In Iran tra mille bellezze e mille incoerenze

Deserti contornati da picchi rocciosi, campi ordinatamente coltivati, la magnificenza di Persepoli, la splendida simmetria della piazza a Esfahan…
Scritto da: francoarcturus
in iran tra mille bellezze e mille incoerenze
Partenza il: 17/08/2014
Ritorno il: 28/08/2014
Viaggiatori: 12
Spesa: 2000 €
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Nella tranquillità della mia casa ho tutto il tempo per ripensare a questa preziosa esperienza in un paese penalizzato da una fama che non gli rende giustizia. Se mi avessero detto che gli iraniani sono un popolo così gentile non ci avrei mai creduto. Premesso che l’inglese è diffusissimo, continuamente siamo stati interpellati per strada da gente sorridente, sia uomini sia donne e specialmente giovani e bambini, che ci coinvolgevano per scattare una foto, s’informavano da dove venivamo o semplicemente ci auguravano “welcome in Iran” e cercavano di scambiare quattro chiacchiere. Donne bellissime ed eleganti avvolte nel chador nero che le copriva fino a terra, ma anche ragazze vestite con un semplice foulard non di rado colorato e vivace, portato in modo da lasciare scoperta gran parte della capigliatura senza infrangere la legge; io che ho sofferto così il caldo, mi chiedevo come potessero sopportare una tale “tortura”. La vita pubblica offre ben poche possibilità di svago quindi i giovani s’inventano situazioni ricreative lontane da occhi indiscreti organizzando feste private. Per le donne, queste feste sono l’occasione ideale per esprimere la propria femminilità. Per una sera possono indossare abiti colorati, scollati, molto appariscenti e sfoggiare acconciature libere dal velo, per poi tornare, il giorno successivo, come cenerentole, alla sobrietà richiesta. L’attenzione per l’estetica raggiunge talvolta livelli maniacali, probabilmente proprio come risposta alla morigeratezza imposta dall’alto. Ricorrere a un trucco molto marcato e alla chirurgia estetica al naso è molto comune; il cerotto post-operatorio, anziché generare disagio, provoca quell’orgoglio tipico di chi si è allineato a uno status symbol. Ovunque abbiamo incontrato persone accoglienti e affascinanti in un ambiente ricco di antica cultura e pervaso da un rigoroso regime islamico. Un potere religioso che, attraverso quello civile, opprime e incanta un popolo particolarmente affabile, gentile, ospitale ed estroverso. L’Iran è molto diverso da come lo immaginavo: le città sono moderne e pulite, l’elettronica è molto diffusa, abituale l’uso dei condizionatori d’aria, innumerevoli i distributori gratuiti di acqua refrigerata, ottime strade e autostrade a tre corsie per senso di marcia, la gente è la più cordiale mai conosciuta, ma cartelloni, affreschi murali e foto dei leader religiosi e degli “eroi” sono onnipresenti a ricordare…

Non abbiamo mai usato gli ombrelli, anzi io ne ero sprovvista. Clima ovviamente molto caldo ma secco, temperature che hanno raggiunto anche i quarantacinque gradi di giorno, forse di più, ma gradevoli di sera. L’atmosfera è impregnata di una polvere impalpabile che si depositava su ogni cosa e impedisce di respirare liberamente; si nota ovunque la mancanza di precipitazioni da parecchio tempo. Per il caldo eccessivo dopo pranzo e fino a pomeriggio inoltrato, i negozi sono chiusi e c’è poca gente in giro, ma di sera le strade e i giardini sono animati fino a tarda ora. Gli iraniani stendono sui prati verdi dei parchi un tappeto e organizzano pic-nic all’aperto per godere del fresco della sera. I giardini pubblici, puliti e ben curati, sono il loro vanto e polmone di città molto inquinate. Il cuore commerciale è il bazar, luogo di gran vitalità, microcosmo di odori, sapori, suoni e colori, dove tutto si vende e si acquista, così grande da essere in pratica una città a sé stante. Ci siamo “persi” in quello di Teheran, di Shiraz e di Isfahan. Lunghi chilometri di corridoi, veri labirinti, universi magici che coinvolgono il visitatore. Suddivisi in strade, in ognuna delle quali si svolge un’attività diversa: la strada dell’oro, dei tappeti, del rame ecc. Oltre ai negozi, si trovano angoli inaspettati con moschee, giardini nascosti e ombrosi, punti di ristoro.

L’architettura, come in ogni parte del mondo, è stata influenzata da vicissitudini storiche, religiose e culturali sin da un’epoca risalente almeno al 5000 a.C. L’influenza più rilevante sugli stili architettonici fu quella esercitata prima dalla religione di Zarathustra e poi dall’Islam. La maggior parte degli edifici più grandi erano costruiti per scopi religiosi, persino le chiese cristiane hanno spesso incluso elementi islamici, ma le influenze della religione sono evidenti anche nelle costruzioni destinate ad altri usi. La moschea è ovunque nel mondo il simbolo dell’Islam. Le sue forme possono essere molto varie; generalmente consistono di un grande spazio aperto centrale, dove crescono alberi e fiori intorno ad una fontana e, di un grande ingresso principale, fiancheggiato da minareti cilindrici affusolati verso la cima e ricoperti di mosaici o piastrelle colorate, che si apre sul lato rivolto alla Mecca e introduce in un santuario coperto da una cupola. Sugli altri tre lati dello spazio centrale vi sono arcate e logge. L’Islam sciita è assai incentrato sul culto personale dei santi e dei martiri perciò mausolei o sepolcri sono assai frequenti in quasi tutte le città. Sono presenti altre tipologie di edificio: dalle sale da tè, ai meravigliosi padiglioni presenti nei giardini, ad alcune tra le più maestose strutture che il mondo abbia potuto vedere e i caravanserragli che, durante i secoli, furono costruiti lungo la Via della seta e utilizzati sia come alberghi per la sosta, sia come magazzini di deposito per le merci. Varie sono le caratteristiche fondamentali rintracciabili: una marcata attitudine per le forme e le proporzioni; un gusto geniale nella decorazione, inventiva strutturale, specialmente nella costruzione di volte e cupole. Le planimetrie inoltre sono per la maggior parte distribuite con disposizione simmetrica, con motivi geometrici ripetitivi e superfici riccamente decorate con piastrelle vetrate, mosaici e specchi, stucchi intarsiati, motivi in laterizi, decorazioni floreali e calligrafiche. L’uso di materiali da costruzione disponibili guidò in maniera determinante le forme principali. La disponibilità di argilla, facilmente recuperabile, incoraggiò la più primitiva di tutte le tecniche costruttive, con fango modellato, compresso ed essiccato al sole per ottenere mattoni. L’impiego dell’argilla non è stato ancora completamente abbandonato nel recupero di antichi villaggi; in abbinamento a paglia e a sterco di animali è un intonaco altamente isolante, anche se di scarsa resistenza al vento e alle piogge che peraltro in queste zone sono molto scarse. L’antico centro di Isfahan e il villaggio di Abianeh, che abbiamo visitato, sono un esempio di applicazione di questa tecnica giunta fino a noi perché applicata in siti dichiarati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità e, quindi, penso, sottoposti a vincoli come l’uso di antichi materiali per la conservazione. Nell’ultimo villaggio il risultato di un colore rossiccio è dato dal fatto che le montagne intorno, da cui è stata tratta l’argilla, sono ricche di materiale ferroso. Questo viaggio è stato deciso nonostante le perplessità e i timori da parte di parenti, amici e conoscenti; volevo scoprire questo paese, così anomalo nel contesto geografico, politico e religioso; così diverso in tutto e per tutto, così chiuso al resto del mondo. Il gruppo della Coritour composto di quattordici persone: Franco e Tino, gli efficienti e perfetti organizzatori del viaggio, Cecilia e Betta, le rispettive consorti, Francesca e Livio, Ornella e Francesco e le due coppie “anomale” Maria Rosa e Anna, Dodi e Marisa, arrivia il 18 agosto 2014 ad Akia con volo da Roma raggiunta dall’aeroporto di Genova lasciato il giorno precedente. Il volo è stato spettacolare: nel cielo notturno brillava la costellazione dello scorpione e una stella cadente ci ha dato il benvenuto con la sua scia luminosa. Sorvolando il deserto buio, sotto di noi spiccano le ragnatele di luci delle città turche e, sull’Iran, lunghe strisce che si snodano verso il nulla. Infatti, l’ultima sera del nostro viaggio, raggiungendo in pullman Teheran attraverso Qom, sono rimasta impressionata proprio da questo serpente d’asfalto lungo chilometri e illuminato da luci arancioni. Prima della discesa dall’aereo le hostess suggeriscono alle donne di indossare il velo, che in questo paese è obbligo di legge. Le operazioni alla dogana sono molto veloci anche perché noi avevamo già il visto sul passaporto ottenuto al consolato iraniano di Milano. All’uscita troviamo la nostra guida Leila Honarmand che ci sta aspettando con un omaggio floreale di benvenuto. Quando sei in volo verso una meta ambita, dimentichi tutto, anche che siamo arrivati in hotel a Teheran alle cinque del mattino dopo aver atteso inutilmente quasi cinque ore all’aeroporto di Roma-Fiumicino a causa, così ci è stato riferito, di un problema tecnico all’aereo. Eravamo tutti stanchi e assonnati, ma ci sentivamo sereni e felici. Mi sono addormentata facilmente in una camera un po’ tetra dell’Hotel Atlas, ma in seguito ho modificato la mia prima impressione, perché al ritorno, soggiornando nello stesso hotel, mi sembrava di essere in paradiso. Abbiamo iniziato la nostra “avventura” da Teheran, poi verso sud per Ahwad a visitare il passato più remoto degli aggregati urbani, a Susa per i palazzi di Dario I e verso le cascate e i mulini di Shoushtar; siamo stati all’antica Bishapour, a Shiraz, spensierata e moderna; a Persepoli e a Yazd, ricca di tradizioni e più conservatrice, ai confini dei deserti; a Isfahan, città d’arte, progressista e colta.

