Prima volta in Asia: poca Thailandia, molto Vietnam e un po’ di Cambogia
Avviso che il reportage del nostro viaggio sarà privo di dettagli sui nomi dei ristoranti dove abbiamo mangiato e sul prezzo esatto di spostamenti/attrazioni, perché presa dall’entusiasmo ho dimenticato di prenderne nota. Ad ogni modo, let’s go!
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Partenza per Bangkok da Milano Malpensa il 9 agosto 2023 con volo Air India. Scalo a Dehli di alcune ore, necessarissime per non perdere il secondo aereo dal momento che in controlli indiani sono oltremodo pedanti (e lentissimi). Air India è una compagnia low cost che comunque fornisce pasti completi ogni 4/5 ore. Abbiamo pagato 1080 euro a testa A/R prenotando il viaggio a maggio. Rispetto a qualche anno fa i prezzi dei voli hanno fatto un’impennata, tenuto anche conto che il periodo in cui siamo andati è considerato di bassa stagione, ma rispetto ad altri viaggiatori che abbiamo incontrato durante il viaggio ci è parso di aver trovato una buonissima tariffa.
L’impatto col caldo tropicale della Thailandia è forte, soprattutto dopo due giorni di criogenesi negli aeroporti. Prendiamo un bus da 60 bath (circa 1,50 euro) dall’aeroporto al centro, come consigliato dall’hotel in cui abbiamo prenotato. Ad ogni modo, io consiglio di prediligere il treno che fa la spola della stessa tratta, in quanto le strade intorno a Bangkok sono sempre trafficatissime. Ci diamo una lavata al nostro KC guest house, minimal ma dignitoso, e ceniamo nel ristorante al piano terra dove assaggiamo il Pad thai più buono della vacanza. La movida della Khao San Road è a pochi passi da noi, ma siamo veramente distrutti e l’unica cosa che ricordo del veloce e folle giretto tra le bancarelle di street food è una blatta grande quanto un mio piede. Meglio andare a dormire!
Diario di viaggio
Giorno 1, Bangkok
Caldo, caldo, caldissimo! Sapevo che non sarebbe stato facile, ma abituarsi alle temperature è dura. Ci avviciniamo al molo sul fiume, dove prendiamo un traghetto che ci lascia alla fermata Tha Chang, di fronte al Grande palazzo reale. Tra le orde barbariche di turisti cinesi, spuntiamo solo noi due occidentali. Le guardie all’ingresso ci fermano subito: siamo gli unici a non essere vestiti in maniera appropriata! Ale, che è in pantaloncini, noleggia nel negozio di fronte all’entrata dei pantaloni con gli elefanti per 150 bath (pantaloni che poi deciderà di tenersi, spinto dalla voglia di fare il fricchetone asiatico); io, in canotta, decido di non piegarmi alle logiche del mercato acquistando una t-shirt brutta che a casa non metterei mai, così stabilisco di trascorrere tutta la visita indossando la mia felpa a maniche lunghe. È passato un mese e sto ancora sudando.
Il palazzo reale è bellissimo, nonostante sia inondato di gente (mi chiedo ancora come possa essere in alta stagione). Il nostro tour tra templi e statue dalle fattezze demoniache (che ricordano molto i volti dei nostri amici dopo serate impegnative) dura circa tre ore. Conclusa la visita, ci spostiamo a piedi nel vicino Wat Pho che ospita l’enorme Buddha sdraiato: imperdibile in una tappa veloce a Bangkok! Mi sono quasi commossa. In realtà, l’enorme statua del Buddha è solo una piccola parte dell’intero complesso: ci sono zone in cui perdersi e fare le foto a strani cani-pilastri, tartarughe, dong giganti e monaci che passeggiano indisturbati.
Ci perdiamo a fare foto fino all’ora di pranzo. La Lonely Planet consiglia uno street food poco distante, ma il luogo non mi ispira affatto. Finiamo in un ristorantino un po’ pretenzioso per gli standard, dove mangiamo abbastanza bene ma a un prezzo superiore alla media. In compenso, c’è un’aria condizionata che ci aiuta a riprenderci.
Ci dirigiamo verso il mercato degli amuleti adiacente al molo sul Chao Phraya, Tha Maharaj. Purtroppo quando arriviamo sono già passate le 17 e le bancarelle stanno chiudendo. Decidiamo quindi di visitare il famoso Wat Arun al tramonto, che raggiungiamo con una sola fermata di battello. La costruzione è molto interessante e troviamo strano il fatto che sia letteralmente invaso da asiatici vestiti alla moda tradizionale thailandese, giunti lì da ogni parte per farsi fotografare con il grande monumento buddista sullo sfondo.
Qualcuno direbbe a questo punto: bene, ora però è il caso che vadano a farsi una doccia! In realtà abbiamo l’adrenalina alle stelle, e il nostro tempo in Thailandia ha le ore contate. Torniamo verso la nostra Guest house ma, invece di fermarci, cerchiamo di ripercorrere quella famosa Khao San Road tanto decantata dalla guida come “paradiso dei Backpackers” che la sera prima ci ha un po’ traumatizzati. A quest’ora è decisamente meno affollata, e noi siamo decisamente più lucidi: mi mangio un Roti banana-nutella da una bancarella, poi io e Ale ci beviamo qualche birretta ascoltando uno stonatissimo musicista che prova a intrattenere i pochi clienti. Chiamo mia mamma: ma da quanto siamo in viaggio, sei mesi? Ripercorriamo Khao San Road travolti dalle persone che ci invitano a prendere posto nel loro locale, pietanze alla griglia, coccodrilli disidratati, discoteche all’aperto, e altre offerte di ogni tenore che non è il caso di riproporre qui.
