Myanmar in sette giorni
Indice dei contenuti
Quest’anno decidiamo di concederci un viaggio alla scoperta della Birmania alias Myanmar come è stata ridenominata dalla giunta militare nel 1989. Siamo in tre; con me e mia moglie nostro figlio ultratrentacinquenne. Quando facciamo questi viaggi a molti chilometri da casa, che non si limitano allo stanziamento presso un villaggio turistico in riva al mare, ma ci impegnano in un giro il più possibile completo del paese (o di una parte), preferiamo affidarci ad un Tour operator affidabile, anche perché abbiamo scoperto che, facendo da soli, spendiamo quasi lo stesso e costelliamo il viaggio talvolta di delusioni e di problematiche che preferiamo evitare. Così abbiamo acquistato un pacchetto chiuso (volo, hotel, spostamenti interni, ristoranti, tickets, ed ovviante guida) da un primario Tour operator. Va detto tuttavia che, ancora più importante del Tour operator è la guida, cioè la persona di lingua italiana che ci starà accanto per una settimana e ci accompagnerà in ogni momento della giornata. In tal senso come diremo qui di seguito, siamo stati molto fortunati. Per chi non voglia sostenere i costi del Tour operator, ed il relativo necessario ricarico, potrà più semplicemente accordarsi con una verificata guida sul posto che potrà lei stessa predisporre un adeguato programma, secondo i desideri ed il budget dell’interessato.
1 gennaio 2019: ROMA – YANGON
Il volo intercontinentale della Neos parte il primo dell’anno da Milano. Così, risiedendo a Roma, prendiamo uno dei numerosissimi voli da Roma per Milano trovandoci in aeroporto con notevole anticipo, che viene però riempito da un caffè il quale, a propria volta, si trasforma rapidamente, per la necessità di occupare il tavolo fino al check-in, in cibo non stop. Fortunatamente la ragazza della Compagnia arriva al banco con notevole anticipo sul volo. Problema non previsto è che per la Neos, contrariamente alle altre Compagnie aeree, il peso del bagaglio a mano non può superare i 5 chili (le valigie da cabina da sole ne pesano 2 !). Abbiamo già i fogli con i visti di ingresso per il Myanmar, che debbono essere richiesti preventivamente. Il volo lo facciamo con un nuovissimo e modernissimo Boeing 787/900 (basti dire, a parte i monitor personali con numerosi film e giochi, che i finestrini avevano vetri fotoelettrici che si oscuravano con comandi elettronici). Purtroppo il volo non è diretto ed atterriamo dopo circa 11 ore all’aeroporto di Phu Quoc, un’isola vietnamita nel Golfo di Thailandia per recuperare i turisti italiani che tornavano a Milano. Un’ulteriore ora di attesa allo scalo per permettere la pulizia dell’aereo (inevitabile l’acquisto dei gadget vietnamiti in aeroporto) e poi dopo un’altra ora e mezza atterriamo finalmente il 2 mattina a Yangon (o Rangoon). Qui sono quasi le 10 del mattino, ma per noi, dato lo scarto in più, di 5 ore e mezza, sarebbero le 4,30 di notte.
2 gennaio 2019: YANGON
Ci attende l’incaricato con il pulmino che ci porta in hotel. Si tratta del Jasmin Palace Hotel davvero moderno e curato. Con noi altre due coppie, (stagionate come noi), che però hanno prescelto di rimanere al mare riducendo le escursioni. Ci ritroveremo sul volo del ritorno. Nel pomeriggio iniziamo il giro di Yangon. Abbiamo in programma la visita al Tempio del Buddha sdraiato di circa 70 metri e poi al complesso religioso della Pagoda di Shwedagon con l’enorme tetto coperto di lamine di oro. Purtroppo il Buddha sdraiato della Pagoda di Chauk Htat Gyi in realtà è coperto dai ponteggi del restauro, tutti fatti da intricate canne di bambù legate tra loro. Forse la complessità del ponteggio da sola merita lo spettacolo. Abbiamo comprato alle bancarelle un mango salato tagliato a spicchi. Ma è sconsigliatissimo! La nostra guida cartacea, in merito al cibo venduto in strada mette in guardia sulla poca igiene; nel 2014 un terzo del cibo delle bancarelle, secondo il libro, conteneva batteri sthaphilococcus aureus. Tuttavia il mango salato era veramente buono così come tutti i cibi da strada comprati in seguito. Speriamo che dal 2014 al 2019 ci siano stati dei miglioramenti, pur se in effetti girando per la città, non si può dire che questa ci abbia colpito per la pulizia. Ad onor del vero, in una settimana di cibo da strada comprato continuativamente, non ci è successo nulla, (semmai bisogna prestare attenzione alle salse, alcune veramente troppo piccanti… e lo dico per esperienza personale).
