo alle leggendarie cave di Phowin o Hpo Win Daung o Maze caves (2500k ma sul biglietto c’è scritto $2) dove in enormi blocchi di roccia sono state scavate delle nicchie e scolpite o adagiate più di 2500 statue di Budda. Il percorso è piacevole, forse un po’ dispersivo senza una guida, ma il bello è proprio perdersi un po’ e seguire i propri tempi, scoprire un particolare, un affresco… Vi sono i numeri in ogni rientranza, ma è impossibile vedere proprio tutto. Un sito remoto, nei pressi del fiume Chindwin, da non perdere.

Il terzo pit stop è per visitare la Pagoda Thanboddhay Paya del 14° secolo (ma ricostruita nel 1939), il più grande complesso dorato del mondo di lode a Budda rappresentato da 500000 statue di tutte le dimensioni che lo raffigurano in varie posizioni e rivestono interamente le pareti, le colonne, i pilastri, le torrette e gli angoli intorno a noi. A ogni donazione di fedeli una campana suona.

Il tramonto lo vediamo ai piedi della più grande statua (116mt e, incluso il piedistallo, 129mt) di Buddha in piedi (Laykyun Setkyar) con un abito d’oro, la cui costruzione iniziò nel 1996 e fu completata nel 2008. Uno scatto è quasi d’obbligo alla vicinissima statua dell’enorme Budda sdraiato e fine dei servizi a Monywa.

Prendiamo possesso dell’ampia camera superior di uno dei più recenti alberghi sulla strada Kyauk Kar, la principale della città, quindi dall’ottima posizione: il King & Queen Hotel ($ 26,77 a stanza), tra le più belle, pulite, con bollitore e prodotti.

Cartina alla mano, passeggiamo lungamente per cercare un ristorantino e ci imbattiamo in un mercato notturno: cena street food. Compriamo tre pannocchie, una cotta al vapore, le altre alla brace (900k) e due bustone di frutta mista già sbucciata (1000k) da portarci in stanza.

4 FEBBRAIO: MONYWA – SAGAI – MANDALAY

La colazione, in un piano alto panoramico, è ottima, varia, abbondante, offre frutta, dolci e cibo cotto.

Partiamo per la collina Sagaing, centro spirituale e cuore del buddismo religioso del paese per la presenza di 3000 Monks=monaci, 600 pagode, un centinaio di monasteri e luoghi per meditare sparsi in tutte le Hills.

Cerchiamo di capire cosa spinge a vivere così semplicemente, con una dedizione totale alla preghiera, anche tante Nuns=monache che sappiamo essere orfane o molto povere e mandate in ritrovi a volte remoti affinché siano educate a una vita tranquilla.

Siamo nella Chindwin Valley e ci fermiamo a visitare il tempio di U Min Thone Zee o Thounzeh, dove 45 statue dorate di Buddha Seduto sono disposte una accanto all’altra.

È poi la volta del tempio di Pon Nya Shin Paya, arroccato sulla collina più alta, il cui panorama è a 360° e si respira un’aria di un altro mondo. Paghiamo 500k per la telecamera (video fee/donation), vale la pena immortalare il paesaggio bucolico dall’alto.

Lungo il tragitto tante bancarelle espongono vasi d’acqua realizzati in terracotta presso villaggi attigui.

L’autista ci porta sulle sponde del mistico fiume Irrawaddy che attraverseremo in pochissimi minuti (1400k pp A/R) con una barchetta collettiva raggiungendo l’antico paese di Ava o Innwa, capitale dal 14° al 17° secolo.

Numerosissimi calessi sono parcheggiati in attesa dei turisti. Alcuni cavalli sono adornati a festa, altri sembrano sofferenti. L’unico modo di girare per il sito, però, è salirci su per un’oretta e mezza, per cui ci mettiamo in fila dietro diversi turisti e sul n. 169, pagando 10000k un autista un po’ provolone (prima ci dice che il giro per due ore costa di più, poi si ricrede… e comunque ci fa rientrare prima del previsto), iniziamo a guardarci intorno.

Tre saranno le veloci fermate: al Monastero di Legno Bagaya Kyaung, alla Torre di Guardia o dell’Orologio Nan Myint, pendente come la nostra torre di Pisa e con un’altezza di 30mt e al Maha Aung Mye Bonzan o Monastero di Mattoni del 1822.

Riprendiamo la barchetta, il nostro autista è lì pronto per portarci al leggendario ponte U Bein, il più lungo del mondo (km 1,2) interamente realizzato, nel 1782, in legno di teak, attraversato ogni giorno sia da monaci sia dagli abitanti locali e sul quale assistiamo – sotto a noi il lago Taungthman – a uno splendido tramonto.

Cambio di autisti e mezzi. Ritorniamo alla situazione originale col primo driver che conosce meglio le strade e comunica in un inglese più comprensibile.

La tassa d’ingresso nella città di Mandalay, il cuore culturale della nazione, fondata nel 1857 da Re Mindom, è di 10000k a persona, ormai siamo abituati a tutte queste fee per gli stranieri.

Raggiungiamo l’Hotel Moon Light; ci assegnano la stanza 505 ($ 30 per due notti), di dimensioni medio-piccole: bagnetto, minibar, possibilità di farsi tè verde o Nescafé, in bagno diversi prodotti e phon. Il primo neo è l’affaccio (metà finestra ha un muro davanti), il secondo più importante è un fastidioso rumore di generatore di corrente e acqua, il terzo è che la chiave elettrica ha difficoltà a funzionare.

Come facciamo abitualmente, chiediamo alla reception una cartina e, nell’illustrarla, per cena ci consigliano Shan Ma Ma Restaurant (81st strada tra la 29th e la 30th). Non è mia abitudine seguire le indicazioni ma, dopo aver girovagato per le buie vie, constato che è l’unico locale strapieno, aperto in zona e buon compromesso con il mio boy. Nonostante gli avventori siano tutti internazionali, la cucina è autentica e i prezzi abbordabili. Ordiniamo una zuppa di vermicelli (spaghettini di riso) con verdure e pezzetti di pollo e un riso fritto con verdure. Bibita compresa spendiamo 4300k totali con tante cerimonie della signora San Kham stretta nell’attillato longyi e truccata come una bambolina.

La notte la passiamo quasi in bianco per il motore intermittente, per la preghiera mattutina con megafono in un monastero vicino e il passaggio di qualche treno lungo i binari della ferrovia di fronte la nostra parte di hotel.

5 FEBBRAIO: MANDALAY – AMARAPURA – MINGUN – MANDALAY

Colazione buona su una terrazza dalla quale assistiamo a un’alba meravigliosa che tinge di rosso l’orizzonte. Una palla infuocata si alza sbiadendo piano piano.

