Rajasthan, la terra dei re
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Il viaggio
Finalmente riesco ad andare in India, dopo due tentativi andati a vuoto per imprevisti dell’ultima ora. Per il viaggio ho sfruttalo il periodo tra Natale e l’Epifania, quando gli impegni di lavoro sono più rarefatti a causa delle festività. Il tempo a disposizione era abbastanza limitato, quindi ho scelto di circoscrivere il viaggio alla regione del Rajasthan, nel nord-ovest dell’India, con estensione a Agra nell’Uttar Pradesh e ovviamente a Delhi.
Ho prenotato il viaggio da qui, poi in India mi sono appoggiato a un’agenzia locale trovata su internet, la Swadeshi Journeys di Delhi. Questa soluzione si è rivelata particolarmente azzeccata. Quelli della Swadeshi si sono fatti in quattro per accontentarmi. Nel programma mi hanno messo come alloggi degli hotel a 3 stelle (che vanno benissimo) e qualche haveli (palazzo storico adattato a hotel), auto con autista full-time e spese di viaggio comprese, guida locale in tutte le città visitate, una notte nel deserto del Thar con spettacolo danzante. Il tutto per 95mila rupie (circa 1350 €) che mi pare un rapporto qualità-prezzo decisamente conveniente. Il volo, prenotato con discreto anticipo, è costato 680 € con Lufthansa e Air India via Frankfurt. Lo stesso giro, in questo periodo di alta stagione, veniva offerto da agenzie qui in Italia a prezzi da 2500 € in su, volo escluso. L’autista Rakesh è stato estremamente gentile e paziente, oltre che abbastanza veloce alla guida, compatibilmente con gli standard di velocità permessi dalle strade e dal traffico indiani.
Il Rajasthan राजस्थान… ovvero “La terra dei re”.
Il Rajasthan è uno stato del nord-ovest dell’India, il più grande del paese. Ha una superficie di 340.000 kmq (un po’ più dell’Italia) e una popolazione di circa 65 milioni di abitanti, con una densità di 190 ab./kmq che è tra le più basse in India. Ciò è dovuto al fatto che il territorio rajasthano è occupato in gran parte dall’inospitale deserto del Thar e che molte zone lungo il confine con il Pakistan sono militarizzate.
Gli abitanti originari del Rajasthan sono detti “rajput”. Gente fiera e di tradizioni guerriere, che nei secoli passati affrontava una battaglia dopo l’altra. In effetti lo stato è il più occidentale dell’India, quindi il più vicino all’Asia musulmana. In tempi di guerre di religione è stato più volte invaso dai musulmani (da Ovest), dalle orde mongole (da Nord, anche Gengis Khan è passato da qui) e dai moghul dell’India dell’Est. I principi del Rajasthan (maharajah) passavano gran parte della loro esistenza a guerreggiare ora contro un nemico, ora contro un altro, e in mancanza di meglio combattevano contro i maharajah vicini. Nel frattempo, trovavano il modo di erigere fortezze gigantesche con tanto di muraglia e bastioni, e grandiosi palazzi riccamente e meravigliosamente arredati. Peraltro, i maharajah nei palazzi ci passavano poco tempo, visto che erano sempre in giro a combattere, per cui i palazzi fungevano essenzialmente da dimora per le spose dei principi (da 3 fino a un massimo di 44 concubine per il rajah di Jodhpur). La vita delle mogli del rajah era ovattata e privilegiata, ma alquanto a rischio perché legata a filo diretto con quella del marito guerriero: se questi moriva in battaglia, volenti o nolenti le consorti dovevano anch’esse togliersi la vita per accomunare il proprio destino a quello del marito ucciso.
Questa terra è piena di meraviglie che stupiscono il visitatore quasi al punto da intontirlo: in uno scenario naturale difficile e affascinante, i rajput hanno saputo costruire templi, fortezze e palazzi, che sorgono come dal nulla, dalle sabbie del deserto o arroccati su impervi contrafforti di montagna. La ricchezza delle decorazioni dei palazzi e delle case fa rimanere mille volte a bocca aperta, e come me vi chiederete spesso: ma come hanno fatto? ma quanto tempo ci hanno messo? ma è legno o pietra? Le splendide haveli affrescate dello Shekhawati; i forti e i palazzi di Jodhpur, l’affascinante città blu; di Jaipur, l’elegante città rosa; di Jaisalmer, la città dorata che si erge ai margini del deserto; della romantica Udaipur, con i bianchi palazzi adagiati sulle rive del lago, sono solo alcune delle testimonianze di un fulgido e ricco passato in cui la maestosità si contrappone alla semplicità dei piccoli villaggi sperduti nell’ immensità del deserto.