Eccezionale il complesso della Grande Pagoda. Anche il tetto della Grande Pagoda invero è coperto da stuoie per il restauro, ma il posto è uno spettacolo. Si tratta in effetti di un complesso religioso formato dalla Grande Pagoda d’oro e da innumerevoli altre pagode, templi, strutture religiose, costruzioni dedicate al culto, e numerosi stupa, (piccole torri su un basamento più massiccio a forma di campana con una guglia affusolata spesso con fiori o altre delicate strutture metalliche sulla sommità), quasi tutto rigorosamente color oro, (le statue del Buddha sono di ottone lucidato). Il posto trasuda una religiosità profonda. Era sera, e stava quasi scomparendo la luce, eppure c’erano migliaia di fedeli in preghiera, per lo più giovani. Tutte le candele e le fiammelle ad olio riflesse sull’oro delle strutture e delle statue, creavano un effetto molto coinvolgente. Il luogo sia per la magnificenza delle strutture, ma soprattutto per lo spettacolo dei fedeli in preghiera, merita sicuramente una lunga visita. Camminando non si sa dove volgere lo sguardo stante il gran numero di strutture di particolare pregio, e soprattutto il gran numero dei fedeli, con una religiosità commovente e che fa spettacolo. Molti inginocchiati con i mazzi di fiori di loto ed altri intenti a schiacciare le finissime lamine di oro (che vendono le bancarelle a pochi euro) sulle statue di Buddha, comportamento che testimonia la devozione. Per la cronaca è il complesso religioso più importante del Myanmar. Venne saccheggiata dagli inglesi nel 1824 per utilizzarla quale roccaforte, vista la posizione sopraelevata in città. Una gigantesca campana in bronzo del ‘700 è visibile in una apposita struttura. La campana venne trafugata nell’800 sempre dagli inglesi, (non hanno lasciato un buon ricordo), per fonderla in modo da ricavarne cannoni. Tuttavia nel trasporto lungo il fiume cadde in acqua e venne recuperata dai fedeli solo molti anni dopo. La stessa sorte capitò ad un’altra campana sottratta dai portoghesi ai primi del ‘600.
Terminiamo la serata con una cena birmana. Crema di lenticchie e poi varie verdure con pollo e manzo avvolto dal riso ed accompagnato da varie salse, frutta locale e the verde. Poi a letto presto. L’indomani alle 5 si va in aeroporto per la zona archeologica di Bagan, dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità
3 gennaio 2019: BAGAN
Appuntamento alle 5 con la nostra efficientissima Myitzu che ci accompagnerà per tutti i prossimi giorni, innanzi tutto per andare in aeroporto e prendere il volo interno per Bagan. Due parole sulla nostra guida ed un po’ di recapiti che potrebbero essere utili per futuri viaggiatori. Si chiama Myitzu Aung. È una giovane e graziosa ex insegnante birmana che ai bambini ha preferito i turisti. Parla un buon italiano, è stata in molte città della nostra penisola ed è attentissima ai propri clienti. Tratta con i negozianti, i taxi, consiglia sugli acquisti, è ricca di notizie sui posti che si visitano, risponde con pazienza a qualunque quesito, ma soprattutto è una organizzatrice eccellente. Ci ha seguito in tutti gli spostamenti (passo-passo), ha curato le nostre valigie come se fossero sue, ha disbrigato tutte le pratiche negli aeroporti e negli hotel, non ci ha mai lasciati. Conosce tutte le strutture alberghiere, nelle varie località, ha curato tutti i check-in dei voli ed il ritiro bagagli, evitandoci file e problemi. E’ sicuramente in grado di organizzare e guidare qualunque genere di escursione. Non da ultimo viene sempre vestita con abiti caratteristici birmani di estrema eleganza. Insomma è consigliatissima, se intendete recarvi in Birmania. I suoi recapiti sono: Myitzu Aung. e-mail: vivianmyanmar@gmail.com.
Ma torniamo all’aeroporto di Yangon. Siamo in anticipo. Le valigie le portano dei giovani facchini. Myiztu ci dice di lasciar fare perché loro vivono delle piccole mance dei turisti. Ci rendiamo subito conto della situazione economica della Birmania da un piccolo episodio, che tuttavia va raccontato. Siamo in anticipo e ci fermiamo al bar dell’aeroporto. L’hotel data l’ora di partenza, aveva consegnato a ciascuno di noi una scatola con la colazione da prendere in seguito. Apriamo le scatole che erano piene di cibo (frutta, marmellate, varie brioches, pane, dolci) e bevande. Consumiamo poche cose. Stiamo per lasciare il resto sul tavolo, quando Myiztu ci suggerisce di darla ai lavoratori dell’aeroporto, Ricostruisce con cura le scatole con il residuo e scompare dietro un muro dell’aeroporto, per ricomparire poco dopo a mani vuote per guidarci all’imbarco. È un piccolo episodio che però evidenzia la situazione dei lavoratori e la grande sensibilità della nostra guida. Saliamo su un piccolo ATR 72/600 della Compagnia birmana Yadanarpon