Preferiamo mangiare nella strada parallela, più tranquilla e godibile, e fermarci in uno dei tanti Cannabis store che in Thailandia prolificano dopo il via libera del governo. Un tizio mi abborda mentre Ale è in bagno: deve rimanere negli Annales, perché non accadeva dal ‘92.
Giorno 2, Bangkok/Hanoi
Purtroppo è già ora di impacchettare. Mangiamo una colazione all’americana all’H café (bono), poi prendiamo un bus verso il Chatuchak Weekend Market che è in una zona nuova rispetto all’area di Bangkok in cui abbiamo bazzicato noi. Il mercato coperto, il più grande di Bangkok, si svolge solo nei weekend, ed è gigante ma poco autentico. Si trova di tutto: c’è la parte relativa all’artigianato, la parte abbigliamento nuovo, usato, stampe, libri, etc. Sarà perché abbiamo dieci chili di zaini sulle spalle, ma rimaniamo un po’ delusi: ci sembra un posto molto turistico, e anche i prezzi sono medio-alti.
Dopo esserci bevuti il primo (ma non ultimo) cocco della vacanza, riprendiamo la nostra strada verso l’aeroporto di Don Mueang. Il bus che prendiamo è l’A1, che ci porta alla meta in una decina di minuti. Sui tabelloni vediamo un sacco di voli cancellati… ma Hanoi, della AirAsia, compare in orario. Evvai! L’ansia da cancellazione volo sarà una costante della nostra vacanza, ma per oggi ci è andata bene. Mentre siamo in aeroporto, vengo contattata dall’hotel che ho prenotato per la notte: tra il mio inglese maccheronico e quello della receptionist, capisco che la nostra camera non è più disponibile. Ci cambiano hotel. È un problema? Guardo Ale, rassegnata. Era l’unico hotel dell’intera vacanza prenotato dall’Italia. Facciamo spallucce.
Quando atterriamo in Vietnam è già notte: il sole tramonta intorno alle 18. La temperatura sembra più sostenibile rispetto a quella della Thailandia. Prendiamo un Bus dall’aeroporto che dopo un giro allucinante e oltremodo lungo, ci lascia a piedi in mezzo ad una strada trafficata, e non vicino al lago Hoan Kiem come concordato. Tutti i passeggeri sono accigliati. Chissà se era un bus di linea o solo un privato furbone! Ci facciamo mostrare la posizione del nostro hotel su Google maps (abbiamo deciso di non comprare una scheda internet per disintossicarci un po’ dai telefoni). Il nostro nuovo hotel è a venti minuti a piedi. Facciamo spallucce ancora: siamo stanchi ma ci incamminiamo, anche perché l’atmosfera che si respira è magica.
Sarà che è il weekend, ma in giro ci sono trilioni di persone: bambini che giocano, famiglie, street food, motorini, bancarelle. Arrivare all’hotel è impattante. Il vero e proprio “shock asiatico” di cui abbiamo sentito parlare lo proviamo qui per la prima volta. Dopo aver lasciato i bagagli al nuovo hotel, Memory Premier Hotel&Spa, ci fiondiamo a mangiare in un ristorante vietnamita delle vicinanze. Da provare i Roll Spring, che arrivano nel piatto ancora “da arrotolare”. Buonissimi!
Nella hall, Ale vede la seconda blatta della vacanza, di cui però mi parlerà alcuni giorni dopo. C’è odore di umidità e l’hotel non è di certo tra i migliori in cui soggiorniamo. Eppure siamo distrutti e dormiamo bene nonostante le camere poco insonorizzate e il casino che filtra dall’esterno.
Giorno 3, Hanoi
Fame da lupi! Cerchiamo un posto in cui fare colazione, ma è molto difficile: qui la mattina si mangia solo il pho, una zuppa vietnamita preparata con pasta lunga e con carne di manzo o di pollo. Leggermente too much per le nove di mattina. Ripieghiamo su un piccolo caffè di fronte all’ingresso del tempio sul lago e vicino al teatro delle marionette: da Google Maps sono risalita al nome, che dovrebbe essere Trà Kem Putin. Mangiamo una scodellona di frutta fresca con lo yogurt. Supertop, il mango qui ha il sapore… di mango! Il ragazzo che ce lo serve è un appassionato del Milan, e Ale quasi si commuove.
Visitiamo il Đền Ngọc Sơn, il tempietto al centro del lago, dove mi ritrovo invischiata in una conversazione in inglese con un bambinetto vietnamita che chiede aiuto ai turisti per migliorare nella lingua. È capitato male, perché parla inglese molto meglio di me! È il primo di una lunga serie di bambini che, in giro per Hanoi, ci chiederanno di fare conversazione per lo stesso motivo.