Per tutto il viaggio abbiamo sperimentato la buona cucina iraniana ma anche la sua scarsa fantasia. S’inizia con un buffet di verdure crude e sott’aceto, profumatissime e gustose schiacciate di pane, zuppe di legumi, yogurt con erbe e cipolla, per proseguire con il piatto principale composto di carne: il kebab di vitello, di pollo, di agnello, con verdure stufate come carote e melanzane, con uso di salse e spezie, il tutto accompagnato dall’immancabile pilav, il semplice riso bianco abbondantemente spruzzato di zafferano che non manca mai sulla tavola. Naturalmente non è servita alcuna bevanda alcolica, proibita per legge; esistono però alcune birre aromatizzate di produzione nazionale. Al tavolo dei ristoranti sono assenti i coltelli; era così anche in Laos e Myanmar, non ne ho mai capito la ragione.

La sistemazione e l’arredamento dei ristoranti sono all’occidentale per i turisti e in stile tradizionale per i locali. La loro tavola è apparecchiata sopra un grande tappeto steso su un profondo “divano-letto” su cui si servono e mangiano seduti a gambe incrociate. Ho avuto la sensazione che la polizia sapesse in ogni momento dove eravamo, in quale città e in quale albergo, perché il driver si recava spesso ai posti di blocco, presumo per comunicare la nostra posizione o perché ogni autobus di lunga percorrenza è tenuto a rispettare una tabella di marcia assai restrittiva, che è controllata dalla polizia all’entrata e all’uscita dalle città. Eravamo consapevoli di situazioni limite, tuttavia molto tranquilli e rilassati, fino a quando, al ritorno della visita a Ebianeh, mentre stavamo per immetterci sulla via principale, siamo stati bloccati da una coppia di giovani soldati armati di mitra. Io che mi sono resa subito conto della situazione, ho avvisato Dodi con tono deciso: “Mettiti subito il velo e copriti il decolté (eufemismo)!” L’autista ha bloccato il pullman e con la nostra guida è sceso per parlare ai poliziotti; uno di loro è salito sul mezzo a controllare ma, resosi conto che eravamo innocui perché la maggior parte di noi era profondamente addormentata, è risceso e siamo potuti ripartire quasi subito. Abbiamo chiesto a Leila il motivo del blocco e ci ha risposto un po’ evasivamente che avevano intercettato con mezzi “supertecnologici” il nostro tentativo di fotografare la zona. In realtà avevamo attraversato proprio un sito nucleare; mezzi antiaerei e installazioni evidenti ci facevano capire che era controllato militarmente. Da quel momento siamo diventati più attenti e vigili ad eccezione di Dodi: ogni giorno che passava, si dimostrava più insofferente al velo.

17-18 agosto

Abbiamo iniziato la nostra esplorazione da Teheran, città piena di vita, nella quale il ventaglio cromatico, l´anarchia del traffico con auto piuttosto vecchie e con petrolio poco raffinato, provoca una sensazione di sorpresa, insicurezza e stordimento. La città si estende su una vasta superficie alle pendici della catena montuosa Alborz a 1500 metri di altitudine. La modernità arrivò con la dinastia Pahlavi e la scoperta del petrolio. Le muraglie furono demolite e Teheran crebbe a un ritmo accelerato. Oggi è in continua crescita ed è una delle città più popolose del mondo: la sua popolazione metropolitana supera i diciassette milioni.

La prima necessità è recarci da un cambiavalute; il cambio è favorevole e la vita non è assolutamente cara. Abbiamo cambiato cento euro con milioni di rial, ciò denota lo scarso valore della moneta locale, quasi prossimo alla carta straccia!

Gigantografie, murales e foto stampate su sostegni a forma di tulipano, s’incontrano ovunque a ricordare i capi supremi e i morti nel conflitto tra Iran e Iraq. Questo modo di celebrare i caduti, che per la patria islamica sono venerati come santi e martiri, è diffuso ovunque, dai piccoli centri fino alla capitale, dove i ritratti assumono la forma di grandi dipinti murali. L’Iran non vanta certo una delle più deliziose capitali del mondo: se vi aspettate un esotico crocevia di strade immerso nello splendore orientale, rimarrete amaramente delusi. Le distanze sono enormi, ci saremmo persi facilmente senza una guida e, come ho già scritto, il traffico è così spaventoso da lasciarvi scioccati.

Immerso in un affascinante giardino che costituisce un’oasi di pace nel convulso traffico del centro, sorge il Palazzo Golestan (“Palazzo dei fiori o delle rose”), è la residenza storica della dinastia reale Qajar e il più antico monumento della città. In realtà è un complesso di edifici all’interno di un recinto fortificato e circondato da canali. I palazzi del complesso sono magnificamente decorati. Dall’ingresso, attraverso i giardini dove campeggia una fontana rettangolare, arriviamo fin sotto la loggia del “Trono di marmo” ovvero la sala del trono di onice ornato da figure antropomorfe, floreali e animali di fine fattura e la volta ricoperta con tessere di cristalli a specchio. Poco oltre, sulla sinistra, si apre il padiglione costituito da un ampio porticato rivestito di tessere di mosaico, con un trono nel centro e delle fontane ai lati. Da un altro ingresso si accede allo scalone d’onore, anche qui la volta è rivestita di tessere a specchio, una tecnica diffusa anche in altri edifici civili e religiosi. Al primo piano è situato il salone dei ricevimenti, riccamente decorato di stucchi e marmi, con un pavimento di piastrelle policrome. Lungo il percorso sono collocati numerosi doni che i sovrani hanno ricevuto dalle potenze straniere nell’arco di vari secoli. Sul fondo della sala vi è la riproduzione del celeberrimo Trono del Pavone: l’originale, tempestato di decine di gemme vere, si trova presso il caveau della Banca Nazionale. Nuovamente in cortile ci dirigiamo verso il palazzo che sorge di fronte. E’ visitabile solo il primo piano che è un’esplosione di luci riflesse dalle innumerevoli tessere a specchio che rivestono le pareti. Le ampie vetrate sono schermate da vetri piombati e coloratissimi che stordiscono gli insetti e impediscono a essi di volare all’interno. Terminiamo la visita del palazzo e ci avviamo a piedi in direzione del Gran Bazar. La distanza è breve, appena cinque minuti di cammino per ritrovarci immersi in un dedalo di stradine costellate di botteghe con merci di tutti i tipi: spezie, gioielli, metalli lavorati e molto altro. La classe dei bazari costituisce il fulcro della società conservatrice iraniana: nel trattare le questioni politiche essi sono da sempre alleati dei sacerdoti sciiti e storicamente hanno saputo costituire delle notevoli forze d’urto, tali da costringere in molte occasioni il potere costituito alla resa. Come esempio si può citare la rivoluzione islamica del 1979, originatasi nel bazar con il benestare del clero e che ha portato alla fuga dello Scià.