un po’ datato, (erano secoli che non salivo su un aereo ad elica; in realtà un turboelica), ma con il servizio a bordo impeccabile. Siamo in pochi. Atterriamo dopo circa un’ora a Bagan. Si tratta di una delle zone archeologiche più ricche ed importanti di tutta l’Asia. In circa 70 chilometri quadrati sorgono 2.000 antichissime pagode e stupa, la maggior parte in buono stato nonostante il tempo decorso (1.000 anni circa) ed i vari terremoti, l’ultimo del 2016. La località costeggia il larghissimo fiume Ayeyarwady e dà al turista una sensazione davvero strana. Innanzi tutto per l’inspiegabile distesa a perdita d’occhio di templi e pagode nella campagna, talvolta a pochi metri una dall’altra e poi… per l’inesistenza di turisti. Eravamo si e no 20 persone che giravano per la campagna in mezzo a migliaia di strutture religiose in mattoni vecchie di oltre 1000 anni delle quali, anche una sola avrebbe giustificato la visita di centinaia di turisti. Tutto questo nel pieno silenzio, rotto solo dai nostri passi. Neanche lo poche bancarelle limitrofe provocavano alcun rumore, salvi i colpi di machete del venditore di cocco che apriva i frutti (ottimi). Si tratta in realtà di strutture contemporanee ai templi di Angkor in Cambogia, molto più pubblicizzati, solo che lì i templi non si vedono perché sono coperti dai turisti e qui invece si possono visitare da soli. Spettacolare il tramonto con la luce radente che illumina tutte le cupole e le guglie insieme. Sotto tale profilo, va detto che all’alba si innalzano nel cielo numerose mongolfiere con i turisti più avventurosi ed abbienti per vedere tutta la zona dall’alto. Vi sono 3 agenzie straniere in zona che chiedono 330 (trecentotrenta !) dollari a persona per un volo di un’ora (poi si alza il vento che rende l’ascensione insicura) e colazione a base di champagne. Il luogo è pubblicizzato nel mondo proprio con l’immagine dei templi nella luce dell’alba, con tutte le mongolfiere colorate che “galleggiano” pigramente nel cielo. Legittimamente il turista si chiede che senso potesse avere per il sovrano di oltre mille anni fa o poco di meno, costruire templi in un numero così sconsiderato e talvolta a pochi metri uno dall’altro. La ragione va ricercata nella religione buddista che prevede la rinascita di ciascuno in un essere superiore o inferiore a seconda delle azioni compiute e, quale migliore buona azione che costruire più templi possibili dedicati a Buddha? Anche se con il rischio di mandare lo Stato in bancarotta. Abbiamo anche visitato in zona la Pagoda Shwezigon, meta di pellegrinaggio con tanti tempietti attorno al complesso centrale che brilla da lontano al sole per l’oro della cupola. Il tempio di Htilominio del 1200, con le statue gigantesche coperte di foglia d’oro del Bhudda e con i due ombrelli altissimi ai fianchi (a ricordo del miracolo dell’ombrello che si piegò verso il principe Htilominio, allorché il re, facendo riunire i propri figli, doveva nominare l’erede al trono), ed il tempio di Ananda del 1100 ca, con le quattro gigantesche statue del Bhudda. Una di queste è singolare. L’espressione della divinità sorride se vista dall’ingresso ed è corrucciata se vista in prossimità. Infine il tempio di Manuha con un’altra gigantesca statua del Bhudda disteso.
Dopo la “sbornia” di templi e pagode, andiamo in giro. Visitiamo una piccola fabbrica artigianale della lacca, sostanza che si ricava dalla resina di un albero locale. Per strada si rinvengono “distributori di carburante” cioè capanne di paglia con allineate bottiglie usate di Coca cola o Fanta riempite da uno o due litri di benzina o gasolio. Cosa interessantissima, a parte i templi e le altre strutture religiose (una tragedia è il doversi levare oltre le scarpe anche i calzini, e poi stante la polvere sui pavimenti, dover ripulire con i fazzolettini imbevuti i piedi ed effettuare l’operazione inversa ogni volta), è stata la visita al mercato di Nyaungoo nei dintorni di Bagan e nei pressi del grande fiume Ayeyarwady. E’ stata davvero un’esperienza di rilievo. Sono in vendita frutta, verdure, legumi ed in genere cibi a noi totalmente sconosciuti. Quanto ai tessuti, ai pantaloni tipici birmani, ai burattini, ai dolci ed insomma a tutto quello che può interessare un turista non asiatico (in realtà questo è un mercato rigorosamente per locali e non turistico), i prezzi per i nostri parametri, sono assolutamente irrisori. Pranziamo in uno dei bei locali sul fiume e ceniamo a Bagan con lo spettacolo delle marionette, tipiche birmane che fanno riferimento a storie e leggende del popolo. Siamo alloggiati per la notte all’hotel Amata Garden Resort, bellissimo parco con grande piscina e camere molto curate. Domattina continuiamo il giro, spostandoci via terra alla volta di Mandalay.