Udaipur उदयपुर
Dopo l’arrivo a Delhi e la definizione degli accordi con la Swadeshi Tours, il mio viaggio nel Rajasthan comincia con il volo delle 5.25 di mattina per Udaipur, nel sud. Bella città distesa sulle rive del lago Pichola e dominata dal City Palace. Il palazzo del maharajah di Udaipur è composto da diversi blocchi, eretti nel corso di più di tre secoli, ed è posto in posizione tale da dominare le rive del lago e le vallate circostanti. Il City Palace è imponente e stupendo. La facciata è lunga 250 metri e benché raggruppi edifici diversi fatti costruire da vari maharajah in epoche diverse, rimane un in insieme compatto che non fa risaltare i diversi stili. All’interno colpiscono soprattutto i numerosi dipinti miniati che addobbano i saloni riccamente istoriati. La precisione e la dovizia di particolari di questi dipinti lascia con la bocca aperta. Chissà quanto tempo ci avranno messo a farli. Penso anni, non certo mesi. Al termine della visita faccio un interessantissimo giro a piedi per il centro storico della città, scoprendo bellissimi dipinti sui muri delle case, le numerose rappresentazioni del dio-elefante Ganesh, il dio buono che rimuove gli ostacoli, e le porte intagliate che già di per sé sono un’opera d’arte. Faccio anche i primi incontri con le innumerevoli vacche sacre indiane che girano indisturbate per vicoli e scalinate.
Nel pomeriggio, piacevolissima gita in barca sul lago Pichola, che al tramonto offre vedute spettacolari del City Palace e dei ghat dove gli uomini fanno abluzioni e le donne lavano i panni (sempre sotto l’occhio guardingo delle vacche). Nel lago ci sono due isole edificate: su una c’è il Jagmandir Temple, che brilla illuminato dalla luce di taglio della sera, e sull’altra c’è l’opulento Lake Palace, adibito a hotel extra-lusso da 1000 dollari a notte. La gita in barca al tramonto costa il doppio di quelle del mattino e del primo pomeriggio, ma ne vale davvero la pena. Del resto, il doppio vuol dire 300 rupie (4 euro e mezzo) a persona, che non è poi granché.
Kumbhalgarh e Ranakpur कुम्भलगढ़ और रणकपुर
Dopo Udaipur il mio programma di viaggio prevede di andare a Ranakpur, sede di famosi templi jain. Dietro mia richiesta, prontamente accettata dall’autista Rakesh, facciamo una deviazione per vedere l’antico forte di Kumbhalgarh, costruito nel corso del 15mo secolo dal grande re e guerriero Maharana Pratap. Posto su una collina a 1100 metri d’altezza, il forte di Kumbhalgarh è circondato da 44 km di bastioni a muraglia spessi 15 metri. La somiglianza con la grande muraglia cinese è impressionante.
Kumbhalgarh è collegata a Ranakpur da una stradina di montagna che dovrebbe essere una NR (National Road). In realtà è una stretta striscia di asfalto larga non più di tre metri, spesso con dirupi ai lati che rendono pericoloso e problematico l’incrocio con qualunque veicolo che sopraggiunge. Tenere una media di 25 all’ora è già un’impresa. Ma il percorso è estremamente vario e interessante: si attraversano coloriti villaggi di montagna dove si possono cogliere attimi e immagini della difficile vita rurale. La gente saluta e sorride, ma continua a fare il proprio lavoro con l’aratro, o con le pompe per l’irrigazione.
Alla fine arriviamo a Ranakpur, dove subito si presenta davanti agli occhi lo stupendo tempio jain di Adinath, nascosto tra palmeti e bougainvilles.
I jain (giainisti) sono una minoranza indù (circa il 2%), gente di casta facoltosa che non lesina le risorse necessarie per la costruzione e il mantenimento di templi meravigliosi. Quello di Ranakpur è in marmo bianco intarsiato. Nell’interno ci sono dei saloni dedicati alle funzioni religiose, che si aprono tra una miriade di colonne di marmo bianco: mi dicono che ci sono 1444 colonne tutte in marmo finemente scolpito.
Il tempio è aperto ai non giainisti solo dalle 12 in poi. Essendo arrivato poco prima delle 13, ho la fortuna di assistere al finale di una cerimonia religiosa. Noto subito le mascherine che i jain portano davanti alla bocca. Sono rigorosamente ripiegate 8 volte e servono a trattenere anche i più piccoli insetti che potrebbero inavvertitamente essere inghiottiti durante la respirazione. I jain infatti professano la non-violenza assoluta, e il loro credo esige il rispetto di ogni essere vivente, inclusi insetti e microbi volatili e terrestri. Per questo i fedeli jain girano con una scopa attaccata alla cintola, ed è persino divertente vederli pulire il pavimento davanti a sé prima di calpestarlo, onde evitare di schiacciare le formiche o altri insetti.
Nel tempio ci sono anche alcuni jain della setta digambara, cioè quelli più ortodossi, che girano completamente nudi, avendo rinunciato a ogni bene terreno, vestiti inclusi. Come facciano a resistere, visto che il tempio è in ombra e ci saranno al massimo 12-13 gradi, è un mistero, ma dai loro sguardi imperturbabili non traspare alcuna espressione di intolleranza al freddo.
Il tempio di Ranakpur è una meravigliosa e grandiosa opera di intaglio in marmo, che suscita stupore ancora dopo secoli e non pare rovinata dalle piogge del periodo dei monsoni e dalle intemperie. Come questo, anzi secondo molti più bello ancora, c’è un altro tempio jain a Mount Abu, nell’estremo sud del Rajasthan, ma non ho tempo per andarci.
