Off road in Namibia

Viaggio in 4x4 alla scoperta del Paese: dai deserti alla costa, dalle foche ai leoni...
Scritto da: mikilaly
off road in namibia
Partenza il: 09/11/2014
Ritorno il: 25/11/2014
Viaggiatori: 4
Spesa: 2000 €
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Finalmente si parte per la Namibia! Siamo Laura (io), Michele, Chiara ed Elena e stiamo aspettando questo giorno ormai da mesi.

Premetto che l’organizzazione non è stata semplicissima, in quanto nella maggior parte delle guide vengono descritti i luoghi, ma mancano completamente le indicazioni su come raggiungerli. Ringrazio Silvia per averci prestato la guida Savana di Robo Gabr’Aoun, che è stata praticamente il nostro punto di riferimento per tutto il viaggio e senza la quale sicuramente non avremmo visto molte delle meraviglie di questo paese.

Dopo un viaggio durato praticamente un giorno intero (Milano-Cairo e Cairo-Johannesburg con Egypt Air, Johannesburg-Windhoek con Air Namibia), arriviamo a Windhoek e ci ritroviamo subito a fronteggiare qualche disguido legato alla prenotazione dell’auto, che ci verrà consegnata il giorno successivo a causa di un errore della compagnia. Nonostante questo piccolo contrattempo, ci siamo trovati benissimo con Kea Campers – Britz 4wd Rentals e lo consiglio. Pernottiamo all’ostello Chameleon City Backpackers, consigliatissimo anche questo: sembra un’oasi nel deserto, anzi, nel grigio della città; pulito, ben organizzato e friendly.

Il giorno seguente (11 novembre) finalmente ci viene consegnata l’auto e si parte; direzione Sesriem, passando per Rebooth (da dove comincia la strada sterrata) e per lo spettacolare passo dello Spreethotghe dal quale si gode di una visuale infinita sul Namib.

Il percorso è davvero magnifico e assolutamente non pericoloso, anche se la descrizione riportata nelle guide ci aveva spaventati e per un attimo avevamo pensato di effettuare una strada alternativa; arriviamo a Sesriem verso sera (circa 5 ore di auto, 300 km), alloggiamo al Sesriem Camp Site (anche se via mail ci avevano detto che era pieno, c’è un sacco di posto). Compriamo i permessi per la visita del parco (hanno la durata di 24h; in ogni caso non è più possibile varcare il cancello prima dell’alba con piccolo sovrapprezzo, pernottando esternamente) e allestiamo le roof tents per la notte.

Sveglia alle 4 del 12 novembre per richiudere le tende con la sola luce delle stelle e per essere operativi davanti ai cancelli di Sussusvlei alle 5, allo scopo di iniziare la corsa alla Duna 45 dalla cresta della quale vedremo l’alba, assieme a qualche decina di turisti. Purtroppo il cielo è nuvoloso, ma il variare dei colori delle dune con la luce che si fa sempre più intensa è spettacolare. Circa 15 km dopo la Duna 45, un parcheggio ombreggiato da acacie indica la fine della strada percorribile da tutti i mezzi e l’inizio del percorso per soli 4×4, che noi imbocchiamo senza esitare…peccato che rimaniamo intrappolati nella sabbia dopo 100 meri. Fortunatamente una delle guide del posto ci aiuta ad uscire, facendoci sgonfiare le ruote…ce ne eravamo dimenticati, ma da ora in avanti, non falliremo più!

Sossusvlei si trova tra alte dune arancioni ed è il fondo di un lago quasi sempre asciutto, plasmato nei secoli dalle acque del fiume Tsauchab, anch’esso secco per la gran parte dell’anno. Il nome Sossusvlei deriva da: vlei che indica il pantano e sossus che significa “senza ritorno” o “fiume cieco”, con riferimento al fatto che qui le acque dello Tsauchab si perdono tra le dune del Namib.

Deadvlei (letteralmente, il “vlei morto”) è quel che rimane di un’oasi di acacie dopo che il fiume ha mutato il suo corso negli anni, a causa dello spostamento delle dune. E’ un luogo surreale caratterizzato dal bianco del sale, dal nero delle acacie bruciate dal sole e dall’arancione delle dune: da rimanere senza parole.