4 gennaio 2019 MANDALAY
Con il pulmino ci siamo spostati in circa 4 ore Mandalay. Lungo la strada la guida ha suggerito una sosta nei campi per osservare i lavori manuali delle contadine. Queste donne giovani e meno giovani, affiancate una all’altra, muovendosi all’unisono accovacciate, con il classico copricapo a cono rovesciato, piantavano le cipolle con attrezzi rudimentali. Queste ragazze lavorano dalle 6 del mattino alle 17 per 10.000 chiat al giorno, poco più di cinque euro. Non conviene evidentemente ai proprietari acquistare macchine agricole che svolgano lo stesso lavoro, dati i bassi prezzi della manovalanza. Se la cosa ci stupisce, anzi ci rattrista, consideriamo che qui, non c’è assistenza sanitaria, si paga tutto dalle medicine all’ospedale e se non si hanno i soldi si rischia di morire. Ci sono solo delle associazioni private caritatevoli o noti attori, che intervengono con donazioni, ma sono solo una goccia nel mare. A differenza di altre nazioni del sud-est asiatico, che sono in rapidissima espansione economica, qui la dittatura militare, solo da poco allentatasi nel rigore imposto, ha di fatto paralizzato il paese. La corruzione tra i potenti dilaga, le coltivazioni di oppio sono protette militarmente, nonostante il divieto e le pene severe per l’uso di stupefacenti. E’ in pieno vigore la guerriglia in alcune zone di indipendentisti (la Birmania è formata da ben 135 etnie diverse), così come la repressione dei musulmani, con atti di violenza e fuga di molti in Bangladesh. E di questi giorni la condanna a molti anni di prigione di alcuni giornalisti asiatici di agenzie di informazioni importanti, con accuse inconsistenti, per avere invece reso nota una serie di omicidi a freddo compiuti dai militari nei confronti di 10 musulmani. Stranamente, se le prime elezioni libere del 2015, (le precedenti avevano già visto la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, ma erano state annullate dai militari) ha rivisto la conferma del leader e Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che ha ricevuto la maggioranza assoluta dei seggi, non è stato possibile estromettere i militari i quali “per legge” hanno diritto al 25% dei seggi, non sono sottoposti ad alcuna direttiva da parte del governo legittimo eletto dalla maggioranza ed in pratica decidono, tenendo il paese in una morsa che ne impedisce la crescita. È singolare come un popolo il cui 75% vuole escludere i militari corrotti dal potere per riattivare un sistema democratico effettivo, rilanciando l’economia, ed in primis il turismo, non sia in grado di dar corso al rinnovamento. Inspiegabile se non con il carattere mite e poco incline ad atti di forza della popolazione. Lasciando le problematiche del paese e continuando la nostra escursione, abbiamo trovata di estremo interesse la visita alla struttura artigianale che si occupa dell’estrazione di alberi preistorici pietrificati, lavorandoli per ottenere statuette, bracciali e simili. Gli scavi della foresta pietrificata hanno portato in superficie anche tronchi preistorici giganteschi. Lungo la strada estremamente dissestata che ci costringe a velocità modeste, emergono alcune stazioni di pedaggio per proseguire lungo la via, come se fosse privata o in concessione.
Ancora più inusuale lungo la strada per Mandalay, un ponte ferroviario che attraversava il letto del fiume Ayeyarwady sul quale passano a turno alternato sia le autovetture che il treno, con tanto di rotaie, esattamente al centro del ponte. Arriviamo alla fine a Mandalay, Questa era la capitale storica della Birmania fino all’invasione degli inglesi ed alla deposizione del re avvenuta nel 1885. Il Palazzo reale è circondato da un fossato e ci si arriva attraverso un ponte. Le indicazioni ai mezzi turistici per il parcheggio, al posto del nostro vigile urbano, vengono fornite curiosamente da un militare vestito in assetto di guerra con tuta mimetica ed elmetto. Il Palazzo venne costruito seguendo lo schema della Città proibita di Pechino dopo che il re Mindon trasferì la capitale a Mandalay nel 1857. All’ingresso del complesso degli edifici troneggiano quattro giganteschi cannoni. All’interno la Sala delle udienze con le foto interessantissime di metà ‘800 del re, delle mogli e dei dignitari. Poi la Sala del Trono e sul lato sud una bella Torre di guardia circolare con scalinata a spirale dalla cui sommità si ha una vista di insieme di tutti gli altri edifici (vuoti), la zecca, il palazzo di vetro, l’alloggio delle concubine etc. In realtà quello che si vede oggi è ricostruito per buona parte. Infatti prima gli inglesi a fine ‘800 lo utilizzarono come caserme, poi la Birmania si alleò sfortunatamente nella 2° guerra mondiale con il Giappone e così gli Alleati distrussero il tutto con i bombardamenti. Oggi è quasi tutto ricostruito, mentre buona parte delle strutture del Palazzo reale sono tuttavia ancora utilizzate dai militari. La seconda visita l’abbiamo fatta alla collina di Mandalay fino a raggiungere, prima con il pulmino, poi a piedi ed infine con due scale mobili, il Sutaungpyi Paya (il Tempio che avvera i desideri). Visita consigliabilissima, perché dalla sommità della grande terrazza, si domina non solo la città ed i templi, ma tutta la vallata.
Altra visita degna di memoria è quella alla Pagoda Sandamuni. È stato inserito questo sito dall’Unesco nei beni considerati Patrimonio dell’Umanità. È un complesso di ben 1774 stupa, in questo caso, piccole pagode di un bianco abbagliante, ciascuna con al suo interno altrettante lastre di marmo con incisi i libri del Tripitaka, cioè il canone della religione Buddista. Il tutto in un perfetto disegno geometrico. La costruzione venne edificata dal re Mindon nel 1874 a ricordo del fratello principe ereditario Kanaung ucciso in un tentato colpo di Stato (pare che capiti di frequente in Birmania). Per concludere la giornata siamo andati allo Shwenandaw Kyaung. E’ una costruzione totalmente in tek intarsiato con un tetto a quattro piani. Tutte le facciate sono coperte da continui e bellissimi altorilievi. Curiosamente la costruzione che vediamo oggi è il frutto di uno smontaggio e rimontaggio. Infatti il fabbricato in legno in origine si trovava all’interno del complesso del Palazzo Reale, ma venne fortunatamente (così si salvò dai bombardamenti della 2° guerra mondiale) smontato e ricostruito in un’altra zona ad est. Lo smontaggio, il riassemblaggio e la destinazione a monastero, dopo la morte del re, venne operata dal figlio, il quale pensava che il manufatto portasse sfortuna. Questa fissazione nelle credenze astrologiche o magiche o l’attribuzione di fortuna e sfortuna, che a noi sembrano stupidaggini, in realtà permea un po’ tutta la cultura anche attuale della popolazione birmana anche di ceto medio-alto e tende a far parte anche del credo religioso buddista. Stanchi e soddisfatti ci portano per la cena ed il pernottamento all’hotel Shwe Pyi Thar, forse un po’ datato, ma sempre ad ottimo livello, come comprendiamo subito dai due grandi elefanti in pietra scolpita che accolgono i clienti all’ingresso. Unica nota di demerito lo strano sistema dei bagni che scarica l’acqua delle docce o delle vasche sul chiusino del pavimento, allagandolo inevitabilmente ogni volta.