Jodhpur, la città blu जोधपुर
Le città toccate dal tour distano tra loro mediamente 250-300 km, che non sono tantissimi ma per percorrerli richiedono 6-7 ore. Le condizioni delle strade, l’ammasso dei veicoli e la presenza di animali e pedoni dovunque, rendono impossibile tenere una velocità decente. Malgrado ciò il mio autista si rivela un guidatore provetto, particolarmente abile a slalomeggiare tra le vacche sdraiate in mezzo alla strada, i risciò a pedale e le donne che portano mercanzia sulla testa.
Jodhpur è nel centro del Rajasthan, un po’ dopo le foreste del sud-est e un po’ prima del deserto del nord-ovest. Bellissima città sovrastata dal maestoso Meherangarh Fort. Maestoso di nome e di fatto, perché il termine hindi significa appunto “il maestoso”, o secondo altri “il forte del sole”. La visita del forte si snoda tra le haveli di arenaria rossa lavorata, con alcune parti in arenaria dorata, a sottolineare che siamo al confine con il deserto. Eccezionale il museo del forte. Io non sono un amante dei musei, ma il museo del Meherangarh Fort non lo dimenticherò mai. La visita si snoda tra saloni pieni di ori, stucchi e specchi, mostrando i baldacchini da mettere sugli elefanti, le portantine del rajah (una interamente d’oro del peso di 600 kg), drappi di seta e di velluto con finimenti d’oro e una fornitissima armeria.
Scendendo dal forte, si attraversa il centro della città (che non è grandissima, avendo solo 800.000 abitanti, pochi per lo standard indiano) in corrispondenza della torre dell’orologio. Qui c’è il Sardar Market, dove tra bancarelle di cianfrusaglie varie si riesce a trovare qualche interessante pezzo di artigianato. Ma la vera sorpresa arriva dalla bravissima guida Rabinder Singh: mi porta a una bancarella dove vendono dolci caldi confezionati sul momento e ne compra alcuni per me. Imbottito di prevenzioni sulla pericolosità dei cibi indiani comprati per strada, cerco di opporre una gentile resistenza all’offerta, ma la mia reticenza cade subito al primo assaggio. I dolci che mi danno sono eccellenti. Quasi tutti sono serviti in scodelline con sciroppo di zucchero sul fondo, in cui bisogna inzuppare il dolce prima di mangiarlo. Sono talmente buoni che ai dolci ho dedicato un capitolo di questo racconto, che trovate più avanti. I dolci sono la specialità di Jodhpur. Anche le spezie sono una specialità della zona. Non posso esimermi dal comprare una sacchetto di curry “medium spicy”, non azzardandomi a prendere la versione “strong”, e meno male perché già quella “medium” fa venire gli occhi rossi. Il curry e profumatissimo: provato con il pollo e le verdure, trasforma questi semplici ingredienti in una squisitezza.
Detto ciò, resta da spiegare perché Jodhpur è detta la città blu. Perché le case del centro cittadino sono tutte dipinte di azzurro, da cui l’appellativo con cui la città è nota.
Jaisalmer, la città d’oro जैसलमेर
Prossima tappa: Jaisalmer, a 280 km da Jodhpur in direzione ovest. Lasciate le colline del Rajasthan centrale, si attraversa un territorio stepposo con la vegetazione che si dirada sempre di più, fino a diventare un vero e proprio deserto.
Arrivo a Jaisalmer di sera. Pare che di qui sia passato anche Marco Polo. La città è detta “golden city” perché gli edifici sono tutti costruiti in arenaria gialla del deserto, e in effetti la luce del tramonto la fa apparire come un miraggio dorato. Anche qui c’è una fortezza in posizione dominante, su una colina alta un centinaio di metri. Il sole colpisce di taglio il forte mettendo in evidenza una serie di bastioni semicircolari imponenti. La città è piccola, non arriva neanche a 100.000 abitanti, una parte dei quali vive all’interno delle mura. Questo di Jaisalmer è l’unico forte abitato dalla gente locale che incontrerò, mentre gli altri e i palazzi in generale sono tutti residenze di maharajah, attive o trasformate in musei.
All’interno del forte c’è la città vecchia, dove si respira un’atmosfera da mille e una notte. L’accesso ai veicoli è interdetto, quindi bisogna girare a piedi. La passeggiata tra i vicoli e gli archi è un piacere assoluto. I palazzi sono costruiti senza cemento: le case sono fatte solo di blocchi di pietra incastrati tra loro. Ci si muove come dentro un mosaico. Porte, finestre, cornicioni e balconi dei palazzi sono intagliati nell’arenaria gialla con un lavoro certosino e meticoloso, tanto che sembrano una filigrana. La perfezione del lavoro è tale che riesce difficile convincersi che si tratti di pietra e non di legno scolpito.
Nella città vecchia ci sono sette templi jain e alcune bellissime “haveli”, abitazioni patrizie che si possono visitare: almeno la Patwa haveli e la Nathmal haveli non si possono perdere. Tra le viuzze si aggira un universo di personaggi che sembrano usciti da un libro di favole: ragazze vestite da principessa (o magari sono vere principesse, chissà), maschere di legno e di terracotta, venditori di penne di pavone e ovviamente le immancabili vacche sacre. A un certo punto incrocio anche la parata del Jaisalmer Camel Corp, cioè il reparto a cammello dell’esercito indiano. In realtà i cammelli e i soldati sono talmente bardati e coperti di lustrini che non si capisce bene come potrebbero combattere, per cui sorge il sospetto che si tratti di una messinscena per turisti. Comunque sia, la parata è spettacolare.
