Due stranieri a Mulund West – Mumbai

Un mese tra Mumbai, Delhi, Uttarankal, Punjab, Himachal Pradesh e Ladhak
Scritto da: gnappetto68
due stranieri a mulund west - mumbai
Partenza il: 06/08/2008
Ritorno il: 02/09/2008
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
SOGNI IN SPIAGGIA

Seychelles – Treviso aprile-luglio 2008

Mollemente adagiati sulla spiaggia completamente deserta di Anse Sevère sull’isola di La Digue, guardando il cielo blu costellato di nuvole che sembrano zucchero filato, pensiamo alle nostre vacanze estive. Lo so, fa strano: ma come? Siamo in vacanza e pensiamo già alle prossime? In realtà sono già due mesi che cerchiamo un volo economico per Bangkok per agosto ma le tariffe sono improponibili. Il problema dei voli lungo raggio è che devi sempre stare all’occhio per trovare tariffe convenienti e così ci prendiamo sempre con molto anticipo. Il nostro desiderio sarebbe quello di visitare il Laos e la Cambogia che però sono abbastanza difficili da raggiungere, nel senso che da Bangkok poi dovremmo entrare in uno di questi due paesi o via terra o comunque via aria, prendendo un altro volo. Il tutto ci verrebbe a costare un bel po’ solo di biglietto aereo: se ci aggiungiamo i servizi a terra che, per quanto economici, incidono comunque, andiamo un po’ fuori budget. Discuti e ridiscuti su possibili mete (torna l’Armenia, torna la Russia, torna…il mondo) e poi, improvvisamente uno di noi due butta là: “E se tornassimo in India?”. E l’altro: “Beh, quasi quasi….non sarebbe affatto una brutta idea”. L’idea nasce anche dal fatto che a Mumbai (o Bombay che dir si voglia) abbiamo i nostri cari amici Danika e Christian che vivono lì già da un anno e mezzo e che dovranno farsi qualche altro mese per lavoro in questa caotica città. Più di una volta ci hanno chiesto di andare a trovarli, sapendo della nostra passione per l’India ed anche perchè … nessun’altro dei loro amici ha manifestato nemmeno la più pallida intenzione di raggiungerli!

La cosa passa come un lampo: ci ripenseremo quando saremo a casa, per il momento ci godiamo questo splendido paradiso (per chi non l’avesse letto, rimando al nostro racconto “I salotti di La Digue”, pubblicato anche su Turisti per Caso).

Tornati dalle Seychelles, ci mettiamo in moto, anche se con molta calma, per cercare un volo decente su Mumbai. Diamo la caccia all’occasione per un paio di mesi senza trovare nulla di interessante: il più basso lo offre Finnair a 770,00 Euro a testa. Non sarà un affarone ma la tariffa non è male, soprattutto se confrontata con altre.

Poi il 20 maggio succede qualcosa che ha dell’incredibile (o quasi). Mi chiama Stefano informandomi dell’arrivo di una mail di Lufthansa che solo per oggi, prenotando on line, farà offerte strepitose sui voli per l’Asia.

Mi collego immediatamente al sito e troviamo una tariffa incredibile: a/r Venezia-Mumbai, via Monaco, dal 6 agosto al 2 settembre a, udite udite, 447,00 Euro a testa comprese tasse. Da lì’ ad estrarre la carta di credito e prenotare, ci metto 2 secondi netti, con la grande preoccupazione di aver messo i nomi giusti….Quando stampo l’e-ticket ancora non ci credo e guardo le cifre. Abbiamo avuto un sedere pazzesco.

Quindi i biglietti in mano ce li abbiamo e la prima cosa da fare è scrivere a Danika e Christian per comunicare loro la buona notizia. Inutile dire che sono felicissimi e che ci ospiteranno volentieri quando saremo a Mumbai.

Secondo passo, scrivere al nostro “amico” (forse alla fine del racconto capirete il perchè delle virgolette…) Rajen, che due anni fa ci aveva organizzato un fantastico viaggio nell’India del Sud, per chiedergli consigli sull’itinerario. Inizia quindi il solito scambio di mail. Rajen, dapprima ci propone il Rajasthan, che scartiamo. Poi l’Himachal Pradesh ed il Kashmir, e gli scrivo se si è bevuto il cervello vista la situazione in quel posto (per inciso: mi dice che il Kashmir è tranquillo al 101 % e che, se non mi fido, posso pagare tutto il viaggio alla fine….SE CI ARRIVO, gli rispondo!!!). Non vi sto a raccontare tutte le mails inviate ma alla fine optiamo per il seguente itinerario: Mumbai (da soli), volo interno su Delhi (che ho prenotato io con Spicejet, compagnia low cost indiana, solo andata per due Euro 80,00) dove ci fermeremo un paio di giorni, poi lo stato dell’Uttarankan con Haridwar e Rishikesh, il Punjab con Chandigarh, Amritsar e Attari sul confine pakistano, e ancora lo stato dell’Himachal Pradesh con Dharamsala, Shimla, Nagar e Manali, la traversata sulla Great Himalayan Road con pernottamenti a 3.300 e 4200 metri di altitudine, e finalmente il Ladakh dove passeremo 10 giorni tra Leh e le valli circostanti.

La burocrazia, fortunatamente, non ci porta via tempo: contattiamo l’ufficio di Roma per i visti,. spediamo i passaporti che l’amico Tullio andrà a ritirarci dopo qualche tempo e, dopo simpatiche battaglie per la scelta degli alberghi (…..), dopo aver appreso che non saremo ospiti da Danika e Christian ma che la loro società vuole a tutti i costi darci un appartamento tutto per noi poco sotto i nostri amici, ci godiamo i week end al mare e ci sobbarchiamo le ultime dure ore di lavoro (luglio è sempre un mese ALLUCINANTE) ed attendiamo placidamente il 6 di agosto.

APPARTAMENTO 401 AL VASANT OSCAR RESIDENCE

Venezia – Mumbai – 6/10 Agosto 2008

La mattina del 6 agosto siamo pronti con le valigie in mano e, puntuale come un orologio svizzero, arriva l’amico Igor che ci porterà all’aeroporto. Abbiamo ancora la macchina di Stefano e lo scooter da parcheggiare (la sera prima non si poteva fare…eh no! Sempre tutto all’ultimo minuto…), per cui verso le 12.30 ci incamminiamo verso il Terraglio, Stefano davanti in scooter, io dietro con la sua macchina, Igor dietro a me con le valigie. Improvvisamente il mio telefono suona. E’ Stefano che chiama. Panico. Perchè so già che è successo qualcosa. Ed infatti mi dice di aver fatto un incidente con un’auto. Sgommo e arrivo sul posto e vi racconterò quello che è successo abbastanza di corsa: è ferito ad una gamba, fa fatica a camminare, non sappiamo se ci sia frattura, vuole a tutti i costi partire lo stesso, compilo la constatazione in fretta e furia sotto il sole cocente dell’una (prima di partire ho avuto la brillante idea di raparmi a zero i capelli, per cui mi sembra di avere una fiamma ossidrica in testa!), ripartiamo con le macchine (lo scooter lo recupererà Igor), arriviamo davanti allo studio della dottoressa di Ste che lo rassicura sul fatto che non c’è frattura, giungiamo all’aeroporto, facciamo il check in appena in tempo, andiamo al posto di primo soccorso dove viene medicato, entriamo agli imbarchi e faccio scorta di garze. Uffffffffffffffffffffff. Si parte. Un po’ di preoccupazione, ovviamente, ce l’abbiamo ma di fronte al desiderio di Stefano di voler ugualmente fare questo viaggio non ho potuto fare altrimenti. D’altronde, quando arriveremo a Mumbai, avremo Danika e Christian che ci staranno vicini e quindi mi metto un po’ più tranquillo. Quando arriviamo all’aeroporto di Monaco, la scena è da film: io che scarrozzo Stefano a bordo di una comodissima sedia a rotelle, mi faccio dare del ghiaccio fresco dalla signora del ristorante che posizioniamo sulla gamba, lo sistemo sulle sedie dell’aeroporto e me ne vado in giro al Duty Free!!!!

Finalmente imbarcano il volo intercontinentale. Anche qui solita scena da film, nel senso che imbocchiamo la fila più corta che però si blocca (mentre quella più lunga scorre tranquillamente). E io che penso “E te pareva! Solita sfiga!!!”. E invece…..miracolo! Quando la hostess di terra passa il nostro boarding pass sotto lo scanner et voilà, ci danno l’upgrade in business!!!! La gioia è doppia, anzi tripla: a) siamo felicissimi perchè con Stefano in quelle condizioni il volo intercontinentale in economica non sarebbe stato il massimo b) siamo ultra felici perchè, ovviamente, volare in business è….another world c) siamo ultra ultra felici perchè….abbiamo pagato 447,00 Euro…e ci danno pure l’upgrade! Grande Luthansa.

Inutile dirvi che viaggiare in business è…tutto un altro viaggiare! Cena squisita, riposo assicurato, qualche film, un po’ si dorme, colazione abbondante, due chiacchiere con i membri dell’equipaggio veramente carini e finalmente atterriamo al Chattrapathi Airport di Mumbai.

7 agosto

Solite trafile burocratiche ma abbastanza spedite, cambiamo un po’ di rupie per i primi acquisti e ci dirigiamo verso l’uscita dove veniamo imbottigliati in una fila gigantesca di indiani urlanti e vocianti. Ma, sopra tutti (ed è proprio il caso di dirlo) spicca il caro Christian che ha fatto una levataccia per venirci a prendere insieme a Santosh, autista di fiducia. Pioviggina, ma in un battibaleno carichiamo armi e bagagli sulla lussuosa Toyota e partiamo in direzione Mulund. La strada è intasata (come al solito) e nel ritrovare colori, odori, suoni e pericoli stradali dell’India, arriviamo sani e salvi al Vasant Oscar, un complesso di condomini in una bella zona residenziale. Il palazzo “Cascade” ci accoglie con il suo gentilissimo “watchman” (termine che gli indiani usano per indicare il guardiano che, giorno e notte, staziona davanti all’ingresso). L’appartamento 401 che Chri e Danika ci hanno messo a disposizione è carino, pulitissimo ed accogliente. Danika ci ha preparato asciugamani e lenzuola che profumano di ammorbidente, cosa non facile da trovare in India, quindi è logico che tutto ci sembri un sogno.

Saliamo quindi all’appartamento 708 dove abitano i ragazzi e Danika ci accoglie con una mega colazione. ed un sorriso immenso. Dopo poco li salutiamo perchè devono andare al lavoro. Noi scendiamo “a casa nostra”, ci cambiamo ed usciamo subito per andare al Nirmal Lifestyle, un grandissimo centro commerciale all’aperto a 5 minuti a piedi che Dani e Chri ci hanno consigliato. La strada che ci porta al mall è costellata di tipiche attività indiane: riparatori di moto e motorini, barbieri che svolgono il loro lavoro all’ombra degli alberi e con i clienti seduti sul muretto, venditori di samosa ed altre delizie. I negozi del mall però sono ancora chiusi e quindi ci prendiamo un caffè al McDonald’s pienamente rilassati. Poi ciondoliamo per i vari negozi ma la stanchezza, ben presto, si fa sentire: stremati e distrutti, verso l’una ci dirigiamo verso casa dove crolliamo disperatamente a letto con il condizionatore a palla. Alle quattro ci alziamo ben riposati, saliamo da Dani e Chri (che gentilmente ci hanno lasciato la chiave) per berci un caffè e poi torniamo al Nirmal dove curiosiamo da Crosswords tra libri e DVD. Il tempo è molto strano, va e viene: un momento c’è un sole incredibile, dieci minuti dopo si aprono le cateratte del cielo e vien giù il diluvio che sferza la cupola trasparente del Nirmal. Chiacchieriamo di cinema ed altro con i ragazzi del Levi’s shop, dove adocchio una borsa che però non acquisto, compriamo qualche DVD di film Bollywodiani che adoro, e ci incamminiamo nuovamente verso casa visto che sta facendo buio. Proprio sul vialetto del Vasant, la macchina di Dani e Chri ci accosta: stanno tornando dal lavoro. La serata con i nostri fantastici amici trascorre tra una pasta al ragù (quello vero!!!) e tante chiacchiere che ci porteranno dritti dritti a letto, mentre fuori si scatena l’ennesimo diluvio.

8 agosto

Sveglia e colazione da Dani e Chri con una stupenda torta di mele preparata dai ragazzi apposta per noi (ci stanno decisamente viziando!!!). Poi saliamo tutti in macchina per accompagnare Chri al lavoro mentre Danika verrà con noi in giro per South Mumbai. Con il fido Santosh che cerca in tutti i modi di districarsi tra gli ingorghi bombeiani, percorriamo le strade della maestosa città dapprima fiancheggiando orrendi palazzoni che sembrano vecchissimi ma che in realtà avranno una decina d’anni e poi, più ci avviciniamo al “centro” bei palazzi vittoriani completamente abbandonati a sè stessi: abbiamo l’impressione (che verrà rafforzata lungo tutto il nostro viaggio) che il popolo indiano non conosca la parola “manutenzione”. Arriviamo finalmente al Gateway of India, posto tanto sognato e agognato, dove liberiamo Santosh e ci buttiamo alla scoperta di questa parte di città. Purtroppo il Gateway è in ristrutturazione (ma allora ne sanno qualcosa, sti indiani!!!) ma riusciamo a fare ugualmente delle belle foto. Poi visitiamo il maestoso Hotel Taj, dove il lusso si spreca tra giardini, fontane, piscine ed interni d’epoca; quindi imbocchiamo la bella strada principale costeggiata di edifici storici. Facciamo quindi un salto al mitico ristorante Leopold, frequentato da ogni turista di passaggio a Mumbai che si rispetti, dove mangiamo un riso fritto ed un pollo allo zenzero stupendi e chiacchieriamo con l’equipaggio della business del nostro volo che per puro caso occupa il tavolo a fianco. Riprendiamo quindi la camminata dopo aver tirato fuori a forza Stefano e Danika da un negozio di antiques, ed ammiriamo il bellissimo Regal Cinema in puro stile art decò, la National Gallery, l’Elphistone College, la Sasson Library, l’Oval Maidan dove ragazzini improvvisano partite a cricket, la splendida Università che però non possiamo visitare perchè stanno eseguendo una puja (celebrazione religiosa), la High Court, la Flora Fountain per arrivare infine alla strepitosa Victoria Station, tutta stucchi, statue, doccioni, in pieno stile vittoriano. Oramai però è giunta l’ora di lasciare South Bombay per tornare verso casa: considerando che ci vorranno circa due ore a causa del traffico e che stasera alle 19.30 abbiamo un invito dai vicini di Dani e Chri per la puja, non abbiamo molto tempo. Danika si lancia letteralmente contro i taxi per contrattare la corsa: è più che mai scatenata e più di una volta manda a quel paese gli autisti che arrivano a chiedere fino a 1000 rupie! Alla fine troviamo un onesto taxista che mette in funzione il meter (tassametro) e, proprio quando comincia a diluviare, ci avviamo verso casa. Chi ci conosce sa che noi due non riusciamo a star fermi e quindi, scaricata Danika di fronte a casa, prendiamo un tuk tuk che ci porta al Big Bazar altro centro commerciale a dieci minuti di strada che visitiamo in lungo e in largo. Facciamo altre spese nel negozio di dvd dove compriamo la colonna sonora di Singh is Kinng, film dell’anno che esce proprio oggi in migliaia di cinema indiani: tutto il giorno siamo stai bombardati dalla pubblicità e dalle canzoni del film, per cui ci pare il minimo regalarla ai ragazzi! Ultimo acquisto: una gigantesca papaya costata pochissimo che ci mangeremo domani a colazione.

Torniamo a casa fra la pioggia scrosciante, saliamo al settimo piano e Shindu e la sua famiglia ci accolgono nella loro casa dove un bramino sta preparando gli ammennicoli per la cerimonia che si rivela lunga ma molto affascinante: costruzione di un mandala con polveri naturali come pepe, peperoncino, farina di riso ecc., gran fuochi che sgorgano da lampade e che provocano un fumo soffocante, benedizioni a go go ed infine una luculliana cena “indian style” con blessed food (cioè cibo preparato e benedetto dal bramino). Bellissima serata e bellissima esperienza, in mezzo a tutto il parentado ed al vicinato della simpatica famiglia. Alle undici e mezza crolliamo a letto.