Il museo dei Gioielli è situato nel caveau della banca popolare iraniana, uno dei musei più “brillanti” che abbia mai visto!

L´enorme cassaforte, la cui porta d´ingresso è spessa 25 cm, si raggiunge passando attraverso sofisticati sistemi di sicurezza che alcuni di noi hanno fatto suonare più di una volta. All´interno possiamo osservare una tra le collezioni di gioielli più importante al mondo, accumulata attraverso i secoli da tutte le dinastie persiane. Scimitarre con rubini, smeraldi e diamanti che paiono quasi dimenticati in semplici piatti e un magnifico mappamondo su cui i continenti e i mari sono rappresentati con pietre preziose. Tra tutti brilla un diamante rosa di 182 carati, il Darya-e Nour (Mare di Luce). Davanti alla porta del caveau è esposto, protetto da spessi vetri, il trono del Pavone, quello originale. Nel pomeriggio torniamo in hotel per recuperare le valigie e ci avviamo verso l’aeroporto. Lungo il tragitto ci fermiamo di fronte alla torre Azadi; questa costruzione bianca e slanciata, al centro di una vasta superficie di giardini, è la porta d´ingresso a Teheran e simbolo della metropoli. La torre fu edificata nel 1971 al tempo dello scià Reza Pahlavi per commemorare il 2500° anniversario delle monarchie persiane. Il suo nome significa Torre della libertà; è alta 45 metri e i suoi muri sono ricoperti di lastre di pietra bianca portate da Isfahan. Scendiamo per alcune foto ricordo e poi di nuovo in viaggio per salire sull’aereo che, in un’ora di volo, atterra a sud, nella città di Ahwaz, dove ci fermiamo due notti presso l’Hotel Oxin.

19 agosto

Con il pullman percorriamo ottime strade e giungiamo a Shush, dove nel IV millennio aC. in una prospera regione agricola, fu fondata Susa, la gloriosa città dei persiani, di cui non é rimasto quasi più nulla, eccetto gli scavi e un castello costruito alla fine del XIX secolo dagli archeologi francesi. Le parti riportate alla luce sono: l’Acropoli, l’Apadana, la Città Reale e la Città degli Artigiani. Dopo che Alessandro Magno ebbe sconfitto il re persiano Dario III, marciò alla volta di Susa, dove scoprì favolose ricchezze e fondò un grande impero. Oggi Susa è una città morta, esposta alla violenza del vento e al sole implacabile. Tra le rovine, indubbiamente antichissime, il gruppo, eccetto me, ha ripercorso la sua storia.

Lungo il tragitto ci fermiamo alle cascate di Shushtar, dove i sassanidi costruirono i primi mulini ad acqua. E’ questo un imponente impianto idraulico artificiale che lascia meravigliati per le capacità ingegneristiche di quel popolo. Da aperture nella roccia scaturiscono corsi d’acqua che vanno ad attivare numerosi mulini. E’ stata una sosta oltre che interessante anche rigenerante; la presenza e la vista dell’acqua mi hanno dato una sensazione di refrigerio, anche se l’ora era molto calda.

Proseguimento per Choga Zanbil, la cui imponente ziggurat é il migliore esempio esistente di architettura elamita del tredicesimo secolo.

Sotto un sole cocente, su un altopiano in pieno deserto, ecco davanti a noi la ziggurat: è un tempio piramidale a più piani riconosciuto dall’UNESCO come sito culturale d’importanza mondiale. Siccome mi è possibile ammirarlo dal parcheggio, decido di fermarmi sul pullman al fresco, anche se ho certamente perso particolari interessanti. In origine la ziggurat era costituita da cinque piani concentrici, dei quali se ne sono conservati solo tre. Sembra improbabile, per il luogo così inospitale, che qui abbiano vissuto molte persone al di fuori dei sacerdoti e dei loro schiavi. È anche difficile credere che una struttura così imponente sia rimasta sconosciuta al mondo per più di 2500 anni, cioè fino a quando non è stata casualmente scoperta nel 1935 durante un rilevamento aereo effettuato da una compagnia petrolifera. Fra il 1951 e il 1962 furono condotti estensivi scavi archeologici che riportarono alla luce il complesso considerato quello meglio conservato del mondo.

20 agosto

Di buon mattino lasciamo Ahwaz alla volta di Shiraz. Durante il viaggio costeggiamo un vasto terreno brullo e recintato su cui sorge una raffineria di petrolio che si scorge da lontano per le alte fiamme che bruciano i gas di scarico. Il viaggio è lungo e per intrattenerci Leila e Cecilia improvvisano una danza iraniana nel corridoio del pullman al suono di una musica tradizionale. Proseguiamo verso la Valle di Chogan dove, lungo le sponde del fiume Shapur, visitiamo i bellissimi e monumentali bassorilievi rupestri che raffigurano i re dell’epoca sasanide. Poco distante si giunge al sito archeologico di Bishapur con le rovine del palazzo di Shapur, re sasanide e il tempio dell’adorazione dell’acqua di Anahita.

Saliamo in alta montagna tra zone brulle e desertiche dove, improvvisamente, si aprono valli pianeggianti e verdissime con rigogliose ed estese piantagioni di granoturco. A 2500 m di altitudine il passo, un pianoro molto ampio, dove sono accampati, sotto tende bianche, numerosi pastori nomadi che trascorrono l’estate su questi ricchi pascoli con le greggi. Per loro anche un piccolo supermercato e venditori ambulanti con i banchetti lungo la strada.

Arrivo nel tardo pomeriggio a Shiraz, cuore della cultura persiana, è città di giardini e tradizioni; anche una città giovane, spensierata e moderna. E’ situata su un altopiano a 1,500 m s.l.m. alle falde dei monti Zagros; è di origine molto antica come dimostrano tavolette in lingua elamitica rinvenute intorno al 1970 a Persepoli. Su queste tavolette in argilla, vecchie di 4.000 anni, la città è riferita con il nome di “Tiracis”. Nel corso dei millenni la città si abbellì alquanto, fu cinta da mura di cui oggi rimane soltanto la “porta del Corano”, monumentale ingresso sulla via che proviene da Isfahan. Shiraz fu una delle città più importanti nel mondo medievale islamico e fu la capitale dell’Iran durante la dinastia Zand (1747-79), quando furono costruiti o restaurati i suoi edifici più belli. Per merito degli artisti e degli studiosi che la popolavano, Shiraz divenne sinonimo di cultura, poesia, rose e, allo stesso tempo, vino. Il suo nome significa, infatti “città del vino migliore”, ma ora c’è solo uva, di vino neanche l’ombra!! Alloggio all’hotel Jam e Jam per tre notti.

21 agosto

Visita ai giardini botanici Eram (significa paradiso), frequentati e coltivati dagli studenti della vicina facoltà di agraria. Passeggiando tra i suoi viali s’incontrano numerose specie vegetali anche secolari; è piantato soprattutto a palme da datteri e cipressi. Al suo interno si trova la “magione Qavam”, un’elegante struttura a due piani magnificamente decorata che si specchia in un’ampia fontana rettangolare. Fu realizzata sul finire del XIX secolo per conto della famiglia Qavam, ricchi mercanti che seppero accattivarsi i favori degli scià di Persia. Dalla palazzina si snoda il viale principale del parco tra palme e aiuole fiorite, bordato da numerose vasche ornamentali. Gli abitanti della città hanno a disposizione un’oasi bellissima di fresco e di pace, dove possono trascorrere le ore calde della giornata. Tra i vialetti una giovane mamma ha steso a terra un tappeto su cui siede in compagnia del suo bambino che sembra godere della piacevolezza del luogo. Terminata la visita, il pullman si avvia verso la tomba del poeta Hafef. Durante il percorso tappa d’obbligo presso una pasticceria per assaggiare le sfogliatine, dolci tradizionali offerti gentilmente dalla guida. Per raggiungere la tomba è necessario attraversare un viale, non senza una certa difficoltà per via del traffico e dei lavori in corso. All’incirca contemporaneo del Petrarca, Hafez è forse l’artista più amato in Iran. Della sua vita si conosce poco, è nato tra il 1315 e il 1317 e morto attorno al 1390, ma la sua opera principale ha influenzato per secoli la poetica persiana ed è tuttora uno dei massimi componimenti della letteratura mondiale.