A Jaisalmer ho comprato la maggior parte dei ricordi di viaggio e dei regali che ho portato in Italia: tovaglie ricamate, un copriletto, scatole di legno e osso di cammello lavorato, uno stupendo coltello ricurvo con fodero cesellato. Per l’acquisto di quest’ultimo ho dato sfoggio a tutta la mia abilità (?) nel contrattare: a fronte di un prezzo di partenza di circa 50 Euro, sono riuscito a strapparlo per soli 20 Euro. Questa performance mi è valsa i complimenti della guida Dinesh Joshi, uno studente di ingegneria. Ma non sempre si riesce ad abbassare tanto la richiesta iniziale: di solito ci si accorda per un 20-25% in meno, e risulta molto difficile strappare un prezzo più basso.
Sam e le dune del deserto del Thar
Per l’alba del giorno dopo il mio programma di viaggio prevede un raid a cammello nel deserto del Thar, tra le dune di Sam, una cittadina che dista 40 km da Jaisalmer e altrettanti dal confine con il Pakistan. Più in là non si può andare: la zona è off limits per ragioni militari.
Il tour in cammello (o meglio, dromedario) parte alle 6.30 col buio per assistere a una spettacolare alba tra le dune (vedi foto). Il deserto di dune in realtà non è molto esteso, ma lo spettacolo è suggestivo. Fa un freddo cane, ci saranno al massimo 1-2 gradi, e solo grazie a un paio di coperte ricevute dal cammelliere riesco a evitare il congelamento. Il fatto è che uno va in India e mica pensa a portarsi il maglione pesante! Lungo il percorso di ritorno vediamo persino un branco di cervi tra i rari cespugli.
Pernottamento nel Prince Desert Camp tra le dune. Incredibilmente, la tenda è dotata di tutti i comfort: ci sono tappeti per terra, due abatjour che sembrano pezzi da museo, arazzi alle pareti e c’è persino la doccia con acqua calda. La stanza è sicuramente meglio di quelle di alcuni alberghi dove ho dormito. La luce elettrica è fornita da un generatore che viene messo in funzione per 5-6 ore, alle 6 e alle 18.
Alla sera spettacolo di danze nel deserto, tra tazze di thè caldo allo zenzero e dolci in pastella forniti dall’organizzazione. Le danzatrici hanno bellissimi vestiti neri con fili d’oro e di porpora. Dopo una partenza un po’ a rilento, lo spettacolo prende ritmo e consistenza: danza del ventre, danza con i piedi in un catino, danza con torre di vasi di ceramica in testa. Il clou è la danza sulle spade, dalla parte della lama e con la torre di ceramica sempre sulla testa. Oooh di meraviglia del pubblico e applausi scroscianti.
Khichan (le damigelle di Numidia) e Deshnok (il tempio dei topi)
Sulla strada da Jaisalmer a Bîkâner chiedo all’autista di fare due deviazioni, prontamente accordate: a Khichan e a Deshnok.
Khichan è un villaggio a un centinaio di km da Jaisalmer, famoso perché d’inverno le “damigelle di Numidia”, cioè delle gru siberiane, vanno lì a svernare scendendo dal freddo nord. La popolazione le ha talmente prese a cuore che ha deciso di strappare un cortile al cricket per creare uno spazio apposta per loro. Siccome il cricket per gli indiani è una fede, quasi più che il calcio da noi, lasciare il cortile alle gru deve essergli pesato parecchio. Comunque, i khichanesi spargono semi di miglio e mais nello spiazzo, su cui le gru calano a frotte gracchiando con un frastuono impressionante. Il custode dello spiazzo mi mostra con orgoglio gli articoli di giornale che parlano di lui e delle gru, per cui come è ovvio una mancia si impone. Per il sostentamento delle gru, sia intende, non per il custode.
Altra tappa a Deshnok. Qui c’è il più strano di tutti i templi indù che ho visto. E’ dedicato a Karni Mata, una dea che sarebbe l’incarnazione della consorte di Shiva, e fin qui niente di strano. Quello che impressiona sono le orde di topi che popolano il tempio. Ce ne sono migliaia. I simpatici e sacri roditori sarebbero una manifestazione temporanea dei fedeli della dea, in un passaggio esistenziale di attesa che precede la reincarnazione in una forma di vita più evoluta. Nel frattempo, i topi vengono letteralmente rimpinzati con latte e polenta dai fedeli e dai sacerdoti custodi del tempio. La credenza indù considera estremamente propizio essere toccati dai roditori. Ora, siccome mi sono passati sopra i piedi tre o quattro volte, tra lo stupore e l’invidia dei fedeli indù presenti, pare che mi attenda un periodo radioso. Per la verità, sto ancora aspettando che inizi.
Bikaner बीकानेर
Proseguiamo l’attraversamento del deserto del Thar in direzione di Bîkâner, città di circa 800.000 abitanti nel nord-ovest del Rajasthan.