9 agosto

Oggi per la visita di altra parte della città ci accompagnerà anche Christian. Dopo un bel po’ di giretti (Santosh chiedeva a tutti i taxisti indicazioni, ma puntualmente ci ritrovavamo sempre allo stesso punto!), finalmente troviamo la zona di Kottachiwadi, vecchia enclave cristiana dove resistono ancora una bella chiesetta ed un quartiere pieno di casette di legno a due piani coloratissime: bellissimo vedere la gente sulle porte e sulle finestre che ci accolgono con sorrisi e si fanno fotografare tranquillamente. Tantissime le attività artigianali esercitate in questo quartiere: dai sarti sorridenti dietro alle loro macchine da cucire, ai tipografi, alle stiratrici, ai venditori di fiori, di samosa e…di parrucche. Ci facciamo quindi un bel giro a piedi su Marine Drive e Chowpatti Beach e poi ci mangiano una buonissima pizza in un locale molto carino con vista mare. Poi ci dirigiamo alla bellissima Haji Ali Dargah, una moschea antichissima affacciata sul mare per raggiungere la quale dobbiamo percorrere una stretta passerella di cemento che con l’alta marea viene interamente sommersa isolando la moschea. Ripartiamo quindi in direzione Crowford Market, ordinatissimo mercato nella zona destinata ai visitatori ma impressionante nelle retrovie dove c’è il macello per gli animali e quintalate di merce stivata che offre riparo a pantegane grosse come volpi!

Visitiamo quindi il vicinissimo quartiere musulmano con la splendida Jumma Masjid e ci troviamo in mezzo a stradine trafficatissime e piene di gente: Danika sorride e mi dice “This is real India”! Torniamo quindi verso Crowford Market e, in mezzo alla folla, cerchiamo il fido Santosh: sulla strada circola di tutto, vacche, carretti, taxi, autobus, galline, gente a piedi e in bicicletta. All’orizzonte ecco apparire la Toyota crema….è lui! Ci sbracciamo affinché Santosh ci veda ed infatti si ferma in mezzo al traffico incredibile e noi ci infiliamo in fretta in macchina. Dopo le solite due ore di strada (o poco meno…) arriviamo a Mulund. Per l’ultima cena i ragazzi ci preparano pasta al tonno e pomodoro che divoriamo insieme a grana e grissini (probabilmente questo sarò l’ultimo pasto decente per tutto il prossimo mese….) e la serata continua tra chiacchiere ed allegria finchè ci accorgiamo che è veramente tardi e che è giunta l’ora di scendere “a casa nostra” che ci accoglie con la sua freschezza e comodità. Ancora una volta, crolliamo distrutti a letto.

10 agosto

Stamattina non abbiamo fretta quindi ci crogioliamo un po’ a letto, anche per dar modo a Danika e Christian di godersi la domenica mattina. Dopo una robusta colazione a base di biscotti rigorosamente Indian style è giunta l’ora di lasciare il nostro appartamento 401….Lo facciamo con molto dispiacere: lasciare Mulund vuol dire lasciare i nostri amici, la loro allegria, la loro compagnia. Ma torneremo a settembre quindi non è un addio ma solo un arrivederci. Con il solito Santosh alla guida, i ragazzi ci accompagnano al Santa Cruz Airport, lo scalo domestico di Mumbai. Baci, abbracci, quasi lacrime e ci accingiamo a varcare la soglia del terminal, non prima di aver perso quasi un quarto d’ora per mostrare ai soldati di guardia documenti, biglietti ecc. ecc. Arrivati all’interno del terminal, però, una brutta sorpresa ci attende: Spicejet, la compagnia low cost con cui abbiamo prenotato il volo Mumbai-Delhi, ha cancellato il volo delle 14.00! Dopo un primo attimo di smarrimento partiamo all’attacco del banco della Compagnia, infuriati, e tutto più o meno si sistema nel senso che ci riproteggono sul volo delle 17.00. Insisto con un funzionario di Spicejet perché avverta Rajen della cancellazione: a Delhi, infatti, lui ci aspettava per le quattro del pomeriggio e non voglio che perda un sacco di tempo. Dopo una discussione dove non si capiva se l’avrebbe fatto o no, dopo che più dipendenti della Compagnia sono accorsi per vedere “come si poteva risolvere il problema” (problema costituito dal…fare una telefonata….), dopo che ho cominciato a spazientirmi (loro ci hanno provocato il disagio, loro devono risolverlo) finalmente il funzionario estrae il suo cellulare dalla tasca della camicia (ci voleva tanto????) e chiama Rajen avvertendolo del ritardo. Tutto a posto, quindi. Ci invitano a fare subito il check in anche se mancano più di quattro ore alla partenza, cosa che facciamo per liberarci dei dinosauri (per chi non ha letto il nostro racconto “Trucco e parrucco al Caffè Segafredo Zanetti di Shibuya, Tokyo” i dinosauri sarebbero le nostre due Samsonite…pesantissime e strapiene) salvo poi scoprire che una volta ottenute le carte d’imbarco non è più possibile uscire dall’aeroporto, il che significa che non possiamo più fumare. Potete immaginare quanto lunghe siano state quelle ore! Cerchiamo di ingannare l’attesa mangiando un ottimo hot dog ma senza prendere il caffè (dopo il caffè, di solito, si fuma e qui non è possibile, mannaggia!!!) ed alla fin fine il tempo passa e finalmente partiamo verso la capitale indiana.

SINGH IS KINNG

Delhi – 10/12 Agosto

Arriviamo a Delhi puntualissimi ed usciamo dall’aeroporto affrontando una folla pazzesca di agenti di viaggio, fattorini di alberghi, tassisti privati, tutti con il loro bel cartello in mano con su scritto il nome del cliente. Finalmente vediamo il “nostro” cartello: il solito “Mr. Fabris x 2” è tenuto in mano, stavolta, da quello che sarà per i prossimi giorni il nostro autista. Si chiama Khartar ed è accompagnato da Rajen che finalmente conosciamo di persona. I due ci conducono attraverso un parcheggio zeppo di auto alla nostra macchina, una sfavillante e gigantesca Toyota Innova dove saliamo e seguiti dalla minuscola Maruti rossa di Rajen, ci dirigiamo verso il nostro hotel che sappiamo essere a circa un’ora dall’aeroporto.

Delhi ci appare subito molto più pulita ed ordinata di Mumbai: strade molto larghe, auto che mantengono la propria corsia, viali alberati, giardini curati. Fa già buio e i bei viali sono tutti illuminati: il casino di Mumbai sembra lontano anni luce. Dopo qualche tribolazione (il nostro autista non conosceva la strada e quindi ogni due per tre si fermava a chiedere informazioni ai passanti…) arriviamo finalmente al Lemon Tree Hotel letteralmente “inglobato” in un grandissimo e sfavillante centro commerciale, pur avendo un’entrata indipendente. La hall è molto carina, pulita ed ordinata. Ci assegnano la camera, facciamo due chiacchiere con Rajen che ci consegna i documenti che ci serviranno durante il viaggio, ci diamo appuntamento con Khartar per la mattina successiva ed usciamo diretti al centro commerciale per mangiare qualcosa. Sono le nove e mezza passate ma per fortuna il McDonalds è ancora aperto. Stefano sperimenta un Veg Burger che dice essere molto gustoso (io ho i miei dubbi….) mentre io vado di McChiken, e poi, belli sazi, ci facciamo un giretto per i cinque piani del mall pieno di negozi all Indian Style. Sono le undici passate quando i soffici lettoni del Lemon Tree ci accolgono. Domani ci aspetta la visita di Delhi.

11 agosto

La colazione al Lemon Tree è particolarmente sfiziosa e noi, affamati, ci facciamo sotto. Puntuale alle 9.00 viene a prenderci Khartar con il quale ci dirigiamo verso il centro. Ci fermiamo a caricare la nostra guida per questa giornata, un distinto ed anziano signore che subito familiarizza con noi. La gamba di Stefano è ancora molto gonfia (e sempre bendata) per cui ci fermiamo in Connaught Place in una farmacia (??) per prendere una pomata. La “Voltrina+” (così si chiama) ha un odore fortissimo di mentolo e quando Stefano se la spalma sulla gamba gli sembra che prenda fuoco (e costringe gli occupanti dell’auto ad aprire i finestrini per le forti esalazioni che sprigiona). Preferiamo non indagare sul contenuto della pomata ma nei giorni successivi dovremmo ricrederci visto che avrà un ottimo effetto curativo e…sgonfiante! Ci dirigiamo quindi a Old Delhi dove visitiamo la Jama Mashid, la moschea più antica e più visitata di Delhi: bellissima la scalinata che conduce al vasto piazzale, molto curati i fregi, le torrette e le mura esterne, splendida la spianata centrale che può ospitare migliaia di fedeli. Risaliamo in macchina e circumnavighiamo il Forte di Delhi, chiuso per i preparativi in vista dell’Independence Day del 15 agosto: ci dobbiamo accontentare, dunque, di fare qualche foto dall’esterno cosa che però è sufficiente per rendersi conto della vastità ed imponenza del Forte. In giro c’è moltissima polizia e qualche posto di blocco. Arriviamo al Raj Gath dove è stata interrata una lastra di marmo nero nel punto esatto in cui il Mahatma Gandhi fu cremato, ma anche questo monumento è chiuso in vista della festa. Kapoor (la nostra guida) ci porta quindi al Lodi Garden, un posto davvero favoloso: bellissimi e curatissimi giardini con tombe Moghul e moschee antichissime, un po’ in decadenza, un po’ restaurate. Il cielo è azzurro e contrasta con il verde dei prati e delle palme. Passeggiamo con calma e tranquillità in questo pezzo di paradiso al centro della capitale Indiana, all’ombra dei frangipani e delle altissime palme. Riprendiamo quindi la visita ed andiamo al Lakshmi Narayan Temple, un tempio del 1938 con delle altissime cupole che riproducono lo stile tipico dei templi dell’Orissa. Ci dirigiamo poi verso la splendida spianata del Rajpath o via reale, racchiusa da un lato dal Rashtrapati Bhavan, residenza del primo ministro indiano, e dall’altro dal maestoso India Gate. I palazzi del Secretariat (parlamento) sono davvero maestosi ma la cosa che ci fa impazzire sono le centinaia di Ambassador bianche parcheggiate davanti ad uso esclusivo di ministri, parlamentari e vari funzionari statali: abbiamo tanta nostalgia della nostra auto che per un mese ci ha scarrozzato per le vie dell’India del Sud due anni fa. Per fare il viaggio di quest’anno non ci è possibile utilizzarla viste le alte vette himalayane che dovremmo attraversare. Kapoor ci sconsiglia di entrare nel complesso del Kutub Minar visto che fa molto caldo, ma vuole lo stesso farci vedere l’alta torre che caratterizza il complesso. Ci porta quindi ad un tempio giainista che sorge su una collina e dalla sommità dello stesso dove troneggia un’immensa statua del buddha, godiamo di una fantastica vista del parco con l’alta torre. Passiamo poi per il modernissimo ed immenso Lotus Temple (chiuso anch’esso! Non venite di lunedì, a Delhi, e men che meno a metà agosto!!!), con la sua forma di fiore di loto semichiuso, costruito completamente in cemento armato e poi, vista l’ora e visto che Stefano ha un po’ di dolori alla gamba, decidiamo di tornarcene in albergo per riposarci. Certo siamo consapevoli che abbiamo visto una piccolissima parte di questa città, ma ci saranno altre occasioni di tornare a Delhi. Giunti al nostro Lemon Tree vista l’alta temperatura decido di andarmene un po’ in piscina mentre Ste si riposa in camera. L’acqua è bellissima, pulita e fresca al punto giusto, due bracciate rilassate e poi sul lettino a leggere. Poco dopo Ste mi raggiunge con la sua gamba fasciata e si distende su un lettino: subito arriva l’addetto alla piscina che gli procura un asciugamano arrotolato e glielo posiziona sotto la gamba in modo che rimanga rialzata. Questo sì è prendersi cura degli ospiti! Ci crogioliamo alla fresca brezza del tardo pomeriggio indiano finchè non è quasi buio. Doccia veloce e poi andiamo a cena al Pizza Hut non prima di aver preso una decisione un po’ folle: stasera andremo al cinema a vedere Singh is Kinng! Questo film ci ha talmente ossessionato a Mumbai che non possiamo evitare di andare a vederlo. Sappiamo già che non capiremo nulla visto che è in Hindi e non ha sottotitoli in inglese, ma è un’occasione troppo ghiotta avere un cinema attaccato all’albergo. I biglietti ci costano 100 rupie l’uno, per noi una bazzecola ma per gli indiani non è propriamente economico; chiedo all’attonito “bigliettaio” di darci due bei posti e questo a profondersi in mille spiegazioni su come è fatta la sala, su come è il film, ecc ecc. I ragazzi del Pizza Hut ci accolgono con tanti onori e ci portano due pizze buonissime (continuiamo a mangiare occidentale…finchè possiamo !); poco dopo le nove ci dirigiamo quindi all’entrata del cinema dopo aver fatto un salto in camera a riporre sigarette ed accendino visto che è vietatissimo introdurre materiale infiammabile in sala. La perquisizione è peggio che in aeroporto: ci svuotano perfino le tasche dei jeans! Il film ci piace, infarcito com’è di balletti e canzoni, e l’attrice principale, Katrina Kaiff è una vera star che manda in visibilio il vociante pubblico: la prima scena in cui compare, girata al rallenty, la vede fare il suo ingresso a tutto schermo dopo una “sventagliata” di capelli neri accompagnata dal boato del pubblico che applaude a scena aperta! Alle 23.15 c’è l’intervallo. Intervallo? Si, fine primo tempo. Il film durerà fino all’1.15, orario per noi inconcepibile visto che siamo alzati da stamattina alle 7.00 e domani dobbiamo partire presto. A malincuore abbandoniamo la sala, sperando di trovare, nei prossimi giorni, il DVD per vedere come va a finire questo polpettone indiano. Arrivati in camera raduniamo le nostre cose nelle stipatissime valigie e ci buttiamo a letto.