Ci rimpinziamo di frutta (anguria e banane), toast con due tipi di marmellate e assaggiamo le mini uova di quaglia a occhio di bue. Il tea è solo verde in foglie e non filtrato. Il caffè sempre americano. Il mio boy preferisce il succo d’arancia, io Nescafé con latte in polvere.

Mentre consegniamo la chiave, ci chiedono se è tutto ok, segnaliamo il nostro poco riposare e in un batter d’occhio ci fanno spostare, con mille cerimonie, in una stanza luminosa, ampia e silenziosa.

Alle 8,30, con il nostro driver iniziamo l’esplorazione di Mandalay, ultima sede dei re birmani prima del colonialismo inglese, 5 milioni di abitanti e una marea di motorini, vietati, invece, a Yangon, dove il Governo ha imposto un limite. Aung San ci dice che costano circa $300, quanto il salario medio di un lavoratore.

La prima sosta è in una delle tante botteghe in cui si lavorano carta e oro per la realizzazione finale delle onnipresenti foglie d’oro che ricoprono statue, templi, pagode… Il procedimento è lungo e di una pazienza infinita, dal martellamento della carta e dell’oro (pare estratto dal fiume) affinché diventino entrambi sottilissimi, all’applicazione dell’uno sull’altra tagliata a quadratini. In fronte ci spargono un’impercettibile preziosa polverina che si toglierà dopo qualche ora. Ovviamente, presso il negozio, a fine spiegazione, la possibilità di comprare, con un minimo di 3€, le foglie a 24 carati (mah).

Seconda fermata al tempio principale costituito dalla pagoda Mahamuni, realizzata per accogliere un’antica statua di Buddha seduto, mandata nel 1784 dal re dello stato Rakkhine e veneratissima dai fedeli che vi applicano continuamente le sottilissime foglie d’oro (siamo proprio nella Golden Land) ormai così stratificate che è difficile riconoscerne alcune parti del corpo, ma il cui viso, ogni mattina alle 4, i monaci lavano con devozione. Qui la quota da pagare per foto/video è di 1000k.

Direzione Amarapura, penultima capitale reale birmana che significa città dell’immortalità, importante sede del monastero di Mahagandayon o Maha Gandaryone dove più di 1000 giovani monaci vivono e studiano la lingua antica e la religione. A tal proposito, si dice che almeno una volta nella vita un buon credente birmano, compiuti i sette anni e prima dei venti, debba passare un periodo di noviziato in monastero. In seguito, anche se non decide di prendere i voti, dovrà tornare almeno un’altra volta a servire in monastero come monaco adulto. È un impegno e un orgoglio per ogni famiglia.

Un cartello consiglia, tra l’altro, di indossare abiti rispettosi, di non fumare e non bere alcolici.

Facciamo un giro per le viuzze che portano agli alloggi, alcuni monaci sono intenti a lavare degli utensili, altri a stendere dei plaid, ad asciugarsi dopo aver fatto la doccia… Siamo spettatori della loro vita quotidiana svolta alla luce di tutti. Sono pazienti, fanno finta di nulla, convinti che aprire i monasteri, interagire con noi, promuova la conoscenza del buddismo e contribuisca al sostegno economico delle istituzioni.

I bambini indossano tingà (il loro unico vestito, in concreto due stoffe simili a lenzuola di differenti misure) bianchi, i più grandi tingà bordeaux o, più precisamente color dei pistilli dello zafferano. Tutti completamente rasati, scalzi, in silenzio, noncuranti delle decine di persone che, un po’ meno delicate di noi, scattano foto e filmano il singolare, ai nostri occhi, evento.

Alle 10,30 in punto assistiamo silenziosamente al loro secondo e ultimo pasto della giornata (il primo è alle 5). Ordinatamente, in due file parallele, si dirigono, sfilando in una lunga processione, con in mano un contenitore in legno panciuto, verso un’enorme sala da pranzo.

Pacatamente si fermano in un largo spiazzo in cui viene servito loro un piatto di riso, delle verdure e una bustina con qualche mandarino. In meno di trenta minuti iniziano a uscire dalla struttura, sempre con compostezza. Alcuni bambini, con ciotole in metallo, appostati ai nostri piedi, chiedono l’elemosina a chiunque e, ciò che più colpisce, è vedere i monaci più piccoli donar loro qualche frutto. Lascio questo posto che rimarrà impresso per sempre nei miei ricordi, comprendendo esattamente il significato e il bellissimo concetto di Karma: atto di donare con regolarità, un gesto che assicura felicità e pace a chi riceve e a chi dà.

I monaci, tra l’altro (non in questa specifica occasione), ma “in cambio” sono soliti elargire una benedizione come auspicio di buona fortuna e serenità.

Nel rientrare a Mandalay ci fermiamo in una bottega presso la quale si tessono e decorano stoffe per realizzare longyi. Alcuni uomini utilizzano una rumorosa macchina mentre le donne, davanti numerosissimi rocchetti di filo colorato e degli schemi precisi ricamano disegni perfetti. Una sarta fa funzionare un’antichissima macchina per cucire che mi ricorda la Singer di mia nonna e nel negozio (dai 10$ in su) ci sarà la possibilità di acquistare bellissimi prodotti anche in seta.

Prossima meta il Palazzo Reale del 1897 all’interno di un quadrato di spesse mura di km 4×4. All’ingresso mostriamo i biglietti e all’autista viene consegnato un tagliando per accedere con l’auto. Superata l’entrata, ci ritroviamo in una vera e propria cittadina abitata esclusivamente dai militari e dalle loro famiglie. Tantissimo verde e anche una serra. Facciamo la gimcana tra le numerose colonne, le sale enormi, le strutture di legno o di cemento (ricostruzioni delle parti distrutte da un incendio durante la seconda guerra mondiale) e passeggiamo nell’immensa area tra un giardino all’inglese e l’altro. Davanti a quella che era la torre di guardia, simile a un tondo faro, decidiamo di salire più di un centinaio di scalini a spirale per immortalare il panorama.

Non distante, anche perché un tempo era parte del Palazzo Reale, ci ritroviamo nel monastero Shwenandaw di legno di tek, completamente inciso con statue di differenti dimensioni o con ghirigori vari scolpiti all’esterno di porte.

Ultimo sito della città, un grande complesso fortificato: la pagoda Kuthodaw, chiamata anche il libro a cielo aperto più grande del mondo perché su 729 lastre di marmo sono stati incisi (dal 1860 al 1869) gli insegnamenti della religione buddista e un intero testo sacro.