Il centro di Bîkâner è un casino indescrivibile. E’ una via di mezzo tra una scenografia da Far West e il bar spaziale di Guerre Stellari. Per le strade si ammassano tricicli, tuk tuk, carretti sovraccarichi, auto sgangherate, miniaturisti, incantatori di serpenti, vacche sacre, cammelli con e senza carretto, venditori di spezie, banchetti di melograni e profumo marca “Gandhi”… C’è persino il treno che non si sa come sbuca dietro un insospettato passaggio a livello in pieno centro cittadino. Fuori dai bar ci sono i cammelli parcheggiati a grosse pietre perché non scappino, come i cavalli fuori dal saloon.
Un incantatore di serpenti, per la modica cifra di 100 rupie (1 € e mezzo), si offre di esibirsi incurante della folla che passa e delle auto che lo sfiorano. Offerta accettata. Mi dirà di essere della tribù Khalbeliya, che abita la zona attorno a Bîkâner ed è famosa perché gli uomini fanno gli incantatori e i menestrelli. Le donne invece fanno i lavori pesanti, come zappare la terra, tagliare la legna e impastare il fango per costruire la casa.
Il centro della città è occupato dall’immancabile forte. Questo si chiama Junagarh Fort ed è di arenaria rossa. E’ l’unico forte che non è stato costruito in posizione elevata. Pare che questa posizione defilata sia stata scelta apposta dal furbo rajah Rai Singh, che in questo modo lo ha preservato da numerosi attacchi nemici; anzi, la storia dice che questo è l’unico forte rajasthano che non è mai stato espugnato. La maggiore difesa del forte sono le possenti mura che lo circondano per circa 1 km, più un fossato largo 10 metri che il previdente rajah aveva popolato di coccodrilli. Lo stile del forte è quello tipico della zona, con balconi e finestre finemente intarsiati come quelli di Jaisalmer. L’unica differenza è che qui sono in arenaria rosata, estratta dalle cave circostanti. Questo colore degli edifici fa sì che gli abitanti di Bîkâner considerino la loro città come la vera “pink city”, in luogo di Jaipur che invece è nota ai più come tale.
Bîkâner in India è anche terra di cuochi e di piatti famosi. Qui ho trovato il migliore ristorante tra tutti quelli sperimentati in India. Si chiama Gallop’s ed è nella zona dello Junagarh Fort. Ho mangiato uno strepitoso “Murgh Bikaneri” (pollo alla maniera di Bîkâner), con dolci al miele come dessert, per una spesa di circa 15 Euro.
Jaipur, la città rosa जयपुर
Jaipur è la capitale del Rajasthan. Fondata in tempi abbastanza recenti dal rajah Jai Singh, è ormai una megalopoli in continua crescita, avendo superato i 3 milioni e mezzo di abitanti. Il nome “Jai” vuol dire “città della vittoria”. La parte più bella della città è racchiusa in una cinta di mura con 8 magnifiche porte di accesso. Le mura e tutti gli edifici all’interno della cinta sono in arenaria rosata, da cui l’appellativo di “pink city” con cui Jaipur è nota.
Gli edifici più importanti sono tutti all’interno delle mura della pink city. Il primo che si trova è lo “Hawa Mahal”, o palazzo dei venti, che è una splendida fantasia barocca voluta da uno dei maharajah succedutitisi a Jai Singh. L’edificio è costituito da una sola fila di stanze, tanto che visto di lato sembra come appiattito. Era dedicato alle donne di corte che da qui, senza essere viste, potevano assistere alle parate reali e alla vita della città.
Lo splendido City Palace è tutt’ora residenza del maharajah di Jaipur, e quindi se ne può vedere solo una parte, essendo la restante zona riservata a dimora privata del regnante e della sua famiglia. Ma la parte che è consentito vedere è sufficiente per avere un’idea dello sfarzo, degli ori e dei mosaici che riempiono il palazzo. Bellissimo l’arco d’entrata in rosa e oro, dopo il quale tra i blocchi rosati del palazzo si aprono vari cortili che danno sui saloni dove la visita è permessa. La “blue room” in particolare suscita “ooh” di stupore (è tra le foto).
In città è interessante anche la visita allo Jantar Mahar (“strumento di calcolo”), costruito da Jai Singh che era appassionato di matematica e astronomia. Nel palazzo si trovano meridiane (ce n’è una alta circa 30 metri!), cupole e anse che a seconda dell’incidenza della luce del sole funzionano da orologio e persino da calendario e vorrebbero essere anche una specie di goniometro planetario che consentirebbe di calcolare le distanze tra la terra e i pianeti.
Sulla strada per l’Amber Fort c’è il Jal Mahal, o palazzo sull’acqua, fatto erigere dal fondatore della città al centro del lago di Man e usato ai tempi come casotto di caccia
Girando a piedi per il centro (cosa che bisognerebbe sempre fare per capire un po’ di più le città indiane) si incontrano molti bazar a tema, ad esempio quello delle stoffe, quello del ferro battuto, quello dell’elettronica, quello dei gioielli, etc. Il problema è districarsi tra le viuzze e schivare la miriade di veicoli vari circolanti. Consiglio: fatevi accompagnare dalla vostra guida perché il rischio di perdersi e di non capire più dove ci si trova è alto.