Decidiamo di seguire il percorso consigliato dalla Lonely planet per visitare la città vecchia. Ci perdiamo tra i vicoletti cercando di non farci prendere sotto dai miliardi di motorini, passando per negozi di lapidi e mercati del pesce. Concluso il giretto, fermiamo un risciò per farci portare alla famosa Strada del treno, che dovrebbe passare di lì a poco. A vedere il povero signore di mezz’età pedalare con il caldo mi sento un po’ una schiavista, ma per fortuna la tratta è abbastanza breve. Gli compriamo una bottiglietta d’acqua e ci riproponiamo di non usare più quel mezzo di trasporto vecchio stampo. Il passaggio del treno non è onestamente niente di che: i turisti si affollano a fare video, ed essendo noi arrivati all’ultimo momento siamo nei tavolini più interni del bar, quindi vediamo poco. Comunque la strada col binario è suggestiva, e beviamo volentieri il nostro Frozen Mango. È solo il terzo giorno e già mi sto dimenticando delle indicazioni dell’ASL: non bevete ghiaccio…
Percorriamo la strada sul binario, poi svoltiamo sulla vialone principale e ci dirigiamo verso il Tempio della letteratura. Non è dietro l’angolo, ma abbiamo detto niente più risciò! Il complesso è carino, e ce lo godiamo anche se cominciamo a perdere le forze. Stiamo sudando da quanto, sette ore? Sette giorni? Ho perso il conto. Mi sembra di non aver mai vissuto un’epoca in cui le magliette non erano zuppe. Dopo la visita ritorniamo verso la città vecchia, passando per una zona in cui si vendono solo cornici per quadri. Inizia a calare il sole, e quando cominciamo a costeggiare il lago Hoan Kiem nella parte occidentale, ci ritroviamo davanti a gruppetti di signore di mezza età vestite di fucsia che ballano danze tradizionali, in maniera poco sincronizzata ma molto divertente.
Abbiamo prenotato lo spettacolo delle 20.30 al teatro delle marionette: Ale è perplesso, e invece la performance è molto interessante e anche lui ne rimane estasiato. Per fortuna prendo uno dei volantini esplicativi all’ingresso per capire che tipo di episodio di vita quotidiana vietnamita viene rappresentato sulla scena: lo spettacolo è interamente in lingua originale. Concludiamo la giornata con frutta e yogurt. Domani si riparte!
Giorno 4 Hanoi/Cat ba
Con un bus prenotato la sera prima da una delle decine agenzie turistiche in giro per Hanoi, viaggiamo verso l’isola di Cat Ba, trattati un po’ come delle pecorone dalla capo-bus che ci indica la direzione con un megafono in mano e un inglese più stentato del mio. L’autobus si ferma nel porto di fronte a Cat ba, il Tuan Chau, dove un traghetto ci porta sull’isola. Da lì prendiamo un altro bus che arriva al centro della città di Cat ba. Cavolo, questi vietnamiti sanno organizzarli proprio bene gli spostamenti!
Lasciamo le valige al nostro hotel, il Mountain Pearl Hotel, senza infamia e senza lode (ma per 13 euro basta che stia in piedi), e in un ristorantino lì vicino io prendo una zuppa pho che lascio interamente ad Ale (la carne lessa non fa proprio per me).
Prenotiamo un tour per l’indomani in una delle agenzie citate dalla Lonely planet, la Cat ba Ventures, che effettivamente mi sento di stra-consigliare. Poi “noleggiamo” (senza consegnare documenti o patente) un motorino al nostro hotel. Ci arrivano due caschi malandati che faticano a chiudersi. Io faccio un respirone zen. Ci fermiamo a fare benzina in un posto in cui c’è scritto GAS. La tizia tira fuori una bottiglietta da litro con della benzina, e poi con un imbuto ci riempie mezzo serbatoio. Ok. Tanto non sappiamo dove andare.
Prendiamo l’unica strada che c’è, fino a quando non vediamo comparire delle indicazioni per il parco nazionale di Cat ba. Attraversiamo risaie, paesini e montagnole “a panettone”, poi raggiungiamo un parcheggio da cui parte una camminata nella foresta fino ad un punto panoramico dall’alto che la guida descrive come il più bello della baia. Mi cospargo con il solito anti-zanzare Jungle formula forza 4, solo che sulla pelle sudata mi brucia tantissimo, e io sto cominciando a perdere un po’ di colpi: il nostro giretto nella foresta dura circa dieci minuti (non tutti i trentini amano il trekking!). C’è troppa cappa, non riesco a respirare e il percorso è ovviamente tutto in salita.
Il fresco sul motorino mi fa riprendere. Ci fermiamo in una spiaggetta fuori dalla città di Cat ba (credo si tratti di Tung thu beach), dove siamo gli unici in costume tra le famiglie vietnamite che fanno il bagno. Ci addormentiamo come delle pere cotte. Torniamo in hotel per una meritata doccetta e la sera mangiamo pesce in uno dei ristoranti della cittadina. Non vediamo l’ora sia domani. Mentre cerco un gelatino al cocco, vedo una blatta: ho capito che questo è un rito che decreta la fine delle mie giornate.