All’ora di pranzo, sempre fugace, andiamo al molo per salire, da soli, su un’imbarcazione di legno a due piani, sulla quale sono poste grosse sedie in paglia ($ 22 A/R). Navighiamo, per circa un’oretta, sul fiume Ayeyarwaddy per arrivare a Mingun. Il comandante è un ragazzo, il mozzo è la giovane moglie e la mascotte è una bambina di qualche mese che riposa in una culla realizzata da un pareo attaccato a una stampella fissata su una corda. Iniziamo la navigazione e la ragazza ci propone di acquistare i soliti souvenir (cartoline, braccialetti, collane…). Ci fa tenerezza e compriamo tre calamite (5000k). Lungo il fiume persone che si lavano, sbattono i panni insaponati su alcuni massi, fanno il bagno e tornano in alloggi di bambù e paglia.

Sbarchiamo dopo un’ora, e subito ci fermano per il pagamento della tassa per gli stranieri (5000k pp). Registrano la nostra nazionalità, ci attaccano un adesivo sulla maglia e assegnano i numeri 99 e 100, in altre parole i turisti in visita da stamattina da tutto il mondo, ma d’italiani solo altri due prima di noi. Una pseudo cartina illustra i 4 siti principali, tutti su un’unica via percorribile in una mezz’oretta. Una veloce foto alla pagoda Sat Taw Yar, più d’una all’imponente tempio Pa Hto Taw Gyi, rimasto incompiuto nel 1838 a causa di un terremoto (riferita a questo sito, riporto una bella frase letta su una brochure: men may come and men may go, but I go on forever da The Brook di Alfred Lord Tennyson ovvero gli umani sono mortali ma la natura è eterna). Incredibili sono gli squarci, irreparabili le crepe e le parti staccate.

Ci dirigiamo alla Mingun Bell che si dice essere la più grande campana in bronzo funzionante al mondo, pesa 90 tonnellate, è alta 4mt, ha un diametro di 5mt e dal 1808 molti si divertono suonare. Mi colloco sotto e noto le pareti interne piene di scritte lasciate da turisti. Ancora un po’ di strada sterrata che attraversa decine di bancarelle dove si vende la solita merce (longyi, t-shirt con l’alfabeto tradotto, dipinti…) e arriviamo alla candida pagoda Myatheindan, in marmo bianco e raggiungibile da più di una scalinata. Il principe Bagyidaw la volle in ricordo di una principessa scomparsa in giovane età. Dentro la bianca struttura, che ricorda un paesaggio marino mediterraneo, un’unica statua dorata.

Alle 18 torniamo al Moon Light, stanza 301, luminosa, leggermente più ampia e sicuramente silenziosa. Una doccia e ci dirigiamo in un altro ristorante consigliato dalla reception dove si mangia esclusivamente cibo tradizionale. Sembra più turistico di quello di ieri, non ci ispira per nulla, ne cerchiamo un terzo, ma in giro non c’è un granché e soprattutto i menu sono sempre scritti nella loro lingua, non vi sono prezzi, figure e camerieri che parlino un minimo d’inglese. Io tenterei comunque la chance, il mio boy non vuole lasciare la strada vecchia per la nuova per cui si torna allo Shan Ma Ma, strapieno di turisti contenti. Ordino del riso e una mega zuppa di polpette di pollo e vegetali, lui rimane fedele al riso fritto con verdure. Compresa una pseudo insalatina e un’aranciata spendiamo 5600k.

Nel rientrare in hotel ci fermiamo in uno dei tanti supermercati aperti e ci sfiziamo con un gelato confezionato ananas e lime (300k).

6 Febbraio: MANDALAY – PINDAYA (300km)

Colazione di buon’ora, oggi, oltre ai cibi cotti e ai toast con marmellata, hanno aggiunto zuccherino cocomero giallo e squisita papaya tembodì.

Alle 8 si parte per il lungo viaggio che ci porterà a Pindaya, a est del paese dove la tassa d’entrata è di 5$ pp (Danu self-administered zone).

Ci fermiamo un paio di volte, sia per il pranzo sia per qualche snack tra cui una bustina di fagioli secchi e saltati da sgranocchiare 500k.

Pindaya ci appare subito una tranquilla cittadina. Sosta didattica da U Kyaw Shwe, una delle tante botteghe nelle quali artigiani lavorano, con metodi tradizionali che si passano da generazione a generazione (questa è la Danu family), la carta degli Shan ricavata dall’albero di gelso. Seguiamo passo passo la realizzazione manuale, da parte di mamma e figlio, con mezzi rudimentali, di un tipico ombrellino parasole, ma sono tanti gli oggetti creati con la medesima tecnica: lanterne, lampade…

Arriviamo all’ingresso delle enormi grotte naturali Shwe U Min (3000k pp più l’obolo per la telecamera di 300k) risalenti a circa 200 milioni di anni fa, nel cui interno (siamo a 490 piedi) i fedeli hanno collocato, nel corso dei secoli, 8000 statue di Buddha, quasi tutte d’oro. Per accedervi una lunga scalinata o un ascensore panoramico a vetri. Diversi i devoti che appongono foglie d’oro nella grande pagoda. L’ambiente è ovviamente umido, è un saliscendi nel cuore della montagna, un paesaggio singolare.

All’uscita delle natural cave tante bancarelle vendono tea, che qui pare sia il migliore del Myanmar insieme a prodotti a base di soia, i cui cracker assaggio e trovo molto saporiti.

In questa zona il clima è un po’ più fresco, di sera fa una decina di gradi e di giorno sui 25°C.

Arriviamo all’Hotel Global Grace, una bella struttura con un curato giardino che affaccia sul lago Botoloke ($ 34). Beviamo il succo di benvenuto e ci dirigiamo nella stanza fuori il complesso principale ma in ottima posizione. È spaziosa, ha sia il letto matrimoniale sia un lettino, bagno in camera, set di cortesia, phon, bottigliette d’acqua, frigo, armadio, la possibilità di farsi un tea verde o un Nescafé cappuccino (in tal caso si deve portare il thermos in reception e lo riempiono di acqua a 76°C).

Ceniamo al Dagon Restaurant a pochi metri dall’hotel, di fronte al lago, sono le 19, è buio pesto e stanno chiudendo già tutti i negozi. Presso di quella che in Italia chiameremmo trattoria, veniamo avvicinati da Kyaing Min Tun, una guida trekking e tassista, parla un comprensibile inglese, gli diciamo che non abbiamo bisogno del suo servizio, ma ha voglia di parlare con noi e si mette a disposizione per farci da interprete e ordinare le pietanza. Prendiamo una zuppa di vermicelli con tofu, calda e gustosa, dei vegetali saltati, riso in bianco e un’insalata di pomodori spendendo, in totale, coca cola e tea verde (di cortesia) compresi, 4100k.