Non dedichiamo particolare attenzione a tutte le altre dune caratterizzate dai nomi più strani: seppur bellissime, sembrano tutte uguali. Prima di uscire dal parco visitiamo il Canyon di Sesriem, lungo circa un chilometro e profondo fino a 30 m, scavato dal fiume Tsauchab. Pernottiamo al Sossus Oasis Campsite, appena fuori dal parco: camping molto carino, attrezzato con 12 piazzole tutte dotate di gazebo in legno con bagno e cucinino…e per fortuna! Dopo un caldo pomeriggio in piscina, dobbiamo passare la serata in bagno per ripararci dal forte vento che ci congela!

Il 13 novembre comincia con una dolcissima colazione a Sesriem (80 km da Solitaire, verso Nord), con la famosa torta di mele: davvero eccezionale, l’abbiamo desiderata per tutto il resto della vacanza!

Seguendo quanto indicato nella guida SAVANA, lasciamo la C14 per raggiungere SWAKOPMUND (circa 250 km) percorrendo la C18, passando attraverso zone inesplorate e soprattutto per visitare Welwitschie Plains e Moonlandscape. Come sempre oltrepassiamo dei paesaggi spettacolari, distese aperte dove orici e zebre pascolano, strade sterrate, miraggi in lontananza. Il Welwitschie Plains è una distesa desertica dove crescono le piante fossili di Welwitschie mentre il Moonlandscape è una zona con dei paesaggi lunari, molto suggestiva!

Swakopmund è una città circondata dal deserto e dall’oceano, un reticolato di strade con tanti negozi…un po’ anonima direi. Dopo una breve visita decidiamo di portarci avanti e di cercare un campeggio nella strada per Walvis Bay. Fatichiamo parecchio anche perchè la gente del posto non ci sa dare informazioni utili, l’ufficio turistico è ormai chiuso e le notizie riportate sulle guide sono scarse, ma alla fine troviamo un campeggio nella ridente località di Palm Beach. A prima vista deserto, scopriamo di essere in compagnia di una famiglia sudafricana in cerca di fortuna e passiamo la serata giocando col piccolo Jasper. Il campeggio ricorda l’ambientazione di un film dell’orrore: apparentemente ben organizzato con giostre per bambini, piscina in spiaggia e pub sul pontile ma tutte le attrazioni sembrano dismesse da anni e in avanzato stadio di decadimento. La notte passa gelida, accompagnata dal suono del Benguela, la fredda corrente oceanica che rende poco ospitali queste lande.

La mattina del 14 novembre ci informiamo per un’escursione a Walvis Bay e Sandwich Harbour ma i costi elevati ci fanno cambiare idea. Dal momento che proseguire da soli è sconsigliato, a causa delle maree imprevedibili che possono inghiottire l’auto, diamo fiducia ad un ragazzo che sulla strada di Walvis Bay si offre di accompagnarci alla scoperta della zona per pochi soldi. Scelta azzeccatissima: si siede accanto all’autista e con le sue indicazioni raggiungiamo una lingua di terra che si snoda in mezzo alla nebbia mattutina, tra migliaia di foche, fino a raggiungere un faro solitario. Il tour procede in mezzo ad una zona paludosa dai colori che vanno dal bianco del sale al rosso acceso delle piante, al rosa delle ali dei fenicotteri, al giallo del becco dei pellicani, al blu scuro dell’acqua.

Lasciamo questa tavolozza di colori per tornare verso Nord, passando per Swakopmund, Wlotzkasbaken con le sue casette colorate, per Henties Bay, con il super ufficio informazioni con Wi-Fi al quale ci siamo attaccati come zecche, fino a Cape Cross, percorrendo una strada di sale che corre dritta e scivolosa per centinaia di chilometri, costeggiando l’oceano e il deserto più assoluto. Poco dopo Henties Bay vediamo un relitto di un peschereccio, probabilmente recente in quanto è ancora semi intatto; i nidi dei cormorani e di altri rapaci sugli alberi, lo fanno sembrare una nave pirata fantasma: raggelante. A Cape Cross, nota per la sua grande colonia di otarie, alloggiamo nel campeggio adiacente al bellissimo Cape Cross Lodge, dove ci concediamo un buon calice di vino scaldandoci davanti al caminetto e guardando il rosso tramonto dalle vetrate. Per ripararci dal vento gelido la sera invece, siamo costretti a fare la nostra solita partita a carte portando tavolino e sedie all’interno dei bagni del campeggio, del quale fortunatamente eravamo quasi gli unici ospiti.