Giorno 5, Cat ba/Tam Coc
Sveglia neanche troppo presto per raggiungere l’ufficio della Cat ba Ventures, dove veniamo portati da un mini van al porto di Cali Beo (credo). Il ferry che ci accompagnerà nel giro turistico per la baia di Lan Ha e poi Ha long è molto carino, e ospita circa 25 persone. Trascorriamo la prima parte del tour sulla parte esterna del ferry, dove ci sono sedie e sdraiette. Il meteo è perfetto perché non c’è il sole ed è abbastanza coperto per non rischiare di schiattare di caldo. Non mi soffermo qui a descrivere la bellezza del paesaggio circostante, perché non riuscirei a trovare le parole adatte. Dico solo che le foto, anche quelle su internet, non rendono minimamente la bellezza del luogo. Avevo paura di trovare orde di turisti e vagonate di sporcizia, invece il nostro tour ha toccato punti quasi del tutto privi sia dell’una che dell’altra, fattore per cui mi sento di consigliarlo caldamente.
Per dire: quando il ferry si è fermato in una baietta, ho fatto l’ennesimo respirone zen, e… mi sono tuffata in mare. Questo prima di venire a sapere che ogni tanto in quella zona ci sono meduse dal diametro di due metri, ovviamente. Dopo un pranzo squisitissimo di carne e pesce condiviso con altri cinque passeggeri, ci spostiamo in una zona dove le guide ci hanno scortato con i kayak. Molto suggestivo il giro nelle cavarne (zeppe di pipistrelli) e molto emozionante anche cercare di avvistare qualche scimmietta tra i rami vicini all’acqua. L’agenzia aveva già predisposto per alcuni passeggeri (tra cui noi e i ragazzi spagnoli con cui abbiamo condiviso il pranzo) un rientro anticipato sulla terraferma per poter partire alla volta di Ninh Binh. Un “taxi-boat” bello arrogante (per usare un eufemismo) ci porta diretti al porto, dove ci sta già aspettando un minivan. Dall’ufficio in centro città parte quindi un bus che, in circa 5 ore, arriva nel centro di Tam coc (paese più turistico rispetto a Ninh Binh) dove noi avevamo prenotato l’alloggio per la notte (Tam Coc sweet home, 13 euro a notte con colazione e uno degli alloggi più carini della vacanza). L’intero tour in barca (comprensivo del pranzo) e lo spostamento per Ninh Binh (incluso il taxi-boat) ci costa circa 50 euro a testa.
Tam Coc è turistica e piena di localini. Mangiamo l’immancabile piatto di mango e alcuni involtini, birrette di rito, poi nanna.
Giorno 6, Tam Coc
Noleggiamo un motorino (questa volta dotato di caschi che sembrano quasi dei caschi veri) e ci dirigiamo verso Mua Caves, a pochissimi chilometri di distanza dal centro. Ci si incammina su una montagnetta simile a quelle che abbiamo già visto a Cat ba, percorrendo una lunga scalinata per arrivare sulla cima, da cui si gode una vista mozzafiato. La camminata non è particolarmente impegnativa, neanche per me che sono una schiappa, e ci mettiamo circa un quarto d’ora con le dovute pause. Nel punto più alto c’è un enorme dragone di pietra che si sviluppa lungo la cresta della montagna. Già che ci siamo, aiutiamo una vecchietta russa che si autodefinisce “babuska” a salire vicino al dragone per una foto, rischiando la vita sugli speroni affilati della roccia con delle ciabattine aperte. Foto scattata e babuska salvata, possiamo scendere, facendo qualche foto all’infinito paesaggio circostante fatto di risaie di verde brillante.
Capiamo che il motorino è stata una scelta saggia rispetto alle biciclette, perché fa un caldo devastante nonostante siano solo le dieci di mattina. Ci avviamo verso Trang An perché i giri in barca sul fiume Tam Coc sono momentaneamente sospesi (una guida ci spiegherà che i barcaioli, famosi per remare anche con i piedi, sono “in sciopero” perché un ricco investitore cinese vuole rilevare l’intera zona, osteggiando dunque quell’attrazione turistica di cui i locali vivono). Optiamo per scegliere, tra i vari percorsi lungo il fiume, il numero 3: ho letto su internet che è quello più “completo”, con una giusta dose tra visita di caverne e tempietti. Le barche ospitano quattro persone, così ci uniamo ad un’altra coppia di italiani: la povera rematrice che ci viene assegnata si sorbisce tre ore di chiacchiericcio costante e quando si profila in lontananza il punto di arrivo, comincia a superare tutte le altre barche per farci smontare in fretta e furia. Il paesaggio ci ricorda molto quello dell’isola di Cat ba (non a caso la zona viene definita l’Ha Long bay sulla terra) ma il giro è comunque molto piacevole.
Salutiamo i nostri nuovi amici italiani (li rincontreremo in altre tappe del nostro tour del Vietnam) e ci fermiamo a pranzare in uno dei localini sulla strada. Ce la prendiamo comoda, un po’ perché abbiamo proprio bisogno di riposare davanti a dei ventilatori, un po’ perché il servizio vietnamita è sempre lentissimo (soprattutto quando ordini il caffè, che qui ha un rituale molto lungo). Quando ci muoviamo non manca tanto al tramonto, così decidiamo di vedere almeno la Pagoda Bich Dong. Nonostante siano solo le 17 e 30, quando arriviamo è chiusa, ma facciamo comunque qualche foto dall’esterno perché l’ingresso principale incastrato nella montagna è davvero suggestivo.
