Nella terra di Gengis Khan
Perdersi in mongolia.
In tutti i sensi. Ci si perde mentalmente e ci si perde fisicamente.
Non solo è il paese con meno strade al mondo, ma è anche il paese con meno coordinate al mondo…mancano i punti di riferimento. Si percorrono chilometri e chilometri e nulla. Non c’è nulla. A volte neanche un cammello. Una capra. Un nomade in moto. Niente. Ci sei tu. Finchè ci sei. Poi anche la tua mente comincia a vagare e ti trovi a cercare con gli occhi un punto da fissare, che non sparisca. Benvenuti alla radice dell’essere. Perché l’essere, lo scopri, si radica davvero alla vita.
Primo giorno:
Già durante lo scalo a Mosca avevamo conosciuto i nostri compagni di viaggio con i quali avevamo già fatto conoscenza tramite mail, ad eccezione della sesta componente che conosciamo all’uscita dell’aeroporto di Ulaanbaatar assieme alla nostra guida, una giovane bella ragazza che si chiama Doghi.
L’hotel – Bisherelt- ha quel non so che di sovietico che lo rende poco attraente. Ma va bene. Sono stanca e ho bisogno di un paio d’ore di sonno.
Il primo contatto con il cibo mongolo è il classico barbecue. La caratteristica è che i cuochi usano delle sciabole non tanto per tagliare la carne, ma per “girarla “ sulla piastra rovente assieme alle carote o ai tagliolini . Nel pomeriggio andiamo a vedere il palazzo dove ha vissuto l’ultimo re mongolo. Già qui comprendiamo che la nostra guida non conosce il palazzo e non parla granchè bene l’italiano.
Secondo giorno:
La mattina visitiamo il tempio Gandan e assistiamo alle preghiere dei monaci. L’atmosfera è bella. Vedo per la prima volta i monaci con indosso i caratteristici copricapo gialli. Nel pomeriggio tour di musei: quello di storia naturale dice poco, però ci sono le uova e i resti dei dinosauri ritrovati nel Gobi. Carino è invece il museo sulla storia del paese.Una storia alquanto intensa e travagliata.
La sera, sotto un temporale pazzesco, Doghi si presenta con scarpe tacco 12 cm, ci informa che siamo senza autisti che si rifiutano di venire e senza taxi, però, ci dà anche buona notizia: il ristorante è vicino. Basta superare il guado al buio e in un attimo ci siamo. Ah, beh, bastava dirlo.
Tutta questa fatica per arrivare in un ristornate russo dove di fatto non abbiamo toccato cibo..
Terzo giorno
Piove ancora. Usciamo dal traffico mortale della città e appena fuori , come per magia, comincia a sparire tutto : case, strade, auto. La pista tracciata nell’erba è ben visibile. Il nostro autista, Tahuna, parla solo mongolo. Siamo noi due e Marco con il quale cominciamo a fare conoscenza. La pista è in pessime condizioni, si salta molto e dopo un po’ Andrea comincia a risentirne. Ogni tanto dobbiamo fermarci e ad un certo punto non vediamo più l’altra auto guidata da Buba, che è l’unico che sa dove va Il paesaggio è infinito. Dove sarà ? Io guardo con lo zoom della videocamera , Andrea e Tahuna hanno dei binocoli. Dopo un po’ è Andrea che ha l’impressione di vedere un punto in movimento. Non siamo certi, però continuiamo a procedere in quella direzione sperando che sia giusto. Dopo ancora del tempo ci avviciniamo e ci sembra sia giusto. Ma tentenniamo. Ancora dopo. Si, sono loro. Ma perché quel punto non si avvicina mai abbastanza ? semplice perché Buba non si ferma. E infatti non si è fermato mai. Procediamo e dopo un bel po’ ad una sorta di paese con pompa di benzina, Buba stranamente si arresta e lascia che noi andiamo avanti. Ovviamente non sappiamo né dove vadano loro né dove andiamo noi. Il paesaggio cambia. Ora non è più verde. Non piove più. E’ diventato sassoso. Ci fermiamo su un punto davvero splendido e spunta il pic nic: dei fantastici ravioli di carne di capra fritti e freddi. Sarà anche l’ultima volta che io mangerò carne.