Il 15 novembre comincia con la visita della colonia di otarie: centinaia di animali che si chiamano, si rincorrono, dormono; decine di cuccioli, alcuni anche appena nati, ancora con la placenta attaccata che cercano la mamma, altri allattano, altri ancora giacciono schiacciati o peggio ancora, sono già pasto dei gabbiani. L’avventura prosegue verso Nord: meta la Skeleton Coast, nota per essere particolarmente inospitale e difficile da raggiungere; verso l’interno il deserto si estende per decine di chilometri, e dal mare è difficile avvicinarsi a causa delle forti onde causate dalla corrente del Benguela. Arriviamo ai cancelli di Ugabmund e da lì entriamo nel vero e proprio tratto di costa denominato Skeleton Coast; abbiamo in programma di spingerci fino al primo relitto, 15 km dopo l’entrata. Nonostante il paesaggio suggestivo, rimaniamo un po’ delusi, in quanto è costituito da poche tavole di legno in mezzo alla sabbia: la barca è stata completamente divorata da vento, onde e sabbia…e noi potevamo risparmiarci qualche centinaio di chilometri!

Ripieghiamo verso Henties Bay, fermandoci di tanto in tanto ad ammirare estasiati i colori delle saline che vanno dal bianco-neve al rosso intenso, per poi piegare verso Est in direzione dello Spitzkoppe, il cervino d’Africa. Il paesaggio cambia completamente; delle cime rosse spuntano nella savana gialla, baciate dal sole. Le montagne non sembrano tanto alte, in quanto la base si trova su un altopiano, pertanto nonostante i 1600 m di altezza, sembrano delle collinette.

Il campeggio Spitzkoppe Restcamp, uno dei più belli che abbiamo incontrato per l’unicità della location, si sviluppa in mezzo a queste rocce rosse e alla savana; le piazzole distano qualche centinaio di metri tra di loro, nascoste tra le rocce e i cespugli, davvero minimaliste in quanto sono dotate soltanto di un buco riparato da una sorta di paravento al posto del bagno, senza luce nè acqua. Affascinati dai riflessi del sole che sta per tramontare sulle rocce, che formano archi e promontori, ci avventuriamo in una passeggiata per ammirare il tramonto dalla cima di un masso, fantasticando sulle belve che potremmo incontrare, dopo aver fatto un’analisi sommaria di impronte e cacche memori delle indicazioni della nostra guida. Intanto la luce diminuisce e la strada del ritorno sembra sempre più lunga…soprattutto perché col buio tutte le rocce sono uguali e noi ci siamo persi! Cominciamo a correre per paura di non riuscire a tornare alla nostra piazzola mentre ognuno di noi si sta facendo il proprio film nella sua testa, ma senza dirlo agli altri! Finalmente raggiungiamo una segnalazione e da lì ci orientiamo, ma quanta paura! Il seguito della serata è altrettanto movimentato; intanto per raggiungere le docce dobbiamo prendere la macchina, per quanto sono lontane, e ci laviamo al buio completo, anzi, sotto la luce delle stelle. Tornati nella piazzola accendiamo un fuoco per illuminarci, visto che le candele non rimangono accese a causa del vento, ma siamo poco attrezzati anche per il falò, pertanto raccogliamo rami più o meno idonei tra i cespugli spinosi che ci circondano, talvolta svegliando anche qualche scorpione. Ceniamo con la luce dei fari della nostra auto… ma ci addormentiamo guardando le stelle cadenti!

Il 16 novembre ci svegliamo più stanchi della sera precedente, in quanto il vento ci ha tenuti svegli tutta la notte. Raggiungiamo Twyfelfontein passando per Uis e facendo sosta alle Organ Pipes (paesaggio molto suggestivo) e alla Burnt Mountain. Visitiamo le pitture rupestri e i graffiti: leoni, zebre, rinoceronti incisi migliaia di anni fa dagli antenati dei moderni Boscimani, quando invece del deserto c’era un ambiente molto più accogliente.

Alloggiamo all’Aba Huab camp, posto molto spartano ma le mille cacche di elefante disseminate tra le piazzole ci fanno sperare di vederne qualcuno da vicino; purtroppo nessun avvistamento.