Gli elefanti dell’Amber Fort
Il “clou” della visita a Jaipur si trova 11 km fuori dalla città in direzione nord. E’ la fortezza di Amber, posta a metà pendio di una collina che domina sulla città. Alla fortezza si può accedere a piedi, ma è molto meglio amarsi di pazienza, fare una fila che può durare anche un’ora, e prenotare un biglietto per salire a dorso di elefante. Durante la fila si è letteralmente assaliti da un’orda di venditori di cianfrusaglie e ricordini vari, che sono dotati di un’insistenza al limite della molestia. Una coppia di giapponesi che ha fatto la fila con me ha resistito per 50 minuti agli assalti di un venditore di statuine, poi alla fine per liberarsene ha ceduto e comprato l’inutile souvenir. Con me, dopo due secchi rifiuti, non ci hanno più provato.
Il biglietto costa 900 rupie (circa 13 €, tantissimo per gli standard indiani), ma la salita sul baldacchino è un’esperienza suggestiva da non perdere, anche se devo dire alquanto scomoda. Probabilmente i baldacchini che usavano i maharajah dovevano avere tutt’altra foggia. Ci sono 106 elefanti che fanno la spola su e giù per la stradina che sale al forte. Ogni elefante può fare il percorso andata/ritorno solo 5 volte al giorno. Dopo, devono riposarsi avendo esaurito l’autonomia. Quindi, se arrivate di pomeriggio, dovrete rassegnarvi a salire a piedi perché è quasi impossibile trovare ancora elefanti liberi. I mahawat (conduttori di elefante) sono molto attenti a non stancare gli animali, anche perché i conduttori sono solo degli stipendiati, e i veri proprietari degli animali pretendono giustamente che i pachidermi non vengano sfiniti. Anzi, tra i compiti dei mahawat c’è quello di accudirli e rifocillarli facendoli quindi riposare per il giorno dopo. Una volta arrivati in cima, si può visitare il forte, che però non è eccezionale.
La salita a piedi quando gli elefanti sono al lavoro, ovviamente si fa percorrendo un’altra stradina, perché per quanto abili siano i mahawat si rischierebbe di finire schiacciati dai bestioni. Ciononostante, come si vede in una foto, c’è sempre qualche indiano incosciente che scorrazza in motorino tra i pachidermi.
Circa 400 metri sopra l’Amber Fort c’è il più antico Jaigarh Fort, molto simile a quello di Kumbhalgarh anche se meno antico. Pochi lo visitano, e invece varrebbe la pena, se non altro perché la vista sulla città di Jaipur da qui è ancora meglio.
Agra आगरा
Prossima tappa a Agra. Si cambia regione, entrando nell’Uttar Pradesh.
Prima di arrivare a Agra, sulla strada si incontrano la città abbandonata di Fatehpur Sikri e il Keoladeo Ghana Park, famoso per l’avifauna. Solo che una fitta nebbia avvolge la zona, al punto che l’entrata nel parco è sconsigliata dalle stesse guide perché la nebbia nasconderebbe gli uccelli alla vista. Non rinuncio però alla visita di Fatehpur Sikri, anche se la nebbia permette a malapena di vedere i vecchi palazzi abbandonati della città morta, che probabilmente con il bel tempo avrebbe tutt’altro aspetto, ma tant’è. Questa nebbia proprio non l’avevo prevista, e per di più fa anche freddo al punto che devo comprare un paio di guanti per coprirmi le mani. Siamo a inizio gennaio, va bene, è inverno anche qui, ma siamo in India e pensavo che la temperatura fosse più alta.
Arriviamo a Agra, città per lungo tempo capitale dell’impero moghul e famosa per il Taj Mahal. Questo monumento è considerato tra le meraviglie del mondo, e non hanno torto. Si tratta di un mausoleo fatto costruire nel 1632 dall’imperatore Shah Jahan, sconvolto dal dolore per la perdita della moglie durante il parto del quattordicesimo figlio. La costruzione durò 20 anni.
Il mausoleo è anticipato da un grande giardino quadrangolare attraversato da 4 canali di acqua turchese. E’ interamente costruito in marmo bianco, estratto da cave nella regione di Jodhpur in Rajasthan, decorato con motivi floreali. Le proporzioni della struttura sono state accuratamente studiate dagli architetti, molti fatti venire dall’Europa assieme ad artigiani specialisti della lavorazione del marmo. I lati della base quadrata sono lunghi 56 metri, così come l’altezza della cupola, a conferma della ricerca di una perfetta simmetria dimensionale. Ai quattro angoli della base si ergono altrettanti minareti, anch’essi in marmo bianco. Il lato posteriore si affaccia sul fiume Yamuna, così che anche da questo lato la visione del mausoleo è notevole.
Vediamo sempre il Taj Mahal in tutte quelle selezioni di foto dei luoghi più belli del mondo che ogni tanto gli amici ci inviano. Ma bisogna vederlo dal vivo per provare sensazioni più profonde. L’edificio di marmo bianco emana una luce e un fascino che lasciano a bocca aperta, suscitando stupore e ammirazione. Però non potrete rimanere per molto tempo fermi ad ammirarlo, che è la prima cosa che uno farebbe, perché nel frattempo qualche migliaio di co-visitatori vi sommerge e vi spinge a proseguire la visita.
Anche se avvolto dalla nebbiolina dell’inverno, come nel giorno della mia visita, il Taj Mahal colpisce e lascia dentro un senso di armonia e di bellezza che è difficile dimenticare.
A Agra c’è poco altro da vedere. Un altro monumento interessante da vedere è il Red Fort, alla periferia della città.