Purtroppo la cucina mongola è davvero sfidante. Anche nei giorni precedenti la carne di capra era sempre comparsa : sotto l’aspetto di raviolo al vapore o fritto. In alternativa carne d’agnello cotta su sassi bollenti oppure insalata di cetrioli, pomodori e verze in varie forme : a cupola, sparpagliata, con maionese.
Arriviamo nel nostro primo campo gher. L’impatto non è dei più semplici. Il campo è posizionato nel nulla. Su un prato erboso ai piedi di grossi massi. La posizione è molto bella, ma le gher sono super spartane. Ci sono due lettini e un tavolino. La struttura ha un certo olezzo probabilmente perché sembra fatta con ossa di capra. Fa un freddo e un vento pazzeschi. Per fortuna c’è una stufa all’interno. Di notte verranno ad accenderla con sterco di …boh, qualunque animale. Il punto è che il tetto della tenda resta in parte aperto per permettere alla canna fumaria della stufa di uscire dalla tenda. Peccato che una volta spenta la stufa entri un’aria gelida. Per tutta la notte. Per cui sacco lenzuolo, maglione, cappello e via dicendo. La gestione del campo però è proprio apprezzabile. La ragazza che serve nella gher ristorante è molto graziosa e gentilissima.
Il pomeriggio abbiamo visto alcuni graffiti e soprattutto abbiamo fatto una visita a quel che resta di un monastero. Infatti nel 1938 per volere di Stalin, nell’ottica di portare il comunismo e dunque l’ateismo in mongolia, i monasteri sono stati praticamente tutti distrutti e i monaci in gran parte o uccisi o deportati in Siberia. Il posto è meraviglioso, ma il freddo pungente la fa da padrone. Incrociamo delle famiglie mongole negli abiti tradizionali. La scena è proprio d’effetto.
Quarto giorno
Si parte. Ovviamente non si sa per dove. Con il tempo impareremo che è un domanda senza senso. Come anche pretendere di sapere dove si è. Meglio sforzarsi di non farci troppo caso.
Al massimo la risposta è nel Gobi. Come se il Gobi fosse un fazzoletto di terra.
Ci godiamo il paesaggio che scorre. Ogni tanto si incrocia una gher. I mongoli sono nomadi moderni. Diverse gher hanno parabola e pannello solare, un cane e una moto sovietica parcheggiata fuori. Sulla strada incrociamo dei resti di …boh, forse una rocca e di un monastero di legno. Il paesaggio cambia ancora : la terra si spezza perché arida, come si vede in certe immagini africane e poi si fa sabbia.
Siamo arrivati al campo Gobitour. All’entrata c’è la sagoma di un dinosauro. All’interno del campo c’è un canestro. Da qui in poi troveremo spesso canestri per la pallacanestro. Fa caldo. Felici ci mettiamo tutti e 9 a giocare a tirare la palla. Faccio canestro anch’io. Che soddisfazione !
I bagni sono belli puliti. Ne approfittiamo per darci una sistemata e lavare qualcosa e poi la sera ci godiamo un tramonto meraviglioso. Siamo a ridosso delle rupi fiammeggianti di Bayanzag. Lo sospettiamo, ma non lo sappiamo con certezza.
Quinto giorno
Andiamo a vedere le rupi. O meglio ci entriamo dentro. Il paesaggio è lavorato dalla natura che dà spessore e profondità al paesaggio. La terra è friabile. Siamo sulla stessa terra che a metà degli anni venti Granger ha graffiato, spolverato e spolpato alla ricerca dei dinosauri. Un esploratore visionario cui si devono queste scoperte. Di lui ora sul posto resta una gher-museo con qualche immagine.
Andiamo a fare visita a una famiglia che vive lì poco distante. Sono molto gentili. Noi arriviamo con una borsa della spesa e la mamma è molto contenta. Ci offre del latte di cammella. Mi bagno giusto le labbra, non vorrei correre rischi…Facciamo una passeggiata sul cammello. La visione del deserto a dorso di cammello è sempre un’altra cosa dalla jeep.