Il mausoleo è collocato all’interno di un lussureggiante giardino di pini, cipressi e arbusti. Una breve scalinata conduce sino al porticato, dove si apre la vista sul padiglione ottagonale centrale, che ospita la tomba del poeta. La volta della splendida cupola sulla tomba in alabastro reca un mosaico con motivi geometrici di ottima fattura ed è sorretta da imponenti colonne monoliti. Questa struttura, del ventesimo secolo, rispetta armoniosamente i canoni dell’architettura tradizionale. Il luogo è gremito di turisti che passeggiano tra le aiuole, sostano sulle gradinate e scattano fotografie di gruppo. Mentre siamo disposti in cerchio ad ascoltare le spiegazioni della nostra guida, una piccola iraniana di circa tre anni dagli occhi scuri e profondi s’intrufola in mezzo a noi, ci osserva incuriosita e sorridente mentre il papà cerca, inutilmente, di afferrala per un braccio per portarla via. Dopo un po’ di tempo dedicato a girovagare liberamente, l’itinerario riprende in direzione della moschea Vakil, la più imponente di Shiraz. E’ dotata di due soli iwan anziché dei consueti quattro, le volte sono ricoperte dai caratteristici mosaici a stalattite che a me richiamano alla mente le cellette di un alveare. Questi, come le pareti del cortile interno, sono decorati in ceramica smaltata a motivi floreali. Altri pannelli recano disegni di alberi stilizzati con diverse sfumature di colori. Il vasto cortile è vuoto ed è in questo periodo soggetto a lavori di restauro. La parte più notevole per me è la sala per le preghiere al coperto, molto vasta e sostenuta da quarantotto colonne tortili recanti capitelli di foglie d’acanto. All’interno è collocato un mihrab (pulpito orientato in direzione della Mecca) ricavato da un blocco unico di marmo azero Completiamo la serata nel celebre bazar accanto alla moschea, un luogo molto colorato ed eterogeneo. Il suo soffitto a mattoni garantisce un clima ideale in qualsiasi stagione dell’anno e, come il solito, mostra un caleidoscopio completo degli aspetti più suggestivi e inconsueti del paese, dai tappeti alle stoffe, dalle spezie a bellissimi oggetti preziosi.

22 agosto

Siamo pronti di buon mattino per la prossima meta: la moschea di Nasir al-Mulk, risalente alla fine del XIX secolo. Sul lato nord del cortile si accede alla sala della preghiera invernale, un ambiente raccolto e silenzioso illuminato dai raggi solari che filtrano attraverso le vetrate policrome, creando dei giochi di luce assai raffinati che si riflettono sul pavimento, sulle colonne e sul soffitto. Entriamo scalzi e in punta di piedi, i rumori sono comunque attutiti dagli spessi tappeti su cui i fedeli s’inginocchiano per pregare. Solo un giovane fotografo si aggira per cercare di ottenere, come noi, la prospettiva migliore per scattare alcune foto. Sul lato opposto del cortile vi è la sala della preghiera estiva, assai più fresca e disadorna, ora adibita a sede di un piccolo museo. Da un passaggio su questo lato si può accedere allo storico pozzo detto “delle vacche” da cui si attingeva l’acqua per le abluzioni. Lasciamo questo luogo per la tomba del poeta Sa’di che si presenta come un edificio di grandi dimensioni, ricoperto di piastrelle blu e gialle, sormontato da una cupola slanciata e incorniciato da due minareti di sezione circolare. Noi donne dobbiamo indossare un ampio velo fiorato fornito da una donna all’ingresso del santuario. Entriamo separatamente uomini e donne al santuario più grande, lasciando fuori le scarpe. All’interno ci accoglie un’esplosione di specchi che si riflettono sugli immensi tappeti, tutto è luccicante, eccessivo, ma senz’altro di effetto. Camminiamo scalze sui tappeti, parliamo ammirate sottovoce con attenzione a non essere invadenti nei confronti delle persone che sono ritirate in preghiera. Le pareti e le volte sono interamente ricoperte di mosaici con tessere a specchio: questa tecnica rende la luce delle lampade omnidirezionale e multicolore, con un effetto studiato per simboleggiare la luce divina sul sepolcro del dotto sciita. Il poeta Sa’di è annoverato fra i massimi letterati della nazione, tanto da essere ben conosciuto anche all’estero. Nato a Shiraz nel 1210, fu costretto a lasciare il proprio paese in giovane età a causa dell’avanzata delle orde mongole, che lo spinsero a trovare rifugio verso occidente, in Turchia, Siria, Egitto e Arabia.

L’ingresso monumentale alla città per chi proviene da Isfahan è la Porta del Corano. Si apriva un tempo nella cinta muraria oggi abbattuta. Essa è così chiamata perché custodisce un manoscritto del Corano la cui funzione è di proteggere i passanti e la città da eventuali nemici. Da qui passiamo accanto alla tomba di un altro poeta e saliamo sulla collinetta, dove ci sono dei graffiti e delle cascate d’acqua e si può avere una bellissima veduta sull’intera città. Leila ci riserva per la serata, dopo un breve riposo in hotel, una graditissima sorpresa: ci accompagna in una splendida casa da the, dove ceniamo. L’edificio è un’antica casa ricca di affreschi e decorazioni immersa in un fresco giardino con un’ampia fontana zampillante al centro. Il tavolo che ci è stato riservato è sulla balconata al primo piano e si affaccia sulle aiuole fiorite. La serata trascorre piacevolmente chiacchierando tra una portata e l’altra.

23 agosto

Partenza per Yazd; un’ora di viaggio è necessaria per raggiungere Pasargad attraverso un brullo paesaggio di colline rocciose, intervallato qua e là da campi e villaggi. Il clima è caldo, con il cielo costellato di soffici nuvole che a tratti velano una luce solare assai vivida. Pasargad fu la prima capitale dell’impero persiano dal 546 a.C., sorta entro un’ampia pianura ricoperta solamente di erbe e cespugli. Dal terreno spuntano ancora pezzi di mura, colonne lisce e prive di scanalature e perimetri degli antichi palazzi. Il monumento principale di Pasargad è la tomba di Ciro: squadrata e possente, si erge come un monolito sulla piana circostante vicino a un antico caravanserraglio ormai quasi totalmente diroccato. Narra la leggenda che, all’arrivo degli invasori musulmani nel VI secolo, gli abitanti locali vollero proteggerla asserendo che fosse la tomba della madre di Salomone anziché quella di un re pagano. Si riparte perché abbiamo davanti ancora parecchie ore di viaggio: si passa da pianure aride, infinite e steppose ad alte montagne spoglie, enormi monoliti di roccia rossastra su cieli azzurri e tersi, regno di capre e pecore. Un nastro infinito d’asfalto scompare all’orizzonte velato da un pulviscolo che offusca la vista. Il paesaggio incute una soggezione che sfiora l’inquietudine ma è emozionante. Durante il tragitto rimango a osservare il paesaggio dal finestrino, scattando di tanto in tanto qualche fotografia. Dopo diversi chilometri, in tarda mattinata, raggiungiamo Abarkuh, cittadina nota per le antiche cisterne dell’acqua dotate di copertura in laterizi a forma di cono rovesciato. Costruite con mattoni in cerchi concentrici che ricordano grandi trulli; ogni tre o quattro cerchi alcuni mattoni sono stati lasciati sporgere per ottenere una scala attraverso la quale salire sulla cupola aperta, che in estate era chiusa per impedire l’evaporazione dell’acqua contenuta all’interno mentre in inverno diveniva una vera e propria “ghiacciaia” dove era conservato il ghiaccio prelevato dalle montagne. La genialità dell’architettura del deserto!

Ancora in viaggio tra montagne brulle ma su strade molto agevoli; sorpassiamo un camioncino che trasporta un’asina con il suo puledrino che si ripara dal forte vento socchiudendo le palpebre e cercando di mantenersi in equilibrio appoggiandosi al corpo della madre. Appena prima di Yazd le torri del silenzio del culto zoroastriano, veramente spettacolari, alte nella pace del deserto circostante, situate su due collinette hanno un passato inquietante e attraggono lo sguardo del visitatore che si fissa su di esse irresistibilmente.