Ottimi i due ristoranti della catena “Indiana Restaurant” dove ho mangiato.
Delhi दिल्ली
La visita a Agra e Delhi è stata condizionata dalla nebbia. Mi dicono che da qualche anno la nebbia è sempre presente in questa regione tra metà dicembre e metà gennaio. Secondo gli indiani essa si forma a causa della temperatura bassa (p. es. a Agra c’era 1°C al mattino presto). Ma è impossibile non vedere le ciminiere delle fabbriche nel triangolo Delhi – Agra – Bhopal, che eruttano al cielo fumi densi e neri. A ciò si aggiungono i gas di scarico degli innumerevoli tuk tuk, auto e camion vari, che certamente non hanno il filtro anti-particolato o la marmitta catalitica.
Di Delhi, perciò, posso dire poco. Più che vederla, l’ho intravista, sia all’arrivo che alla partenza. Ho visto la statua del dio scimmia Hanuman, tanto alta che la sopraelevata della metropolitana passa all’altezza della cintola. Ho potuto vedere il complesso archeologico Qutb Minar e la grande moschea Jama Masjid nel quartiere musulmano. La moschea è vicina allo stadio nazionale del cricket. Bene, quella domenica pomeriggio era in programma il big match India-Pakistan. Dalla moschea, che è vicino allo stadio, si sentivano perfettamente le grida dei tifosi. Alla fine l’India ha vinto 167-154. L’autista Rakesh già pensava a una nuova sconfitta della nazionale indiana, come nel precedente match con il Pakistan. Sarebbe stato una specie di disastro nazionale. Effettivamente i 167 punti raggranellati dall’India in battuta erano un punteggio basso, ma la difesa indiana ha fatto miracoli concedendo agli ultimi 3 battitori pakistani la miseria di un solo punto. Evviva.
La cucina indiana
Che la cucina indiana sia piccante e iperspeziata è risaputo. Pertanto avere un po’ di diffidenza iniziale verso i cibi è comprensibile.
State all’erta se ordinate un piatto qualunque e ve lo portano accompagnato con una salsina rossa o arancione che profuma di curry: è in arrivo un probabile attentato alle papille gustative. Ma il colore a volte non è sufficiente come parametro di giudizio, perché la cucina indiana è anche traditrice. Non fidatevi mai dell’apparenza. Una cremina rosa salmone o una pappetta verde pisello, dall’aria in apparenza così innocente, possono rivelarsi al palato un concentrato di fuoco e fiamme. Occhio al termine “masala”, drizzate subito le antenne. E’ un mix di spezie che si potrebbe semplicemente tradurre con “piccante”. “Paneer masala” è il formaggio piccante, “dal masala” sono le lenticchie piccanti, persino il thè è speziato e piccante se viene servito come “masala chai”.
Questa premessa non vuole certo essere un invito a far sì che vi gettiate sugli hamburger e i fast food. Vinta la diffidenza, dopo il primo impatto comincerete ad apprezzare i cibi locali. Basta chiedere che i piatti siano serviti come “medium spicy” o “light spicy”. Alcune specialità, come il pollo tandoori con salsa alla menta, alcuni pasticci di verdure e legumi, le minestre di carne di montone, il pollo alla maniera di Bîkâner, sono squisite. Anche il thè “masala chai” citato prima, che viene servito sempre caldo e con molto latte, è da provare e alla fine lo chiedevo di proposito invece del thè normale. Dulcis in fundo, nel vero senso della parola, i dolci: sono stati una vera sorpresa.
I dolci
Sono partito dall’Italia prevenuto verso i dolci indiani. Poi il bravissimo Rabinder Singh, la guida di Jodhpur, mi ha offerto dei dolci comprati al mercato, e da lì mi sono convertito. Descrivo qui quelli che mi sono piaciuti di più:
– Gulab jamun, che vuol dire “bacche di rosa”. Il migliore in assoluto. Sono palline di pastella fritte contenenti un impasto di latte e farina. Viene servito in uno sciroppo di miele, acqua di rose e zafferano. Si trova dappertutto, anche al mercato, dove te lo danno in una scodellina usa e getta con cucchiaino.
– Mawa kachori: dessert di pane fritto con residui secchi del latte.
– Pyai kachori: palla schiacciata di patate speziate con piselli, avvolto in farina bianca, e fritto. Questo è un po’ piccante.
– Gajar halwa: carote grattugiate e cotte con acqua, latte e zucchero, con aggiunta finale di It is often served with a garnish of almonds and pistachios. mandorle e pistacchi.
– Pancchi: cristalli di mango caramellato e cosparso di zucchero. Una delizia.
La città indiana che ha la maggiore tradizione in fatto di dolci è Jodhpur.
Il traffico
Gli indiani guidano come dei pazzi. Le regole del traffico non esistono, o meglio la regola è una sola: chi inizia a fare una manovra ha il diritto di concluderla, qualunque essa sia: frenare, accelerare, fermarsi, sorpassare, invertire la marcia. Se iniziate una manovra, il punto di vista dell’indiano è che dovete avere una ragione per farla, e quindi attenderà che la portiate a termine.