Solo verso mezzogiorno riusciamo a farci portare sulla sommità che permette di vedere il paesaggio più dall’alto in una vista di insieme. Come al solito Doghi non sapeva dove portarci.
A pranzo, a sorpresa , torniamo al Gobitour dove ci fanno vedere un filmato con immagini d’epoca della spedizione. Non so proprio come abbiano fatto le macchine di allora ad arrivare lì.
Ripartiamo. Lasciamo il deserto e all’improvviso ci ritroviamo in montagna. Un fiume scorre tra le rocce. Siamo nella valle delle aquile. Facciamo una piacevole passeggiata anche se di aquile ne vediamo giusto un paio e anche lontane. Qui dovrebbe esserci una conca con dei ghiacci perenni.
Beh. Non sono perenni. Arriviamo al calar del sole al Gobi Mirage. L’idea di trovarmi “per strada” senza luce non mi alletta. Facciamo giusto in tempo. Ci vengono ad accogliere all’entrata in costume tipico e ci offrono una tazza di latte. Si usa così e bisogna bere. Comunque è buono.
Anche qui come al Gobitour le gher vanno bene: sono in ordine, pulite, anche se c’è sempre il cuscino più duro del mondo e il materasso più spaccaossa che ci sia.
Sesto giorno
Prima di partire una simpatica sciamana ci benedice le auto e ogni ruota singolarmente.
Siamo ignari di quello che ci accadrà d’ora in avanti.
Intanto il programma , che per altro si era tenuto Doghi per confrontarlo con il suo in inglese, non ha più alcun senso. Il giro è diverso, per cui il disorientamento aumenta.
Paolo cerca di farsi spiegare da Buba il percorso, cartina alla mano , ma non è così utile..
Maciniamo chilometri sempre a rincorrere Buba che va come un pazzo.
Ad un certo punto Andrea sente un rumore. Tocca la spalla di Tahuna che capisce di fermarsi: c’è una gomma squarciata. Tahuna dice un paio di “za za “, che è un loro intercalare, e poi si prepara al cambio gomma. Dopo una mezz’ora ripartiamo. Breve tappa ad una pompa di benzina e poi tutta una tirata fino al nuovo campo. Siamo fronte dune con montagne alle spalle e steppa verde davanti. Sembra un dipinto. In mongolia l’idea del business turistico è veramente agli albori per cui non ci sono quelle banali comodità che in altri posti trovi tipo, che ne so, una sdraio per godersi il paesaggio…vabbè poco male metto assieme due scomode seggiole e mi rilasso ugualmente. Sorseggio una coca cola. Scaduta , esattamente come qualunque altra bibita, birra e bottiglia d’acqua durante tutto il viaggio. Sto bene. Non abbiamo idea di a che ora andremo sulle dune. Non si usa dare un orario. Prima o poi.
Alla fine sulle dune ci andiamo. Faticosa scalata, ma il paesaggio dall’alto ripaga degli sforzi.
Settimo giorno
Andiamo, andiamo, andiamo. Sono ore che non incontriamo neanche un cammello. Mi chiedo se sappiano dove stanno andando. Vediamo degli avvoltoi sopra le nostre teste e qualche scheletro di animale. Sembra un film western. La macchina fa di nuovo un rumore poco rassicurante. Ci fermiamo e di nuovo Tahuna si mette li e comincia a smontare ruota e cerchione. C’era della sabbia che si era infilata tra gli ingranaggi. Per fortuna niente di grave. Dopo un po’ si riparte.
Finalmente un incontro gradito. Incrociamo una famiglia di allevatori di capre, cammelli e cavalli. C’è un pozzo. Ci fermiamo a socializzare. La moglie è tutta coperta, anche in viso, con una sciarpa. Credo per motivi pratici. Ho con me dei saponi, così mi avvicino e gliene regalo uno. Sembra proprio contenta. Io vado a vedere i cavalli e lei si avvicina e mi offre di salire a cavallo. Direi che abbiamo fatto amicizia.
Poi ancora ore di nulla. Fino a che , di nuovo, ci perdiamo. Si torna a brancolare nel buio. Da che parte si va ? Vedo un qualcosa di nero su una piccola sommità e nella speranza sia un’auto andiamo in quella direzione. Non è un’auto, ma – bontà divina- c’è una gher con un cane e due signore. Una di loro si mette a dare una lunga spiegazione a Tahuna di dove sia il tempio di Ongjin.