7 Febbraio: PINDAYA – TAUNGYI – KAKKU – INLE

La colazione abbondante e gustosa la consumiamo in un’ampia sala ristorante con servizio a tavolo e à la carte. A scelta, tra più opzioni, accompagniamo tea o caffè o succo con frutta, french toast, omelette, pancake con miele e banana e, pieni di energie, via per altre mete!

Ci fermiamo per acquistare, su alcune bancarelle sul ciglio della strada, 2500k di viveri e ovviamente frutta locale.

Entriamo nel Southern Shan State (la Svizzera del Myanmar) dove convivono 5 delle 33 etnie che abitano il Burma e la cui capitale, di 400 mila abitanti, è Taunggyi, a più di 1400mt slm, presso un cui ufficio ci fermiamo per pagare la tassa d’entrata di $ 3pp e la guida $ 5.

Una ragazza bellissima e preparatissima dell’etnia Pa-OH salirà in auto con noi per il tragitto di una cinquantina di km, per percorrere i quali ci impiegheremo un’oretta e mezza, fino a Kakku, il Pa O territory delle antiche pagode, sito aperto al pubblico nel 2000 e accessibile sicuramente in inverno (compatibilmente con le piogge monsoniche d’estate). Ci illustrerà lungamente la vita di questa popolazione, le abitudini, il territorio circostante e il grande sito di 2400 pagode che visiteremo, uno dei più bei complessi dell’Asia. Sui campi in questo periodo coltivano quintali di aglio, dalle dimensioni di un nostro spicchio, di zenzero, di riso, in altri periodi, invece, mini arachidi, fagioli, girasoli, vigneti…

Si chiama Htweyee (nome impronunciabile) e indossa i vestiti tradizionali composti, per le donne, da cinque pezzi: un turbante dai colori sgargianti, una giacchetta, il longyi, sotto a questo dei pantaloni a sigaretta e una borsetta a tracollo vivacissima e che vediamo in pratica a tutti, monaci compresi (l’85% della popolazione è di religione buddista). Gli uomini hanno la stessa divisa ma di 4 pezzi non indossando i pantaloni sotto al “pareo”.

Sul cellulare ci mostra il sensazionale festival che si tiene a ottobre-novembre dei Baloon ovvero la competizione di palloncini, dalle varie forme e dimensioni, che arrivano ad altezze di 12x8mt. Durante il day time vengono lanciati in aria milioni di palloncini e nel night time fatti brillare fuochi d’artificio anche per mezz’ora di seguito.

Rimaniamo all’interno del tempio a scattare foto, a parlare sostando, tra l’altro, davanti alla statua dorata di un maiale (a noi sembra un cinghiale), adorato perché pare che proprio questi suini scoprirono il sito mentre gironzolavano e, nutrendosi continuamente di erba, lo fecero venire alla luce.

Super soddisfatti, torniamo a Taung Gyi, sede anche di due facoltà universitarie: scienza e arte; la salutiamo e proseguiamo il viaggio verso il Sud di questo Stato con destinazione finale: Nyaung Shwe, piccola città adagiata sulle sponde del lago Inle (tassa per noi forestieri di 13500k pp), a quasi 1000mt slm. Poco prima ci fermiamo velocemente allo Shwe Yan Pyay Kyaung, un monastero di legno del 1800, la cui particolarità sono le finestre ovali, molto fatiscente, quasi abbandonato e invaso da gatti.

Pernotteremo all’Hotel Inle Apex ($ 59,68 per due notti a stanza; con carta di credito costerebbe il 3% in più). La camera standard 108 al piano terra si affaccia su un muro, non ha frigorifero ma è ampia e ha tutto ciò che occorre per un buon soggiorno: set di cortesia, bollitore con prodotti e bottigliette d’acqua. Il personale parla bene inglese, è consapevole dell’affaccio non proprio idilliaco, ma non ne ha di migliori (apprezziamo la buona volontà di cambiarla).

Usciamo per una passeggiata e, qualcosa sotto i denti, la metteremo presso il ristorante Htoo Myat BBQ attirati da lunghi spiedini di pescioni alla brace. Io scelgo uno di quelli, il cui prezzo cambia secondo la grandezza e una pannocchia arrostita, il mio compagno mangia una tempura di vegetali con varie salsine. Compresa una bibita spendiamo 4500k.

8 Febbraio: LAGO INLE – KHAUNDAI – INDEIN – INLE

La colazione è molto abbondante, gustosa e offre, oltre ai cibi cotti burmesi, cereali, toast con marmellate caserecce, biscotti, tre tipi di frutta fresca e un frullato.

Un amico di Sonny ci viene a prendere e ci conduce su quella che sarà la nostra barchetta timonata da un ragazzo giovane dall’inglese incomprensibile, ma non c’è nulla di cui parlare, deve solo indicarci sulla cartina dove effettuerà le soste.

Il lago Inlay, sul quale passiamo quasi tutta la giornata in navigazione, è il secondo lago di acqua dolce del paese con una lunghezza di 22km, una diagonale massima di 10km, un’area di 72km2 ed è circondato dalle montagne dello Stato Shan. L’aria è fredda, il vento la gela ancor di più, per fortuna in dotazione, oltre a una bottiglietta d’acqua, ci sono anche dei plaid con cui m’imbacucco. Durante la giornata, però, il caldo sarà quasi insopportabile e ci abbrustoliremo ben bene.

Incontriamo i pescatori dell’etnia Intha – che significa Figli del lago -, celebri per il loro modo di pescare, in piedi, in perfetto equilibrio e spingendo uno dei remi con una gamba, con delle speciali nasse (antichi attrezzi da pesca) a forma di cono.

Viviamo la scena che spesso abbiamo visto pubblicata su qualche rivista o guardato nei documentari. È incredibile e per noi impensabile riuscirci con tanta eleganza e maestria.

Attraversiamo villaggi di palafitte, rimaniamo scioccati per come sia possibile che riescano ad avere giardini e a coltivare orti galleggianti (i più evidenti sono quelli di pomodori e di melanzane), fatti con humus, erbe, giacinti d’acqua e terra ancorati al fondo grazie a pali di bambù.

Ci fermiamo per un’oretta al mercato tribale a cicli di 5 giorni che si tiene a rotazione in varie località intorno al lago. Le barchette di legno parcheggiate dagli ambulanti sono numerosissime e da alcune caricano e scaricano dei lunghissimi tronchi di bambù. Si occupano del trasporto non solo gli uomini minuti, magri, ma anche donne dalla forza impressionante. Provo a mettermi una canna su una spalla, posare brevemente per una foto e per poco non ci rimango secca.