I fedeli di Zoroastro ritenevano che il corpo del defunto non dovesse venire a contatto con la terra, considerata sacra, né potesse essere cremato poiché il fuoco sarebbe stato contaminato dalle spoglie impure, quindi ponevano i cadaveri su quelle torri. Entriamo nel vasto piazzale polveroso che ospita un piccolo villaggio disabitato e le due colline brulle su cui si ergono le torri, una riservata alle donne e l’altra agli uomini; sono circolari e delimitate da uno spesso muro di mattoni e fango. I cadaveri erano posti sulla cima e gli avvoltoi divoravano i corpi; le ossa erano gettate in apposite fosse. Negli anni ’70 del XX secolo il funerale zoroastriano fu proibito per legge dall’allora scià Palevi.

Arrivo nella città incastonata tra due deserti; meta di viaggiatori e commercianti, è stata per me una meta interessante. Abitata dai tempi dei Sassanidi (224-637) anche se cominciò a diventare importante con il passare dei secoli, fu conquistata dagli arabi e da allora diventò una fra le “soste obbligatorie” e delle strade della seta verso l’Oriente. Nel XII secolo visse la sua età d’oro ma in seguito l’importanza della città s’indebolì molto e diversi palazzi furono distrutti. Si dice che sia la “città più antica del mondo”; un’affermazione impegnativa e difficile da verificare, di certo questo sito è abitato da almeno settemila anni ed è unica dal punto di vista architettonico. Città dal colore dell’argilla e caratterizzata dai famosi Badghir (torri di ventilazione). Nella città vecchia ci sono numerose abitazioni tutte in argilla, paglia e fango, essiccati al sole, ora patrimonio Unesco. Circondata da deserti, ha resistito nel tempo grazie ad un’incredibile rete di canali d’acqua sotterranei costruiti per portare l’acqua a tutta la città e per una cisterna d’acqua circondata da torri del vento che sono particolari, perché catturano il vento da qualunque direzione provenga. L’aria incanalata in queste torri passa sopra una vasca d’acqua e poi negli ambienti domestici, riuscendo a rinfrescarli anche nelle estati più torride. Si trova proprio ai piedi di un’immensa catena montuosa con il Monte Sir che è alto 4047 metri e coperto di neve perenne. Durante la stagione del disgelo, l’acqua scorre verso le città e i villaggi che così hanno delle primavere bellissime e molto verdi in mezzo all’aridità del deserto.

Il pomeriggio prosegue nell’ambito della cultura zoroastriana con la visita al tempio del Fuoco, uno dei principali luoghi di culto che questa fede ha conservato fino ai nostri giorni. La struttura è abbastanza attuale, ma la fiamma all’interno è assai più antica e arde ininterrottamente dal V secolo. Da un ampio cortile con una fontana al centro si accede al porticato dell’edificio e, una volta all’interno, si passa di fronte al braciere del fuoco sacro, protetto da una spessa barriera di vetro. Lo stesso tempio ha un piccolo museo che racconta la vita della città, ci parla degli zoroastriani, dei loro costumi e del loro culto. Da qui raggiungiamo con l’autobus il centro storico fino alla piazza di Amir Chakhmagh, che prende nome dalla moschea situata su un lato. Questo complesso presenta una facciata a tre piani, due alti minareti e numerose arcate illuminate di notte dalla luce artificiale. Al centro della piazza è collocata una grande fontana e un’arca lignea a forma di foglia che è portata in processione da parecchie persone durante una festa sciita celebrata in memoria del martirio dell’Imam Hussein e dei suoi seguaci. Su un lato si trova la Zurkhaneh, che significa letteralmente “casa della forza”, dove si pratica un’antica forma di arte marziale che unisce lo sport alla spiritualità. Questa tradizione nata nell’Iran preislamico sopravvive ancora oggi, rigorosamente solo per uomini. La palestra è un’ampia sala con cinque torri del vento che assicurano il continuo ricambio dell’aria e cui si accede da un vicolo laterale attraverso una porta piuttosto bassa, che costringe a chinare il capo in segno di rispetto. All’interno si apre una vasta sala circolare con il pavimento di legno ribassato, dove gli atleti eseguono i loro esercizi. Attorno alla “pedana” c’è un angolo per gli attrezzi ginnici, una zona dedicata agli spettatori e un sedile decorato per la guida che percuote il tamburo, canta scandendo il tempo dell’allenamento e recita versi religiosi o dei grandi classici persiani. Gli atleti indossano bermuda colorati e ricamati e maglietta. In vita hanno delle grosse cinture di cuoio per dare supporto alla schiena e sono a piedi scalzi. Gli attrezzi usati durante le flessioni, le rotazioni vorticose e i movimenti coordinati, sono specie di birilli di legno e delle catene di metallo con dischi pesanti con cui gli atleti, guidati dal suono ritmato di un tamburo e dalla voce della guida, piroettano e frullano come dervisci. Per terra sono appoggiati alti pesi di legno di varie grandezze, mentre appesi a un trespolo, vi sono dei“gioghi”di legno sagomati per l’impugnatura e appesantiti da pesi di ferro. Alle pareti sono allineate alcune sedie per il pubblico che può assistere agli allenamenti; prima le donne non potevano accedervi, mentre adesso, chi di noi lo desiderava, ha potuto accomodarsi e seguire lo spettacolo.

Cena al Moshir Garden, ristorante iraniano con bellissimo giardino. All’ingresso una strana coppia ci dà il benvenuto: un guerriero veramente gigantesco insieme all’adulto più piccolo che io abbaia mai visto, con baffi, vestito in costume tradizionale, che ci accoglie con una vocina da bambino che mi fa rabbrividire. Confesso che gli avrei fatto volentieri una foto ma alla fine ho desistito. Si tratta di un luogo molto curato nei dettagli, un ex caravanserraglio adattato a hotel. Superato il corridoio d’ingresso, ci sono degli ampi saloni, che odorano di antico e di vissuto, una bella sensazione però, che dà l’idea di come questo posto abbia svolto un ruolo fondamentale nel passato, punto di ristoro per antichi viaggiatori. A fare gli onori di casa anche due grossi e coloratissimi pappagalli che saltano su un trespolo al centro di una fontana per andare a bere e per estrarre le mandorle dopo aver spezzato i gusci legnosi con i loro potenti e ricurvi becchi. La vera sorpresa è nella grande terrazza giardino che è strutturata con una serie di fontane e di canali che si snodano per tutto il parco. In mezzo agli alberi abbiamo cenato servendoci a nostro piacimento. Ci sono tavoli incastonati dappertutto, accanto al nostro riservato da dalla nostra guida, un tavolo piccolo occupato da due persone che si rivelano essere modenesi in viaggio di lavoro. Trascorriamo la notte all’hotel Dad, un lussuoso albergo che ci garantisce una piacevole notte in una camera ampia e arredata con gusto.

24 agosto

Dopo una piacevole colazione all’aperto nel cortile dell’albergo, attraversiamo a piedi il bazar e ci addentriamo nel centro storico per raggiungere la moschea del venerdì che si annuncia con un portale piastrellato, coronato dai due alti minareti. Nel cortile vi è l’accesso alla parte interna della moschea, riservata alla preghiera, finemente rivestita di mosaici policromi e dotata di un mihrab dalla notevole fattura di marmo scolpito con le pareti a fianco decorate a mosaico e recanti versetti del Corano. Poco oltre si scende lungo una scala per raggiungere la parte più antica della moschea, la cripta, probabilmente realizzata già nei primi anni del dominio musulmano. In questi bassi cunicoli scavati nel tufo, la temperatura è assai stabile: un tempo, le persone vi si potevano rifugiare, oltre che per ragioni strategiche, anche per trovare sollievo dalla calura estiva.