UN MERAVIGLIOSO GANGA AARTI

Haridwar – Rishikesh (Uttarakhan) 12/13 Agosto 2008

12 agosto. Dopo la solita abbondante colazione, partiamo con il nostro Karthar in direzione dello stato dell’Uttarakhan o Uttaranchal. Il traffico di Delhi è particolarmente intenso stamattina ma il nostro autista pare destreggiarsi bene. Giunti in periferia, invece di imboccare l’autostrada, svoltiamo per una strada che dopo qualche centinaio di metri si immerge in una incredibile campagna verdissima. Costeggiamo un fiume che ogni tanto è attraversato da scalcagnati ponti in mattoni rossi. Ogni volta che arriviamo ad uno di questi ponti, la strada si anima di venditori di frutta, gente che chiacchiera, donne che fanno il bucato lungo il fiume. Poi altra strada deserta con, ai lati, oltre al solito placido fiume, palme, coltivazioni di riso, canna da zucchero e frumento. Un cielo bellissimo completa questo quadro meraviglioso. Incrociamo un gruppo di ragazzi che sta lavando un camioncino immerso fino al motore nel fiume e poco più in là due anziani fanno fare il bagno a dei bufali d’acqua; un trattore irrompe in strada con il rimorchio carico di fieno e di donne dai saree coloratissimi; bambini che schiamazzano felici nell’acqua, giocando a rincorrersi; due anziane escono da un viottolo conducendo al pascolo delle mucche. Insomma siamo a pochi chilometri da Delhi ma sembra di essere nella profonda India di cent’anni fa. Khartar chiede se può fermarsi per il pranzo e noi acconsentiamo, ma di mangiare non abbiamo voglia per cui ciondoliamo al bordo della strada finchè ci imbattiamo in un banchetto presieduto da due ragazzini che vendono dei mango. Ne compriamo un chilo dopo un po’ di trattativa e i due fratellini acconsentono di buon grado a farsi fotografare di fronte alla loro preziosa mercanzia. Compriamo anche qualche banana che ci mangiamo all’ombra di un albero di neem mentre aspettiamo il nostro Khartar che dopo un po’ compare soddisfatto del suo pasto (riso e dal). Riprendiamo la strada per Haridwar dove, ci dice Khartar, la nostra guida ci aspetta. Dopo una mezz’oretta però il nostro autista comincia a comportarsi in maniera molto strana: intanto ha rallentato bruscamente l’andatura e viaggia a circa 40 km orari, poi sbadiglia ogni due per tre, si passa più volte il fazzoletto su faccia, occhi e testa, tanto che comincio a preoccuparmi che non gli stia venendo un colpo di sonno. Nel frattempo il cielo comincia ad oscurarsi e nuvoloni neri carichi di pioggia si ammassano sopra di noi. Arriviamo ad Haridwar ad un’andatura decisamente lenta ma qui non troviamo nessuno ad aspettarci. Khartar tira dritto sempre mantenendo una velocità degna di un carretto tirato da un asino. Si scatena il diluvio universale e la strada, nel giro di 10 minuti, si riempie letteralmente d’acqua. Troviamo un blocco causato da un crollo di un albero che, a sua volta, ha causato l’uscita di strada di un camion ed un’auto. Oramai abbiamo superato Haridwar di una decina di chilometri e, sinceramente, non campiamo dove stiamo andando. Alla fine mi stanco ed interrogo il nostro uomo che, visibilmente imbarazzato, non riesce a darmi una spiegazione logica e farfuglia qualcosa in un inglese sconclusionato. Va avanti a stento, facendo fatica addirittura a vedere la strada a causa della pioggia torrenziale che sta cadendo. Si ferma di fronte ad un fruttivendolo, esce e va chiedere non so bene cosa, limitandosi a dirci “I will check”……Torna dopo tre minuti, bagnato fradicio, gira la macchina e si dirige nuovamente verso Haridwar. Chiedo ancora spiegazioni ma mi risponde borbottando qualcosa di incomprensibile. Finalmente arriviamo di fronte ad un albergo dove Khartar si ferma e…finalmente incontriamo la nostra guida che, attonito, chiede a sua volta spiegazioni all’autista. Alla fin fine non abbiamo capito che cosa è successo se a Khartar fosse partita qualche rotella, se la guida avesse un altro impegno prima e quindi abbia cercato…di prendere tempo, se ci fossimo persi. Ma qui in India, ottenere spiegazioni è un’utopia e quindi ci rassegniamo, dimentichiamo e facciamo conoscenza con la nostra guida. Sanjev è un tipo molto sbrigativo e non molto simpatico ed esordisce dicendoci che non sa se, vista l’ora, faremo in tempo a visitare i due templi principali di Haridawar e ci chiede di scegliere quale vogliamo vedere. A questo punto l’incazzatura si fa grande: ma come, ci chiediamo e gli chiediamo, abbiamo perso più di un’ora a girare tra Haridwar e Rishikesh senza meta per andare in cerca di lui e adesso ci dice che parte del programma salterà? Do un’occhiata all’orologio e, pur non essendo una guida, vedo che il tempo per fare tutto c’è. Evidentemente non ha molta voglia di sbattersi!! Quindi farò quello che Stefano battezzerà “un bel dest riga!!” e cioè un cazziatone che di solito gli alti ufficiali fanno (anzi facevano) ai giovani di leva quando non tenevano l’ordine nel plotone. Gli dico che il nostro programma prevedeva questo e quello e che questo e quello dobbiamo vedere, che non ce ne frega niente se lui ha altri impegni o vuole tornare a casa presto, che abbiamo pagato per avere tutto ciò e che se anche torniamo tardi in albergo va bene uguale, tanto non abbiamo ricevimenti a cui partecipare! In macchina scende un silenzio tombale e dopo cinque minuti, Sanjev con voce smorzata ci dice che “cercherà di farci vedere tutto”. Io rispondo che così è ok. Ci dirigiamo quindi (con la guida che c’ha un muso lungo da qui a Delhi…) sulle colline fuori Haridwar per visitare il Chandi Devi, un tempio arroccato su un’altura per raggiungere il quale prendiamo una specie di ovovia coloratissima. Il tragitto è bello e dall’alto si gode un panorama di Haridwar e di tutta la piana del Gange strepitoso, visto che nel frattempo ha smesso di piovere ed è pure uscito il sole: sul gigantesco spiazzo sulle rive del fiume viene allestita la “tendopoli” che serve ad ospitare i milioni di pellegrini che ogni 12 anni affollano Haridwar per assistere al maestoso Kumba Mela durante il quale, per giorni e giorni, si tengono cerimonie, preghiere comuni, canti religiosi. Il tempio, in sé e per sé, non è nulla di straordinario, salvo la dea che venerano qui rappresentata da una statua piccola ed informe di un colore arancio accecante che strega immediatamente Stefano (“Mai vista una statua così: è bellissima!”). Certo, come primo tempio il paragone con gli imponenti templi del sud viene spontaneo, paragone che non regge assolutamente. Però anche qui si respira una bella atmosfera insieme ai pellegrini che depongono offerte (fiori, riso, dolci) davanti alla statua. Riscendiamo con la scassata ovovia e ci dirigiamo verso il centro di Haridwar: la città vista dall’altra parte del fiume è davvero bella. Sembra quasi una piccola Benares: ovviamente il Gange la fa da padrone e, sulle sue rive, decine e decine di gath (piattaforme dove si tengono le cerimonie e si cremano i morti), di templi, di case diroccate, di palazzi decadenti. Percorriamo le strette stradine molto sporche (“This is real India”, direbbe l’amica Danika), costeggiando la ferrovia: qui l’umanità è la più varia, bambini che giocano sui binari, una madre lava i capelli a sua figlia pescando l’acqua in una canale dalle acque torbide, venditori di offerte sotto improvvisate baracche, vecchie che fanno il bucato. Ad un certo punto tutta questa umanità si allontana improvvisamente dalla strada ferrata ed un treno passa sferragliando carico di altra umanità. Arriviamo alla base di un’altra ovovia simile alla precedente, che ci conduce sulla collina sovrastante la città dove è stato eretto il Mansa Devi, una dea che ha la fama di esaudire i desideri dei fedeli che accorrono quindi in massa. Anche questo tempio non è nulla di che, salvo la maschera della dea Mansa, completamente arancione (anche per questa Stefano impazzisce!!) e quasi ipnotica. Una particolarità di questo tempio sono delle cellette poste lungo un corridoio con altrettante immagini di divinità appese alle pareti: in questi spazi angusti sta un sacerdote con un lungo bastone ricoperto di stracci che “abbatte” letteralmente sulle spalle dei pellegrini (a mo’ di benedizione) causando un rumore sordo che ci fa sussultare ogni due per tre. La cosa che ci sembra subito ovvia è che stasera i fedeli si ritroveranno sulla schiena dei bei lividi! Ripercorriamo a ritroso le squallide stradine e risaliamo in macchina per visitare un altro tempio, nuovissimo e molto kitch: l’interno è interamente decorato da specchi e da gigantesche statue del pantheon delle divinità Indù illuminate da luci che farebbero invidia alla miglior discoteca di Riccione. Ad un certo punto Stefano caccia un urlo: una pantegana, non grande come quella del Crowford Market ma poco ci mancava, sgambetta sul pavimento (scivolandoci sopra visto che si tratta di marmo) e sparisce dentro un tombino! Affrettiamo il passo, concludiamo il nostro giro davanti a Shiva e Parvati a bordo di un carro fastoso ed a Ganesh che non manchiamo mai di “salutare” durante le nostre visite, e risaliamo in macchina per dirigerci di nuovo verso il centro di Haridwar. Qui, sulle rive del maestoso fiume sacro ci mescoliamo a migliaia di pellegrini seduti per terra, arrampicati sui ponti o sui rari lampioni, ma felici nonostante le scomode posizioni. La cerimonia del Ganga Aarti si svolge ogni sera: dai templi posti lungo il Gange, dopo che i pellegrini hanno incitato i sacerdoti con canti e con migliaia di rupie donate ai raccoglitori di offerte che agiscono come veri e propri esattori delle tasse, escono i fuochi sacri che vengono agitati al ritmo delle campane e la massa di gente si infiamma, quasi da quei fuochi fosse toccata. Urla, strepiti, mani che si tendono sopra le coppe d’ottone che sprigionano il fuoco, rupie che volano da tutte le parti (e che finiscono comunque sempre e prontamente nelle tasche dei raccoglitori), puro delirio religioso con, sullo sfondo, il possente Gange che invece continua a scorrere tranquillo affollato da centinaia di foglie di banano sulle quali sono state posate candele, riso ed incensi. Lo spettacolo è davvero grandioso anche perché oramai si è fatto buio ma tutta la città è illuminata sia dalle mille fiammelle che attraversano il Gange, sia dai fuochi dei templi. Quando la cerimonia finisce, tutti si zittiscono e se ne tornano chi alle proprie auto, chi alla stazione dei treni, chi alla loro tenda per pernottare, felici di aver vissuto un’ora a diretto contatto con gli dei. Noi, ancora inebriati dall’evento strepitoso, risaliamo in macchina con Sanjev e Khartar che non spiccicano parola, ma la cosa non ci tocca per niente. Attraversando strade buie, rischiarate solo da qualche sonnolento villaggio dove brillano qualche lampadina e qualche candela, arriviamo a Rishikesh. Imbocchiamo quella che sembra una salita e che in realtà è l’ingresso del nostro albergo: già dall’inizio della rampa capiamo molte cose e….il sorriso da ebeti si spegne sui nostri visi. Ed infatti il Great Ganga (nome molto altisonante per un albergo..) è molto modesto, molto vecchio, molto trascurato ma, soprattutto, molto triste. Dopo aver cambiato camera perché il condizionatore non funzionava ed aver finalmente cacciato i porteur, non sappiamo neanche noi se metterci a ridere o a piangere: tendaggi pesanti affollano (è proprio il caso di usare questa parola) finestroni immensi, il frigo-bar (vuoto: serve solo per mettere al fresco le bibite che ti compri fuori) che perde acqua ed ha inondato un pezzo di pavimento, il condizionatore che fa un casino del diavolo, il bagno sul quale è meglio sorvolare, ci fanno un po’ cadere in depressione. Usciamo dalla camera, chiediamo ai ragazzi se ci possono sistemare il frigo ed asciugare l’acqua in camera e poi andiamo a caccia del ristorante dell’albergo,visto che il centro città (???) si trova a dieci minuti di cammino e sono quasi le 9.30 di sera. Il ristorante è di una tristezza inconsolabile e le uniche presenze sono una decina (non scherzo!!) di camerieri in attesa di chissà chi. Ci sediamo, contempliamo la tovaglia non proprio immacolata e facciamo le nostre ordinazioni: riso fritto, rooti con aglio e coca. I camerieri sono gentilissimi ed il cibo buonissimo: ci offrono (complimentary) del rooti sottilissimo e croccante al pepe ed una bevanda simile al lassi (ma senza il succo di mango): sembra più che altro latte mischiato a burro fuso…diciamo che non è proprio il massimo ma ci sforziamo, per dovere di ospitalità, di assaggiarne due decilitri a testa….non commentiamo! Terminata la cena non ci resta altro che andare a letto. Quello che non sappiamo ancora è che la serata sarà ancora lunga. Ci facciamo una doccia asciugandoci con teli non proprio immacolati (ma passi), accendiamo il condizionatore non proprio silenzioso (e passi pure questo), chiudiamo i tendoni pesantissimi attenti a non scrollarli troppo per non trovarci immersi dalla polvere (e avanti col “passi pure questo”), scopriamo i nostri letti e…voilà: macchie ovunque sulle lenzuola, ma macchie macchie, non ombre di macchie! Ci guardiamo, e poi, un po’ arrabbiati, partiamo con le lenzuola in mano alla volta della reception dove i ragazzini stanno guardando un piccolo schermo in bianco e nero che trasmette un vecchio film hindi. Sorpresi e forse un po’ imbarazzati assistono al nostro show notturno con le lenzuola tese fra noi due e subito chiamano l’housekeeping (altro ragazzino allampanato e brufoloso) che subito accorre nella nostra stanza con un pacco di lenzuola…uno peggio dell’altro! Anche lui, mano a mano che le sistema sui letti e poi le toglie, si rende conto che non sono proprio pulite. Alla fine scegliamo la biancheria che sembra meno sporca e buttato (letteralmente) fuori dalla stanza il ragazzino, ci stendiamo distrutti a letto, salvo svegliarci dopo qualche ora per spegnere il condizionatore oltre che rumorosissimo anche “effetto congelatore”, roba da polo nord: preferiamo dormire con il caldo!!!

13 agosto. Ci svegliamo con calma ancora infreddoliti (pare che i condizionatori indiani continuino a fare freddo anche da spenti…), tiriamo le tende ed eccolo lì, il Gange che scorre lento e che ammiriamo dall’alto. Scendiamo a fare una colazione scarsa ma non male e, così corroborati, alle 10.00 partiamo con Khartar e Sanjev in direzione della zona di High Bank dove il Lakshman Jhula, un ponte pedonale sospeso in stile tibetano, attraversa il Gange e porta a dei bellissimi templi. Ma non possiamo arrivarci a causa di uno sciopero dei locali a sostegno della popolazione di Jammu&Kashimr: in questi giorni, infatti, il clima a Shrinagar, la capitale, è rovente ed il governo di Delhi ha imposto il coprifuoco che la gente, però, non ha nessuna intenzione di rispettare con conseguenze disastrose, poliziotti che picchiano gente comune, bombe carta che volano sopra la città, tafferugli ecc.. Ritorniamo quindi indietro e visitiamo un pacifico hashram: Rishikesh è infatti considerata la patria mondiale dello yoga e pullula di questi posti dove si radunano, dormono, pregano e praticano lo yoga migliaia di persone di tutto il mondo. Khartar ci scarica in prossimità del Ram Jhula un altro ponte sospeso che conduce al cuore di Rishikesh, lo Swarg Ashram. Questo ponte dovrebbe essere pedonale, ed infatti è invaso di gente, ma, come spesso succede in India, le regole sono fatte per essere trasgredite e quindi, oltre alle solite mucche che impediscono il passaggio, vi scorrazzano sopra dei bulli su strombazzanti motociclette con il rischio di travolgere i pedoni…e noi! Al di là del ponte, visitiamo altri tre ashram. Alcuni di questi luoghi sono diventati vere e proprio città nella città: decine di persone si sono “impadroniti” delle minuscole stanzette che sorgono all’interno, e concepite inizialmente per ospitare i pellegrini che transitavano in città, diventandone di fatto occupatori abusivi e stabilendo qui la loro abitazione. L’ashram è assolutamente indipendente con tanto di centrale elettrica, latrine, docce comuni, giardini curati con panchine per meditare e, soprattutto, molto affollato. Attraversiamo squallide stradine bagnate da liquidi fisiologici rilasciati abbondantemente dalle vacche che stazionano in ogni dove e dalla folta umanità che affolla questa città; folle di pellegrine vocianti, venditori ambulanti che cercano di sovrastare il caos pubblicizzando la loro mercanzia, mendicanti, finti e veri, sadhu con il corpo cosparso di cenere e coperti solo da un minuscolo doti giallo. Sanjev si congeda dicendo che i suoi servizi sono terminati; noi siamo contenti di sbarazzarci di lui, vista la sua ritrosia ed antipatia e decidiamo di farci portare da Khartar nella Rishikesh Town, ossia al paese che sorge a valle del Gange, luogo che i turisti snobbano concentrandosi nelle due comunità sorte di riflesso al Laksman Jhula ed al Ram Jhula che scavalcano il Gange. Qui, sotto un sole che picchia ed una temperatura che sfiora i 40°, gironzoliamo per il mercato “real India”: passando per le stradine interne scopriamo dei veri e propri tesori dell’arte moghul, bellissimi palazzi, portali in legno decorati, dipinti ed intagliati, di colore giallo ocra o azzurro lavanda. Certo, sono disastrati e trascurati, ma molto affascinanti soprattutto grazie ai giardini interni, non ben tenuti ma con boschetti di mango e frangipani dai fiori bianchi e profumatissimi. Ogni tanto cade un po’ di pioggia sottilissima che però non accenna minimamente a rinfrescare l’aria torrida, ma siamo felici, qui, in mezzo a cuochi che presidiano cucine all’aperto, barbieri di strada, venditori di braccialetti di vetro multicolore, di caldo chai, di pannocchie abbrustolite. Visto il caldo torrido, torniamo in albergo dove pranziamo, in camera, con mango (strepitosi) e banane e ci concediamo un’oretta di sonno. Alle quattro e mezzo dopo un buonissimo nescafè preparato con l’inseparabile bollitore, ci facciamo portare da Khartar al Laskshman Jhula dove il corteo di scioperanti si è oramai disperso. Anche questo ponte è infestato molesti motociclisti che non dimostrano nessun rispetto per i pedoni. Il panorama è bellissimo, dominato dai due stupendi templi a tredici piani, lo Swarg Niwas e lo Shri Trayanbakshwar. Ci facciamo una lunga e bella passeggiata ammirando qualche palazzo vecchio, i ristorantini con le terrazze sul Gange, la solita umanità di pellegrini ed ambulanti e….centinaia di fricchettoni che mi infastidiscono alquanto: ragazzi e ragazze europei, americani e israeliani che ciondolano con i loro abiti in stile indiano, le borse di corda con il simbolo dell’”om” stampato sopra, i dredlok (che io chiamo semplicemente capelli sporchi), qualcuno con un charas (spinello) tra le dita; vengono qui in cerca di alternatività per due, tre, quattro mesi all’anno e per il resto passano la loro vita mantenuti dai genitori in costose università ed in lussuosi appartamenti! Non li sopporto, mentre a Stefano sono totalmente indifferenti. Torniamo quindi verso il Ram Jhula per assistere al Ganga Aarti di Rhiskesh: molto meno imponente di quello di Haridwar, ma valeva comunque la pena di essere visto. Andiamo quindi a cena in un locale che avevamo adocchiato qualche ora prima, il Little Buddha Cafè, una specie di palafitta arredata con mobili di rattan, candele ovunque e musica tibetana. Ordiniamo riso e noodles fritti che facciamo fatica a finire, due coche fresche e spendiamo….un euro e cinquanta di tutto! Ma, quando il locale comincia ad affollarsi di fricchettoni che non vedono l’ora di togliersi le loro scarpe (rigorosamente da trekking), buttare gli zaini per terra e sedersi a gambe incrociate a bere birra e sgranocchiare riso, mi butto a capofitto giù per la ripida scaletta trascinandomi dietro Stefano. Arrivati in camera una sorpresa ci attende: dei candidi asciugamani sono appoggiati sopra i nostri letti e sono così nuovi che hanno ancora l’etichetta di cartone appesa con il prezzo stampato!!! Evidentemente, l’ennesimo “dest-riga” ha dato i suoi frutti. Crolliamo distrutti a letto e se c’erano macchie sulle lenzuola, non ce ne siamo accorti!