Torniamo al nostro hotel a prendere gli zaini, e chiediamo al ragazzo alla receptionist di poter usufruire del bagno di una delle camere pagando qualcosa. Permesso accordato! Ci vengono date le chiavi della nostra “vecchia” camera, che già era stata pulita, in modo da poterci fare una doccia prima della lunga traversata notturna che ci aspetta (al ragazzo diamo, mi pare, 200 mila dong, che sono circa 7 euro. Tenete conto che per il noleggio del motorino per tutto il giorno abbiamo pagato 150 mila dong!).
La traversata da Tam Coc e Hué ci prende quasi tutta la notte: partiamo alle 20.30 e arriviamo circa alle 7 di mattina. Nelle cuccette del nostro sleeping bus ci stiamo a fatica (Ale è alto un metro e novanta…) e, in più, la guida vietnamita è spaventosa: clacson a palla, sorpassi spericolati, frenate brusche. Continuo a ripetermi che siamo su un bus per turisti e che se non fosse sicuro non ci salirebbe nessuno… vabbé, non funziona benissimo. Mi prendo giù qualche goccetta ai fiori di bach, Ale tira la tendina in modo che io non veda la velocità a cui viaggiamo, e incredibilmente mi addormento.
Giorno 7, Hué
Non ci credo… è giorno, e siamo ancora vivi! Il sole è azzurro sopra la città di Hué (male, malissimo: le giornate di sole sono le più difficili quando si vuole andare per siti archeologici). Raggiungiamo a piedi il nostro alloggio per la notte (Eva hotel), che per la nostra solita fortuna si trova a poche centinaia di metri dal punto in cui ci ha scaricati il bus. Siamo un po’ indecisi sul da farsi, perché l’emozione di essere sopravvissuti alla notte è passata, ma è rimasto un grande sonno. Comunque, la stanza non è ancora pronta, così seguiamo il consiglio della proprietaria dell’hotel e facciamo un giro nei dintorni. Superiamo il “fiume dei profumi” e ci immergiamo negli odori del mercato di Hué: questo si che è autentico, non come quello di Bangkok! … anche troppo. Alcune zone del mercato sono per stomaci forti. Noi ci fermiamo nelle bancarelle che vengono buddha e altri oggetti tipici vietnamiti.
Un po’ per la nottataccia, un po’ per il sole che oggi brucia anche l’anima, io e Ale (ma diciamoci la verità: più io che lui) non siamo al massimo delle nostre forze. Torniamo in hotel per una pennichella di un paio d’ore, in modo da poterci concentrare nel pomeriggio su alcune delle tombe imperiali fuori città, che raggiungiamo con un motorino noleggiato dalla signora Eva. Mentre dormivamo il cielo si è un po’ coperto, e anche i poveri vietnamiti che solitamente si bardano con felpe a maniche lunghe, mascherine e guanti per evitare di abbronzarsi, possono cominciare a svestirsi.
Visitiamo due tombe. La prima, la tomba dell’imperatore Khai Dinh, si trova a circa 11 km dal centro di Hué ed è un complesso davvero imponente. Molto interessanti le statue, tra cui quelle raffiguranti le guardie imperiali, che mi hanno un po’ ricordato i soldati dell’esercito di terracotta. Anche la parte interna, dove è contenuta la vera e propria tomba dell’imperatore, è carina nonostante sia un po’ kitsch. Mi sono piaciute molto le varie fotografie dell’epoca custodite in questa zona (l’imperatore è morto nel ‘25, due anni dopo che è nata mia nonna: il confronto tra il nostro mondo dell’epoca e questo è sempre impattante e fonte di riflessione).
La seconda che visitiamo è la tomba dell’imperatore Tu Duc. Arriviamo verso l’ora della chiusura (intorno alle 17.30) e non c’è quasi nessuno. La tomba, in realtà, è un complesso di palazzi e templi sparsi in un’area di 12 ettari tra boschi di pini e frangipani. Anche qui la passeggiata è molto piacevole, nonostante io abbia apprezzato maggiormente le particolarità della prima tomba visitata.
Torniamo verso la città che il sole sta tramontando di fronte ai nostri occhi. Magico! Che bella vacanza, vorrei non finisse mai. Ci fermiamo a mangiare in un ristorante consigliato dalla nostra guida (su maps si chiama: Hanh Pancake) con un menu fisso a pochi dong. Davvero ottimo!
Niente blatte all’orizzonte, ma comunque si va a dormire.
Giorno 8, Hué/Hoi han
Il secondo giorno a Hué è risicato, perché alle una dobbiamo essere in hotel per partire alla volta di Hoi han. Come se non bastasse, conosciamo una famiglia di milanesi con cui ci perdiamo a chiacchiere durante la colazione. Maledetti animali sociali che non siamo altro! Arriviamo all’ingresso della Cittadella imperiale che sono già le undici passate.