Da qui ci inoltriamo nel dedalo di vicoli e stradine della città vecchia: gli edifici di una seducente semplicità sono tutti di argilla, fango e sterco impastati che, nonostante le scarse precipitazioni, tendono a deteriorarsi velocemente anche per via del vento. Le porte di alcune case presentano due batacchi, simili per forma ma non identici: uno è riservato alle donne e l’altro agli uomini e producono suoni diversi in modo che si possa stabilire a priori il genere del visitatore. Secondo il suono quindi, ad aprire la porta di casa, sarà la moglie o il marito. Un’altra particolarità architettonica è costituita dalla presenza delle torri d’aerazione per il raffreddamento delle case, che si ergono ovunque, un sistema di condotte forzate che fa fluire l’aria dall’esterno verso i cunicoli sotterranei, dove di solito scorre l’acqua, raffreddandosi: si tratta di un efficace sistema di condizionamento. Il nucleo antico della città pare sopravvissuto ai secoli ed è probabilmente rimasto tale dai tempi in cui vi sostavano i mercanti in transito sulla via della seta. Il quartiere vecchio è stato dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’Unesco perché considerato uno tra i centri cittadini più antichi del mondo. Il suo fascino è veramente unico: è molto difficile trovare le parole per descrivere l’incantesimo che conquista nella successione e nel silenzio di quelle piccole vie e porticati labirintici.

Visitiamo un negozio di tappeti e ceramiche, poi sostiamo per un the in un antico hotel con il cortile interno protetto da un ampio tendone decorato. Accompagnati dalla guida scendiamo nei sotterranei fino a raggiungere il canale che oltre a rinfrescare l’aria è anche fonte di approvvigionamento d’acqua. Saliamo sul tetto da cui dominiamo una parte della città, visitiamo alcune ampie stanze e passiamo in una torre del vento: l’aria che circola è freschissima e rigenerante. Torniamo nella sala-cortile per accomodarci sugli ampi divani a sorseggiare il the e a osservare un pappagallo dal piumaggio grigio e rosso intento a lisciare con il becco la sua colorata livrea.

Lasciamo questo luogo piacevole per riprendere a camminare tra i vicoli e raggiungere un’antica e famosa pasticceria nella quale sono esposte le foto dei fondatori dell’attività. Alcuni di noi acquistano le specialità da portare a casa. I pasticceri di Yazd sono famosi in tutto l’Iran e costituiscono anche un’attrattiva turistica. I laboratori mantengono segrete le loro ricette e molti di loro, come quella dove siamo entrati, sono attività familiari tramandate da molte generazioni.

Ultima tappa verso la piazza principale per visitare la moschea. Al termine di una piccola via prossima al centro, sorge questa grande e magnifica moschea che risale al XIV secolo, eretta sulla struttura di un edificio anteriore che a sua volta era stato ricavato da un antico tempio del fuoco zoroastriano. Il portale d’ingresso è fiancheggiato da due minareti; è altissimo e interamente rivestito da piastrelle di maiolica con il simbolo della svastica come segno di eternità, nascita e morte. Saliamo sui tetti e davanti a noi si apre il panorama della città con torri del vento, cupole e minareti.

Riprendiamo il viaggio in pullman addentrandoci nel deserto di Kavir, sosta al villaggio di Na’in del terzo secolo; ci fermiamo per visitare la Masjid-e-Jāmeh, la moschea più vecchia della Persia, molto particolare perché è priva di maioliche di rivestimento. Questo mette in risalto i mattoni con i quali è stata realizzata, i finissimi stucchi che in parte la rivestono e il magnifico mirhab di legno intagliato. Scendendo una scaletta si accede alla sala sotterranea adibita alle preghiere, una sorta di cripta scura e misteriosa ricavata sotto la corte e riservata alle donne. Ci inoltriamo nei vicoli caratteristici, tra i ruderi del forte sasanide, tra le case fatte di fango e paglia con i tetti a cupola con le torri del vento utilizzate per la refrigerazione e le cisterne persiane per la riserva d’acqua. È pomeriggio inoltrato e il sole, piuttosto franco, scalda parecchio l’atmosfera brillando in un cielo blu cobalto; per via della scarsa umidità il clima non è però soffocante.

Il viaggio riprende dopo aver gustato l’anguria tenuta al fresco nel ghiaccio dal nostro driver. Ci dirigiamo verso ovest mentre il tramonto colora il cielo di rosa e giungiamo nella serata a Isfahan all’hotel Safir, dove ci fermeremo per tre notti poiché i prossimi due giorni saranno interamente dedicati alla città.

25 agosto

Isfahan, stupenda città rinascimentale ricca di monumenti islamici, brillò all’epoca dei re safavidi tanto che divenne la capitale della Persia. Dopo un percorso impossibile da ricordare attraverso vicoli e stradine incontriamo la bottega di un artigiano miniaturista di fama internazionale, le cui creazioni sono senz’altro da ammirare. L’arte della miniatura, con almeno otto secoli di storia alle spalle, è assai tradizionale in Iran e spazia su molteplici stili che si sono affermati nel corso d’epoche differenti. Anche in questo campo si possono di volta in volta distinguere chiari influssi mongoli, indiani, turchi ed europei. L’artista, di cui stiamo osservando le opere, esegue miniature su osso di cammello.

Giungiamo nella magnifica Piazza dell’Imam, l’apice dell’architettura persiana del XVI secolo, fulcro della città, vastissima e spettacolare. Un enorme giardino molto curato, dove le persone si siedono e fanno i picnic, con moschee ai lati e il bazar che la circonda con un porticato. La nostra visita inizia partendo dal lato dove si affaccia la Moschea dell’Imam, una delle più grandi e maestose di tutto l’Iran. Le facciate interamente decorate con maioliche azzurre e verdi, le cupole e i minareti che svettano nell’azzurro del cielo, non possono lasciare indifferenti. Oltrepassato l’iwan si svolta a destra, senso nel quale è orientato il resto della costruzione. Con quest’ingegnosa soluzione gli architetti riuscirono a direzionare la moschea verso la Mecca senza creare degli sgradevoli effetti estetici rispetto alla geometria della piazza. Entrare nella moschea è come fare un salto in un luogo completamente diverso: ci si lascia alle spalle il caos del bazar e della piazza e si entra nel silenzio religioso di questo luogo sacro ai musulmani. Il grande cortile è incorniciato da una serie di porticati a due ordini di arcate su cui si affacciano quattro alti minareti. La maggior parte delle decorazioni è stata realizzata in piastrelle blu e gialle, con motivi floreali e iscrizioni tratte dal Corano. Molti particolari minori, ma di grande pregio, sono invece stati pazientemente composti per mezzo di tessere di mosaico. L’ambiente sotto la cupola è illuminato grazie alla presenza di alcune grandi finestre unite alla capacità delle piastrelle di riflettere la luce ambientale. Volgendo lo sguardo verso l’alto sono rimasta letteralmente senza fiato per il perfetto insieme a forma di coda di pavone ottenuto con i mosaici: vi regnano armonia e maestosità. Sul lato ovest della piazza sorge invece la moschea conosciuta come “moschea delle Donne”. Questa è la meno appariscente e la più appartata fra le due e costruita negli stessi anni della precedente, fu destinata a uso privato della famiglia dello scià. Anche gli spazi sono meno ampi ma le opere decorative sono di altissimo livello, tanto che io la reputo artisticamente superiore. Sotto la cupola trovano posto alcune finestre ornate con motivi in pietra, assai decorative. Il colore predominante del mosaico della volta è il giallo oro, contrariamente al blu della moschea dell’Imam. Se qui risaltano i particolari e le cesellature, nell’altra predominano invece le grandi volumetrie e le superfici estese. Un’interessante soluzione architettonica è stata applicata per ammortizzare gli effetti rovinosi delle scosse telluriche: mattoncini di legno sostituiscono quelli in cotto per rendere la costruzione più flessibile alle oscillazioni.

Sul lato ovest sorge il palazzo di Ali Qapu, costruito al principio del XVII secolo. La pianta quadrangolare e l’impiego di mattoni a vista con ampie arcate a sesto acuto gli conferiscono un’aura di possanza e austerità. Man mano che si salgono i piani, le stanze si fanno più larghe e decorate: qui operarono gli artisti più celebri dell’epoca. I motivi sono perlopiù geometrici, floreali e a grottesca, con dei colori che tendono sovente alle tonalità pastello. Una delle strutture più evidenti del palazzo è la grande balconata affacciata sulla piazza e sostenuta da numerose colonne lignee. Da qui si spazia con lo sguardo su tutta la piazza e anche sulla città fino alle colline circostanti. L’ultimo piano ospita alcune fra le sale più belle, fra cui quella della musica, decorata a stucco con motivi di strumenti musicali.