TRA MILLE TURBANTI COLORATI

Chandigarh – Amritsar (Haryana-Punjab) – 14/15 Agosto 2008

14 agosto. Partiamo di buon’ora dopo una colazione scarsina ma con una vista superba del Gange che si gode dalle grandi finestre del ristorante. Khartar che abbiamo soprannominato il mago delle strade alternative, segue una carrozzabile di collina e passiamo in mezzo ad una natura straordinaria: fitti boschi con giganteschi alberi, qualche sonnolento villaggio dove la gente sta seduta ai bordi della strada ed ogni tanto qualche raggio di sole che filtra tra le fronde fitte fitte. Arriviamo a Dedradhun, capitale dell’Uttarakhand dove facciamo una breve sosta per comprarci dei mango che, secondo Khartar sono i più buoni del mondo e soprattutto “cheaper”. In effetti la polverosa cittadina è percorsa da mango-wallah su carretti trascinati da biciclette che urlano a gran voce i pregi della loro mercanzia. Alla fin fine ci compriamo il nostro chilo di deliziosi frutti per 40 rupie…il che non è proprio cheaper ma va bene così. Entriamo nello stato dell’Himachal Pradesh meridionale solo per attraversarlo e per arrivare poi in quello dell’Haryana. La nostra meta finale, per oggi, è Chandigarh, una città unica in tutta l’India: capitale sia del Punjab che dell’Haryana, fu progettata dal famoso architetto francese Le Corbusier ed ha ben poco di indiano, ordinata com’è. Già entrando in periferia, ce ne accorgiamo: tutto è diviso in “sector” o blocchi numerati ordinatamente, non esistono baracche ma palazzoni un po’ vecchiotti ma che danno un senso di ordine, le strade sono molto belle e senza il casino tipico dell’India visto che ogni mezzo di trasporto sta sulla sua corsia. Cosa che spiazza Khartar, abituato al normale traffico infernale: arrivati ad un semaforo si incolonna ordinatamente, pur con fatica, dietro ad altri veicoli senza accorgersi che la corsia scelta prosegue, obbligatoriamente, diritto, e lui invece svolta a sinistra in palese violazione del (nostro) codice della strada. Questa mossa, assolutamente normale a Mumbai come a Delhi, a Bangalore come a Madras, gli costa una cospicua multa: appena terminata la manovra azzardata, infatti, ci raggiunge un potente fischio di un poliziotto che ci blocca e fa scendere il nostro sgomento autista. Khartar torna poco dopo con un foglietto ed un sorriso ingenuo in faccia: non aveva idea di aver commesso un’infrazione e quindi è palesemente imbarazzato nei nostri confronti. Dopo un bel po’ di strade sbagliate (come al solito) arriviamo finalmente al nostro albergo, nel settore 17 uno dei più vivi e movimentati di Chandigarh. Situato in un palazzo assolutamente anonimo e che necessiterebbe di un buon restauro, lo Shivalik View ci accoglie con la sua immensa reception dove stagna un persistente odore di naftalina, adorata dagli Indiani. La camera è immensa ma un po’ vecchiotta ed i due facchini che ci portano su la valigia non si dimostrano molto amichevoli. L’albergo è a conduzione statale e quindi il personale non ha molto interesse ad essere gentile con i clienti…. Abbiamo dato appuntamento a metà pomeriggio a Khartar per le nostre visite e quindi spendiamo le nostre due orette libere girovagando nel settore 17 dove c’è un’immensa isola pedonale (isola pedonale in India????) piena di negozi. Purtroppo però non riusciamo a resistere molto fuori all’aperto, visto che Chandigarh è l’unica città dell’India completamente “non smoking”: si può fumare solo in qualche ristorante e….nella propria camera d’albergo o, se si è residenti, in casa. Ciò vuol dire che non c’è un angolo all’aperto della città dove ci si possa dedicare alle amate “bionde”. Ce ne torniamo quindi in albergo dove ci “ossigeniamo” fino alle tre e mezza quando, puntuale, il nostro autista ci viene a prendere insieme ad un suo presunto amico che ci farà non tanto da guida quanto da “navigatore” visto che Khartar non conosce la città. Ci dirigiamo verso la zona del Capital Complex dove sono stati edificati alcuni dei più importanti edifici pubblici della città progettati da Le Corbusier, ma sia Khartar sia il suo amico ci preannunciano che sarà difficile visitarli per problemi di sicurezza: domani, infatti, verrà celebrata la festa dell’indipendenza dell’India e quindi tutti sono in pre allarme. Ci risiamo con i rifiuti e le negatività del nostro autista! Oramai cominciamo a non poterne più ma abbiamo deciso di adottare una contro-strategia e quindi rispondiamo che non ce ne frega nulla, che ci portino lì poi vedremo e decideremo noi che fare. Non proprio felicissimi ci conducono alla stradina che porta al Secretariat, parcheggiano e ci dicono che ci aspetteranno lì, ma che sono sicuri che fra un po’ torneremo indietro visto che la polizia ci impedirà di passare. Balla clamorosa, come al solito! In effetti la strada che porta al cuore del complesso è “blindata” ma nessun poliziotto ci ferma, anzi, chiediamo informazioni a dei baldi giovanotti in divisa cachi e turbante in tinta, che sono felicissimi di darci tutte le informazioni che possono, pur se blindati dietro sacchi di sabbia e con i fucili che hanno abbassato solo quando hanno capito che eravamo innocui turisti. Arriviamo quindi di fronte all’imponente Secretariat, un edificio che sembra più una fabbrica sovietica degli anni ’40 diroccata ed abbandonata che un palazzo del governo, visto quanto è trascurato e sporco, ma gli elementi architettonici di Le Corbusier ci sono tutti: curve, fori, onde e tetti inclinati ornano l’immensa facciata. Purtroppo non ci fanno entrare ma non perché vi siano problemi particolari, solo perché non abbiamo il permesso rilasciato dal dipartimento di Architettura della città che però si trova nel settore 9, quindi molto lontano da lì. Pazienza, ci accontentiamo di ammirare da fuori questo bizzarro palazzo e poi ci dirigiamo verso quello dell’Assemblea Legislativa, il Vidhan Sabha con l’altissimo silos che sembra una matita, lo splendido monumento “Open Hand” costituito da un’immensa mano aperta, appunto, che si staglia su una vasta spianata e la High Court, il tribunale di Chandigarh, con i suoi blocchi colorati che la fanno assomigliare più ad una discoteca. Dopo una veloce incursione all’interno del tribunale, torniamo alla macchina felici di smentire i due “compari” che infatti ci davano per dispersi e ci dirigiamo verso il Rock Garden, l’altra meraviglia di Chandigarh. Questo immenso parco è stato “costruito” da Nek Chand un funzionario di polizia originario di Lahore, destinato a Chandigarh subito dopo l’indipendenza del Pakistan. Giunto in questa grigia città rimase sconvolto dalla moltitudine di immondizia generata dagli abitanti e così decise di utilizzare i rifiuti dapprima per creare qualche scultura e poi, quando le autorità locali si accorsero delle sue potenzialità, per abbellire un immenso spazio pubblico messo a sua disposizione. Il Rock Garden è tutto un susseguirsi di settori: muri costruiti con vecchi materassi e cemento armato o con cocci di piatti e tazze, cascate con immense statue fatte con ferro vecchio, secchi di stagno e pezzi di piastrelle sbeccate; laghetti attraversati da ponti in colata di plastica e finte radici aggrovigliate di cemento e scarti industriali; collinette dove svettano migliaia di statue raffiguranti raccoglitrici di tè, giraffe, scimmie, astronauti e figure femminili, costruite con pezzi di braccialetti di vetro colorato che le donne indiane solitamente indossano. Sembra di vivere in una favola: passando attraverso stretti cunicoli, bassi portali, canyon artificiali si arriva in un immenso spazio posto proprio al centro del parco dove sono stati costruiti un grande anfiteatro tutto di piastrelle sbeccate e un gigantesco “serpentone” di cemento forato da alti archi ai quali sono state appese delle altalene piene di allegre ragazze, bambini ed uomini che si dondolano al sole. Naturalmente proviamo anche noi l’ebbrezza di questa meraviglia e ci pare, in qualche modo, di tornare bambini. Il labirintico parco sembra non finire mai ma mai ci si stanca di ammirare queste opere così particolareggiate da sembrare impossibile che siano state costruite con rifiuti urbani! Usciti da questa impressionante esperienza, torniamo al nostro albergo e ci rifugiamo in camera per fumarci un paio di sigarette e poi di nuovo a terminare il pomeriggio all’isola pedonale dove entriamo ed usciamo dai negozi Adidas, Nike, Lee, ci prendiamo le nostre solite patatine Lays (io adoro quelle verdi, alla cipolla e formaggio, Stefano preferisce le blu al masala che, quando le mangi, ti danno una scarica di adrenalina pazzesca, piccantissime e piene di spezie) che da sempre in India fungono da aperitivo (peccato non avere un Camparino con ghiaccio…), rimaniamo incantati da una grande fontana illuminata da decine di fari colorati non perché non se ne abbia mai vista una, ma perché trovare in India una cosa così che funziona e soprattutto pulita è cosa praticamente impossibile, ci mescoliamo in mezzo alla folla che come noi cazzeggia e poi, vista l’ora, decidiamo di tornare in albergo per la cena. Il cibo del ristorante dell’albergo è in puro Indian style e al limite del mangiabile: ci consoliamo con quintali di buonissimo gelato al caramello davvero delizioso, incuranti delle più elementari norme alimentari che in posti come l’India si dovrebbero osservare. Se domani avremo la cacarella, pazienza, ma qualcosa dobbiamo pur mangiare! Dopo due passi nei dintorni dell’albergo ce ne andiamo, distrutti, a letto.

15 agosto (Festa Nazionale)