Le spiegazioni mongole delle strade meriterebbero un capitolo a parte. Sono narrazioni lunghissime, che ,noi non capivamo, ma siamo certi – ancestralmente – che fossero narrazioni ricche e variopinte e non mere indicazioni destra e sinistra. Anche perché senza punti di riferimento la destra e la sinistra lasciano il tempo che trovano.
Perdersi nel gobi lascia spazio all’immaginazione. Non bisogna perdere il sangue freddo. Io comunque avrei ucciso volentieri Doghi e Buba se li avessi avuti lì tra le mani in quel momento.
Dopo circa un quarto d’ora si vede una nuvola di terra sollevarsi : erano loro che arrivavano.
In quella parte di deserto anche Buba sembra disorientato. Fortunatamente da qui in avanti cominciamo ad incrociare qualche anima in moto. Inutile chiedersi da dove arrivino e dove vadano. Passano. Dopo circa 8 ore dalla partenza superati tutti i paesaggi possibili: steppa, bassa, alta, cespugliosa, monti, rocce, colori gialli, rossi e viola e tutte le tonalità di arancio finalmente arriviamo in una vallata dove compaiono i resti del tempio di Ongjin e dove si nota bene il letto di un fiume, ore asciutto. Certo con l’acqua deve essere davvero una meraviglia.
Mi riprendo dalle forti emozioni e poco dopo ci incamminiamo allo scoperta dei resti del tempio. Solo una piccolissima parte è stata ricostruita e una gentile signora fa da guida. Che posto!
Anna aveva con sé delle buste di minestra liofilizzata ed era già qualche sera che speravamo Doghi desse istruzioni per farla, ma niente…Allora abbiamo superato le barriere linguistiche ed entrando in cucina siamo riusciti a spiegarci. La gentile cuoca si è prestata e siamo riusciti anche in questa impresa.
Ottavo giorno
Oggi sappiamo che la meta è Karakorum. Paolo non sta molto bene per cui quando arriviamo al tempio di Shank ci aspetta in auto. C’è una bella atmosfera. Un monaco bambino conduce le preghiere. E’ dotato di grande carisma e i monaci lo seguono. Come gli altri templi, anche questo è molto colorato. Le valli che percorriamo sono verdissime. Ormai ci siamo lasciati alle spalle il gobi.
Il campo tendato Anar è veramente un disastro. I mongoli non tagliano l’erba, per rispetto verso la natura- dicono-. Pertanto scarafaggi e ragni sono ovunque.
Facciamo una bella passeggiata e ci godiamo il fiume lì vicino e alcune scene idilliache e agresti tipo cavalli che si abbeverano e bambini che si fanno il bagno. La sera c’è un piccolo spettacolo di musica tradizionale e una bambina contorsionista. La musica mi piace. Emettono un suono diatonico tutto particolare.
Nono giorno
Visitiamo il tempio di Erdene Zuu, quello che si vede in ogni depliant che presenti un tour in mongolia, e poi si torna al campo.Per carità non è proprio posto dove restare un pomeriggio per cui nuova scarpinata fino a che non ci compare una visione : un resort dal nome incantato: Dream land
Non sembra vero. Ci sono gli alberi e c’è un corpus centrale che sembra uno chalet alpino. Certo non mancano le gher, ma sono extralusso. Brillano dalla pulizia e hanno addirittura frigo e aria condizionata. A completare la visione appare anche la gher ristorante dal nome La dolce vita. Si mangia pasta. Non occorre aggiungere altro chiediamo se c’è posto e decidiamo di passare la notte lì. Anna e Paolo si fanno traviare e decidono di seguirci. La notte sarà ristoratrice e la pasta cotta a puntino ci dà una dose di forze e buonumore!!
Decimo giorno
Finiamo a casa di uno zio di Buba. Sono molto ospitali. Noi decidiamo di fare un giro a cavallo. Un ragazzino ci fa da guida e Anna ci segue per un pezzo a piedi facendoci un reportage!