Il 17 novembre è una giornata di spostamento per raggiungere Opuwo; circa 380 km, considerando anche una piccola deviazione per Sesfontein (non ne vale assolutamente la pena: il forte è un hotel piuttosto anonimo). La strada ancora una volta si snoda tra deserti e savana, regalandoci continuamente dei paesaggi mozzafiato.

Arriviamo a Opuwo a metà pomeriggio; la città è un incrocio di strade con qualche supermercato, delle banche, dei bar e qualche distributore. Al supermercato si alternano persone in giacca e cravatta e donne a seno scoperto con una pelle di pecora in vita e la cosa strana è che questo miscuglio di culture pare perfettamente amalgamato nella sua disomogeneità. Incontriamo una ragazza che si fa chiamare Marianna e mastica un po’ di italiano che ci porta a visitare la sua tribù in cambio di qualche sacco di farina, burro, zucchero e pane. Raggiungiamo con la nostra auto un villaggio Himba ad una decina di chilometri dalla città; ad accoglierci le donne e i bambini: gli uomini sono al pascolo con gli animali. Le donne Himba si coprono il corpo con una mistura rossa a base di burro, terra ed erbe, per proteggersi dal sole e mantenere la pelle idratata. Gli indumenti di tipo occidentali sono piuttosto rari nel Kaokoland, e vengono indossati quasi esclusivamente dagli uomini e dai bambini, ai quali regaliamo un carico di vestitini provenienti dai nostri nipotini. Le donne hanno i capelli impastati in lunghe ciocche di argilla e portano in testa strani ornamenti fatti con pelle di pecora; vengono private di 4 denti nel momento in cui diventano donne, usano incenso come profumo e bracciali che ne indicano la posizione nella società. Gli Himba rifiutano di curarsi con le medicine moderne, adoperando esclusivamente rimedi tradizionali: erbe e pozioni da loro confezionate. Io sono raffreddata e assaggio le foglie di mopane come fanno gli elefanti, direttamente dall’albero…amarissime!. Il fuoco sacro, che è sempre acceso al centro del villaggio ed in esso è rappresentato lo spirito protettivo del Bene. Dopo la nostra visita al villaggio, l’acquisto di qualche ricordo e le foto di rito, prendiamo posto all’Opowo Rest camp, essenziale ma accogliente.

Il giorno successivo percorriamo i 180 km di strada sterrata e a volte anche un po’ impervia per raggiungere l’estremo Nord del paese dove si trovano le Epupa Falls; diamo passaggi a vari ragazzi per raggiungere la scuola (alcuni fanno anche 30 km a piedi) rompendo così la monotonia dei tanti chilometri, fino a quando un paesaggio completamente diverso, di un verde smeraldo intenso, si apre di fronte a noi. Sono le centinaia di palme della foresta fluviale che incorona le Epupa Falls, qua e là qualche baobab abbarbicato alle rocce tra le quali ricade il Kunene River. Alloggiamo in un bellissimo campeggio (Omarunga camp), dove ci concediamo anche un pomeriggio in piscina.