Si prosegue nel bazar; visitiamo un negozio che produce tovaglie e tappeti stampati con una tecnica particolare utilizzando un stampo di legno con disegni in negativo, dopo averlo intinto nel colore. Sosta al ristorante Bastani del 1600, con affreschi alle pareti che rappresentano la vita quotidiana dell’epoca e fontane centrali. Molto appariscente ma in linea con i gusti del paese. All’uscita ognuno prende una strada diversa. Rimaste in due decidiamo di dedicare la giusta attenzione agli articoli che più ci interessano per piccoli acquisti da portare a casa. La parte più interna si sviluppa in un dedalo di stradine, piazzette e caravanserragli in cui, con un po’ di pazienza, si può anche scovare l’abile artigiano del metallo che produce elaborati oggetti in argento e in rame lavorati con la tecnica dell’incisione e della pittura. Così trascorre il resto del pomeriggio; con il giorno che volge ormai all’imbrunire, riguadagniamo la piazza, soffermandoci per una ventina di minuti su una panchina a osservare la folla che vi si sta radunando.

Dopo una sosta in hotel, raggiungiamo al tramonto, uno dei ponti storici sul fiume Zayande che presenta un’architettura poderosa e lineare che si manifesta in un gioco assai complesso di archi e prospettive. Le foto di questi ponti che abbiamo visto scendendo dall’aereo, li rappresentavano mentre si rispecchiano nell’acqua. Il fiume però, ora in secca, non offre più quegli scorci che erano stati pensati dai costruttori. La regolamentazione delle acque per usi agricoli ha purtroppo decretato il sacrificio del paesaggio in nome dell’approvvigionamento idrico. Durante la passeggiata sul seicentesco ponte affollato dagli abitanti di Isfahan incontriamo anche un gruppo di giovani che si divertono a cantare e danzare sotto le arcate utilizzando semplici strumenti a percussione. Percorrerlo sembra più una passeggiata sotto un porticato in una qualunque cittadina europea mentre il sole crea giochi di ombre e di luce molto scenografici. Il ponte Khaju non è l’unico presente a Isfahan ma è certamente il più famoso e il più antico.

La serata si termina in un ristorante la cui facciata esterna non lascia intuire ciò che è celato all’interno: varcata la soglia e attraversata la hall, un’apertura immette nel giardino curatissimo, ricco di fiori e piante con frutti, da dove si può apprezzare adeguatamente la struttura del caravanserraglio, ampia e ben proporzionata. La prospettiva notturna, assai suggestiva, evidenzia i volumi e i colori degli edifici illuminati.

26 agosto

Ripreso l’autobus, si percorre un breve tratto di strada fino al quartiere meridionale di Jolfa, che ospita una numerosa comunità armena insediatasi in questo luogo più di quattro secoli fa per scampare alle persecuzioni ottomane. Agli armeni è stato permesso di mantenere la propria cultura e la propria religione, il Cristianesimo, di cui si conservano vari edifici di culto. Fra essi, la chiesa del Salvatore costituisce un esempio notevole d’arte armena nel cui interno si può ammirare un pregevole ciclo di affreschi, sul tema della vita di Gesù Cristo, di storie della Bibbia e vite di santi. Assai notevole è il Giudizio Universale, che presenta delle figure di grande espressività e vivacità. La struttura della chiesa risponde a canoni locali: dall’esterno parrebbe a prima vista una moschea, eccezion fatta per l’aggiunta dell’abside e del campanile. Il complesso include l’antico monastero che ora è in parte adibito a museo. L’esposizione, assai vasta, raccoglie non solo oggetti e testi religiosi, ma anche fotografie e testimonianze storiche relative a questa comunità. Uno spazio è stato inoltre allestito per ricordare il genocidio armeno, perpetrato dall’impero Ottomano nel 1915 e quello più recente, ma quasi ignorato, in Turchia. Alla memoria della tragica vicenda è inoltre dedicato un monumento installato in un angolo del cortile. Il ricordo di Dodi e me va alla piccola isola di San Lazzaro, nella laguna veneta, su cui sorge il monastero dei Padri Armeni, circondato da un giardino e dove si ricordano i due genocidi; oggi è uno dei primi centri nel mondo di cultura e scienza armena. L’isola era stata adibita a lebbrosario, cessata questa destinazione, rimase deserta per lungo tempo poi fu assegnata a un nobile monaco armeno Mechitar. Il convento ospita una pinacoteca, una biblioteca, dove si conservano opere scientifiche, letterarie e religiose tradotte in armeno da diverse lingue, manoscritti di grande valore e un museo che raccoglie reperti archeologici egiziani, orientali e romani.

In pochi minuti arriviamo al palazzo di Chehel Sotun, anche detto delle “40 colonne”. Il complesso, che annovera un padiglione circondato da un ampio e curatissimo parco; fu voluto come luogo di rappresentanza e di svago, oltre ad essere una valida alternativa estiva al più opprimente palazzo di Ali Qapu. Percorrendo il viale, lungo l’ampia vasca della fontana, si raggiunge l’edificio principale, dotato di un porticato sostenuto da venti pilastri lignei. Il nome delle “40 colonne” è dovuto all’aspetto che assume il palazzo riflettendosi nell’antistante bacino artificiale. Al suo interno un grande salone è tutto decorato con affreschi che raffigurano momenti della vita di Corte d’epoca safavide e due grandi battaglie. La battaglia di Cialdiran che vide la sconfitta di Ismail I da parte degli Ottomani a causa dell’impiego massiccio da parte di questi ultimi di armi da fuoco, allora non diffuse nell’esercito persiano. Gli stili artistici rappresentati sono assai differenti tra loro: in alcune opere è distinguibile un chiaro influsso di stampo asiatico e mongolo, mentre in altre si riscontrano dei canoni derivanti dall’arte indiana; all’esterno invece altre ancora figurano delle reminescenze europee.

Un nuovo spostamento con il pullman verso la Moschea del venerdì che è uno degli esempi più eclatanti di architettura selgiuchide nell’antica Persia. Per raggiungerla dobbiamo attraversare in parte un bazar coperto; su manichini di recupero, ottenuti con tubi fissati su cerchioni di ruote d’auto, fanno bella mostra alcuni chador neri, di varie taglie, adatti anche a bambine. Un passaggio piuttosto dimesso permette l’accesso al grande cortile interno che è strettamente collegato agli altri edifici del centro città, incredibile stratificazione di stili ed epoche dagli albori dell’Islam fino all’arrivo dei Mongoli. Sul cortile si affacciano quattro iwan, tutti diversi fra loro, collegati da un porticato a due ordini di arcate decorate con piastrelle smaltate che formano disegni floreali e geometrici in diverse tonalità di blu, bianco e giallo. Pur avendo delle fondamenta risalenti all’VIII secolo, la struttura attuale risale in larga parte alla metà dell’XI secolo, quando Isfahan divenne la capitale dell’impero. All’interno si può apprezzare lo stile in laterizio per cui questa moschea è famosa. Proseguendo attraverso le sale di preghiera, grande interesse riveste il trecentesco mihrab ornato a stucco con elaborati motivi floreali e calligrafici. La cripta, assai spaziosa, è anch’essa riservata alle funzioni religiose; il pavimento è ricoperto interamente da tappeti. Nuovamente al pianterreno, si attraversa una sala inframmezzata da molte colonne, dotata di un soffitto con innumerevoli cupolette di varia fattura, i cui mattoni sono disposti a spina di pesce, a opera quadrata e reticolata, a spirale ecc; nessuna cupola è uguale ad altre nel disegno, un vero spettacolo geometricamente perfetto! La grande cupola Taj-al Molk non ha mai riportato danni nonostante i terremoti susseguiti in novecento anni; questo ci fa riflettere sulla precisione dei calcoli e delle proporzioni degli ingegneri e architetti di 1000 anni fa.

Al tramonto ritorniamo in Piazza dell’Iman che è meravigliosa tanto di mattina, quanto di sera con le sue luci, le moschee che si specchiano nella fontana al centro, il bazar interminabile tutt’intorno e quell’atmosfera mediorientale che affascina. Sul suo perimetro trottano i cavalli che trainano le carrozzelle trasportando i turisti. E’ una piazza molto vissuta dalle famiglie iraniane che si radunano nei giardini e da gruppi di amici e giovani che lì s’incontrano e siedono sui prati a conversare e fare spuntini, mentre i ragazzi e i bambini giocano, curando tuttavia che la piazza rimanga pulita e ordinata. C’è una bella atmosfera di giorno, ma la sera è magica! È piacevole e interessante guardarsi in giro e incontrare la gente locale, che è straordinariamente amichevole e interessata a conoscere e parlare con i turisti con grande cordialità.