5 gennaio 2019 AMAPURA
Prendiamo il pulmino alle 8.30 ed andiamo ad Amarapura (città dell’immortalità) ad 11 chilometri da Mandaley. Amapura è stata per due volte capitale della Birmania, ma ora appare un modesto centro se non fosse per le orde di turisti (come noi) che vanno a vedere il famoso ponte di tek di U Benin, il più lungo del mondo (ca. 1200 metri). Il ponte attraversa tutto il lago di Taungthaman ed è nato nel 1859 per decisione del Sindaco, appunto il Sig. U Benin, nel voler riutilizzare il materiale lasciato sul posto ed avanzato da lavori di costruzione di altre strutture essendo stata nel frattempo la capitale trasferita a Mandaley. Oggi il ponte è sostenuto da circa mille pilastri di legno infissi nel lago e sulle rive. Singolarmente il ponte è alto oltre 20 metri rispetto al suolo ed al livello del lago. Questo perché siamo nella stagione secca. In quella interessata dai monsoni (per es. Agosto) ci dicono che l’acqua lambisce il ponte che addirittura può essere chiuso. Fa un certo effetto attraversare questo lunghissimo ponte di legno, molto alto rispetto al suolo senza alcun parapetto, né da una parte né dall’altra. Ma qui la sicurezza è un optional. Simpaticissimi “i greggi” di centinaia di papere da allevamento che seguono nel lago “il pastore”. Moltissime le bancarelle con i cibi più improbabili: frittelle di gamberi, spaghettini di ceci fritti, spiedini di lingua di maiale ed innumerevoli dolci. Facciamo un passaggio ad una fabbrica di tessuti di seta con antichi telai (qui i prezzi dovrebbero essere più abbordabili, sciarpe di seta molto raffinate al massimo per circa 15-20 dollari). Andiamo poi al Monastero di Maha Gandayon Kyaung famoso in tutto il paese e dimora di circa 1000 monaci ad assistere al famoso pasto in silenzio dei monaci. La cerimonia è riportata anche nella nostra guida cartacea. La cosa mi sembrava davvero strana; non comprendevo il piacere nel vedere i monaci pranzare. Nella realtà la visita è stata anche deludente. Praticamente si tratta di una serie di edifici in una specie di campus universitario per religiosi. C’era una folla indescrivibile di fedeli e turisti che affiancavano le stradina che conduceva alla mensa in attesa della processione. Mano a mano che i monaci passavano, i fedeli ed i turisti offrivano loro doni in cibarie e simili e scattavano foto. Infine i monaci entravano nella loro mensa. Tutto qui. Più interessante è stato visitare brevemente il campus e le cucine tradizionali della struttura. Passiamo al tempio Mahamuni, dove le donne, come negli altri templi, non possono accedere all’altare di Buddha e gli uomini fanno la fila per attaccare le sottilissime foglie d’oro sulla statua.
Mangiamo al Golden Duck di Mandalay un prestigioso ristorante cinese specializzato in anatre ed assimilati. Avevo un anatroccolo quale animale da compagnia, quindi passo alla verdura ed al dolce. Il pomeriggio è stato veramente piacevole. Ci siamo imbarcati per una breve crociera sul grande fiume Ayeyarwady su un barcone in legno gestito da una simpatica giovane coppia. Tutte le imbarcazioni di legno turistiche sul fiume sono un po’ approssimative, ma di grande stazza. Eravamo solo noi tre con la nostra fida Myiztu. Il fiume era splendido, molto grande e con un lento deflusso. Ci siamo seduti al sole sulle poltroncine in vimini sul ponte superiore. Ci passavano accanto altre barche turistiche e le piccole barche dei pescatori di gamberetti. Dopo circa un‘ora siamo arrivati a Mingun per ammirare la cosiddetta Pagoda incompiuta di Mingun. Da lontano sembra una collina naturale, invece avvicinandoci ci rendiamo conto che è un cubo gigantesco di mattoni. Secondo alcuni la più grande pila di mattoni al mondo. L’ intenzione del re Bodawpaya (molto longevo, regnò dal 1782 al 1819 con 200 mogli e concubine e circa 120 figli; veniva chiamato nonno-re), doveva essere quella di edificare la più grande pagoda del mondo arrivando a 150 metri con il lavoro di migliaia di prigionieri di guerra e schiavi. Secondo la leggenda una profezia predisse che con il completamento dell’opera il re sarebbe morto ed il regno cessato, il che “consigliò” l’interruzione dei lavori. Più probabilmente finì il danaro e quindi questo gigantesco manufatto, molto bello da vedersi, soprattutto con le crepe gigantesche derivanti dai vari terremoti succedutisi nel tempo, rimase incompiuto. Nei pressi è visibile la campana funzionante tra le più grandi del mondo, 5 metri di larghezza per quasi 100 tonnellate, (quella al Cremlino è rotta e non suona), che avrebbe dovuto coronare l ‘opera. Si può suonare ed anche mettersi sotto (c’è un margine di circa un metro), sperando che non si stacchi dal supporto. Finiamo la serata sempre sullo stesso lato del fiume visitando un monumento commovente e bellissimo: la Pagoda Hsinbyume. È una grandissima struttura circolare completamente bianca. E’ attorniata da una serie di onde che rappresentano i mari che circondano il Monte Sumeru, la montagna al centro del Cosmo Buddista. È sovrastata da sette terrazze alle quali si accede da una scalinata centrale riservata al re ed a due scalinate laterali. Dall’alto si apre lo sguardo su tutto Mingun e sul fiume. L’intera pagoda bianca fu costruita nel 1816 dal principe Bagyidaw, successore del trono del re Bodawpaya, che costruì la vicina Mingun Paya. Fu completata tre anni prima che il principe salisse al trono nel 1819 e divenne re della dinastia Konbaung. La cosa che la rende unica, oltre alla bellezza (notevole) e alla grandiosità della struttura, è che venne costruita e dedicata dal principe disperato, alla memoria della sua prima amatissima consorte e cugina, la principessa Hsinbyume, che era morta di parto. E’ in sostanza l’equivalente birmano del Taj Mahal indiano del 1600. Cena gradevole al “62 bar & grill” di Mandalay. Una specie di pub europeo. Locale pieno di italiani con le rispettive guide.