I paesaggi sono proprio ameni e si vive ad un ritmo davvero più che a misura d’uomo. I mongoli non ci sembrano infaticabili lavoratori quanto piuttosto orientati a fare giusto quel che serve e nulla più. Nel pomeriggio ci troviamo ad attraversare una zona ancora diversa con continui laghetti in prossimità di sabbia e qualche albero. Salvo errori dovremmo essere nel bayangobi.
Vediamo Buba in un punto impossibile da guadare e noi 4 pensiamo che torni indietro. Invece no. Va avanti e si ritrova infangato. Ci viene da ridere. Per una volta non è la nostra macchina ad avere problemi. Ci godiamo la scena. Mentre sono capaci di cambiare ruote, i due autisti non sono proprio in grado di venir fuori dal fango. In più non ascoltano i nostri suggerimenti. Paolo è appassionato di fuoristrada per cui sa come fare, ma niente. Dopo due ore nelle quali ci siano goduti le scene, decidiamo di prendere in mano la situazione. Anna ed io andiamo ad una fattoria distante circa 500 metri dato che con la videocamera si vedeva bene che avevano un camion. E infatti riusciamo nell’impresa di farci capire e arriviamo con i rinforzi. Nel frattempo avevano trovato un aiuto con una jeep di passaggio e ormai le operazioni di salvataggio erano a buon punto.
Altro tempio bellissimo e poi al campo gher, che è un po’meglio messo.
Undicesimo giorno
Dopo il trasferimento, nel pomeriggio andiamo a visitare il parco Hustai.
E’ conosciuto perché qui si trovano i cavalli della razza taki, che di fatto si era estinta in mongolia. Riusciamo nell’impresa di vederli e ne siamo felici. Il parco è molto bello e abbiamo una guida che ci canta anche delle canzoni rendendo l’atmosfera magica.
Il campo gher è il peggiore di tutti, ma ha una sala gher con biliardo, luci e musica da atmosfera anni 70. Alquanto kitch.
E’ l’ultima notte in campagna. Si sentono gli zoccoli dei cavalli selvatici e un gran silenzio.
Dodicesimo giorno
Ad un certo punto si vede la coltre di inquinamento sopra Ulaanbaatar. Tahuna non vede l’ora di arrivare e schizza alla super velocità. Già da qualche giorno – immaginiamo noi- soffre di allergia per cui preme per andare da un medico. Durante il tragitto ha cercato qualche farmacia ma –ci è parso di intendere- senza successo.
Dedichiamo la giornata ad un po’ di shopping in una sorta di Rinascente mongola e soprattutto troviamo il ristornate La dolce vita , gemello di quello di Karakorum. Qui Doghi ci presenta un italiano che vive da qualche tempo in mongolia e che ci racconta un po’ com’è la vita lì. E’ un bel pomeriggio.
Il viaggio volge al termine. Si può dire che la mongolia sia il modo più rapido per tornare al 1200 e farsi un’idea di come si viveva. Abbiamo forse imparato poco su Gengis Khan, ma senza dubbio abbiamo compreso quanto quest’uomo sia stato un geniale precursore dei tempi.
Ricorderemo sempre con piacere le tante persone che abbiamo incrociato in questo percorso e gli stupendi paesaggi visti.
Circa l’organizzazione di www.mongolia.it che si appoggia sull’agenzia mongola Mondiscovery si sono dimostrati al di sotto delle aspettative per cui non ci sentiamo proprio di raccomandarli.
Certo il paese è agli albori del turismo, ma qualcosa in più si poteva davvero fare. Inoltre il contatto italiano si è dimostrato solerte al momento della prenotazione del viaggio, ma carente al nostro ritorno alla nostra segnalazione delle mancanze avute.
L’ultimo giorno al ristorante abbiamo conosciuto Tsevegdorj Ganbold direttore dell’ agenzia di viaggio mongola che ha a che fare con i ristoranti la dolce vita e con il resort dream land. Ci ha fatto una buona impressione.
Infine un grazie infinite a Paolo, Anna e Marco che sono stati degli insostituibili compagni d’avventura e alla lonely planet che a tratti ci ha dato l’impressione di capire cosa stessimo vedendo.