Una sosta di un’oretta la facciamo presso la riva occidentale, a Indein, abitata dall’etnia Pa-O che riconosciamo dai turbanti dai colori vivacissimi come quello della guida a Kakku. In questa località si trova un complesso di antiche pagode, circa 1600, ma una stima esatta non può essere fatta, poiché di molti stupa restano le fondamenta, altri sono stati inghiottiti dalla vegetazione. Percorrendo una salita, coperta da una tettoia retta da grosse colonne e fiancheggiata da centinaia di ambulanti che espongono impeccabilmente i soliti souvenir, arriviamo al complesso di Nyaung Ohak molte delle cui pagode sono decorate con sculture che rappresentano esseri celestiali, animali mitologici e ovviamente Buddha, a volte diroccate, altre nascoste. La più importante è la Shwe Indein.

Doverosa è la sosta alla pagoda Phaung Daw Oo, il luogo più sacro dell’area perché conserva le 5 statue di Buddha (così stratificate da foglie d’oro da sembrare più delle palle) che vengono trasportate ogni anno in processione durante il Festival di luna piena di Thadingyut in settembre-ottobre, con le dragon boat affinché scaccino gli spiriti maligni.

Interessantissima fermata al villaggio lacustre di Thalay dove scattiamo numerosissime foto alle donne giraffa o dal lungo collo poiché iniziano a indossare, dall’età di 4 anni, degli anelli pesantissimi di ferro dorato intorno alla gola. Ne vediamo tre che lavorano il telaio, una è giovane e bellissima, sembra una statua, una quarta, molto anziana e sorridente, è seduta su una panchina e ci invita a starle accanto per una foto.

È poi la volta dell’etnia di Inn Pwa Khone rinomata per la lavorazione delle sete spiegata in un inglese perfetto da una carinissima ragazza. Ci muoviamo tra un macchinario rudimentale e l’altro azionato con precisione e forza da mani e piedi esperti che spingono lunghissime e pesantissime canne. Il tour termina in un negozietto di stoffe bellissime e pregiatissime, pure, in cotone o miste, ma dai prezzi esorbitanti (grandi cartelli segnalano il possibile pagamento con più carte di credito).

Saliamo su una palafitta dell’etnia dei Nampan e assistiamo alla realizzazione dei tipici sigari corti, cilindrici e un po’ schiacciati (cheerot = sigaro spuntato). Il procedimento è molto semplice, veloce e realizzato con ingredienti naturali. Il tabacco, arrotolato su foglie ancora fresche, viene aromatizzato con spezie – come anice, menta – o essenze – alla banana, al limone – e, una volta inserito il filtro, è pronto per essere fumato. Ce ne offrono di tutti i tipi, non siamo fumatori, ma io non posso lasciare quest’occasione e faccio qualche tirata da quello al gusto di banana emulando tante donne birmane che, almeno in questo caso, hanno un’effettiva parità dei ruoli con gli uomini.

L’ultima fermata prima di rientrare è al Nga Hpe Chaung, il monastero Jumping cat ovvero dei gatti che saltano perché, in precedenza, i monaci facevano saltare all’interno di un anello i gatti. Ora si limitano a dar loro da mangiare e i mici sono normalissimi felini che gironzolano indisturbati tra di noi.

Rientriamo contenti della gita in hotel e ringraziamo il barcaiolo con una piccola mancia e qualche regalino che non si aspetta di ricevere, ma dal cui sorriso capiamo che apprezza molto.

Presso un mercatino acquistiamo per 4000k diverse bustine di mini arachidi, piselli secchi, semi di soia tostati e di girasole speziati che porteremo anche in Italia assieme alle calamite di legno (1500k l’una che ritroveremo al mercato di Yangon a 1000k).

La cena la consumiamo al mercato notturno presso uno dei tanti banchi che espongono cibo fresco da grigliare al momento sui vari barbecue. Ordiniamo un pescione slabì di almeno 1,5kg e del pollo (il petto è servito a pezzetti, la coscia su uno spiedino) e, compreso tea verde di cortesia e coca cola spendiamo 6500k.

Comincia a rinfrescare, ci sarà una quindicina di gradi e ci ritiriamo, per l’ultima notte, al ben visibile da ogni dove Apex.

9 FEBBRAIO: HEHO-THANDWE NGAPALI (VOLO)

Dopo la buona e una delle più ricche colazioni, durante il check-out, chiediamo la cortesia alla reception di poter fare una telefonata nazionale (la prima è gratuita) per sapere se ci verranno a prendere all’aeroporto di Ngpali, nostra prossima destinazione: la riposta è sì, troveremo qualcuno ad attenderci!

Veloce è il trasferimento in aeroporto e via per Ngpali con volo dell’Air KBZ delle 10,20 (bagaglio in stiva max 20kg e a mano 10kg). Dura un’oretta, ci offrono due dolcetti, un succo di frutta e l’atterraggio a Thandwe è puntuale.

Un ragazzo dell’Hotel AZ Family ci conduce, insieme a un’altra coppia, in una decina di minuti, in una piccola struttura composta di graziosi chalet metà di legno e metà in muratura. Una bibita fresca di benvenuto e il check-in con l’indesiderata scoperta: il Bungalow Superior ($ 31,50 a notte a stanza), prenotato per la prima sera, non ha l’acqua calda e, l’informazione, non era scritta da nessuna parte! Non mi va di questionare, poiché da domani – e per altre quattro notti, ma questa era occupato – ho la prenotazione in Bungalow Delux con vista giardino ($ 45) dove, invece, lo scaldabagno c’è. Paghiamo tutto: sia questa prima notte sia le altre quattro per un totale di $ 211,50.

La signora della reception, cartina in mano, ci spiega che siamo a 2 km dal centro; con le biciclette possiamo raggiungere, a distanza di 6 km, il villaggio Gyektaw dei pescatori verso sud, a due km il Ngapali Ward ovvero lo scoglio con la statua di una Sirena, e a 7,2 km nord il paesino sul lago Mahar Bawdi.

Ci consegna le chiavi della stanza 401 attigua alla zona ristorante e al parcheggio delle bici.

Non è male, tetto spiovente, aria condizionata, stendino, internet (non sempre velocissimo), bottigliette d’acqua e bollitore, in bagno il set di cortesia, ciabattine per doccia, aria condizionata e affaccia su un giardinetto interno di fronte altre file di bungalow. Per una sera va più che bene, s’intravede pure il mare che non ha colori spettacolari, ma è pulito e calmo.

Indossiamo il costume e dopo pochi passi siamo sull’ampia spiaggia con lettini di legno, sedie in bambù, qualche ombrellone, tante palme e un guardiano fisso.