6 gennaio 2019 LAGO DI INLE
Prendiamo l’aereo (il solito ATR72/600 vecchiotto) per Heho. Siamo, come per l’altro volo, poche persone, per lo più italiani che vanno come noi a vedere il lago Inle. Ognuno si siede dove vuole. Dopo circa un ora atterriamo. Raccolte le valigie ci attende il pulmino. In un’ora arriviamo al grandissimo lago Inle a poco meno di 1000 metri di altezza. È letteralmente uno spettacolo. Ci fermiamo al nostro hotel, Hupin Resort. Un’accoglienza molto calorosa con aperitivo. Nota curiosa: mentre parcheggiamo notiamo sul prato di fronte all’ingresso del Resort, una lotta furibonda tra un lunghissimo serpente ed un gatto, ciascuno mentre tenta di mordere l’avversario, il gatto tra le spire che roteano del serpente e quest’ultimo ritto con la bocca spalancata. Non ho chiesto al bureau nulla, ne’ sulla pericolosità del rettile, né sulla presenza in hotel di un antidoto, per evitare di preoccuparmi inutilmente, ricordandomi, in una situazione analoga, della risposta di un autista messicano: “No non abbiamo alcun antidoto, sarebbe danaro speso inutilmente, dato che la morte, in caso di morso, sopravviene dopo pochi secondi.” Comunque per correttezza devo dire che, la sera, a cena, la nostra guida, mi ha confermato che i serpenti verdi non sono in genere velenosi ed anzi, nella superstizione locale, vederne uno è segno di fortuna imminente. Immagino che la fortuna consista nel non essere stato morso. Tornando allo splendido Resort, le camere sono costituite da bellissime villette su palafitte dentro il lago, molto moderne. Tutti gli arredi in tek; più che una camera, si tratta di un appartamentino indipendente con più ambienti in un luogo paradisiaco. Davvero singolare un salottino il cui pavimento è dato da una lastra di cristallo per vedere l’acqua del lago sotto di noi. Dopo una rapida sistemazione dei bagagli partiamo subito alla scoperta del lago sulle velocissime motolance dell’hotel. Abbiamo diviso le escursioni in due giorni pieni, date le numerosissime cose da vedere. Si tratta di un lago estesissimo sul quale si affacciano diverse etnie (ed ora qualche resort come il nostro, ma perfettamente inseriti nella natura copiando i villaggi su palafitte dei pescatori presenti nell’area). Il complesso è circondato da una barriera con tanto di porta nel lago, che delimita lo spazio di acqua riservato al Resort. Tutte le lance sono identiche. Ci si può sedere nelle sedie in fila indiana. Dietro a tutti, il motore con la trasmissione e l’elica in stile sud-est asiatico. Cioè, non un fuoribordo, bensì un motore con un lunghissimo tubo porta elica, brandeggiabile in ogni momento per liberare la trasmissione e l’elica dalla alghe e dalle altre piante lacustri e per non toccare il fondo. Ancora più strani i motori, tutti eguali. Un grosso mono-cilindro diesel, senza batteria con avviamento manuale a manovella che parte con un ritmico: bum bum rumoroso per la quasi assenza di un adeguato silenziatore. Tuttavia appena il pilota oltrepassa il cancello e dà gas la lancia parte e fende velocissima le acque del lago. Dopo circa 20 minuti, nei quali incrociamo numerose altre lance dei Resort, alcune condotte da giovani donne, arriviamo al ristorante sul lago, ove abbiamo prenotato ed ormeggiamo. Dopo il pranzo (eccessivo come sempre con tutte le specialità del luogo ed ormai rassegnati alla nostra obesità), andiamo a visitare la Pagoda di Phaung Daw Oo Paya che si trova proprio di fronte al nostro ristorante, ma sulla riva opposta, unita da un ponticello di legno. Stranissimo l’altare con cinque statue o busti, non identificabili perché talmente coperti da foglietti d’oro, così da aver perso ogni fisionomia. Ci racconta la guida che la tradizione parla di un miracolo. Laddove nel trasporto delle cinque statue, una cadde nel lago. Con estrema sorpresa dopo aver messo sull’altare le quattro superstiti, i fedeli recatisi il giorno dopo alla pagoda, trovarono la quinta statua che era affondata, miracolosamente al centro dell’altare pur coperta di alghe. Anche in tale pagoda, sull’altare per attaccare i foglietto d’oro, possono accedere solo gli uomini (c’è tanto di cartello). Singolare ingiustizia dal momento che qui il sesso debole è particolarmente rispettato. Anche la nostra graziosa guida, ci chiede una pausa di pochi minuti per raccogliersi in preghiera. Ripartiamo per la zona del villaggio delle palafitte del popolo Intha, molto estesa. È una popolazione che vive di pesca e della coltivazione degli orti galleggianti che visiteremo domani. Caratteristico è il modo di remare con un solo remo. Dalle foto pensavo che fosse un sistema simile ai gondolieri di Venezia che governano la gondola appunto in tal senso. È tutt’altra la situazione. Il pescatore birmano, viceversa si mette a poppa della particolare canoa o lancia in legno. Con le due mani stende o ritira le reti, mentre tenendo il remo incastrato tra l’ascella e l’incavo della gamba, spinge l’imbarcazione avanti e dietro, al fine di permettere la distesa delle reti. Passiamo a visitare le palafitte delle famiglie che vivono vendendo i tessuti eseguiti con la finissima fibra filamentosa dei gambi dei fiori di loto. E’ una fibra ancora più sottile della seta con cui viene lavorata, ma il procedimento è talmente complesso che il costo del prodotto finito è eccessivo (70 o anche 100 dollari per una camicia). Altrettanto interessante è il lavoro delle donne Intha che fabbricano sigarette o sigari con foglie di tabacco ed altre essenze come gelsomino, rosa etc.
