Mongolia, solitudini senza poesia

A zonzo per la Mongolia, tra il sacro e il profano
Scritto da: trap
mongolia, solitudini senza poesia
Partenza il: 08/08/2010
Ritorno il: 26/08/2010
Viaggiatori: 11
Spesa: 4000 €
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A Giacomo Leopardi la Repubblica Popolare Mongola dovrebbe concedere la cittadinanza onoraria e la qualifica di Sommo Poeta mongolo. Che cosa, se non le vaste solitudini di questa terra, potrebbe avergli ispirato il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”? Non a caso, Leopardi: qui la poesia non è idillio bucolico, arcadia: è sofferenza interiore, malinconia, struggimento. Senza retorica però. Anzi: è solitudine senza poesia. Il ritmo di queste solitudini è dato da un sonnacchioso yak che rumina l’infinito in un perenne replay alla moviola. L’eterno immutabile. Anche i moderni gipponi giapponesi devono inchinarsi di fronte a distanze senza pudore, sciorinate su piste prive di rispetto umano. E’ un procedere a singhiozzo, a conati senza sbocco. L’andatura di un cammello ebbro. Il tempo è scandito dal sole, dalle stagioni; almeno per chi ci vive. Il turista brancola in una dimensione strana, senza gli appigli, le certezze della moderna vita tecnologica. Il cellulare langue sordomuto per la maggior parte del viaggio: non c’è quasi mai campo. Non c’è scampo: è un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, in una dimensione insolita, quasi una saga fantasy, ma senza quel retrogusto di patinato, disinfettato, mistificato. Qua e là, qualche nota stonata in questa sinfonia orchestrata dalla Natura sovrana assoluta: accanto ad alcune gher (le tipiche tende mongole, a igloo) spuntano un pannello solare e una antenna parabolica; una moto cromata. A decine di chilometri una dall’altra. Gli yak, le mucche, i cavalli, le pecore, le capre e i cammelli che brucano l’esistenza in queste lande smodate non subiscono il fascino del progresso, restano insensibili ad asfalto (che non conoscono) e 4×4. Poca sensibilità (ma grande intelligenza) dimostrano anche verso le trasmissioni Tv satellitari. Le mandrie… le vere padrone della steppa: via gli uomini, qui non cambierebbe niente. Ma se cancellate i quadrupedi da questi oceani d’erba, sarebbe un dipanarsi di nature morte, di fermo-immagine senza soluzione di continuità. Sono così numerosi che nonostante lo scorso inverno il gelo eccezionale ne abbia stroncati circa due milioni, la loro presenza riesce ancora a riempire gli occhi. Con tutto che noi abbiamo incrociato solo quelli che pascolavano nei paraggi delle strade e delle piste. Quei circa due milioni di capi morti hanno gettato nella miseria migliaia di famiglie, rafforzando il già notevole fenomeno dell’inurbamento (il 38% della popolazione vive nella Capitale; poco importa se stiamo parlando di un totale di soli 2,8 milioni di persone). Con tutte le conseguenze negative. La Mongolia sta vivendo l’eterno dilemma: progresso sì/progresso no? Falso dilemma, perché non hai possibilità di scelta. Altri scelgono per te. Vengono alla luce gigantesche miniere di rame e oro – e subito arrivano i pescecani da fuori. Nella fattispecie, una multinazionale canadese. Già si parla di giovane democrazia corrotta. Che ricadute avrà sulla popolazione l’arrivo di denaro e tecnologia? Si spopoleranno le praterie o governanti illuminati e lungimiranti riusciranno a mediare, a inserire elementi di modernità senza stravolgere una cultura millenaria? Pura e sterile accademia, fatta da un turista di passaggio, ma è qui dove la nazione mongola si giocherà il proprio futuro. Per il momento, mancano strade e infrastrutture: si viaggia per piste e sterrati; gli aeroporti sono pochi e poco fruibili; la sanità lascia ancora ampio margine di manovra agli sciamani: pochi ospedali e per le operazioni importanti