Sulla medesima baietta, ci sono due hotel a debita distanza, quindi la spiaggia sembra deserta ed esclusiva.

Diversi i cani che gironzolano per la struttura, ma non abbaiano né disturbano assolutamente.

Attiguo ai nostri ombrelloni, un cartellone pubblicizza massaggi e trattamenti vari. Una ragazza mi accalappia, abbatte subito il prezzo e concordiamo un massaggio di prova a 5000k per 45 minuti con olio di cocco su tutto il corpo. Si rivela una vera e propria goduria. A praticarlo, su un lettino sistemato su una pedana sotto un tendone, vista mare, una brava signora. Cerco di rilassarmi ma tengo gli occhi aperti per assistere a un tramonto spettacolare mentre lei discretamente lavora con esperienza ed energia.

Rimaniamo in zona e, proprio accanto, ceniamo presso il ristorantino Wave King Rakhine Traditional Sea Food Restaurant con un enorme Red Snapper di circa 1,3kg alla griglia per me e un riso fritto coi gamberetti per il mio boy. Compresa un’insalatina di verza, un riso bianco, due bananine e una soda spendiamo 11500k.

Soddisfatti, a piedi scalzi sulla piacevolmente fredda sabbia torniamo nel bungalow superior e crolliamo felici di addormentarci cullati dal fragore delle onde oceaniche.

10 Febbraio: NGPALI

La prima colazione è buona per noi occidentali e anche abbondante. Sul tavolo sono presenti un cestino di frutta, una teiera con te verde, thermos con acqua calda e bustine di Nescafé o tea al latte. Su richiesta, toast con marmellata, pancake, spremuta di frutta e uova.

A metà mattina ci trasferiamo nel bungalow delux, in pratica di fronte l’attuale stanza. E’ un po’ più grande, balconcino rialzato, la desiderata acqua calda, il frigorifero e il televisore (che non accenderemo) oltre all’aria condizionata e al water in una stanza separata dalla doccia e lavabo.

Mare! Ci rilassiamo un po’, per me l’acqua è un po’ freddina, il mio compagno d’avventura si tuffa dopo pochi minuti, ma è l’unico a mollo. Ci spostiamo di qualche metro per la presenza di alcune rocce, ben visibili e non pericolose, ma nella parte più centrale della mezza luna l’oceano è meno increspato.

Lunga passeggiata e superamento di scogli a sinistra dell’hotel. Arriviamo in un’insenatura ancora più grande ma affollatissima, è quella in cui si affacciano i resort più importanti e stellati, dove ci sono tante bancarelle e una miriade di ristorantini: la nostra realtà amplificata all’ennesima potenza. Il mare dà l’idea di essere leggermente più trasparente, ma preferiamo la tranquillità e la modestia della nostra struttura.

Nel pomeriggio montiamo sulle biciclette: volendo ci sono anche quelle elettriche per 12000k, ma non c’è bisogno di noleggiarle, la strada è piuttosto lineare, e ci dirigiamo al paesino di pescatori, dove intere famiglie si occupano di trattare il pesce per uso personale o per venderlo. Stesi ed essiccati su fili volanti, ve ne sono di giganteschi; quelli piccolissimi sono adagiati su retine sulla spiaggia o su qualche spiazzo con erba ed emanano un odore acre e a volte poco piacevole. Quello fresco è venduto in bacinelle poggiate sul ciglio delle strade dove con niente giocano i bambini che allegramente ci salutano e ai quali distribuisco caramelle.

Per cena ci fermiamo al Paradise Restaurant consigliato dalla receptionist-responsabile-tuttofare, è di un suo amico che collabora con il nostro hotel. L’AZ family non ha una vera e propria cucina, ma su ordinazione per pranzo o cena fa arrivare da questo locale le pietanze. Io ordino un filetto di tonno alla griglia, pomodori con cipolla, riso bianco e papaya, il mio boy si delizia con una tempura di calamari e, compresa una bottiglia d’acqua, spendiamo 10000k. Non c’è paragone tra la sua unica porzione un po’ inconsistente e il mio “set menu”, com’è chiamato, ma ordinare un piatto singolo alla carta è più sconveniente di un menu già consigliato.

Saliamo sulle bici e in una decina di minuti rincasiamo nella confortevole stanzetta.

11 Febbraio: NGAPALI

Colazione gustosa e abbondante, incremata per un’altra giornata di mare. Non si soffre il caldo perché c’è sempre una leggera brezza, non si suda perché è secco, basta bagnare i piedi per rinfrescarsi poiché l’acqua è un po’ freddina.

Passeggio e m’intrattengo con qualche ristoratore, con donne intente a stendere pesce, coi bimbi che non sono andati a scuola e che il guardiano allontana dai nostri lettini.

Riprendiamo le bici e andiamo su un altro tratto di costa a vedere la statua di una Sirenetta – neanche fatta bene – adagiata su uno scoglio alto un paio di metri, dove numerose persone si abbarbicano per una foto. Noi facciamo altrettanto, ormai siamo qui, non ci conosce nessuno e ci va di giocare un po’. La pedalata continua per qualche chilometro fino a raggiungere l’aeroporto sul quale siamo atterrati. E’ incredibile come la pista sia così accessibile a tutti e quasi sul mare. Biciclettare in calzoncini, canottiera e infradito ci dà un senso di libertà e ci riporta a quando eravamo piccoli, era da tantissimo che non lo facevamo.

Andiamo ad assistere a un tramonto indimenticabile sulla spiaggiona dei resort. L’intenzione era di gustare un cocktail scontato dalle 17 alle 19 per la tanto pubblicizzata happy hours, ma poi ci ripensiamo e ceniamo direttamente in uno delle decine di ristorantini così attaccati l’uno all’altro che si confondono le insegne. Ci ispira l’Original Sunset View e non ci pentiremo della scelta. Un filetto di barracuda molto carnoso e gustoso per me, tre tranci di petto di pollo perfettamente grigliati per il mio boy, un riso bianco, un’insalata di pomodori e una coca cola per 13000k.

Inforchiamo la bici e in un quarto d’ora rientriamo nella tranquillità della Guest House.

12 Febbraio: NGAPALI

Colazione ricca (ci fa anche da pranzo) con pancake al miele, banane, mini mandarini, toast con la marmellata, uova, spremute d’ananas e d’anguria, tea verde e Nescafé.