7 gennaio 2019 LAGO DI INLE
Splendida giornata dedicata totalmente alla scoperta del lago. Prendiamo la nostra veloce lancia a motore e ci dirigiamo al Mercato di Inle. Il Mercato in realtà si sposta di giorno in giorno nei vari villaggi costieri. Quando siamo andati noi era accanto alla Pagoda di Phaung Daw Oo Paya. Era pieno degli abitanti dei vari villaggi, sia in veste di venditori dei propri prodotti che in veste di acquirenti di beni di prima necessità. Molti i venditori di cibo. Noi abbiamo comprato frittelle di cocco, una specie di piadine di cereali cotte sotto la sabbia infuocata, qualche dolce. Parecchi anche i banchi per i turisti, che comunque costituivano una minoranza. Abbiamo acquistato gioiellini d’argento, sciarpe (ca. 20.000 chiat) e piccoli contenitori a forma di elefante con all’interno figurine in terracotta smaltate (ca. 15.000 chiat). Molto interessante è che tutti gli abitanti dei vari villaggi vengono vestiti (e non per i pochi turisti) con i loro abiti tradizionali, il che ci ha permesso di scattare numerose bellissime foto, con il permesso degli interessati o con l’acquisto di qualche cibo locale.
Stamattina con la meteorologia abbiamo problemi. Dopo i 30 gradi a cui eravamo abituati, si stanno accumulando in cielo minacciose nuvole scure. Sarebbe stato molto meglio se il tempo ci avesse assistito. Il fatto è che appena partiti con la lancia ha cominciato a piovigginare. Tuttavia l’hotel era previdente. A bordo per ciascun dei 4 passeggeri c’era: ombrello, coperta e nel peggiore dei caso impermeabile leggero con cappuccio. E’ bastato l’ombrello per la prima ora, poi è ricomparso il sole ed i soliti 30 gradi. In Thailandia, molto più a sud, ho sentito che è andata peggio, tutti i villaggi turistici sono stati spazzati da violenti temporali. Dopo quasi un’ora e mezza di giri al mercato, abbiamo ripreso la lancia e siamo passati all’insediamento della tribù Kayan o Padaung. Si tratta delle famose “donne giraffa” che avevamo già visto in Thailandia al confine appunto con la Birmania. C’erano delle ragazzine in costume con gli anelli al collo, ma senza alcuna delle devastanti deformazioni che grazie a dio non abbiamo notato nelle giovani donne che abbiamo incontrato. La leggenda sostiene che il costume di porre anelli di ottone al collo, parte dalla convinzione dei Padaung di discendere dai draghi ai quali vogliono somigliare, oppure dalla necessità di proteggersi dal morso al collo degli animali feroci della giungla. In realtà ormai sembra che l’unico vero motivo sia quello di attrarre il turismo anche perché il governo, giustamente, disincentiva simili pratiche che danneggiano il fisico. Abbiamo acquistato qualche oggetto ed abbiamo proseguito, sempre in lancia lungo il lago, tra le case su palafitte, raggiungendo un laboratorio che lavora l’argento, del quale sussistono rilevanti miniere in zona. Più che i lavoranti all’interno, che si accaniscono su martelletti, lame da incisione e simili, solo all’arrivo dei turisti, (è ovvio che ormai collane, braccialetti ed orecchini vengono prodotti a macchina), era interessante un grande vassoio con il materiale di scavo grezzo ed i sistemi chimici per estrarre dalla stesso, argento ed alluminio. Troneggiava sul tavolo un bel lingotto d’argento massiccio da ca. 5 chili. I prezzi richiesti erano in linea con quelli nostrani (50.000 chiat ,ca. 30 Euro per un modesto braccialetto). Uscendo e riprendendo la lancia ci avvicinano simpatiche signore di mezza età alla guida delle loro canoe piene di mercanzie che ci vendono un braccialetto molto più massiccio a 30.000 chiat, assicurandoci che non è placcato, ma si tratta di argento massiccio. Ci fidiamo anche perché, non avendo la venditrice, il resto, si dilegua con una banconota più grande, promettendoci che ci raggiungerà (con la pagaia) in seguito per consegnarci, il dovuto. Dopo mezz’ora, nonostante ci fossimo abituati all’idea di essere stati turlupinati, la abbiamo rivista arrivare pagaiando furiosamente, con il resto del danaro, che data la piacevole sorpresa, abbiamo lasciato in parte come mancia, tra grandi ringraziamenti in birmano. Riprendiamo la velocissima lancia e ci infiliamo in una bellissimo canale secondario, ove attraversando una natura quasi incontaminata, arriviamo ad una cascatella che, altro non è che una bellissima sorgente di acqua cristallina che cadendo fragorosamente, dà vita all’affluente del lago. In quel punto sorge il nostro ristorante il Golden Kit. Dopo l’antipasto all’insalata di avocado e frittelle di ceci con una specie di ottimo passato di pomodoro e verdure, ci siamo visti offrire pizza e tagliatelle al sugo, peraltro buone, avendo collaborato il ristorante con una signora emiliana. Abbiamo apprezzato il gesto, ma francamente avremmo preferito le pietanze birmane.