Facciamo un esempio: se fate un tratto contromano (cosa che qui fanno spesso), tutti si limitano a spostarsi e a scansarvi, come se fosse un fatto assolutamente normale. Il mio autista lo ha fatto più volte, ad esempio per tagliare un incrocio o per evitare un ingorgo. Il bello è che anche i vigili considerano queste manovre perfettamente lecite. A Jaipur il mio autista si ferma a chiedere informazioni a un vigile per cercare l’albergo. Dopo averle ricevute, riparte facendo una inversione a U in un viale a 4 corsie in pieno centro cittadino. Il vigile? Impassibile. Una frase del mio autista mi è rimasta impressa: “se io rispettassi il codice della strada farei un incidente ogni mezz’ora”.
I semafori, dove ci sono, sono poco più che un contributo alla scarsa illuminazione della strada, tanto nessuno ci fa caso. Le segnalazioni stradali sono molto carenti, e spesso solo in hindi, quindi incomprensibili per noi. Le strade sono attraversate da animali dovunque: pericolosissime a questo proposito le vacche sacre, che passeggiano tranquille in mezzo alla strada, oppure si sdraiano al centro della carreggiata. Chiaramente, tutti rallentano e le schivano. Poi ci sono i carretti, i tuk tuk, motorisciò e bicirisciò, le vespe e le lambrette, camion e camioncini vari, cammelli, capre, uomini a cavallo, a volte persino elefanti e naturalmente una impressionante massa di veicoli strombazzanti.
Per tutte queste ragioni, al turista è consentito in India noleggiare un auto ma non mettersi alla guida. Le auto vengono sempre fornite con autista. Il mio, Rakesh Vaish, si è rivelato una persona assolutamente garbata e discreta, oltre che buon guidatore. Il costo dell’autista è compreso nel prezzo. L’autista è autonomo per quel che riguarda pasti e pernottamenti. L’ultimo giorno ho invitato Rakesh a cenare al ristorante con me: era il minimo che potessi fare.
Le mance
Le mance qui sono una specie di atto dovuto. Pertanto, quando si cambiano i soldi, conviene sempre farsi dare una buona quantità di biglietti da 10 e 20 rupie, cioè 15-30 centesimi di Euro (attenzione: sono quasi uguali!), che verranno buoni al bisogno. Se il cambiavalute non ne ha, chiedete al vostro autista e ci penserà lui a trovare un chiosco per il cambio.
Quanto dare? Tanto per avere un’idea, io davo 10-20 rupie ai facchini degli alberghi, 200-300 rupie alle guide delle città, e alla fine ho dato 5000 rupie di mancia (70 €) all’autista.
Perché un viaggio in India
In India chi ama viaggiare prima o poi dovrebbe andare. Credo che pochi altri paesi al mondo possano offrire un tale mix di storia, civiltà, tradizione, cultura, religione mescolate con elementi tipici della nostra era, come internet, l’elettronica e l’industrializzazione. Da un lato ci sono le antiche fortezze e i palazzi costrutti dai rajah, sfarzosi e opulenti, che rivelano un passato ricco di storia e tradizione. Ma se vi guardate bene in giro, vedrete anche tendopoli con le parabole TV, i tuk tuk con il lettore di Cd, il cammelliere che parla al cellulare seduto sulla gobba del cammello.
Gli indiani sono tanti, 1 miliardo e 200 milioni, e che il Paese sia sovrappopolato si vede subito. In giro c’è molta sporcizia, che a volte mette persino disagio. La povertà traspare evidente soprattutto quando si attraversano villaggi e aree rurali. Colpisce il fatto che la diversità sociale viene accettata e vissuta come un fatto normale. Il povero, anche se vestito di stracci, ha una sua propria dignità e vi fissa con lo stesso sguardo fiero del ricco che ha il turbante in testa e la stola sulla spalla. La religione è fondamentale e condiziona la vita della gente. I templi sono sempre pieni di pellegrini: vi capiterà senz’altro di assistere a qualche cerimonia religiosa, e generalmente verrete ignorati dai fedeli che pregano. Da questo punto di vista, le più suggestive sono le cerimonie dei giainisti.
Per chi ama la fotografia poi, come me, il viaggio in India si rivela presto un susseguirsi frenetico di colori, eventi e soggetti imperdibili, per cui gli scatti non si contano. Le donne sono i soggetti più interessanti, per le acconciature, gli ornamenti e i lunghi “sari” colorati con cui si vestono. Prevedete almeno 200 scatti al giorno, e di conseguenza calcolate quante X-cards vi servono.
Queste note che ho scritto sono riferite al Rajasthan e al nord-ovest del paese. Probabilmente, per avere un’immagine più completa dell’India bisognerebbe estendere la visita ad altre zone, come ad esempio la città sacra di Varanasi, e le regioni del sud (Kerala e Karnataka), di cui molti visitatori parlano con entusiasmo. E siccome la mia conoscenza dell’India è stata limitata a una regione, è probabile che ci ritorni.
Resta il fatto che andare in India vuol dire fare un viaggio, che è diverso dal fare una vacanza. Il vacanziere si reca in un paese per sfruttare le possibilità di relax e di divertimento che esso offre, mentre il viaggiatore si reca in un paese per conoscere i luoghi, la gente e la civiltà. E’ una differenza importante.
Grazie per avere letto questo racconto, che spero sia piaciuto o quanto meno abbia potuto fornire delle informazioni utili.
Namastè India.
Luigi luigi.balzarini@tin.it