Prendiamo le bici e raggiungiamo la spiaggiona (dei mega resort dove siamo andati nei giorni scorsi per passeggiata e cena) da dove partono le barche per Pearl Island. Avvisiamo un tizio (avevamo letto un cartello pubblicitario sulla medesima escursione organizzata dal nostro hotel ma a un prezzo più alto e con orari più scomodi) che siamo arrivati. Dopo un quarto d’ora vediamo lui, a cui consegniamo 25000k e un sorridente barcaiolo al quale ci affida e che farà finta di sapere l’inglese (in realtà comunicheremo con il solito gioco dei mimi).

Dopo una mezz’oretta di mare aperto, approdiamo nella selvaggia e scogliosa isola sulle cui coste facciamo snorkeling: pesci pappagallo, sergente, diversi neri, bluette, grigiastri… ma rispetto ad altri mari nulla di che. Risaliamo sull’imbarcazione e ci rimettiamo in movimento, un altro po’ di navigazione e secondo punto di sosta, dall’acqua color smeraldo per un tuffo. Più presenza di corallo e gli stessi pesci. Costeggiamo il villaggio dei pescatori in cui eravamo andati via terra in bici. Finisce la benzina, la rimpinza con due bottigliette che tira fuori da uno zainetto, ma non bastano per completare la gita. Ci guardiamo intorno, silenzio, ma all’improvviso incrociamo una barchetta con altri turisti, uno scambio di parole col capitano che tirerà al nostro una bottiglia con un litro e mezzo di carburante che ci consentirà di portare a termine l’intero tour (fiuuu!). Grossi sorrisi in segno di vittoria e, dopo averci indicato una pagoda, ci porta in quella che chiamano Paradise beach, una baietta solitaria dove la sabbia è, secondo il punto in cui siamo, bianca e fine o di micro coralli rosa. L’acqua è più calda, il colore trasparente, un unico ristorantino e il nulla. Rimaniamo un’oretta prima di rientrare, le quattro ore di gita sono volate. Lo salutiamo regalandogli un cappellino, dei gadget e dandogli la mancia (non si aspetta nulla di tutto ciò e continua, anche in lontananza, a sbracciarsi caldamente).

Sulla spiaggiona un ultimo bagno e balzando sulle bici rientriamo in stanza, non prima di un pit stop per acquistare un cocomerino (2000k).

Rigenerante doccia (ci siamo cotti a puntino), merendina e non manco l’appuntamento con il massaggio, questa volta chiedo di farmelo fare dal marito, i soliti 45 minuti per 5000k, ma alla fine sono così soddisfatta che gliene faccio trovare 7000 dentro al mio portafoglio che gli regalo.

Rientro in stanza gongolando, mi cambio e sono pronta per la cena on the beach presso uno dei cinque ristorantini sulla nostra spiaggetta, il Ngapali Beach o Happy Beach Fresh Seafood Restaurant (indirizzo: near Yoma Cherry Hotel). Ci accolgono con entusiasmo, fanno accomodare fronte mare, piedi sulla sabbia, lume di candela e servono un piattone di pesce in tempura, del polpo grigliato, insalata di pomodori, cipolle e arachidi, riso bianco, cocomero e una coca cola per 11000k.

Ci ripromettiamo di tornarci!

Il lettone con baldacchino ci aspetta, vorremmo stare gran parte della serata fuori, sul balconcino dove qualcuno ha pure attaccato un’amaca, ma le zanzare ci infastidiscono.

13 Febbraio: NGAPALI

Si dorme bene in questo posto: il rumore delle onde che s’infrangono, gli ospiti degli altri bungalow piuttosto silenziosi e che non stanno mai oltre una certa ora fuori la stanza a chiacchierare.

La colazione è il pensiero fisso quotidiano e, nonostante le pietanze si ripetano (volendo potremmo scegliere riso o noodle fritti o frittatine), sono sempre gustose e non ci stancano. Oggi spremute d’ananas nannadì e di melone giallo molto dolce.

La mattina passa velocemente, incontriamo tre italiani con cui scambiare le prime parole nella nostra lingua dopo 16 giorni, poi una lunghissima passeggiata anche un po’ azzardata tra gli scogli per raggiungere una baietta dalla quale si affaccia un campo da golf. Ci divertiamo, in costume, ad attraversare il curatissimo campo. Che strano camminare sul prato, sulle collinette e avere di fronte palme e mare!

Rientriamo in hotel che sono le 14,30 piuttosto provati dal caldo e dal tragitto, ci ritiriamo in stanza e consumiamo tutta la frutta fresca che abbiamo in frigo.

Arrivano le 15 e mi concedo l’ultimo massaggio sulla spiaggia fronte tramonto, spettacolare. Mentre il tizio tratta il mio corpo spargendo con mani esperte e calde l’olio al cocco, mi viene il magone. Lo vedo così serio, concentrato, vestito quasi da impiegato. Mi fa una tenerezza incredibile… mi commuovo nel salutarlo, gli regalerò due t-shirt nuove del mio compagno e una borsetta con cuffiette e saponette. Gli spiego che potranno essere utili per il suo lavoro; magari alcune persone non vorranno farsi ungere i capelli e potrà utilizzare le saponette come meglio crede… e comunque risparmiando qualche suo soldino. Ascolta interessato, attento e alquanto incredulo, probabilmente è la prima volta che riceve qualcosa che non sia denaro per la prestazione.

Pago anche oggi di mia spontanea volontà 7000k e rimane molto contento. Scattiamo una foto insieme e quasi s’intimidisce, non deve averlo fatto con altre clienti.

Ammiriamo per l’ultima volta la palla infuocata mangiata dall’oceano, rientriamo in stanza, collegamento con il mondo e via per cena.

Sono indecisa: sperimento un altro ristorantino così faccio guadagnare un po’ tutti oppure ritorno dal primo o dall’ultimo già testati e che mi aspettano e salutano sempre durante il giorno?

La seconda: Happy Beach, soprattutto perché oggi ha dei gamberoni Tigre o King giganti che non posso non assaggiare! Li porta aperti e grigliati con una salsina di zenzero che è una delizia, un’insalata di pomodori e cipolle, riso bianco e bananina fritta con miele. Il mio boy replica con la tempura di pesce, anche oggi perfetta e, compresa acqua e coca, spendiamo gli ultimi 13500k.

Tanti saluti e ringraziamenti alla signora Phyu Phyu Win e consorte, foto di rito e ultima camminata sulla sabbia sotto un cielo stellato che sembra la carta del bacio perugina.

Ultima dormita allo chalet delux della struttura che si è rivelata un’ottima scelta per le nostre esigenze.

14 Febbraio: NGAPALI – YANGON

Alle 7,30 colazione e alle 9,30, dopo aver salutato tutto lo staff e consegnato vari zainetti con il contenuto della mia valigia (si premuniranno di distribuirlo alle famiglie delle capannine attigue o a chi riterranno opportuno) e aver donato loro borsette, portafogli e ciabattine, si parte.