Interessantissime le escursioni pomeridiana. Proseguiamo a piedi, costeggiamo la bellissima sorgente in mezzo a boschi di giunco altissimi. Alcuni li stanno abusivamente trasportando, già tagliati, due operai, (ci dice la guida che è vietato). Arriviamo, dopo circa 10 minuti di camminata, in un posto assolutamente unico e peraltro scarsamente segnalato dalle pubblicazioni. Ci siamo infatti trovati improvvisamente circondati, in un silenzio irreale in mezzo alla giungla, da centinaia di stupa, cioè di piccole pagode in mattoni in rovina. Ce ne erano a vista d’occhio in mezzo alla vegetazione che le copriva in parte. Non c’era nessuno salvo noi. Sembrava un grande cimitero antico. Ed era indirettamente proprio così. Si tratta dello Shwe Inthein o Indein Paya. Una collezione di Stupa di mattoni sembra abbandonati da secoli. Dovrebbero risalire al 1600 o al 1700, secondo altri ancora prima. Moltissime di queste piccole pagode di pietra sono state restaurate già dai primi anni del 2000 e ciascuna riporta una targa di marmo con inciso il nome di uno o più defunti che si vogliono ricordare da parte di chi ha sostenuto gli oneri del restauro. Oltre i donanti birmani vi sono targhe di tutto il mondo, asiatiche, europee ed americane ciascuna dedicata ai propri cari. Questo silenzio con il ricordo tangibile di persone scomparse in una struttura in gran parte tuttora in rovina ed avvolta dalla vegetazione, ha un suo profondo fascino. Finiamo la giornata nel Monastero dei gatti che saltano, vale a dire a Ngaphe Kyaung. Fino a cinque anni fa, il monastero era famoso per i gatti ammaestrati dagli stessi monaci che li facevano esibire saltando all’interno di una serie di cerchi. Ora i gatti ancora ci sono, ma non si esibiscono più, salvo fare le fusa con i turisti. Nel vialone coperto di accesso, stazionano parecchie bancarelle per turisti. Ultima notte nel nostro “Chalet” su palafitte. Domani ritorno a Yangon.
8 gennaio 2019 YANGON
Riprendiamo il nostro ormai abituale ATR72 e torniamo alla capitale. Questa volta il volo non è tranquillo come al solito. Il cielo è pieno di nubi minacciose ed il piccolo aereo balla un po’. Chiediamo a Myiztu se ci può accompagnare a fare un giro al centro ed al quartiere coloniale degli inglesi. Prendiamo un taxi a nostra disposizione dall’ora di pranzo sino alle 17. Ci chiede 45.000 chiat (circa 27 euro). Pranziamo in un caratteristico locale vicino alla piazza centrale il Monsom, spendendo meno di 20 euro in quattro. Ammiriamo le ex case coloniali. Molte perfettamente restaurate, altre in decadenza. Una spettacolare con gli alberi che hanno invaso le strutture murarie. Ammiriamo il palazzo del Comune, quello dell’ex governo ove venne assassinato il padre della “Signora” come chiamano qui l’attuale leader Aung San Suu Kyi. Poi ci facciamo portare al quartiere delle botteghe. Molte vendono reti, nasse e materiali da pesca, ma non è per la pesca in mare che è lontano da Yangon, ma per il grande fiume. Ci fermiamo ad alcune botteghe, compriamo lunghe cortecce di cannella. Vorremmo acquistare tante cose, ma lo spazio nelle valigie si è già drasticamente ridotto per i precedenti acquisti. Visitiamo la grande chiesa cattolica e la sinagoga. Ci fermiamo alla grande piazza centrale nel Parco di Maha Bandoola. Al posto della precedente statua della regina Vittoria degli odiati inglesi, ora sorge un grande obelisco in ricordo della raggiunta indipendenza del 1948, guardato alla base dai leoni birmani. Torniamo in serata al bellissimo hotel Jasmin Hotel Palace, ma con somma sorpresa lo troviamo presidiato da moltissimi soldati in assetto di guerra, con elmetti e mitra. Ci spiegano che arriverà tra poco un importante generale thailandese ed evidentemente la Giunta militare birmana, non vuole correre rischi. Ce ne andiamo in camera a riposare, saltando la cena, dopo una settimana all’ingrasso. Domattina si torna a casa.