Il giro alla Cittadella è, purtroppo, molto veloce e sommario. Seguiamo le indicazioni dei milanesi: “appena entrati, andate tutto sulla sinistra che ci sono le cose più belle”. Non sapremo mai cosa c’era sulla destra, comunque effettivamente quello in cui incappiamo è scenografico, a partire dalla entrata maestosa (Ngo Mon Gate). La sala dei mandarini, piena di rosso, è da fotografare in ogni sua angolazione, così come i giardini imperiali e le varie porte d’accesso alla città proibita. Maledetto tempo tiranno! Mai come questo giorno ho sofferto la scelta di dedicare sole due settimane a un’aerea vasta quanto un intero Stato. In giro per la cittadella incontriamo sia gli amici spagnoli conosciuti a Cat ba, sia gli italiani della barca a Tam Coc. Sopprimiamo il nostro istinto di fermarci a chiacchiere per ore e ore: abbiamo un bus da prendere!
Sul bus ritroviamo i milanesi della colazione, e il viaggio per Hoi han passa in fretta (mi torna in mente la rematrice della barca di Tam Coc… si rifiuterà per sempre di trasportare altri italiani). Superiamo Da Nang con il suo lungo litorale e i grattacieli altissimi, e in appena tre ore siamo arrivati.
Hoi han dà il meglio di sé alla sera, ma noi non lo sappiamo e ne rimaniamo affascinati sin dal pomeriggio. Mi fermerei in ogni negozio di stoffe, ma ho uno zainone che mi impedisce nei movimenti, così puntiamo al nostro hotel, il Serenity Villa Hoi An. Prima ancora di arrivare in stanza, siamo già in piscina. Che top! È valsa la pena fare uno strappo alla regola del “meno di dodici euro a notte”: qui ne paghiamo ventidue, e li vale tutti.
Quando usciamo, la sera, mi rendo conto del motivo per cui Hoi An è descritta come “città magica”… e chissene frega della folla di turisti! L’atmosfera più bella della vacanza l’ho respirata qui, tra le mille lanterne colorate che danzano sul fiume nella notte. Faccio anche un po’ di acquisti tra le bancarelle di artigianato del centro, e ordino un vestito su misura che sarà pronto l’indomani. Io e Ale mangiamo in un ristorantino di pesce sul fiume: Ale fa più foto alla birra in latta da due litri che a qualsiasi altra cosa della vacanza.
Ci fermiamo a chiedere informazioni su un transfer per Ho chi min: trascorriamo quasi un’ora a farci elencare tutte le opzioni, e alla fine scegliamo la soluzione che ci sembra più sensata facendo un calcolo tra spesa e tempo impiegato nella traversata. Invece che un treno, come avevamo pensato nell’organizzazione del viaggio dall’Italia, decidiamo di prendere un “VIP bus” con le cuccette, un po’ più comodo di quello che abbiamo preso nella tratta che ci ha portati a Huè.
Tornando verso l’hotel, ci imbattiamo in alcuni ragazzi che ridendo e scherzando stanno spazzando fuori dal loro negozio di acconciature per capelli quelle che hanno tutta l’aria di essere decine e decine di… blatte!?! Porca miseria, che schifo. Facciamo il giro largo. Fine della giornata.
Giorno 9, Hoi an
Oggi ce la prendiamo con calma, non abbiamo grossi programmi. La prima tappa è il ritiro del vestito che ho ordinato ieri: la signora ha lavorato durante la notte per farmelo trovare pronto. Io mi sento male, soprattutto perché alla fine da Hoi an partiamo il giorno dopo e lei avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per potermelo confezionare con calma. Secondo momento della vacanza in cui mi sento una schiavista occidentale.
Il nostro giretto senza meta continua nel paesino. In un negozio di gioielli compro un anello con una pietra di giada che mi costa circa 35 euro, e la ragazza mi abbraccia per la gioia. Arriviamo al ponte giapponese, che però è tutto coperto perché in restaurazione.
Per il pomeriggio ho prenotato un tour in bici nelle campagne tramite l’applicazione GuruWalk, ma purtroppo non ci sono abbastanza iscritti e il giro non parte. Noi, comunque, non demordiamo: andiamo sempre dritti e in una ventina di minuti di pedalata arriviamo alla spiaggia di An Bang, che è una specie di Riccione ma un po’ più triste. La zona, molto tranquilla di giorno, diventa improvvisamente affollata non appena tramonta il sole, e centinaia di famiglie vietnamite si riversano qui per fare il bagno.
La piscina dell’hotel dà decisamente più sollievo del mare caldo (e sporchino). Dopo una nuotatina, facciamo l’ultimo giro serale di Hoi an. Ci facciamo consigliare dai nostri nuovi amici milanesi il mercato del pesce coperto, ma una volta arrivati ci guardano tutti un po’ storto, forse perché è quasi orario di chiusura. Sulla strada, ci fermiamo così al “The Son Bistro”: solo l’antipasto misto sarebbe stato sufficiente per cenare in due… strepitoso!
Giorni 10 e 11, Siem Reap/Ho Chi Min
L’ultima mattina a Hoi an è dedicata ai souvenir. Compro a mia mamma due metri di una stoffa in seta misto cotone (37 euro circa), e una sciarpina in seta alla mamma di Ale (13 euro circa). Alle undici torniamo in hotel per iniziare il nostro trasferimento di venti ore alla volta di Ho chi min. Il viaggio della speranza inizia con un taxista che non sa bene dove andare, quindi ci lascia in mezzo ad una strada desolata qualche chilometro fuori dal centro città, assicurandoci che di lì a poco sarebbe arrivato il VIP bus prenotato con l’agenzia. Venti minuti dopo, in effetti il bus in questione compare magicamente dalla statale lì a fianco (l’ho detto che i vietnamiti sono bravi nell’organizzare gli spostamenti).