c’è solo Ulaan Baatar. Dove ti portano in jeep… Non ti viene da pensare che proprio qui sbocciò il più grande impero che la Storia ricordi, che Gengis Khan (Cinghis, come rivendicano loro orgogliosamente) fosse un figlio proprio di queste steppe. Non è rimasto niente del suo dominio: non costruiva nè monumenti né edifici. Persino l’Impero e il suo simbolo erano nomadi: il palazzo reale era una immensa gher tirata da una mandria di buoi. Hai l’impressione, vagando per queste lande e sbirciando nei villaggi e nelle città che tutto debba ancora avvenire, che non ci sia già alle spalle un vissuto così inciso nella Storia. Ovunque respiri aria di ‘primitivo’, di marmo ancora da scolpire, di fango da modellare: di futuri possibili. Di gioventù: 24,6 anni l’età media e sia pure su circa tre milioni di abitanti. Bambini e giovani ovunque, nella steppa come in città. Però mi porto via due istantanee molto diverse: ragazzi e giovani sempre molto vivaci, chiassosi, spesso sorridenti (ma si tenga presente che la nostra esperienza si è limitata soprattutto ai campi turistici e alla Capitale); bambini spesso, se non tristi, malinconici. Pochi sorrisi sui loro visini arrotondati. Ne ho fotografato più d’uno, ma nemmeno uno sorridente. E non li ho scelti apposta. Mi è rimasto misterioso, questo fatto. Non è che uno girando per la Mongolia si fa solo delle gran considerazioni socio-antropo-tuttologiche. Si vedono cose belle, anche molto belle e piene di fascino. Da restare senza fiato, a volte. Bellezze naturali, paesaggistiche, perché di arte e architettura ne è rimasta poca. Si concentrava quasi esclusivamente nei templi buddisti: i sovietici e i comunisti locali nel 1937 hanno fatto piazza pulita di centinaia di templi e conventi, lasciandone sopravvivere solo tre o quattro decenti. Maestoso e ben conservato quello di Ulaan Baatar, il Gandantegchenling; affascinante per la sua vetustà l’Erdene Zuu di Karakorum, l’antica capitale; trasandato ispirante poca sacralità l’Amarbayasgalant, ancorché tutelato dall’Unesco e propagandato come il più bello e meglio conservato del Paese. Sarà che si era appena svolta una quattro giorni di non si sa cosa e pullulava di una selva di bambini e ragazzetti urlanti (seminaristi?), intenti a raccogliere immondizia e resti di vario genere. Tutto, fuorché silenzio. La natura, il paesaggio. Respiri atmosfere che dilatano occhi e polmoni: deserti e steppe si specchiano in un cielo eterno. Ti senti come una sottiletta mollemente adagiata fra due perenni altipiani: uno sopra la testa e uno sotto i piedi. Assaggi il deserto dei Gobi – e no, non è UN deserto: c’è quello classico sabbioso, che si materializza nelle dune di Khongoriin Els , dette ‘Dune che cantano col vento’ (un calvario la salita: un passo avanti e due indietro, peggio della neve fresca); c’è quello pietroso, roccioso, qua e là sfidato da qualche incosciente forma vegetale; c’è quello terroso, trapunto di esili fili d’erba ben distanziati tra loro per non rubarsi quel poco di vita che possono succhiare da un suolo che non può dare ciò che non ha. Ti chiedi se i cammelli, imponenti e lanosi, abbiano elaborato un sistema per trarre alimento dall’aria. Peraltro secca. In alcune zone – per esempio quella del Dream Gobi Camp – godi della perenne compagnia del vento: una musica monocorde, forse la vera ispiratrice di certe nenie mongole. Folate che martellano e strapazzano tutto ciò che incontrano nella loro perenne migrazione senza ritorno, mulinando sabbia per ogni dove e giungendo a mettere al tappeto anche le massicce gher. Il vero problema è che il vento soffre d’insonnia: non trova pace nemmeno di notte, molesta incessante tende e timpani. Finisci col non chiederti più perché da queste parti non cresce vegetale più alto di un filo d’erba. Il Gobi è noto, oltre che