Di buon’ora partiamo per raggiungere una delle mete top del nostro lungo viaggio, ossia la città di Amritsar. E’ sempre stato un mio sogno, poi trasmesso anche a Ste, vedere il tempio d’oro dei sikh una delle meraviglie dell’India e, finalmente, stavolta riusciremo a realizzarlo. Appena lasciata Chandigarh con le sue strade ordinate, il caos diventa di nuovo impossibile, aggravato dal nubifragio che si sta scatenando che rende le pubbliche vie veri e propri fiumi. Così ogni volta che attraversiamo una cittadina oltre a metterci un tempo incredibile, ci dobbiamo letteralmente tuffare con la nostra macchina in mezzo ad un buon mezzo metro d’acqua passando in mezzo a motorini, moto, biciclette, risciò a pedali, tuk tuk, corriere, camion, pedoni e vacche. Ciò che ci colpisce subito però sono gli uomini sikh in stile Kabir Bedhi, per capirci: hanno la pelle scura, occhi neri ed i loro visi sono incorniciati da curatissime baffi e lunghissime barbe che per comodità, a volte, raccolgono in un meticoloso intreccio sotto al mento. Tutto questo è esaltato dall’immancabile turbante che portano in testa. Pieghettato ed avvolgente, in tessuto leggero ad effetto semi-lucido, spicca sulle scure teste, con colori accesi o pastello e vederli tutti insieme sembrano un iride di colori: giallo limone, azzurro cielo, rosa confetto, bianco immacolato, verde acido. Con i loro bracciali di ferro al polso ed i pugnali, sono davvero belli. Incuranti del tempo, pedalano sotto la pioggia torrenziale, riparandosi unicamente il turbante con una specie di cuffia da doccia alquanto ridicola ma che assolve perfettamente la sua funzione. Man mano che ci avviciniamo ad Amritsar, la pioggia aumenta e le condizioni delle strade peggiorano sempre di più: ora non c’è più acqua nelle strade, ma fiumi di fango marrone. Quando entriamo in città, ci sembra di entrare all’inferno: non si passa da nessuna parte, rimaniamo più volte bloccati in mezzo all’acqua, siamo sconvolti dai cyclowallah, i conduttori di risciò a pedali, che a fatica si fanno strada in mezzo a quel disastro, distruggendosi le reni per trasportare benestanti indiani che si ammassano anche in quattro o cinque sul sedile attaccato alla bicicletta. Ecco, questo, più della sporcizia, più del degrado, più degli accattoni, più dei mendicanti, ci sconvolge dell’India: vedere questi poveri cristi che per poche rupie, scalzi, di una magrezza impressionante, spingono sui pedali che spesso sprofondano nell’acqua fetida. Sarà per la confusione o proprio perché il nostro Khartar non ha testa (o senso dell’orientamento), ma sbagliamo strada due o tre volte. Troviamo finalmente il nostro albergo, a circa 10 minuti dalla Old Amritsar, vicino alla stazione dei treni. Il Grand Legacy è (fortunatamente) un discreto albergo. Quando entriamo nella lobby, il personale ci accoglie con calore pur essendo impegnato ad abbellire le pareti con le bandierine dell’India: oggi infatti si celebra la festa dell’indipendenza dell’India dalla Gran Bretagna e, si sa, questa festa è un vero evento. Prendiamo la nostra chiave e con l’ascensore raggiungiamo il quarto piano; quando le porte si aprono il corridoio che ci appare di fronte è praticamente cosparso di asciugamani per tamponare l’acqua che filtra, nel vero senso delle parole, dalle pareti. Durante questa stagione dei monsoni tutto il Punjab è stato massacrato da piogge torrenziali ed Amritsar non è stata risparmiata. Per fortuna, però, la nostra camera è bella e molto pulita ed approfittiamo per riposarci un po’ in un ambiente sano e senza puzze. Quando alle quattro scendiamo, una sorpresa ci attende: è uscito un bel sole che ci mette di buon umore. Vedere il tempio d’oro con la pioggia non sarebbe stato il massimo. La nostra guida è una giovanissima e simpatica ragazzina di 23 anni, studentessa d’arte che ci raggiunge in albergo in sella al suo scalcagnato motorino. Partiamo quindi verso Old Amritsar e, giunti di fronte all’entrata del tempio d’oro, rimango letteralmente incantato dalle alte cupole di un bianco accecante che sembrano di zucchero. Dopo aver lasciato le scarpe al deposito ed esserci lavati mani e piedi, entriamo in questa meraviglia. Il perimetro del tempio è tutto in marmo che viene costantemente lavato con secchiate d’acqua (e quindi anche un po’ pericoloso, bisogna stare attenti a non scivolare), bordato di edifici con alte cupole a cipolla bianchissime; al centro, un grandissimo lago artificiale quadrato chiamato Amrit Samovar o vasca di nettare sul quale sorge il bellissimo Hari Mandir Sahib con le sue pareti in oro e marmo, decorate ed intagliate e collegato al resto del tempio dal lungo Gurus Bridge pieno di gente che in una fila ordinata aspetta di entrare per la benedizione. In mezzo a questi due elementi cromatici (il bianco e l’oro) spiccano migliaia di turbanti colorati: di solito, ciò che colpisce, in India, sono i saree indossati dalle donne, preziosi, con specchietti, perle e lavorazioni splendide ma qui no, quello che salta subito all’occhio sono questi omoni alti, grandi e grossi, con i particolari, pulitissimi ed ordinatissimi copricapo che nascondono una folta capigliatura. Uno dei precetti dei sikh infatti, è il non tagliarsi i capelli anche se, come ci dice l’attenta Amman, non è affatto obbligatorio. Il giro del tempio è a dir poco sorprendente, soprattutto nelle zone dedicate alle cucine ed alla mensa: qui, migliaia di persone consumano un pasto di tre portate ogni giorno e totalmente gratis ed altrettante, tutte volontarie, impastano e cuociono chapati, mescolano pentoloni di dal, fanno bollire riso con latte, zucchero e ghee, preparano caldo chai, lavano montagne altissime di piatti, bicchieri e tazze di metallo luccicante in vasche gigantesche, insomma una perfetta organizzazione che ci lascia a bocca aperta. Amman ci conduce poi al santuario e, grazie alle sue conoscenze all’interno del tempio che conquista con un sorriso smagliante (tutti la chiamano per nome e la trattano come una principessa), ci fa … saltare la coda attraversando un passaggio riservato alle persone disabili o anziane, cosa che ci fa sentire anche un po’ in imbarazzo. L’interno del santuario è affollatissimo: gente che fa offerte in denaro e si prostra di fronte ai due sacerdoti che cantano inni e leggono il sacro libro dei sikh (pare che qui ci sia solo una copia, l’originale dovrebbe trovarsi a Latore in Pakistan, ma le versioni sono discordanti…). Ovunque lampade che bruciano ghee e incensi che spandono nell’aria un profumo di gelsomini. All’uscita del santuario, Amman prende dalle mani di un sacerdote un mucchietto di “dolce sacro” composto da riso, latte, zucchero e ghee caldo e ce ne fa assaggiare un po’: non è niente male! Lasciamo a malincuore questo meraviglioso luogo e ci dirigiamo verso i piccoli giardini di Jallianwala Bagh che ricordano i 2000 indiani uccisi o feriti nel corso di un’azione militare decisa dalle forze britanniche nel 1919, un luogo davvero suggestivo. Ed è giunta l’ora di affrontare la visita che più, in certo qual modo, temiamo: pur se in programma fin dall’inizio perché da noi fortemente voluta, la presenza alla cerimonia di chiusura della frontiera Indo-Pakistana ad Attari, ci eravamo riservati di andarci effettivamente solo una volta giunti ad Amritsar e chiesto informazioni alla nostra guida. I tempi non sono di certi tranquilli e la frontiera con il Pakistan è sempre zona ultra delicata. Scherzando, l’amico Giovanni ci aveva suggerito di guardarci dagli “ananas” che avrebbero potuto arrivarci addosso, e di tenere a mente che…non sarebbero stati ananas ma qualcosa di molto più pericoloso ma dalla forma molto simile! Ma, quando ne parliamo con Amman, si stupisce delle nostre perplessità e non vuole sentir ragioni: “Certo che vi porto”, ci dice “Non dovete preoccuparvi di nulla, nessun pericolo”. Così, con un po’ di tensione, torniamo da Khartar e ci dirigiamo verso il piccolo paesino di Attari, a circa mezzora di strada dal centro di Amritsar. Ci spiega Amman che alla cerimonia partecipano ogni sera circa 2-3.000 persone ma siccome oggi è il giorno dell’indipendenza le Autorità stimano che ce ne saranno più o meno ottomila. Quando arriviamo lo spettacolo quasi ci paralizza: due enormi anfiteatri che “si guardano”, uno dal lato indiano ed uno da quello pakistano, con in mezzo una strada “tagliata” dai due cancelli che separano gli stati, ora aperti. Noi non possiamo salire sugli spalti ma dobbiamo passare per una zona “vip”, destinata a turisti ed Autorità. Percorriamo lo stretto vicolo che passa dietro all’anfiteatro indiano, ci facciamo perquisire ben bene dai militari (che ci confiscano le sigarette!!!) e, finalmente, arriviamo al centro della scena e ci sediamo al bordo della strada con alle spalle migliaia di indiani urlanti e con bandiere sventolanti. La cerimonia è davvero incredibile: un uomo al centro della strada, circondato da militari di confine con i loro copricapo sormontati da creste, aizza la folla indiana intonando canti, invitandoli ad urlare slogan e a battere le mani. Poi parte la musica e tutti giù a ballare; quando cessa le guardie fanno fatica a contenere la folla vociante ed allegra. Guardando in direzione del confine, la vista è pazzesca: l’anfiteatro pakistano è pieno di soli uomini tutti vestiti in bianco, il cancello è aperto e sullo sfondo, contro il sole che sta calando, il minareto della moschea di Wagah. Dal nostro lato, invece, gli spalti sono pieni di colori, giallo, blu, verde, rosso, rosa fucsia, oro, e la gente è davvero incontenibile. Poi, quando dalla piccola caserma escono le guardie con un passo saltellante, gli spalti letteralmente vengono giù! Le guardi scattanti, si dirigono verso i cancelli dove si “scontrano” con i soldati pakistani, inscenando una pantomima incredibile. In pratica, fanno finta di darsi dei calci, si sfidano con gli occhi e con le mani alle sciabole, si urlano in faccia, raffigurando una vera e propria lotta artificiale senza mai toccarsi. Alla fine, tra le urla della gente che incita le guardie, le due bandiere sopra il muro di confine vengono ammainate, la pantomima termina ed i cancelli vengono chiusi. Le immagini che rimarranno di questa esperienza sono sostanzialmente due: il contrasto tra l’area Indiana e quella Pakistana, coloratissima la prima e monocromatica l’altra, e quel minareto svettante attraverso l’arco con la scritta “Pakistan” in lettere d’oro, con il sole che tramonta! Per un attimo abbiamo pensato di attraversare i cancelli…idea che subito è rientrata!!! Pieni di energia positiva e di soddisfazione ma soprattutto senza aver “pelato” nessun ananas sospetto, insieme a migliaia di persone percorriamo la strada che arriva ai parcheggi e ci buttiamo nel traffico con il nostro Khartar. Arriviamo di fronte al nostro albergo e, al riparo dalla pioggia che da qualche minuto ha ricominciato a cadere in maniera decisamente pesante (la nostra solita fortuna), salutiamo Amman con un po’ di nostalgia: non è facile trovare guide “spot” (cioè quelle che ti accompagnano per mezza giornata) così simpatiche e professionali e ci fermiamo di fronte all’ingresso per fumare una sigaretta. L’hotel ha un grandissimo salone delle feste con ingresso separato che gli addetti, stasera, hanno decorato con palloncini azzurri. Chiediamo all’usciere se ci sia qualche evento e ci risponde che una ricca famiglia del posto ha organizzato per stasera una festa di compleanno per il loro bimbo. E, a conferma delle sue parole, poco dopo arrivano, sotto una pioggia battente, due cyclowallah che trasportano su piccoli carretti, due giostrine per bambini, un elefantino e un cavalluccio. Ci rattristiamo nel vederli arrivare, bagnati fino all’osso, spingendo a forza sui pedali, scalzi, magrissimi e vestiti con canottiere e logori dothi arrotolati sui fianchi. Il contrasto fra quello che si svolgerà nella gran ball room dove una famiglia benestante affitta addirittura una sala ricevimenti per festeggiare il compleanno del loro figlioletto, e la cruda realtà che sta fuori è così evidente che ci lascia stupefatti.

Saliamo in camera per una doccia veloce e poi andiamo al ristorante per la cena: per una settimana il nostro albergo ospita una specie di food festival con specialità dell’Indonesia, di Singapore e di Hong Kong. Approfittiamo dello special menù per abbuffarci di nasi goreng, il riso fritto che per la prima volta assaggiammo a Bali sette anni fa, spiedini di pollo piccantissimo e crackers di gamberetti! La bocca ci va letteralmente a fuoco, ma mangiamo tutto con gusto. Percorriamo quindi per l’ultima volta il corridoio coperto da asciugamani e ce ne andiamo a letto.

16 Agosto

Partiamo dopo un buona colazione sotto un diluvio universale tanto che facciamo fatica ad uscire dall’albergo e salire in macchina senza inzupparci! La città è praticamente allagata ed il traffico pazzesco. Come spesso ci è capitato in questi giorni, più che stare in mezzo ad una strada ci sembra di essere nel bel mezzo del letto di un fiume. Maciniamo chilometri diretti verso Pathankot nel nord del Punjab, cittadina, in questi ultimi giorni, protagonista di diversi disordini: è infatti lo snodo principale dei trasporti via terra tra India e Pakistan ed è intasata da camionisti inferociti che bloccano tutte le strade. Ogni volta che attraversiamo un centro abitato, per piccolo che sia, ci mettiamo un’eternità per uscirne a causa della pioggia. Arriviamo, finalmente, ad imboccare la strada che ci porterà in Himachal Pradesh ma, dopo pochi chilometri, un gigantesco e vecchissimo albero crollato a causa di vento e pioggia, ci sbarra la strada. A passo d’uomo le macchine riescono a scavalcare l’ostacolo ma Khartar, innervosito ed impaziente di raggiungere il “suo” stato (è originario di un paesino vicino a Dharamsala) decide di prendere il “by pass” cioè la strada che evita il centro storico di solito destinata ai camionisti. Facciamo quindi una pericolosa retromarcia ed imbocchiamo la nuova strada che però, dopo pochi chilometri, è…intasata da un blocco del traffico pazzesco! Evidentemente Khartar non è stato l’unico ad avere questa idea ed il risultato è disastroso. Torniamo quindi sui nostri passi ma il nostro prode autista dice di conoscere una specie di scorciatoia. Entriamo quindi in una strada abbastanza larga che costeggia zone militari; i cartelli che ogni tanto troviamo affissi su transenne improvvisate dicono “Entry at your own risk” e questo ci preoccupa non poco. Lasciata questa zona imbocchiamo una via di campagna fiancheggiata da distese di campi coltivati. Ad un certo punto Khartar esclama felice “And now we are entering in Himachal Pradesh”, ma, ancora prima di finire la frase il sorriso si smorza sulla sua faccia: di fronte a noi la strada termina bruscamente su un alto muro di cemento. E Khartar dice, allargando le braccia “Where’s the bridge?”; guarda noi, noi guardiamo lui trattenendoci a stento dal metterci a ridere. Proprio a ridosso del muro c’è un grande chiosco che vende liquori ed i due proprietari sono stravaccati su due sedie, svogliati e mezzo addormentati. Khartar abbassa il finestrino e chiede loro informazioni sul ponte che, in realtà, dovrebbe essere giusto davanti a noi. Questi gli rispondono che è già da qualche anno che il ponte è stato spazzato via da una piena del fiume….Attonito Khartar non sa più che fare. Dobbiamo tornare sui nostri passi, sempre sotto una pioggia battente. A furia di chiedere informazioni ad ogni persona che incontriamo, riusciamo ad imboccare la NH20 ed a lasciare il Punjab flagellato dalle piogge…..

IL TEMPO DELLE MELE

Dharamsala-Shimla-Manali-Keylong-Sarchu (Himachal Pradesh) 16-24 Agosto 2008

Entriamo in Himachal Pradesh e subito le strade si fanno leggermente migliori, ben asfaltate, con poco traffico, ordinate. Ci inerpichiamo sulle prime colline e ci passano accanto bei villaggi con basse casette in mattoni, coltivazioni varie, boschi di pini marittimi. Quasi a voler confermare il cambio di stato, esce pure il sole e per noi è un vero sollievo. Ci rilassiamo e, finalmente, alle quattro del pomeriggio arriviamo a Dharamsala dove Khartar ci porta a visitare una fabbrica di tè. Lo stretto viottolo che percorriamo per arrivarci si snoda attraverso immense coltivazioni di tè, con bei cespugli verde scuro, che digradano verso valle. Pur avendone già visitate moltissime in altre parti dell’Asia, non ci sottraiamo al giro della fabbrica dove ci vengono mostrate le fasi della lavorazione e fatti annusare diversi tipi di tè. Ce ne andiamo con un bel bustone da un chilo, costato poche rupie, che ci godremo quest’inverno.

Ci dirigiamo quindi a McLeodganj ed al nostro albergo, costruito praticamente “sopra” il palazzo del Dalai Lama. McLeod, infatti, è la sede del governo tibetano in esilio ed il palazzo è la residenza del Dalai Lama. Abbiamo grandi aspettative sulla Chonor House, albergo che ha ospitato anche Richard Geere in occasione delle sue molte visite qui. L’albergo ha le fattezze di una casa tibetana e sembra molto accogliente. Entriamo nella minuscola reception e subito ci colpisce un fastidioso odore di cavoli bolliti; ci assegnano una camera a piano terra: appena entrati rimaniamo colpiti dalla bellezza della stanza tutta dipinta nelle tonalità del verde, con piante, alberi e fiori tipici della zona, così minuziosamente raffigurati che ci sembra di essere in mezzo ad un bosco. Dopo pochi minuti però la puzza di umidità comincia a farsi pesante, lo diciamo alla ragazza che ci ha accompagnato e lei per tutta risposta…accende un incenso. Una volta uscita, ispezioniamo la stanza e notiamo muri scrostati, il bagno in condizioni disastrate ma soprattutto quello che ci disturba più di tutto è la puzza di muffa incredibile. Il bosco intorno a noi perde improvvisamente tutta le sua bellezza…. Leggiamo in un opuscolo che magnifica le stanze dell’albergo, una diversa dall’altra, dipinte da artisti tibetani nel…1993. Quindi sono la bellezza di quindici anni che la stanza non viene “rinfrescata”! Ci chiediamo come possa essere possibile una cosa del genere ma, purtroppo, è realtà. This is real India (ancora una volta!).

Usciamo dalla nostra stanza puzzolente, consolandoci del fatto che essendo a piano terra va benissimo per la gamba di Stefano che se è innegabile che stia migliorando, ha ancora qualche strascico dolorifico, soprattutto di notte. Il tempo non è granchè e McLeod si presenta già con basse nuvole che non lasciano presagire certo giornate di sole. Girovaghiamo per le due stradine (vi giuro, ce ne sono solo due!) di questa enclave tibetana che ospita qualche migliaio di profughi, tutti impiegati nel settore “turistico”: gestori di alberghi, proprietari di negozi, venditori in bancarelle improvvisate, camerieri nei ristoranti. Mentre stiamo curiosando sulle mille bancarelle che costeggiano le due strade notiamo che, quasi ad un silenzioso segnale, tutti i tibetani cominciano a riporre la mercanzia e a chiudere i loro esercizi. Chiediamo, incuriositi, il perché di tutto questo e ci dicono che, come ogni sera, alle 18.15 si svolgerà una fiaccolata capeggiata da monaci e monache a sostegno del dramma che sta affliggendo il Tibet. In effetti molti religiosi e civili si sono radunati nella piccola piazzetta della cittadina con in mano una candela e, ad un cenno del monaco più anziano, cominciano una lenta processione che girerà tutto intorno al “ring” di McLeod (per fare il giro del paese ci si impiegano dieci minuti) per due o tre volte. Assistiamo alla bella cerimonia scattando qualche foto e poi, visto che oggi non abbiamo pranzato e siamo affamati, decidiamo di andare a cenare in un minuscolo locale gestito da tibetani, con pochi tavoli ma con all’interno un profumo sfiziosissimo. Ordiniamo due favolose pizze con formaggio e bacon che divoriamo letteralmente a lume di candela visto che è stata sospesa la fornitura di energia elettrica. Facciamo due chiacchiere con la nostra vicina di tavolo, una signora neo zelandese che è venuta ad insegnare inglese per qualche mese in una scuola a Dharamsala e poi usciamo di nuovo all’aperto. Girovaghiamo per i tanti negozi facendoci mostrare decine e decine di tangka (raffigurazioni di divinità buddiste dipinte su tele di cotone): ne avevamo visti moltissimi cinque anni fa durante un viaggio in Nepal ma eravamo tornati a casa a mani vuote. Questa volta siamo decisi a non ripetere lo sbaglio e quindi esaminiamo scrupolosamente le tele andando puntualmente….in confusione! Ogni negoziante ci dà una versione diversa del tangka “antico” e ci fornisce anche prezzi talmente diversi fra loro che non capiamo più nulla. Ma si è fatto tardi ed è ora di tornare in albergo, anche perché la piccola cittadina si sta pian piano spegnendo anche se sono solo le nove di sera. Arrivati in camera ci colpisce, forte come non mai, l’odore di muffa che cerchiamo invano di combattere accendendo altri incensi. Uno sguardo al bagno ci fa passare totalmente la voglia di farci la doccia per cui ci infiliamo a letto, tra lenzuola umidicce che non ci faranno dormire affatto bene.