In una decina di minuti siamo al piccolo e lindo aeroporto di Thandwe presso il quale attenderemo un bel po’ prima del velocissimo check in e dell’imbarco sul volo dell’Yadanarpon Airlines 7Y 161 delle 11,30.

Il peso massimo consentito delle valigie è sempre di 20kg per quelle da imbarcare e 10kg per il bagaglio a mano. Per noi nessun problema quando le adagiano su una vecchissima bilancia per la pesa, la mia è in pratica vuota.

I posti non sono assegnati, una salvietta profumata appena entrati e durante l’oretta scarsa di volo un succo di frutta, del tea o caffè, tre dolcetti ciascuno (un cornetto, una tortina e una sorta di bignè) e delle caramelle.

Il ritiro bagagli è altrettanto veloce, incontriamo il vecchio autista per il trasferimento all’Hotel Zia ($ 19,80 a notte a stanza), a una quindicina di chilometri. Impiegheremo quasi un’ora per il traffico impazzito dell’ora di punta. Non eravamo più abituati a tutte queste macchine, palazzoni… è un ritrovarsi catapultati nella realtà “occidentale” che avevamo messo da parte.

Arriviamo all’indirizzo dell’hotel e abbiamo un po’ di difficoltà a trovare il portone sia perché banche, negozi, locali sono attigui senza alcuno spazio tra una costruzione e l’altra, sia poiché molti pulmini sono parcheggiati a ridosso del marciapiede e oscurano le varie insegne. Senza autista avremmo impiegato molto di più. Paghiamo in moneta locale (27300k) rimettendoci un pochino per via del cambio, ma almeno non avremo il pensiero di ricambiarli. Barattiamo anche la colazione di domani mattina (ci avrebbero consegnato un contenitore con pane, marmellata e uova sode) con due risi fritti con vegetali, uovo all’occhio di bue sopra e della frutta fresca che mangeremo in stanza per cena.

Quale drink di benvenuto un succo d’ananas (speravo di mango=teiedì), prendiamo possesso della stanza 102 che non è enorme, non ha finestre, ma un bel letto matrimoniale, aria condizionata, bollitore elettrico (senza prodotti), TV e telefono che non utilizzeremo. Il lavabo con dosatori di sapone e shampoo si trova in una rientranza della camera, a parte il water con doccia che però ha uno scarico a vista dentro un tombino. Il wi-fi in compenso è velocissimo.

Pochi minuti e siamo fuori, non distanti dalla pagoda di Sule e a 2,5 km da quella principale visitata il primo giorno. Gironzoliamo per le trafficate e pullulanti viuzze facendo una capatina al mercato Bogyoke o Aung San o Scott che chiude alle 17 per l’acquisto degli ultimi souvenir (3 calamite per 3000k), dove impressionante è la quantità di bancarelle che vendono gioielli e pietre preziose.

Una capatina, anche se non è da noi, la facciamo anche al grande centro commerciale Junction City aperto fino alle 21 molto simile ai nostri in cui si trova di tutto di più a prezzi piuttosto alti. All’interno dell’enorme supermercato all’ultimo piano ci divertiamo a vedere il costo dei pandori Bauli (siamo agli sgoccioli del capodanno cinese – dal 1° al 18 febbraio -), delle paste De Cecco, Riscossa e, mai vista prima, San Remo prodotta in Australia (proprio in questi giorni in Italia molti staranno seguendo la nota gara canora). Molti piani sono addobbati per la festa di San Valentino con palloncini di tutti i colori a forma di cuori, sconti promozionali… che si aggiungono alle decorazioni in giallo e rosso per celebrare l’anno del cane.

L’ultima moneta locale la spendiamo per tanta frutta da imbarcare in valigia e far assaggiare ai nostri cari (3000k totali per dragon fruit, sidi, avocado, langon), per della frutta secca (mini arachidi, semi di girasole, anacardi) e alcune spezie (3700k tra zenzero e curcuma in polvere, stecche e foglie di cannella).

Rientriamo all’Hotel Zia facendoci strada sui marciapiedi pieni di venditori e di gente che mangia cibo cotto al momento in grossi pentoloni e sistemiamo la valigia. Ci consegnano la cena, ultimo pasto locale, caldo e gustoso. Ammazziamo qualche zanzara e speriamo che il tubo di scolo dell’acqua in bagno non faccia rumore od odore. Le pareti sono in cartongesso sottilissimo e sentiamo anche il respiro dei vicini.

15 Febbraio: YANGON – DOHA – ROMA FCO

Mentre chiudo la valigia, penso a quanto sia vera la frase di KiplingQuesta è la Birmania e sarà diversa da ogni altra terra tu possa aver conosciuto” (Lettere dall’Est 1898) e quasi mi commuovo.

Alle 5 il check out, il nostro autista è già davanti l’hotel per il trasferimento all’International Airport Yangon.

Abbiamo il volo Qatar alle ore 7,40, arriviamo due ore prima perché i controlli sono abbastanza accurati seppure veloci. Il duty free è ancora chiuso, solo qualche bancarella espone souvenir al prezzo doppio o triplo di quello visto nei vari mercatini. Il wi-fi è gratuito.

Durante le 7 ore e 45 di volo servono un’abbondante colazione: succo d’arancia, cornetto con marmellata, yogurt, e, a scelta, frittata di patate e pomodori o pesce bollito, verdure e riso, muffin.

Prima dell’atterraggio passano uno spuntino con sandwich vegetale o di pollo e tortino al cioccolato.

A Doha sono le 11,55, ora locale. Durante lo scalo di 4 ore e mezza facciamo un giretto nel duty free, acquistiamo Marlboro a 21$ il cartone, ci colleghiamo con wi-fi gratuito e ripartiamo alle 16,20 per Roma.

Saliamo sull’aereo della Dreamliner e voliamo (posti 17C) altre 6 ore e 20 durante le quali offrono prima la cena: manzo piccante con riso e verdure o pollo con patate e verdure, formaggino, cous cous e dolcetto e poi una merenda con pacchetto di patatine e Kit Kat. Il grande e poco comodo – seppure elegante e provvisto di nuovissimi monitor – aereo è strapieno e non si riesce a riposare.

Proiettano tanti film di prima visione e storici, anche in italiano, peccato non ci siano L’arpa birmana e Il ponte sul fiume Kwai che mi sono ripromessa di vedere. Ripiego su Assassinio sull’Oriente Express.

Atterriamo a Fiumicino alle 20,40 ora locale.

L’aria è gelida, ma il nostro cuore ancora caldo.

Tatà e buon viaggio!

Luna Lecci



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