per la sua estensione, perché i dinosauri l’hanno eletto a loro cimitero a cielo aperto. Ricchissimi giacimenti di scheletri e ossa sparse, in bella vista come si trattasse di merce in vendita sulla bancarelle di uno dei tanti mercati mongoli. Ovviamente non è che te li trovi spaparanzati davanti nel punto dove la guida mongola ti fa sgambettare un po’ per sgranchirti le… ossa. Dovresti addentrarti chissà quanto, sempre che qualcosa sia sopravvissuto ai predatori ufficiali e non. In ogni caso, se anche ne trovassi correresti grossi rischi a portarteli a casa, questi scheletri fuori taglia. Osservando l’attuale desolazione e l’assenza assoluta di vegetazione, una spiegazione ti verrebbe spontanea sulla improvvisa fine dei dinosauri: morti di fame. L’altra spiegazione è che questo fosse solo il cimitero; resta il dubbio su come li trasportassero qui. Quando lasci il sud e ti sposti al centro e poi al nord, cambiano paesaggio e temperature, soprattutto la notte. Il verde prende il posto del color sabbia e roccia; il terreno si movimenta, trova slancio verso il cielo e si copre di vegetazione anche arborea. Compaiono i fiumi. In un piccolo angolo di paradiso, addirittura, la neve sostituisce la sabbia e suggerisce un caldo clima natalizio. Caldo sul piano emozionale, tanto per capirci. Quello della escursione termica è uno dei fenomeni più impressionanti per noi, abituati ad estati senza respiro notte e giorno. Qui puoi sudare finché il sole galleggia sull’orizzonte, ma appena si tuffa dentro la notte, gli spruzzi che solleva ti si ghiacciano addosso. Finisce che la maggior parte del nostro gruppo si abbronza nel deserto ma si becca raffreddori e tosse non appena si sale a nord. Fortuna che nelle gher ti fanno trovare stufa e legna, anche se ti senti un po’ rimba perché te le devono venire ad accendere loro. Una vera oasi di pace per i sensi e per lo spirito (siamo pur sempre in area buddista) è la zona del lago Khovsgol, a due passi dalla Siberia Qui ti scordi deserto, roccia, sabbia, brullo, arso… Un autentico angolo di paradiso, a qualsiasi religione tu appartenga. Sarà che ci parcheggiano in uno dei più bei Camp di tutto il viaggio; sarà che questo enorme specchio d’acqua ha colori e trasparenze che nemmeno il più sofisticato televisore a sedici milioni di colori potrebbe rendere. Te lo devi venire a vedere qui, punto e a capo. Certo che la scarsa (eufemismo) densità di popolazione aiuta non poco a mantenere intatte le bellezze naturali. Hai l’impressione che qui, una volta chiusa la stagione turistica, il lago si ghiacci e trasmetta questo suo peculiare stato al resto del paesaggio. La bellezza congelata. Alla lettera, fra pochi mesi. Di notte, poi, quella luna piena che si replica tremolante sulla superficie del lago nero-notte… mi si dia pure del tardoromantico e del rincoglionito d’anni, ma ti verrebbe voglia che ci fosse un’orchestra di grilli-Pollini per moltiplicare all’infinito i notturni di Chopin. E chi se ne frega se le docce delle donne non funzionano tutte e il bar del ristorante ha esaurito la scorta di superalcolici! A proposito di campi turistici e alloggi. Fuori Ulaan Baatar si dorme sempre nelle gher, per lo più ben tenute e confortevoli: alcune con qualche problema di manutenzione, altre addirittura di lusso. Il vero problema può sorgere con i servizi: gabinetti e docce sono sempre in comune, magari lontani dalle tende, magari non sempre ben tenuti (ma sempre puliti), magari con l’acqua fredda, magari con le docce a vista. E’ che noi non ci siamo abituati, a differenza dei nordici e questa offesa alla privacy può risultare indigesta a qualcuno. Problemi con il cibo, mai, così come con l’igiene. Ovvio che, dormendo in mezzo alla natura e non negli alberghi di città, capita di trovarsi la gher popolata dai normali abitatori