L’atmosfera e la bellezza della piazza al tramonto sono davvero sconvolgenti.

27 agosto

Di buon mattino l’autobus ci attende per affrontare un percorso di centinaia di chilometri verso la capitale Teheran. L’autostrada corre attraverso il deserto a volte piatto e a volte roccioso, costellato di cespugli secchi e spinosi. Non distante si scorgono alcune installazioni militari con una batteria contraerea composta di cannoni: siamo ormai in prossimità di alcuni siti strategici del programma nucleare iraniano ed è qui che Leila ci chiede di non scattare foto. A un bivio si lascia il percorso principale in pianura per raggiungere, dopo alcuni tornanti, il villaggio di Abyaneh. Quest’insediamento presenta delle peculiarità sociali e antropologiche ormai scomparse nel resto del paese ed è stato proclamato dall’UNESCO sito patrimonio dell’umanità. Raggiunto il parcheggio, abbiamo proseguito a piedi per le strette strade lastricate. Il paesino mi dà subito l’impressione che i confini tra il tempo e lo spazio qui siano sfuocati. L’organizzazione stradale del piccolo centro abitato è confusa e labirintica. Le case, costruite in legno e fango rosso, sono adagiate su un clivo esposto a mezzogiorno in un contesto di montagne brulle e rocciose. La semplice e piccola moschea, nel cui cortile cresce rigogliosa una vigna che forma un pergolato ricco di grappoli maturi, si affaccia con un loggiato sulla vallata. Alcuni negozietti di artigianato, sono gli unici punti di riferimento in questo dedalo di stradine e costruzioni in terracotta che sembrano tutte uguali. Il posto, vivo e vissuto da poche persone in prevalenza anziani che hanno conservato costumi e usanze antichissimi, vanta una chiara resistenza a tutto ciò che è modernità e rappresenta un perfetto esempio di come l’uomo si sa adattare alla natura che lo circonda senza comprometterne la bellezza e il patrimonio. Qui la vita scorre lenta e tranquilla.

Nei giardini celati dietro ai muretti a secco, crescono pruni e albicocchi. Incontriamo alcuni abitanti locali: una famiglia che certamente ha indossato il costume tradizionale per i turisti e un’anziana donna a cavallo del suo asinello che trasporta teli gonfi di fieno. Le donne portano un’ampia gonna che lascia abbondantemente scoperte le caviglie e un lungo velo bianco decorato con motivi floreali che quasi ci stupisce: è del tutto diverso da quello nero che ci siamo abituati a vedere sul capo delle donne. Gli uomini portano camicie bianche e larghi pantaloni neri sostenuti in cintura da un elastico e ornati da ricami dello stesso colore sul fondo delle gambe.

Lasciamo Abyaneh per dirigerci verso un albergo-ristorante per il pranzo. L’albergatore ci accompagna sul terrazzo più alto; la sua posizione ci permette di godere di un panorama che si estende a perdita d’occhio. Verso il fondovalle e lungo i corsi d’acqua crescono anche piante ad alto fusto e si distinguono alcuni orti coltivati e qualche risaia. Di fronte, da una prospettiva diversa, si scorge il villaggio che abbiamo appena lasciato; con il suo colore rosso sembra mimetizzarsi contro l’arido sfondo delle montagne della stessa tonalità e sulle cui pendici è arroccato. Al ristorante ci sediamo ai rustici tavoli, c’è invece chi è semi-sdraiato su larghi sofà circondati da cuscini ricamati, dove gli iraniani amano mangiare in relax. In disparte, rivolto verso la Mecca, un uomo segue il rituale della preghiera totalmente incurante di quello che gli succede intorno.

E’ durante la via del ritorno che siamo bloccati dai soldati armati di mitra come ho già descritto in precedenza.

Il viaggio prosegue in questo soleggiato pomeriggio sull’autostrada fino alla periferia di Kashan. Attraverso strade secondarie raggiungiamo i giardini e le terme Fin, uno fra gli esempi migliori. Gli edifici, le terme e le pareti che recingono il complesso sono abbelliti con lavorazioni di stucco, iscrizioni e abbondante uso del marmo.

Il giardino oggi ospita al suo interno alberi altissimi, specialmente cipressi, che in alcuni casi raggiungono anche secoli di vita. Il complesso Fin è stato costruito 1000 anni fa e comprende anche una vasta area con terme che ricevono l’acqua dalla sorgente di Dandane’ che sgorga dal cuore della terra. Oggi i dintorni sono stati trasformati in frutteti che prendono la propria acqua appunto da esso. Commissionati dallo Scià Abbas nel 1590, furono in seguito ingranditi dal nipote Abbas II. Intorno alla metà del XIX secolo il sovrano cagiaro Fath Ali volle ampliarli ulteriormente, aggiungendo alcuni elementi caratteristici della propria epoca all’originario stile safavide. Fra i cipressi, inframmezzati da viali, prati e aiuole fiorite, assume grande rilevanza l’acqua: la sorgente situata a monte alimenta una rete di canali, vasche e fontane che si fanno strada attraverso i percorsi lastricati e la vegetazione. Nel centro trova posto una fontana mentre verso il fondo, sul lato opposto rispetto all’entrata, sorge un palazzo e un padiglione. Visitiamo anche le terme che consistono in una serie di stanze dove erano situati bagni turchi e piscine coperte. I giardini Fin sono un raro esempio ancora esistente di chahar bagh, il giardino privato di tipo formale, un tempo accessibile solo dal padrone di casa e dai suoi ospiti. Proseguiamo versi il centro di Kashan. La città è graziosa con le sue case d’epoca con cortili e stanze che si affacciano su giardini fioriti; tutte belle e tutte diverse queste residenze tipiche di ricchi commercianti di tappeti. Noi ci rechiamo in una molto elegante: una villa storica dotata di un cortile interno con piante e una vasca d’acqua. Gli interni sono molto più belli dell’esterno; le pareti sono totalmente decorate con stucchi e alle finestre sono posti vetri colorati. II tetto della villa è tutto cupolette, torrette e pinnacoli. La tappa successiva è alla moschea e al bazar, ma io decido di fermarmi sul pullman.

Il viaggio verso Teheran è ancora lungo; attraversando la città di Qom, la guida ci indica il mausoleo di komehini; è ancora incompleto, anche se la sua costruzione prosegue da oltre vent’anni. Trascorriamo la notte all’hotel Atlas. L’avventura volge al termine; un enorme grazie ai boss Franco e Tino per l’organizzazione perfetta e a tutti per la disponibilità e la piacevole compagnia.

28 agosto

All’aeroporto IKIA di Teheran abbracciamo la nostra guida e ringraziamo ancora l’autista con cui abbiamo percorso quasi 4000 chilometri attraverso il paese. Possiamo liberarci del velo; con un gesto scaramantico Cecilia e Dodi lo lanciano in aria! Il volo Alitalia lascia il suolo iraniano diretto a Roma alle nove e trenta. Da questa destinazione intermedia si vola verso Genova a pochi chilometri da casa. Al nostro arrivo troviamo puntualissimi, i pulmini di Sanguineti che ci riaccompagnano ognuno alla propria destinazione. almeno fino alla prossima avventura.

Ho visto una terra bellissima e dei paesaggi molto vari: deserti contornati da picchi rocciosi, campi ordinatamente coltivati; ho visto la magnificenza di Persepoli e dei suoi bassorilievi, la tomba di Ciro e quelle rupestri di Nasq-el-Rostam, la splendida simmetria della piazza a Esfahan e il tripudio di ceramiche che ricoprono le moschee e i palazzi e in mezzo un mare di altre cose: torri del silenzio, templi del fuoco zoroastriani, le tombe dei poeti e la devozione loro riservata anche in tempi così prosaici. Tutte queste notizie le trovate su qualsiasi guida, quello che non troverete, invece è la gente che si avvicina animata da sincera curiosità per “il diverso” e per chiederti cosa ne pensi di loro e della loro terra; una gentile, competente ed entusiasta guida iraniana, l’impagabile guida che si è adoperata in tutti i modi per farci apprezzare il suo paese, per farcene conoscere quanto più possibile: un paese splendido e semplice che non espone i suoi problemi, la sua povertà e le sue contraddizioni.

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Isfahan



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