Dalle Epupa il 19 novembre ci dirigiamo verso le Ruacana Falls, arrivando dapprima a Okongwati, per poi imboccare ad Epembe una strada solo per 4×4 che costeggia il fiume; anche se le guide la sconsigliano, non è estremamente disagiata e si rivela molto divertente, soprattutto per chi è alla guida. Dopo questi 60 km di off road, arriviamo al confine con l’Angola, per vedere ciò che rimane delle Ruacana Falls, dopo la costruzione della diga: un vero degrado e un paesaggio davvero deludente, soprattutto per la sporcizia che circonda il luogo, che di per sé potrebbe ancora essere piacevole, visto che il corso d’acqua e un piccolo lago sono tuttora presenti. Delusi, diamo una seconda chance al luogo, andando a visitare le Hippo Pools, ma anche quest’oasi dove dovremmo incontrare coccodrilli e ippopotami è un desolato e abbandonato parcheggio in riva al fiume dove non possiamo nemmeno fare una sosta picnic per l’attacco vorace delle zanzare. Proseguiamo sulla strada che adesso sarà sempre asfaltata fino all’Etosha, decisi a fare una tappa intermedia in quanto il percorso è davvero lungo, ma tutte le cittadine dell’Owamboland che attraversiamo non sono altro che degli incroci con dei centri commerciali, senza particolari attrazioni, inoltre una guida ci sconsiglia vivamente di fermarci in quelle città in quanto pare che la microcriminalità sia in forte aumento. Ci fermiamo a Outapi a vedere il Baobab più grande della Namibia, ma non ci fermiamo nel campeggio annesso in quanto non ci ispira neanche un po’. Stanchi e rassegnati proseguiamo ancora un po’, per avvicinarci quanto più possibile all’Etosha e alla fine decidiamo di sostare a Nakambale. Confermo che nemmeno qui c’è nulla di interessante, aggiungo che siamo gli unici avventori del campeggio e passiamo la serata in compagnia del bimbo figlio dei proprietari che gioca nelle nostre tende, circondati da insetti ronzanti, per poi trascorrere la notte con una guardia armata di mitra seduta sotto le nostre tende. L’alba del 20 novembre è rosa e ci accompagna per un po’ lungo la strada che ci porta all’Etosha. Entriamo dal King Nehale Gate e dopo pochi chilometri già incrociamo numerosi gruppi di zebre, gnù e giraffe. La parte centrale del parco è costituita dall’Etosha Pan, una depressione salina di 5000 km². Si ritiene che milioni di fa quest’area fosse un lago; in seguito alla mutazione del corso del fiume che lo alimentava, la zona si trasformò in un semi-deserto, che talvolta viene alluvionato durante la stagione delle piogge. Qualche orice e qualche kudù attraversa la distesa salina sotto il sole cocente, un elefante si para davanti a noi bloccando il traffico e degli struzzi saltellano allegramente nel giallo della savana; tutto questo mentre noi procediamo verso Halali, il primo (e il migliore) dei campeggi dove ci fermeremo all’interno del parco. Proviamo tutti e tre i campeggi, Halali, Namutomi e Okaukuejo; tutti e tre con piscina, market e servizi ottimi, forse un po’ spartani a volte, ma…stiamo facendo un safari!

Nei pressi di Halali la densità di giraffe è enorme; fantastica la mandria di elefanti che si avvicina ormai abitualmente alla pozza del campeggio verso sera e anche il primo avvistamento all’alba di un leone, vicino alla pozza di acqua, mimetizzato tra gli alberi. Vicino a Namutomi abbiamo avvistato un fantastico ed enorme rinoceronte bianco, iene che si stavano cibando di una giraffa morta e un leopardo che stava sorvegliando lo struzzo che aveva appena ammazzato in attesa di sbranarlo. Intorno a Okaukuejo invece molti avvistamenti di leoni, nelle prime ore del mattino; leoni che si stiracchiavano tra una dormita e l’altra, accanto alla leonessa, una leonessa che ha tentato un attacco a delle antilopi, leoni che si abbeveravano alla pozza, alcuni ci sono passati anche molto vicini.

Il 23 novembre lasciamo con grande dispiacere quest’oasi di wilderness per avvicinarci a Windhoek e alla fine della nostra vacanza. La strada del ritorno è tutta asfaltata e quindi molto veloce da percorrere; poche soste in quanto il percorso è molto lungo e non sembrano esserci particolari attrattive. Facciamo sosta per la notte a Otjiwarongo, ma ci mangiamo le mani in quanto è una cittadina grigia e il Cheetah Conservation Fund che visitiamo dopo esserci persi in una discarica per dare un passaggio ad una donna, ci delude molto: l’ingresso è a pagamento, nonostante fosse scritto il contrario sulle guide e l’unica attività che possiamo fare all’ora in cui è arriviamo è vedere i ghepardi mentre mangiano, dentro alle loro gabbie. Ciliegina sulla torta: il camping prenotato (su suggerimento del Cheetah Conservation Fund) che dovrebbe trovarsi a Otjiwarongo, si trova a 45 km dal paese nella direzione opposta a dove dovremmo andare, arroccato su una collina in mezzo al nulla, dotato di tre piazzole delle quali una è occupata da noi e l’altra da una coppia che non vediamo mai tanto sono distanti e infrattate le piazzole. Direi che l’ultima notte all’avventura selvaggia ci stava: rischiarati dalle candele e da un falò ci godiamo l’ultimo tramonto e l’ultimo cielo stellato namibiano.

Il 24 novembre percorriamo le ultime centinaia di chilometri sotto il cielo azzurro della Namibia, per arrivare a Windhoek e ripartire per l’Italia.



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