Il viaggio passerà alla storia come infernale per alcuni motivi:
- I quattro ragazzi che si alternano alla guida sono maleducati, si urlano da una parte all’altra del bus, che siano le undici di mattina o le due di notte; abbiamo l’impressione di essere trattati come fossimo su un carro bestiame.
- La guida degli autisti è assolutamente irresponsabile, e ancora una volta, tra sorpassi e frenate, mi chiedo come io abbia superato integra la notte.
- Il bus arriva alle 4 di notte con ben due ore e mezza di anticipo sulla tabella di marcia. Gli autisti ci fanno scendere a suon di urla nelle orecchie, scuotendo le nostre tendine con forza, e lasciandoci in mezzo ad una via buia e desolata di Ho chi min, lanciandoci letteralmente gli zaini giù dal bus.
Siamo in un limbo tra il distrutto e l’incazzato. Sfiancati, ci sediamo in un baretto che sta aprendo (alle quattro di notte? Boh, ok) e notiamo che ci sono dei vecchietti sui balconi che fanno fitness (alle quattro di notte? Boh, ok). Il piano era quello di visitare, in mattinata, il museo storico della guerra, ma contavamo di arrivare più riposati e circa tre ore dopo.
Così decidiamo di prendere un taxi che ci lascia in aeroporto. Individuiamo una zona defilata e ci addormentiamo qualche ora sui divanetti d’attesa. Io scaccio senza più remore tutti i cinesi che si piazzano vicino a noi ad ascoltare video di gente che ride e urla ad alta voce.
Quando ci svegliamo, è già ora dell’imbarco. Ale viene fermato al check-in perché qualcosa non va nel timbro che è stato fatto al suo passaporto quando è entrato in Vietnam: invece che specificare la durata del visto fino al 26 agosto, hanno scritto 16. Io comincio a indispettirmi, e Ale mi fa giurare che qualsiasi cosa succeda, non devo parlare in maniera maleducata ai poliziotti dell’immigrazione. Anzi, sarebbe ancora meglio se non ci parlassi proprio. Mentre siamo in coda per il visto, mi sento come se stessimo trasportando due quintali di roba illegale nello zainetto. Il tizio allo sportello, invece, fa passare Ale senza battere ciglio. E Cambogia sia!
Dopo i soliti, infiniti controlli all’arrivo, e dopo aver pagato il visto cambogiano 30 dollari, usciamo finalmente dall’aeroporto di Siem Reap dove ci aspetta un tuk tuk prenotato dal nostro hotel (Residence Wat Damnak, 3 notti 50 euro). Arriviamo all’hotel che il sole è già tramontato. C’è la piscina, e la colazione è inclusa (i prezzi degli alloggi qui sono ancora più bassi che quelli in Vietnam) ma la camera non è il massimo: non c’è una vera e propria porta che divida la stanza dal bagno, e la temperatura delle doccia non è regolabile. In compenso, siamo a poche centinaia di metri dal centro “turistico” della piccola cittadina, con la via dei bar e dei ristorantini. Prenotiamo per il giorno successivo un tour del “piccolo circuito” con i templi principali di Angkor e il sunset (su Tripadvisor: “Angkor Wat full day small group with sunset & tour guide”): 15 dollari a testa su un bus condiviso, acqua illimitata, guida che parla inglese. Ci sembra un ottimo compromesso, tenendo conto che il nostro hotel ci metteva a disposizione un tuk tuk per tutto il giorno a circa 32 dollari.
Per cena, mangio un Amok di pollo squisito, un tipico piatto cambogiano con la cottura nel latte di cocco. La nottata trascorre placida tra i versi degli animali che vivono tutto intorno alla nostra struttura.
Giorno 12, Siem Reap
Il nostro primo vero giorno in Cambogia inizia con una sveglia accettabile. L’alternativa al tour con il sunset era il tour con il sunrise, il che avrebbe significato iniziare il giro alle 4 di mattina: anche no! Siamo pur sempre in vacanza! Nel corso della giornata, inoltre, scopriremo da amici spagnoli che l’esperienza del sole che sorge alle spalle del tempio di Angkor è stata compromessa da una fitta coltre di nuvole. Io e Ale ci guardiamo con il fare di chi la sa lunga.
Comunque. Sul nostro bus siamo in nove: oltre a noi e alla guida ci sono tre napoletani, un tedesco, un giapponese e un australiano. Sembra l’inizio di una barzelletta con Berlusconi. Tutti capiscono l’inglese meglio di noi, che ridiamo alle battute della guida con qualche secondo di ritardo.
La visita comincia dal magnifico Angkor Wat, e continua al Banteay Kdei e poi al Ta Prohm, che per intenderci è quello dove è stato girato Tomb Raider. Abbiamo trovato questi due templi, immersi nella fitta vegetazione, immensamente più particolari del famoso Angkor Wat. Dopo un pranzo in un ristorantino individuato dalla guida (non incluso nel prezzo), abbiamo ripreso il tour verso il Ta Keo, dove ho quasi rischiato di rompermi una caviglia cadendo da una scalinata alta due metri mentre Ale mi faceva una foto. Dopo una lunga camminata nella giungla, arriviamo anche all’Angkor Thom, circondato da decine di scimmiette che hanno catturato interamente la nostra attenzione.