17 agosto

Ci svegliamo un po’ affaticati ed andiamo a fare colazione. Ci portano un pane di grano duro davvero eccezionale, con marmellata di albicocche fatta in casa e miele chiarissimo. Facciamo il bis di caffè visto che ne abbiamo bisogno per svegliarci totalmente e risaliamo alla reception dove abbiamo appuntamento con la nostra guida. Qui chiediamo all’addetta se è possibile cambiare stanza visto che la nostra è in condizioni pietose ma la stessa ci risponde che, purtroppo, l’albergo è fully booked, circostanza alla quale facciamo fatica a credere, ma non insistiamo oltre. Rimaniamo seduti quasi un’ora ad aspettare la guida che poi ci comunicano…non verrà! Con Khartar decidiamo quindi di andarcene in giro per conto nostro senza aspettare che la fantomatica guida (che dovrebbe essere stato un monaco tibetano) venga sostituita. Fuori diluvia e l’umidità è altissima. Khartar ci porta nei pressi di una bella cascata che però ci limitiamo ad ammirare da lontano visto che il sentiero che porta sotto il getto d’acqua è praticamente un fiume di fango. La pioggia non smette di cadere, anzi, si fa più forte ed insistente. Andiamo a visitare quindi un piccolo tempio induista con, all’esterno, una specie di grande vasca dove stanno sguazzando dei ragazzotti locali in mutande che la utilizzano più come una piscina che come un luogo dove fare le abluzioni prima di entrare al tempio: si tuffano dal bordo, giocano tra di loro, si fanno degli scherzi, il tutto assolutamente incuranti del diluvio che si sta riversando su di loro. Bagnati per bagnati…. Khartar ci porta poi a vedere il Dal Lake, molto famoso da queste parti, che però si rivela essere una pozza d’acqua marrone con un paio di pedalò fatti a forma di cigno condotti sempre da ragazzotti locali che, evidentemente, si divertono a “navigare” in questa pozzanghera. Molto desolante!

Lungo la strada notiamo un piccolo cimitero inglese, ordinato e con lapidi molto vecchie. Poco più avanti scorgiamo, nascosta dagli alti alberi, una piccola chiesa. Scendiamo dall’auto e sotto l’ombrello (che oramai si sta sfasciando vista la quantità e la potenza con la quale l’acqua sta scendendo…) ci avviamo in mezzo al boschetto per visitare la chiesetta. Interamente di pietra grigia e con il classico campanile “incorporato”, sembra una cattedrale in miniatura: con la pioggia, i pini, le nuvole basse sembra veramente avvolta in un’atmosfera d’altri tempi. Raggiungiamo di nuovo Khartar e torniamo a Mcleod dove, in assoluta solitudine visto che abbiamo congedato il nostro fido autista, visitiamo il palazzo del Dalai Lama, o meglio, le zone che si possono visitare: un grandissimo tempio senza però alcuna atmosfera, tre chorten bianchi piazzati lungo la scalinata e, cosa più interessante, il minuscolo museo che racconta la storia del popolo tibetano. Molto emozionanti le foto, le didascalie e gli oggetti che descrivono l’odissea di questo popolo: subito dopo l’invasione del Tibet da parte dei militari cinesi negli anni ’40, migliaia di tibetani attraversarono a piedi in condizioni davvero estreme le alte montagne himalayane per giungere fino a Dharamsala, seguendo il Dalai Lama loro indiscusso capo spirituale. Usciti dal museo troviamo ad attenderci di nuovo la pioggia e quindi decidiamo, vista l’ora, di andare a pranzo da Oogo’s (il posto dove eravamo stati la sera prima) e qui ci sbafiamo dei crostoni di pane ricoperti di formaggio e funghi ed una mega pizza. Questa volta in fianco a noi abbiamo una ragazza canadese un po’ altezzosa che si incazza quando gli portano contemporaneamente tutto quello che ha ordinato (una zuppa, un cappuccino e un piatto di pasta) senza, evidentemente, rispettare la sequenza che lei aveva chiesto. E’ in giro per l’India, da sola, da otto mesi e ci racconta la sua esperienza mentre Stefano crepa d’invidia. Quando usciamo dal minuscolo ristorante, non piove più. Approfittiamo per buttare via il nostro ombrello, oramai distrutto, ed esploriamo qualche strada secondaria di Mcleod dedicandoci allo shopping; compriamo un ombrello a righe bianche e blu con una custodia tipo zainetto, due berretti di lana che ci serviranno quando saremo sugli alti passi (e che ringrazieremo Dio di aver comprato!!!), qualche barretta di chioccolato ed una scatola in legno tibetano. Ne approfittiamo anche per dare un’occhiata ai tanti tangka che i negozi espongono nelle vetrine ma non trovando nulla che ci faccia veramente impazzire decidiamo di tornare in camera per riposarci un po’, anche se l’idea di entrare in quella stanza umida non ci fa certo esultare. Usciamo di nuovo verso le otto per andare a cena alla Pema Thang guesthouse, raccomandata dalla Lonely per il suo fantastico ristorante. C’è poca gente ma l’atmosfera è calda e accogliente anche se i tavoli non sono proprio un esempio di pulizia. Mangiamo dei deliziosi momo al vapore ripieni di verdure e formaggio mentre fuori si scatena un altro diluvio. Aspettiamo un po’, centellinando le nostre coche, prima di uscire per tornare in albergo ma la pioggia non accenna a smettere, anzi. Arrotoliamo quindi i pantaloni, apriamo l’ombrello nuovo e ci avviamo. Per strada ci imbattiamo in un piccolo negozio tipo bazar dove il proprietario assieme ad alcuni amici, sta guardando la televisione. Stanno trasmettendo un gioco a premi famosissimo in India, condotto da Salman Khan noto attore di Bollywood e stasera i concorrenti non sono persone comuni ma Akshai Kumar e Katrina Kaiff i protagonisti di Singh is Kinng. Gli avventori del locale ci guardano un po’ straniti visto che riconosciamo subito i due attori; io starei lì a seguire la trasmissione (anche se non capisco un cavolo visto che è in hindi) ma Ste mi trascina via prendendomi in giro. Arriviamo in camera fradici e ci rifugiamo, nonostante tutto, sotto la doccia. A me va bene, nel senso che il mio asciugamano pur se rotto è discretamente pulito (discretamente nel senso che le macchie ci sono solo in alcune parti) ma quando arriva il turno di Ste il suo sembra più uno straccio per pavimenti più volte usato che un asciugamano! Parte la solita incazzatura che però conteniamo all’interno della stanza solo perché in giro per l’albergo non si vede nessuno!! Andiamo a letto dopo aver cercato, con scarsi risultati, di riscaldare le lenzuola con il phon…. Ci aspetta un’altra notte all’umido!

18 agosto

Dopo aver litigato con i proprietari dell’albergo che pretendevano di farci pagare il secondo caffè preso durante la colazione del giorno prima (ma quando mai?), usciamo dalla Chonor House sbattendo la porta dopo aver fatto vedere al “manager” in che condizioni erano i nostri asciugamani e giurando una recensione al vetriolo su Tripadvisor! Loro, piuttosto, avrebbero dovuto restituire dei soldi a noi! Per fortuna c’è il sole che dissolve un po’ le incazzature; lasciamo Dharamsala percorrendo belle strade in mezzo a colline ricoperte di pini marittimi, ammirando piccoli paesini ancora addormentati, sotto un cielo azzurrissimo. Facciamo uno stop a Jawalamuki dove sorge il tempio dedicato all’omonima dea. Questo importante tempio è uno dei 51 Shakti peeth di Sati, incarnazione di Kali e sposa di Shiva: la leggenda racconta che quest’ultimo, sconvolto dall’aver trovato il corpo della sua sposa carbonizzato, lo smembrò in 51 pezzi e li sparse per tutta l’India. A Jawalamuki pare sia caduta la lingua….Il tempio tuttavia è famoso soprattutto per la fiamma eterna che brucia ininterrottamente da tempi remoti: all’interno del santuario, infatti, c’è una piccola buca sul pavimento larga un paio di metri e sulle pareti ci sono decine di fuochi. La spiegazione scientifica è che nel sottosuolo si trova un deposito di gas naturale che alimenta le fiammelle, ma ovviamente i fedeli credono che si tratti di un miracolo e quindi venerano le fiamme come se fossero vere e proprio manifestazioni della dea. Ci impressionano particolarmente un paio di stanze squallide poste vicino all’entrata del santuario dove alcuni adulti, muniti di rudimentali rasoi, sono intenti a radere i capelli a piccoli bambini (probabilmente figli o parenti) i quali dimenandosi inutilmente danno sfogo a questa imposizione piangendo e lanciando urli strazianti. A noi tutto ciò appare incomprensibile e violento ma questo rito ha un suo aspetto “religioso”: i capelli, infatti, saranno offerti in dono alla dea. Fa molto caldo ma seguiamo da vicino il nostro Khartar che ci fa da guida e contemporaneamente svolge il suo compito di perfetto fedele facendo offerte e pregando davanti alle divinità. Sempre all’interno del perimetro del tempio c’è una costruzione in stile moghul piena di fregi con, all’interno, un letto interamente d’oro sul quale dormiva il maharaja del luogo. Usciamo dal tempio con il sole allo zenith, facciamo un bel giro nell’affollato mercato mentre Khartar fa colazione con calde samosa, ci scoliamo un’intera bottiglia di Mangola, la nostra bevanda preferita qui in India (puro succo di mango) e poi riprendiamo la strada verso Shimla. Bellissimo il paesaggio che cambia mano a mano che saliamo di quota: alberi di mango giganteschi, viali alberati dove il sole filtra a fatica tra le fitte fronde, gente al lavoro sui campi terrazzati. Finalmente arriviamo a Shimla che ci appare splendida, arroccata sul fianco di un’alta collina, che però superiamo per andare al nostro albergo a circa un chilometro dal centro. Lo Springfields Hotel è un’ex residenza di campagna del maharaja locale, nascosto in mezzo a case diroccate o in costruzione a Chotta Shimla. L’albergo avrebbe bisogno di una sistemata ma è denso di atmosfera con i suoi salotti, la bella sala da pranzo, il giardino piccolo ma molto curato. Ci assegnano una camera immensa al primo piano, con una bellissima terrazza che guarda le montagne ma bordata di filo spinato per impedire alle scimmie, numerosissime qui, di arrampicarsi ed entrare all’interno dell’edificio. Un po’ di riposo e poi alle 18.30 Khartar ci viene a prendere per portarci in centro: ci fa scendere ai piedi della città, vicino al parcheggio delle auto dove ci sono degli ascensori che ci portano dritti dritti al Mall, un bellissimo e lungo viale esclusivamente pedonale. Shimla, infatti, è costruita in verticale, praticamente sul fianco della collina e dalla strada principale che si trova in basso o si sale a piedi passando in mezzo ai tre bazar (lowest, middle e highest) oppure si prendono i due comodi ascensori che in tre minuti e con 7 rupie a testa, ci portano nel cuore della città. Il viale è assolutamente godibile, senza auto, senza clacson, senza confusione, senza turisti: centinaia di indiani passeggiano, mangiano un gelato, fanno shopping nei tantissimi negozi, ammirano i bei edifici coloniali che costeggiano la strada. Dopo un giro esplorativo, per cena decidiamo di andare al China Town, su consiglio della Lonely, ma appena seduti in questo minuscolo ed oscuro ristorante, di fronte alla tovaglia di plastica appiccicaticcia, sulla stessa, ad un certo punto, compare uno scarafaggio che velocissimamente la attraversa in diagonale, ci alziamo ed usciamo in fretta e furia. Scegliamo quindi un ristorante molto più carino e (pare) un po’ più pulito, sul Mall, scegliamo la sala al primo piano con le finestre che danno direttamente sull’antico municipio e ci facciamo portare due immense porzioni di riso fritto e noodles che a fatica finiamo. Facciamo quindi una bella passeggiata e poi riprendiamo l’ascensore per il parcheggio dove, dopo un po’, arriva Khartar per riportarci in albergo. Qui ci rilassiamo in un bel salottino con mobili d’epoca e ci dedichiamo alla lettura dei giornali prima di ritirarci nell’immensa camera al piano di sopra per il meritato riposo.