della zona: varie tipologie di piccoli insetti neri e grosse mosche. Causa i problemi di incomunicabilità linguistica, il problema della convivenza è stato risolto da alcune impavide signore del nostro gruppo mediante reiterate irrorazioni di DDT locale. Con buona pace (eterna) dei poveri coleotteri. La vera asprezza del viaggio in Mongolia sta nelle sue strade, cioè nel fatto che non esistono. Sono, per lo più, piste appena tracciate, spesso solchi lasciati dal passaggio dei fuoristrada. Capita anche, soprattutto nel sud, nelle zone desertiche pianeggianti, di caracollare a piacimento senza seguire tracciati visibili, navigando a vista, come barche sull’acqua. I cartelli stradali sono più rari degli UFO nel centro di Roma: chi li ha visti mai? Gli autisti delle nostre Toyota Land Cruiser sono di una abilità forse innata, trasmessa loro dagli avi che solcarono le steppe senza GPS e bussole. Certo, per noi è impossibile affermare che non si siano mai persi: se anche fosse successo, chi mai se ne sarebbe accorto? Sta di fatto che non abbiamo mai avuto l’impressione di marce indietro o ritorno sui nostri passi. Mi sento di sconsigliare la navigazione mongola a chi ha la schiena che soffre di mal di mare: potrebbe anche non essergli del tutto grata per questo regalo. Ore e ore – a volte proprio tante – di continue sollecitazioni, sballottamenti, salti, montagne russe… pur mitigati dalla tecnologia dei 4x4sauri giapponesi, ti portano a sera che le buche delle nostre strade te le ricordi con struggente nostalgia. In compenso ti evaporano dal vocabolario sostantivi quali ‘traffico’ e ‘smog’. Ah: pure i problemi di parcheggio non vanno tanto per la maggiore, qui. I cieli che ho visto in Mongolia me li sognerò a lungo, nelle notti mai buie di Roma. Dall’azzurro più celeste e turchino ai blu di Prussia più intensi che possa immaginare anche il più fervido dei creativi dopo un’overdose di Blue Stilton. Celestini impalpabili disseminati di eterea bambagia che ti sembrava di stare in un quadro di Magritte mentre lo dipingeva. E i cieli notturni, quando i generatori dei campi turistici toglievano il disturbo audio-visivo e il silenzio veniva solcato soltanto dalle stelle cadenti… la via Lattea che sembrava di guardare New York dall’alto… Finiva col nodo alla gola: come è stato possibile per l’Uomo degradarsi da un simile spettacolo notturno ai reality-show, ai talk-show, alla televisione in genere? Capite allora quanto sia stato doloroso, angosciante l’impatto con la Capitale Ulaan Baatar dopo sedici giorni di occhi-nasi-orecchie liberati da ogni fastidio procurato dalla civiltà tecnologica. Vedi apparire già da molto lontano una nube densa e bassa, come una nebbia sotto il cielo sereno ma già slavato, senza l’ombra di un Magritte anche in sordina a dargli dignità. Smog. Ciminiere che vomitano carbone e non si sa che altro. Colonne di auto perennemente in marcia in un eterno stato di stallo; andatura scandita da clacson impazziti che duellano fra loro come orchestrali guidati da partiture ubriache. Ti prende la depressione più assoluta, il cocente bisogno di ordinare la marcia indietro e rituffarti nel nulla dei nomadi, alla faccia delle scomodità e dei sobbalzi. Questo è il futuro che gli si prepara, ai fieri discendenti dell’esercito di Cinghis Khan, dopo aver percorso milioni di chilometri a piedi o a cavallo liberi come il vento, liberi anche di morire di fame e di freddo perché quella era comunque la loro vita? Non voglio chiudere con la retorica, non voglio condannare nessuno a vivere schiavo di un passato se gli è diventato sgradevole e pesante da gestire. Ma lasciatemelo dire: che tristezza vedere una discarica di rifiuti tossici in un parco naturale. Cose che si vedono in Italia, ci mancherebbe.


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