La giornata si conclude con una breve salita verso Phnom bakheng, dove non riusciamo a vedere il tramonto perché, come la mattina, il cielo è coperto. Comunque, dopo tutte le meraviglia che abbiamo visto oggi, chissene frega del tramonto…
Giorno 13, Siem Reap
Oggi visitiamo il circuito grande dei templi in solitaria: il giro di ieri ci ha stancati, la guida non ci ha convinti del tutto e soprattutto vogliamo prendercela con calma. Infatti, iniziamo la giornata svegliandoci abbastanza tardi e facciamo un giro al mercato coperto per comprare qualche souvenir.
Sono circa le 14 quando troviamo l’autista di tuc tuc che ci accompagnerà nel circuito (pattuiamo con lui 12 dollari circa per tutto il pomeriggio). Il signore alla guida dice di chiamarsi Lucky Ran: capiamo più avanti che quel “fortunato” è perché, nonostante si sia imbattuto in una mina al confine con la Thailandia, ci ha rimesso “solo” la gamba. Ci piange il cuore, porca miseria! La Cambogia è decisamente più povera del Vietnam, e questo emerge subito una volta usciti di pochissimo dalla zona turistica del centro.
Durante il viaggio verso i templi, io e Ale ripercorriamo tutto quello che abbiamo vissuto in queste due settimane: che viaggio sensazionale! Ci sembra passato un secolo dal buddha sdraiato di Bangkok, dal kayak a Cat ba, e quelle prime scimmie che abbiamo avvistato in lontananza tra i rami… ma soprattutto, da tutte le ansie che avevo prima della partenza, preoccupata com’ero di zanzare, cag8 e aerei. Questi trent’anni mi hanno portata a provare una serie di irrequietudini che, per fortuna, questa volta non hanno avuto la meglio, anzi: lo stress che avevo accumulato prima di partire, quello sì che si è sciolto tra una blatta e l’altra, e ora mi sento davvero rinata. Sul tuc tuc stringo forte la mano di Ale: ad altri mille di questi viaggi insieme!
A fine giornata siamo soddisfatti della nostra scelta di dedicare due giorni interi ai templi: abbiamo visto quasi tutto, eccezione fatta per i siti più lontani a circa 30 km dal centro (credo che quelli siano visitati soprattutto da chi fa il biglietto di ingresso per Angkor di una settimana). Ci siamo goduti anche i templi più piccoli e meno visitati, soprattutto perché ognuno di loro ha una propria peculiarità: un albero gigante che affonda le radici nelle pietre, degli elefanti scolpiti nella roccia, dei bassorilievi particolarmente ben conservati, la vista su un lago immenso… non saprei ripercorrere tutti i templi che abbiamo visto in un pomeriggio, ma credo che ciascun autista di tuc tuc conosca il giro a memoria, proprio come Lucky Ran.
Giorno 14: rientro
Questo diario di viaggio sta diventando lunghetto.
Il viaggio di ritorno dura due giorni, ed è così scandito:
- Bus da Siem Reap al confine con la Thailandia con partenza 7.15 di mattina (il viaggio fino a Bangkok ci costa 20 dollari a testa ed è interamente gestito dalla compagna a cui ci affidiamo, che è la stessa con cui abbiamo prenotato la guida per Angkor).
- Pratiche doganali Cambogia/Thailandia (un’ora circa)
- Attesa di due ore e bus per Bangkok (nervosismo diffuso)
- Arrivo a Bangkok alle ore 18 con minivan. Scendiamo alla prima fermata, che casualmente è quella da cui parte il trenino per arrivare all’aeroporto di Suvarnabhumi
- Arrivo all’aeroporto. Prendiamo un taxi per il nostro hotel, che è a pochi chilometri dall’aeroporto stesso.
- Nottata al Loft 202 Hotel (carino, ma pareti davvero poco insonorizzate. Gli altri ospiti fanno molta confusione e passo una notte agitata. Il ragazzo alla reception non spiccica una parola di inglese.)
- Taxi per l’aeroporto. Pratiche varie, volo delle 9 di mattina con Air India per Dehli. Ale si infuria perché deve abbandonare due powerbank ai tizi dei controlli.
- Arrivo a Dehli, volo per Milano posticipato di sei ore. Tiriamo alcune macumbe, ma non troppe perché ci mancano ancora nove ore di volo, ed è meglio che Dio o chi per lui sia ancora dalla nostra per un po’.
- Cibo indiano all’aeroporto: pessima, ma davvero pessima, pessima idea.
- Volo Delhi/Malpensa. Arrivo alle ore 23.
Io ci sono, Ale c’è, le valigie pure. Siamo stanchini, ma vuoi mettere? Di cose da raccontare ne abbiamo per un anno intero… e poi? Beh, e poi, abbiamo già in testa quel giretto a coccolare nel fango gli elefanti che proprio non siamo riusciti ad incastrare da nessuna parte.