19 agosto

Facciamo colazione nella bella sala da pranzo e ordiniamo omelette al formaggio, toast, marmellata, miele, succo di mango e caffè. Poi con Khartar partiamo alla scoperta del Viceregal Lodge, antica dimora del viceré britannico di Shimla costruita a fine ottocento. Facciamo molta fatica a trovarlo perché, pare, non sia una mèta turistica molto frequentata. Dopo aver scorrazzato avanti e indietro per le stradine collinari nei dintorni di Shimla, finalmente ci indicano la strada giusta. Arriviamo al piazzale esterno della costruzione e percorriamo il vialetto che ci porta davanti a questa meraviglia: il lodge sembra, come giustamente dice la Lonely, un incrocio tra la Hogwarts School di Harry Potter e la torre di Londra, e ci appare, bellissimo, con le sue torrette, i suoi decori in pietra, gli archi, i molti passaggi coperti e scoperti, il tutto inserito in splendidi e curatissimi giardini. Ci informiamo sull’ora della visita guidata dei locali interni e, per fortuna, la prossima partirà fra una decina di minuti. Girovaghiamo intorno alla splendida costruzione, immaginandoci come doveva essere vivere qui ai tempi della dominazione britannica. Sul retro, i giardini digradano verso il basso tra siepi potate, aiuole fiorite e fontane, una vera e propria festa per gli occhi. Alle 11.00 puntuali ci presentiamo davanti al portone dove un funzionario della scuola (ora il lodge è stato trasformato in un istituto scolastico) accoglie noi, due turisti inglesi di mezza età ed un manipolo di coppie di indiani in viaggio di nozze. L’interno è splendido: l’atrio interamente rivestito da una boiseriè di quercia, l’ex sala da ballo, ora trasformata in biblioteca, il salottino per il fumo (a quei tempi non era considerato educato fumare a tavola e, una volta terminati pranzi e cene, gli uomini si ritiravano in questi salotti per fumare i sigari) con il caminetto, le poltroncine di velluto, i bellissimi arazzi alle pareti ed il basso tavolino rotondo in legno dove pare sia stato firmato il trattato di scissione India-Pakistan, e la sala della musica con un pianoforte d’epoca, un altro caminetto e decine di fotografie dei nobili dell’epoca. Dopo questa full immersion nell’epoca coloniale britannica, ci avviamo con Khartar vero il Jaku Temple ma, strada facendo, decidiamo di rinunciare alla visita di questo tempio dedicato al dio Hanuman (o dio scimmia) e, come tale, infestato da fetenti scimmie che arraffano tutto quello che la gente tiene in mano arrivando perfino ad aggredire! Ci facciamo quindi lasciare lungo la strada “ai piedi” di Shimla e ci perdiamo nei mille vicoli del lower bazar che, pian piano, ci porteranno in cima, al The Mall. Non dimenticheremo facilmente gli edifici pericolanti costruiti sulla parete della collina, pieni di finestre con vetri rotti e inferriate arrugginite, le diverse sezioni del bazar con le stradine dedicate alla frutta e verdura, quelle dove vendono esclusivamente materiale scolastico, quelle dedicate ad abiti e scarpe. Ci perdiamo in mezzo a questo marasma di gente e merci passando anche per l’ospedale della città, ospitato in un antichissimo edificio britannico completamente in legno con torri e guglie aguzze in totale decadimento. Passiamo vicinissimi a templi dedicati alle mille divinità hindù, con i loro suoni di campane e fedeli in coda. Ci fermiamo a parlare con alcuni bambini che giocano su una terrazza a strapiombo sulla splendida vallata, cha fanno a gara per farsi fotografare. Arriviamo finalmente sulla sommità della città dove inizia il Mall e ci mangiamo una buona pizza in un fast food indiano. Poi, visto che lungo tutto il viale pedonale, è vietatissimo fumare, ci fermiamo in un piccolo locale per gustarci un caffè con sigaretta seduti sulla terrazza a guardare la gente che fa lo struscio. Facciamo quindi una lunghissima passeggiata alla scoperta dei bei edifici coloniali che costeggiano il Mall: l’imponente municipio, l’ex stazione di polizia, l’ufficio postale, la bella cattedrale, alcuni ben conservati, altri praticamente quasi in rovina. Lungo un vicoletto nascosto troviamo un cinema di provincia che proietta, manco a dirlo, Singh is Kinng, pubblicizzandolo con immensi cartelloni. D’impulso, entro nel cinema e mi dirigo verso il diroccato punto di ristoro dove gironzolano una decina di ragazzi dipendenti del cinema nonché quello che credo essere il proprietario, un immenso omone con la camicia i cui bottoni sembrano dover saltare da un momento all’altro a causa del prominente pancione. Mi avvicino ad uno dei ragazzi che mi guardano con aria stupita, spiego loro che sono un appassionato di film bollywodiani e in particolare di questo film e scoppia il finimondo! Tutti a chiedermi se mi piace Katrina, la protagonista, a sorridermi, a farmi feste, sembrano impazziti dalla gioia. Quando chiedo loro dove posso trovare un poster con la locandina del film, fuggono velocissimi dirigendosi ognuno in un punto diverso del cinema, evidentemente per trovarmene uno. Mentre aspetto faccio due chiacchiere con il proprietario e discutiamo se sia più affascinante Katrina o Aishwarya Rai, ma per lui non ci sono storie: la prima è assolutamente la bomba sexy di Bollywood! I ragazzini, nel frattempo, sono tornati a mani vuote e con gli sguardi smarriti ma poi, quello che pare essere il “primo dipendente” prende il coraggio a due mani e con una chiave apre una delle vetrinette dove ci sono i poster, lo stacca e me lo regala! Commosso da tanta gentilezza, ringrazio e torno in strada dove Stefano, stupito, si stava chiedendo che cosa mi fosse successo! Con il poster arrotolato riprendiamo la nostra passeggiata. Ci dirigiamo nuovamente nei bassi vicoli della città e passiamo in mezzo alla sezione dei sarti dove decine e decine di uomini, tutti chini sulle loro lucide macchine da cucire, confezionano kurta e giacche. Ogni tanto ci imbattiamo in ristorantini locali composti da una sala senza porte ne finestre con tavolini e sedie di plastica, ed un ambiente “cucina” direttamente sulla strada, dove cuochi friggono samosa su immensi calderoni pieni di olio fumante. Ma, quello che ci colpisce sempre, sono gli edifici sopra di noi che sembrano essere in equilibrio precario e sul punto di crollare da un momento all’altro. La decadenza di questa città, anzi di questa parte di città visto che sopra, il Mall, è lucidissimo e splendente, è molto affascinante e, in certo qual modo, ci strega, tanto che rimaniamo per attimi incantati a guardare questi palazzi pericolanti, in mezzo alla folla che ci spinge e che, probabilmente, si sta chiedendo che cavolo ci facciano due allampanati occidentali lì.

Nel frattempo si è fatto buio ed è ora di cena per cui risaliamo sul Mall e ci fermiamo in una simpatica sala da tè dove mangiamo dei buonissimi sandwich al formaggio (tipo toast) con una specie di salsa rosa, annaffiati da buonissimi tè al limone e miele. Ci dirigiamo quindi verso l’ascensore e salutiamo definitivamente Shimla, cittadina sicuramente affascinante, mentre ci dirigiamo per il meritato riposo al nostro albergo.

20 agosto

Ci alziamo senza molto appetito quindi chiediamo, al simpatico cameriere che ci serve la colazione, solo pane burro e marmellata; lui, stupito, ci guarda preoccupato e ci dice se vogliamo che ci prepari qualcosa per il viaggio, ma rifiutiamo visto che siamo ancora sazi da ieri sera. Ripassiamo sotto Shimla e ci rifacciamo al contrario la strada di due giorni fa fino al bivio per Manali. Costeggiamo per chilometri e chilometri l’impetuoso Beas, il fiume più grande di tutto l’Himachal Pradesh, che con le sue acque vorticanti, le sue decine di dighe ed altrettante centrali elettriche, fornisce energia ad una zona che arriva oltre i confini di questo stato. Il paesaggio cambia decisamente e diventa montano; stiamo infatti salendo di quota e, insieme alle conifere che cominciano ad abbondare, incontriamo immense piantagioni di mele che si stendono a perdita d’occhio. Ovunque, lungo la strada, baracchini che vendono i rossi frutti, piccole fabbrichette che costruiscono i contenitori di cartone per stivarle, camion stracarichi di cassette e poi decine e decine di persone che tornano dai campi con le gerle piene di saporiti frutti. Tutto qui è “mela”, tanto che nell’aria sembra quasi di sentirne il profumo. Ci fermiamo per permettere a Khartar di pranzare e noi girovaghiamo un po’ lungo la strada dopo esserci abbuffati di Lays ed aver fatto fuori un bottiglione da un litro e mezzo di Mangola: questi due prodotti sono oramai una consuetudine per i nostri frugali pranzi. Certo potremmo farci fermare in uno dei resort che incontriamo lungo la strada per mangiare qualcosa, ma a noi va bene così e non vogliamo perdere tempo prezioso. Arriviamo a Kullu, capoluogo dell’omonima valle, e ci fermiamo in un piccolo laboratorio che confeziona i tipici scialli di lana. Nell’annesso negozietto compriamo un gilet di lana di yak per poco più di due euro, facendo così felici le circa venti commesse che ci stanno intorno. Dopo Kullu, ci fermiamo a Nagar una bella località vicina a Manali. Qui visitiamo il Nagar Castle, un forte fatto costruire dal locale maharaja nel tipico stile dell’Himachal, e cioè alternando legno e pietra grezza. Oggi il forte è stato restaurato e convertito in albergo statale e sembra molto accogliente. La vista che si gode dal cortile interno bordato da un patio interamente in legno è spettacolare e le fronde dei salici piangenti, mosse dal vento, conferiscono al luogo un che di mistico. Girovaghiamo quindi per il sonnolento paesetto composto per lo più da case in legno con, al piano superiore, fienili già stipati, pronti per affrontare il lungo inverno. Ci imbattiamo in un bellissimo tempio di pietra con una strana copertura di legno, dedicato a Shiva, dall’architettura inusuale ed inconsueta. In riva al fiume c’è un altro tempio, più grande, tutto in legno con il tetto a pagoda. Ci fermiamo in un piccolo negozio che vende babbucce fatte a mano, ma è chiuso. Mentre stiamo guardando la vetrinetta sporca e spoglia arriva una giovane ragazza con la gerla piena di mele che si affretta, dopo averci salutato, a tirar fuori una chiave con la quale apre il negozio. Qui Ste, dopo mille incertezze, si sceglie un paio di coloratissime ciabatte da casa tutte fatte a mano; niente per me, visto che ho il piede un po’ più grande e mi vanno tutte strette. Ripartiamo da Naggar e percorriamo strette stradine di montagne dove le mele sono le protagoniste assolute: ce ne sono ovunque ed in quantità industriale! Agosto è la stagione della raccolta e tutti gli abitanti dei piccoli paesini sono affaccendati ed occupati, chi a raccoglierle sugli alberi, chi a trasportarle dentro a gerle di vimini intrecciate, chi a caricarle sui coloratissimi camion della Tata che raggiungeranno Delhi in due giorni, chi a venderle per strada su banchetti improvvisati. Khartar ci spiega che quelle più saporite e gustose sono quelle rosse mentre quelle gialle e verdi vengono impiegate per fare succhi e marmellate. Arriviamo finalmente a Manali, un grosso paesotto che sorge lungo le rive del Beas River, che qui scorre pigro e tranquillo. Come al solito Khartar sbaglia strada, complice anche il buio che avvolge le alte montagne. Finalmente arriviamo al nostro albergo situato alla fine di uno stretto viottolo. L’Ambassador Resort è un grande albergo tutto in legno, in stile “dolomitico”, con le terrazze delle camere che guardano le montagne ed un imponente lobby tutta in pietra grezza. Il simpatico receptionist ci assegna una “garden room”, posta al primo piano e con il giardinetto privato, ma terrorizzati come siamo dalle “camere che poggiano sul suolo” per via dell’umidità, vista l’esperienza negativissima della Chonor House, chiediamo se possiamo avere una camera al primo piano. Il ragazzo ci fa un po’ di difficoltà visto che si tratta di una sistemazione “superior” ma, vista la nostra insistenza, chiama il suo boss ed ottiene l’autorizzazione. Con il boy che trasporta le nostre valigie passiamo per l’ampio atrio e saliamo nella nostra bella camera, molto grande, con un bel terrazzo e, soprattutto, un letto comodissimo dove hanno sistemato un soffice piumone! Stanotte si dormirà bene!!!

Dopo aver capito come funziona la doccia (la vasca è incassata sul pavimento, è tutta in marmo nero e al posto del rubinetto ha una specie di cascatella da dove esce l’acqua calda!) ed essere stati abbondantemente sotto il getto dell’acqua calda, scendiamo per cena nel ristorante dell’albergo, visto che qui abbiamo la mezza pensione. La sala è bellissima, tutta decorata in stile tibetano e, oltre a noi, stanno cenando solo altri due occidentali, quindi i camerieri si affollano tutti intorno al nostro tavolo per farci scegliere le portate che ci servono abbondantissime e buonissime; ma quello che ci delizia oltre ogni immaginazione è il dessert: mela fritta, candita con zucchero grezzo e ricoperta di toffee servita con una crema inglese tiepida! Ci sembra di essere in paradiso! I ragazzi del ristorante sono davvero carinissimi e ci viziano oltre ogni modo. Con la pancia bella piena saliamo alla reception dove sfogliamo i giornali e poi in camera, un po’ di TV per gustarci i bellissimi video in stile Bollywood e poi sotto il piumone ed in un letto asciutto e pulito. Ah, questa è vita.

21 agosto

Ci svegliamo con un bel sole che filtra attraverso le tende e scendiamo a fare colazione. Scegliamo un bel tavolo sulla terrazza assolata dove uno dei simpatici camerieri della sera prima ci ri-vizia portandoci calde frittate, pane, burro e marmellate il tutto annaffiato da succo di mango e caffè bollente. Partiamo quindi per Vakshit, un piccolo centro poco fuori Manali, dove visitiamo un antico tempio in pietra con delle terme annesse funzionanti ancora oggi. Torniamo quindi verso Manali dirigendoci verso l’Hadiba Temple, immerso in un folto bosco di conifere, tutto in legno e pietra con le pareti ricoperte di corna di toro e di stambecco lasciate lì dai fedeli come offerte. Una breve passeggiata nel bosco ci porta all’albero sacro che rappresenta una divinità venerata dagli induisti: anche qui, corna di animali, corone di fiori e decine di figure di stagno rappresentanti persone, case, fiori ed altro. Dopo aver schivato il proprietario di uno yak bianco-latte che chiede soldi in cambio di fotografie al prezioso animale, ci facciamo portare a Old Manali e liquidiamo Khartar dandogli appuntamento per il tardo pomeriggio. Facciamo quindi una passeggiata in questa vecchia parte della città infestata letteralmente da “alternativi fricchettoni”, ragazzi e ragazze occidentali vestiti all’indiana che qui cercano il loro kharma o più semplicemente marijuana a buon prezzo come a Rishikesh. A piedi raggiungiamo New Manali dove ci accoglie un bel elefante tutto dipinto che si trova lì solo a fini turistici, ed andiamo a mangiarci una pizza in un localino sulla strada principale. Visitiamo quindi due templi tibetani, pieni di bandierine colorate che adornano gli stupa in pietra, popolati però da monaci non proprio simpatici che ci chiedono soldi anche per fare una foto al tempio. Comincia a piovere e ci rifugiamo dentro all’Amigo Cafè dove sorbiamo tè e caffè bollenti con una pasta alla cannella per poi dirigerci, ombrello alla mano, al mercato tibetano pieno dei soliti negozietti che vendono souvenir. Qui Ste perde un sacco di tempo a contrattare una scatola in legno, arrivando quasi a litigare con la donna tibetana che, come al solito, racconta un sacco di frottole sull’origine dell’oggetto: fa parte di una vecchia collezione del padre, è pregiatissima ed antichissima, il prezzo è già scontato, e via di seguito. Io nel frattempo ciondolo per il mercato a caccia di qualche scatto particolare e poi lo passo a prendere e lo vedo felice con il suo cartoccio in mano che avvolge la “preziosa” scatola. Alle 18.30 Khartar ci viene a prendere e ci riporta all’albergo dove facciamo una doccia caldissima e ci riposiamo un po’ in camera prima di scendere per cena. Ancora una volta ci abbuffiamo di pietanze gustose con i camerieri che ci girano attorno pieni di apprensione. Torniamo in camera sotto un diluvio universale che ammiriamo dalla terrazza, seduti sulle sedie di plastica con una tazza di camomilla ed una sigaretta. Domani ci aspetta una lunga e pesante giornata.

22 Agosto Sveglia all’alba, colazione e poi si parte in direzione Keylong. Oggi inizieremo la traversata della Great Himalyan Road, la strada carrozzabile più alta al mondo ed affronteremo nei prossimi due giorni passi altissimi: la cosa un po’ ci emoziona ed un po’ di preoccupa perché, se fin qui i problemi legali all’altitudine non si sono fatti sentire, se non con dei leggeri mal di testa, da oggi si comincia a salire di quota fino a toccare i 4.200 metri di Sarchu dove dormiremo in un campo tendato ed i 5.328 metri del Taglang La il secondo passo carrozzabile più alto al mondo. Usciamo quindi dal centro di Manali e cominciamo a salire su una strada stretta ma abbastanza tranquilla. Il cielo è minaccioso e pieno di nuvole gonfie di pioggia. Più saliamo e più la luce si fa debole visto che siamo affiancati da boschi di conifere fitti fitti. La strada peggiora e l’asfalto sembra scomparire, lasciando posto a buche o, meglio, a vere e proprie voragini; dapprima contaminano solo parte della strada, poi sempre di più fino a quando ci troviamo a percorrere una strada di terra battuta che con le ultime, pesanti piogge, è diventata un ammasso di fango. Ad un certo punto siamo costretti a fermarci e ad incolonnarci ad altre auto, autobus e camion. Non capiamo bene che succede: pare che un camion non riesca a fare il tornante visto che scivola continuamente sul fango. Rimaniamo bloccati e quindi usciamo dall’auto per andare a vedere la situazione. Riusciamo quasi per miracolo a non sprofondare nel fango viscido, accendiamo una sigaretta e facciamo due chiacchiere con una simpaticissima ragazza che fa parte di un gruppo di Avventure nel Mondo, anche lei con la sua auto ferma. Dopo circa una mezz’ora e con l’intervento di un gruppo di militari, il camion riesce a superare la trappola fangosa. Ci rimettiamo in moto e ci accingiamo anche noi a scavalcare il tornate ma il piccolo furgoncino prima di noi fa più fatica del camion: prende la ricorsa, accelera a tutto spiano ma quando arriva nel buco fangoso viene respinto indietro e rischia ogni volta di finire nel burrone sottostante. Finalmente i sette (si, proprio sette!) occupanti del microbus si decidono scendere, dando modo al veicolo di passare. Noi, per fortuna, riusciamo a farcela subito e quindi proseguiamo ad inerpicarci su per le montagne. L’aria è umida e comincia a piovere, i finestrini si appannano, le nuvole si abbassano….risultato non si vede una fetecchia! Suggeriamo a Khartar di attaccare un po’ l’aria calda in modo che i vetri riprendano la loro naturale trasparenza, ma lui non vuole sentir ragioni! Sobbalziamo su massi staccatisi dalla parete rocciosa, cadiamo dentro a voragini piene di fango vischioso, percepiamo, più che vederli, il dirupo da un lato e la montagna dall’altra. Ricorderemo ogni attimo della scalata al Rothang pass a 3.978 metri, lungo quella strada orribile, come tra i peggiori vissuti in tanti viaggi fatti. Ci colpiva la nostra impotenza, il non poter contare né su un mezzo adeguato (ci diranno poi che in India non esistono autovetture 4×4) né sul nostro autista, anch’egli in preda al panico ed evidentemente imbarazzato, che ci ripeteva continuamente “Questa non è la stagione adatta per fare la traversata”. In quel momento abbiamo veramente odiato Rajen perché, quantomeno, poteva avvertirci di tutto ciò. Il Rothang pass non è altro che un ammasso di tende di plastica con, all’interno, bar-ristoranti. Non immaginatevi chissà che: una stufa con sopra vario pentolame contenente dio solo sa cosa, un giro di panche che corre intorno al perimetro della tenda, qualche sacchetto di patatine, beveraggi vari e null’altro! Fuori il paesaggio è deprimente: le nuvole sono così basse che non si vede più in là della punta del nostro naso, fa freddo, e una pioggerellina sottile si infila sotto i nostri giubbotti, siamo stanchi e preoccupati. Khartar ci propone di fare un giro a cavallo: lo guardiamo spalancando i nostri occhi ma preferiamo non dire nulla! Il nostro silenzio è eloquente e lui risale in macchina e si riavvia verso la strada per Keylong. Noi sgranocchiamo qualche Lays (abbiamo fatto scorta) e, grazie anche alla strada che va via via migliorando ed al diradarsi delle nuvole, ci rilassiamo un po’. Finalmente esce il sole e, come d’incanto, cominciamo a godere del paesaggio circostante: spoglie montagne altissime, distese di roccia ed un cielo che sta diventano azzurro.

