NEPAL AVVENTUROSO

Gorak Shep, l’ultimo avamposto
Scritto da: Daniele Vallet
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Spesa: Fino a €250 €

Alcuni anni fa, durante un viaggio a piedi in Nepal mentre percorrevo il trekking del Solokhumbu, la vallata che sfocia nella montagna più alta del pianeta, le condizioni atmosferiche volsero rapidamente al peggio; pioggia e nebbia scesero sul sentiero a 5.000 metri di quota che stavo percorrendo. Questo il resoconto di quel pomeriggio di cammino in solitaria nel tentativo di raggiungere l’ultimo avamposto, prima del Campo Base dell’Everest.

Era un confuso senso di paura, angoscia e torpore. Mi trovavo a 5.100 metri di quota, la nebbia era fitta ed ero ad oltre 4 ore di distanza dall’ultimo abitato della regione nepalese del Solukumbu, Lobuche.

Intorno a me innumerevoli pozze di acqua grigiastra venivano contenute nel ghiacciaio del Kumbu, quello che scende dal monte Sagarmatha meglio conosciuto da noi occidentali come Everest.

Il silenzio assoluto era infranto solo da frammenti di ghiaccio e rocce che sgretolandosi finivano nelle gelide pozze. Inutile dire che tale rumore era, alle mie orecchie, davvero sinistro.

Pur avendo con me un mappa dei sentieri di questa mitica regione ed avendola usata con profitto sino ad allora, proprio a pochi km da Gorak Shep (l’ultimo accampamento dove dormire prima del Campo base dell’Everest) realizzai che le nubi ed il ghiaccio avevano cancellato sotto ai miei piedi ogni traccia di sentiero. In breve, mi ero perso!

Fino a quel momento era stato quasi esaltante camminare da solo per giorni interi senza vedere anima viva; la stagione delle piogge infatti fa sì che nel mese di luglio siano pochissimi i viaggiatori che si avventurano in questa zona. Ma ora, ed in un attimo, l’esaltazione si era trasformata nel suo opposto, nell’altra faccia della stessa moneta; la frustrazione.

La stanchezza, la quota ed il freddo non favoriscono l’uso della ragione, ed io per chissà quale motivo decisi di non tornare indietro, di non scendere a valle per recuperare le tracce perdute e proseguii invece a zig zag nel ghiaccio misto a detriti di rocce con la speranza di intercettare segni che mi suggerissero la via per Gorak Shep. Giustificavo dentro di me tale scelta in quanto l’accampamento doveva essere, secondo i miei calcoli, non molto distante mentre avrei potuto raggiungere Lobuche solo nella notte e l’idea di camminare al buio in questa affascinante, ma spettrale valle non mi confortava.

Un senso di pacata disperazione iniziò ad insinuarsi nelle fibre della mia mente.

Nel mio vagare, stando attento a non scivolare in qualche pozza gelata dalla quale sapevo non sarei riuscito ad uscire, iniziai a prendere in considerazione l’ipotesi di dormire sotto qualche roccia di forma tondeggiante per effetto dell’erosione glaciale. Il solo fatto che la mia mente mi suggerisse tale possibilità rendeva ancora più drammatica, a livello emotivo, la situazione.

Non avevo più controllo dei miei pensieri, ora a bocce ferme mi chiedo se normalmente io ce l’abbia; iniziai a riflettere annientando ogni forma di ottimismo recondita su quanto fosse grande ed insidioso il ghiacciaio che scende dall’Everest e quanto fosse improbabile trovare un accampamento di poche case in questo infinito biancore che da cielo e da terra mi avvolgeva.

Riprese a piovere.

Non sapevo se mettermi a ridere o a piangere e realizzando che la mia faccia dovesse essere davvero espressiva in quel momento, mi fermai, posai il mio zaino, tirai fuori la macchina fotografica e mi feci una foto… un autoscatto naturalmente!

Pensai, forse per darmi coraggio, a quanto sarebbe stato divertente a casa rivedere la mia faccia, la faccia di uno che “se la sta facendo sotto”.

Notai con piacere come un barlume di senso dell’umorismo mi rimanesse anche nelle situazioni più complicate o vissute come tali. Tale umorismo durò poco, si stava facendo buio. Dentro di me sapevo che non ero in pericolo grave, ma l’idea della notte da solo in quel deserto gelido mi faceva sperare piuttosto in un evento magico che mi portasse all’incoscienza istantanea.

Non sapevo davvero più che fare, l’idea più geniale che mi venne in mente, mentre camminavo sotto l’acqua gelida, fu quella mettermi ad urlare il nome dell’accampamento quasi sperassi che mi rispondesse.

Ma non rispose.

Vagai ancora per un po’, poi vidi che da una pozza scaturiva un ruscelletto e che qualche oggetto ne ostruiva il flusso. Mi avvicinai… erano sassi e legni. Con la fantasia che non deve mancare mai nelle situazioni difficili, immaginai che tale blocco fosse un rudimentale ponte e che dovessi attraversarlo. Lo attraversai e proseguii, contro il mio istinto, nella direzione opposta a quella che avrei preso. Dopo qualche istante realizzai che con altrettanta fantasia avrei potuto considerare il terreno che stavo calpestando come un sentiero, lo seguii con attenzione spasmodica passo dopo passo senza più alzare la testa.

Non ricordo quanto tempo trascorse in questa marcia tanta era la concentrazione a non perdere l’esile traccia. Dopo un avvallamento del terreno mi destai ed in lontananza tra le nubi che si diradavano vidi una sagoma lineare. Pensai che fosse uno dei tanti ricoveri diroccati, un tempo a servizio dei pastori di yak, ciononostante corsi in quella direzione a gambe levate con la speranza di sbagliarmi.

Mi sbagliavo era Gorak Shep. Quando fui a pochi metri vidi un ragazzo dal volto dolcissimo, sembrava mi stesse aspettando…

Daniele Vallet. Tratto da “Nepal, Never Ending Peace and Love”

CHI E’?

Daniele Vallet, fa lo psicologo e si occupa di discipline olistiche e stili di vita alternativi. E’ un tipo molto sportivo, un grande camminatore e un appassionato ciclista e ha una acuta sensibilità sociale: ad esempio è stato in Congo dove si è speso per ottenere delle biciclette per i bambini. Nella sua Valle d’Aosta, dove vive e lavora, è riuscito ad ottenere dalla Regione un riconoscimento per tutti coloro che, andando al lavoro in bicicletta, evitano di inquinare. Detta così, Daniele sembra normale. Invece no. Forse la sua sarà deformazione professionale che lo porta ad una Sindrome Autoanalitica che lo porta a sottoporsi a prove mostruose. Passi per un giro solidale ciclistico della Sardegna, che Daniele ha descritto in un libro, “Fernanda e io, storia di un viaggio solitario in bicicletta”. Passi che chiami la sua bicicletta per nome e ci parli come se fosse una persona: potrebbe essere un sintomo lieve di leggera nevrosi. Ma un giorno decide di arrivare ad Itaca in bicicletta, passando per i Balcani: 3500 km, 47 giorni, attraversando 8 paesi! E naturalmente mentre pedala (senza mani!) fotografa, filma e prende appunti per una auto-psicanalisi che lo porta a scrivere “Metafora, piccola odissea moderna verso Itaca”, il viaggio della vita per scoprire appunto “l’ignoto dentro è fuori di noi”. Qui ci regala un altro pezzo dei suoi appunti di viaggio, stavolta a piedi e ambientato in Nepal, tratto da “N.E.P.A.L. Never Ending Peace And Love”.

Un’avventura pazzesca. Noi turistipercaso, in genere, ci scambiamo itinerari di viaggio per poi poterci reciprocamente imitare. Stavolta no, mi raccomando… Patrizio

 



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