Costeggiamo il fiume Beas ed attraversiamo qualche villaggio che sembra un’oasi in mezzo al deserto, con alberi da frutto, coltivazioni di fagioli e patate, boschetti di eucalipto.

Verso le 16.00 finalmente la nostra odissea finisce ed arriviamo a Keylong, a 3.300 metri di altezza. Il paese è brutto, con poche case e nulla da vedere o da visitare, ma non vediamo l’ora di arrivare in albergo per fare una doccia calda e riposarci un po’ visto che il Chander Bhaga Hotel viene descritto dalla LP come un grande albergo costruito sul modello di uno chalet alpino per sciatori con camere graziose e ben arredate.

Purtroppo i nostri desideri svaniscono immediatamente quando l’auto imbocca il vialetto che porta davanti all’albergo. Di fronte allo stabile sono piazzate una ventina di tende scelte dai backpapers che viaggiano sugli autobus statali e che, nel prezzo del biglietto, hanno incluso anche il pernottamento qui. Saliamo la scalinata e vorremmo non proseguire intravedendo l’ingresso: un ampio spazio con un bancone di legno messo di sbieco, muri scrostati e ammuffiti, pavimento pieno di fango, biciclette parcheggiate in un angolo insieme a matasse di fili elettrici e sacchi di cemento. Non sappiamo se metterci a ridere o urlare e tornarcene in macchina. Khartar ci guarda come in attesa di un nostro giudizio. Lo rassicuriamo e gli diciamo che va tutto bene e che ci vedremo domattina. Saliamo al primo piano sulle scale di cemento grezzo e ci troviamo di fronte alla porta della stanza sprangata da un lucchetto esterno e da un lungo chiavistello. Abbiamo il timore di aprire la porta….ma ci facciamo forza ed entriamo. La stanza, per fortuna, non è sporca ma è talmente deprimente che ci chiediamo come passeremo la notte: due reti con sopra i relativi materassi, un televisore 12 pollici, poggiato sopra un mobiletto scrostato, ovviamente non funzionante, due sedie ed un tavolino, un armadio a vista (cioè senza porte) ed un bagno a dir poco disastrato, con piastrelle sbeccate ed uno scaldabagno che sembra uscito dal secolo passato con i fili elettrici che penzolano nel vuoto. A peggiorare le cose, le tubature della doccia completamente incrostata, perdono acqua trasformando il pavimento in un lago. Depressi (si, questa è la parola giusta) tiriamo fuori dalle valige le nostre razioni “K” (tonno e crakers) che mangiamo senza troppo gusto. Poi decidiamo di uscire da quel posto che non possiamo chiamare camera e di andare a farci un giro in paese. Qui le cose non migliorano: per scendere in paese attraversiamo dei campi d’erba completamente fradici e fangosi che ci conducono direttamente alla brutta stazione degli autobus. Da qui scendiamo ancora verso il cuore del paese e passeggiamo sotto una pioggia sottile che rende tutto ancora più tetro. Compriamo qualche mela da una donna che ha allestito il suo negozio di frutta e verdura in una specie di garage in cemento e dopo mezz’ora abbiamo già girato in lungo e in largo Keylong. Ritroviamo Barbara di Avventure nel Mondo e scambiamo due parole, scoprendo che anche loro non sono messi molto bene in quanto ad alloggio. Risaliamo quindi (stavolta per la strada principale) al nostro albergo e qui….aspettiamo che faccia sera. Di scendere a cena al “ristorante” (chiamiamolo così….) non se ne parla, meglio il digiuno! Mangiamo in silenzio le nostre mele ed una sorta di zuppa di noodle disidratata della Maggie che avevamo preso a Dharamsala. Ci beviamo un tè con i biscotti e alle otto di sera siamo già distesi sul letto, completamente vestiti, coperti da trapunte che per fortuna, ne diamo atto, ci sembrano pulite. L’unica cosa che ci consola è l’aver indossato delle magliette che Danika e Christian ci avevano regalato prima di partire, previo lavaggio in lavatrice: respirare quel profumo di ammorbidente e di pulito ci regala una sensazione di benessere. A causa di problemi di respirazione, faccio fatica ad addormentarmi e quindi mi giro e mi rigiro nel giaciglio pensando “Mai più” (vedi oltre…). La notte passa così, in dormiveglia, ma finalmente arriva mattina…..

23 agosto. Ci svegliamo poco riposati e dopo aver affrontato il bagno per una veloce lavata di viso, ci prepariamo la colazione in camera con caffè e biscotti (elogi al nostro solito bollitore) ben decisi a non affrontare il “ristorante”. Lasciamo più che volentieri Keylong e ci avviamo verso le alte montagne: la destinazione finale di oggi sarà Sarchu a 4.200 metri di altezza. Fortunatamente non piove e la strada è migliore di quella di ieri. Inerpicandoci per le strette strade, i villaggi si diradano e troviamo solo ogni 30/40 chilometri dei piccoli centri con due o tre dabha (bar tibetani allestiti dentro a gheerte, tende circolari tipiche di queste parti del pianeta ma molto più famose in Mongolia), qualche yak che pascola nei radi prati, un manipolo di abitanti delle montagne con le loro gerle piene di legna che percorrono tranquilli i sentieri, e nulla più. Alle due ed in tutta tranquillità arriviamo a Sarchu, o meglio a qualche chilometro dall’isolato villaggio di Sarchu. Qui, in mezzo ad uno scenario da favola, in una vallata davvero strepitosa contornata da alti picchi e da distese di prati brulle e senz’alberi, appare il nostro campo tendato: una ventina di tende bianche con i lembi che sventolano al vento disposte in cerchio ed una tenda un po’ più grande dove è stato sistemato il “ristorante” (le virgolette oramai sono diventate una consuetudine….). Ci assegnano la tenda n. 2 del campo completamente deserto: appena apriamo la cerniera ed entriamo nella “camera” (ancora virgolette….) rimaniamo stupiti perché non è per niente male! Ovviamente si tratta di una sistemazione molto spartana con due brandine, una specie di comodino ed una sedia ma, dietro ad un’altra porta a cerniera si nasconde….il bagno! Un wc sistemato precariamente sui sassi ed un piccolo lavandino, tutto perfettamente funzionante. Pioviggina e fa freddo per cui, dopo aver bevuto un tè bollente con dei biscotti al malto alla tenda-ristorante, decidiamo di starcene un po’ al calduccio sotto ai piumoni. Ci distendiamo sulle brandine e subito parte qualche imprecazione: si tratta di tavolati duri come pietre ed è quasi impossibile trovare una sistemazione decente. Rimaniamo, completamente vestiti, sotto le coperte ascoltando la pioggia che batte sulle pareti di tela della tenda pensando “Ma chi ce l’ha fatto fare”. Ma, come si sa, in queste situazioni occorre fare di necessità virtù. Per cui mi alzo e cerco di scuotere Ste proponendogli una passeggiata, visto che non sento più rumore di pioggia, ma lui rifiuta categoricamente di uscire dal giaciglio e quindi mi avvio da solo. Ricorderò poi quella passeggiata come una delle più belle esperienze vissute durante questo viaggio: completamente solo, percorro la strada che taglia in due la vallata, imbacuccacato nel mio giubbotto giallo e con in testa il prezioso (è proprio il caso di dirlo) berretto di lana comprato a Dharamsala guardando ai miei lati le brulle distese e gli alti picchi coperti di neve. Il silenzio è totale, rotto solo ogni tanto dal passaggio di un isolato camion che trasporta merci dall’Himachal Pradesh al Ladhak e l’aria è fresca e frizzante. Dopo una mezz’oretta mi decido a tornare sui miei passi e, in lontananza, verso il canyon che si spalanca nella distesa alla mia destra vedo un gruppetto di persone. Mi dirigo in quella direzione e a sorpresa incontro nuovamente la simpatica Barbara del gruppo di ANM: sono appena arrivati anche loro e, a dirvela tutta, mi sento un po’ sollevato nel sapere che, stasera, ci sarà qualcun altro che dormirà al campo. Scambiamo due chiacchiere passeggiando nell’erba bassa fino ad arrivare al canyon sul cui fondo scorre un rivolo d’acqua. Sopra un’altura, due stupa vecchissimi e diroccati attirano la mia attenzione, ma sono troppo lontani da raggiungere e vista la stanchezza, dovuta forse all’altitudine (non dimentichiamo che siamo a 4.200 metri!), o forse al fatto di aver dormito poco la notte scorsa, decido di rientrare al campo dove arrivo con il fiato corto e trovo Ste seduto su una delle sedie di plastica fuori della tenda a fumare una sigaretta. Il pallido sole prima del tramonto illumina il paesaggio che lascia davvero senza fiato anche…per il freddo che aumenta! Andiamo alla tenda-ristorante che fa già buio e facciamo conoscenza con ragazzi di un altro gruppo di ANM che viaggiano in direzione opposta alla nostra (arrivano cioè dal Ladhak e vanno verso l’Himachal) con i quali condividiamo una zuppa calda, qualche verdura e un po’ di riso. La serata finisce con i due gruppi di ANM che intonano canti tipo “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù” bevendo un grappino. Tutto mi sarei aspettato fuorchè sentire, sotto una incredibile volta di stelle nel bel mezzo della catena Himalayana, una canzone della Carrà! Un cielo stellato così l’abbiamo visto solo alle Seychelles, altro posto magico dove non esiste inquinamento luminoso e quindi le stelle sembrano più brillanti e più vicine e le galassie sono visibili anche ad occhio nudo. Con queste immagini negli occhi torniamo, torcia alla mano, alla nostra tenda dove al freddo e al gelo (è proprio il caso di dirlo!) ci ficchiamo sotto le trapunte dopo aver fatto una pipì in equilibrio precario sui sassi davanti al wc. L’interno della tenda è illuminato da una lampadina che però, dopo un po’, si spegne completamente visto che il generatore viene staccato. Tutto è pronto per mettersi a dormire ma sarà una delle peggiori notte passate fin’ora e che passeremo. Ci giriamo e rigiriamo sul duro tavolato, vestiti di tutto punto con due paia di pantaloni, magliette, camicie, felpe di pile, giubbotti e, per finire, berretto di lana calato sugli occhi. Io faccio fatica a respirare. Fa freddo e, dal rumore, sembra che fuori, a cadere, non sia più pioggia ma acqua ghiacciata. Alla fin fine, la stanchezza ci vince e ci addormentiamo.

24 agosto. Alle sei di mattina ci “bussano” alla porta della tenda chiedendoci se vogliamo acqua calda. Insonnoliti ed infreddoliti rispondiamo di si senza capire a che cosa si riferisca chi ce l’ha proposto. Esco dal giaciglio tiepido, apro la cerniera e trovo appoggiato a terra un piccolo secchio pieno di acqua fumante! Dopo esserci lavati alla bell’e meglio, andiamo a fare colazione con tè bollente, pane burro e marmellata. Al “ristorante” non c’è nessuno visto che i due gruppi di ANM sono partiti stamattina presto. Per fortuna c’è il sole e quando saliamo in macchina chiediamo a Khartar di accendere l’aria calda perché non riusciamo a scaldarci e Stefano ha un po’ di mal di testa. Il paesaggio man mano che saliamo di quota diventa sempre più spettacolare: altissime montagne, spazi immensi ai lati della strada, piccoli laghi. Ad un certo punto saliamo su uno stupendo altipiano che percorriamo per qualche chilometro fino a quando la strada si interrompe e siamo costretti a deviare e a correre sullo sterrato. Correre sulla steppa in uno spazio immenso chiuso ai lati da alti picchi innevati, con un cielo azzurro punteggiato da nuvole bianche è un’esperienza bellissima e difficile da descrivere. Per un po’ dimentichiamo di essere a quasi cinquemila metri di altitudine ed i nostri mal di testa e ci godiamo l’incredibile paesaggio, sfrecciando su questa prateria d’alta quota.

Ci inerpichiamo sul fianco di una montagna ed arriviamo fino al Taglang La, il secondo passo carrozzabile più alto al mondo, situato ad una quota di 5.328 mt. ma le nuvole basse, la pioggia sottile ed il mal di testa ci impediscono di godere al massimo di questa meraviglia. Facciamo le foto di rito, giusto per testimoniare questo importante traguardo, una pipì veloce e risaliamo in macchina. Il tempo si fa sempre più brutto e davanti a noi anche la strada peggiora, piena di buche e fango. Faccio appena in tempo a dire a Ste “Speriamo di non rimanere bloccati in una buca se no non ne usciamo più!” che dentro ad una buca ci cadiamo davvero. Sprofondiamo nel pantano con le ruote posteriori e per quanti sforzi faccia Khartar, la macchina non si muove. Usciamo dall’auto e camminando sul fango raggiungiamo il bordo della strada completamente deserta con lo strapiombo sotto di noi. Che facciamo? Khartar risale e riprova all’infinito ma peggiora solo le cose. Dopo un quarto d’ora, fortunatamente, arriva un’altra Toyota con a bordo due turisti. L’autista scende e parla con Khartar: armeggiano un po’ intorno alla macchina piazzando qua e là dei massi appuntiti e poi ci chiedono di aiutare a spingere. Rimbocchiamo i pantaloni e risprofondiamo nella melma, facciamo forza e finalmente dopo qualche tentativo la macchina esce dalle sabbie mobili! L’auto con i due turisti riparte e Khartar esce dalla macchina con un’espressione buia in viso. Non ne capiamo il motivo visto che siamo usciti dalla trappola fangosa ma, seguendo i suoi occhi afferriamo subito il motivo di preoccupazione: la ruota anteriore destra è bucata e completamente a terra. Ora, se tutto questo fosse successo su una strada normale, anche indiana, ma in pianura, con un po’ di gente intorno, non ci sarebbe stato nessun problema ma così, ad oltre cinquemila metri, anche cambiare una ruota può rivelarsi un’impresa. A complicare il tutto c’è la pioggia che comincia a scendere in cristalli ghiacciati. Khartar non vuole assolutamente farsi aiutare e con il fiato corto riesce a fare la sostituzione. Tirando un sospirone (corto!) di sollievo ci rimettiamo in marcia. La discesa riprende rapida ed affrontiamo tornanti strettissimi. Ma c’è qualcosa che non và. Vediamo Khartar sudare copiosamente nonostante non faccia per nulla caldo ed infatti dopo nemmeno 10 minuti, all’uscita da un tornante ferma bruscamente la macchina e scende. La ruota che abbiamo cambiato poco fa è completamente a terra: abbiamo bucato di nuovo! Eccoci qui, un bel ritratto di gente disperata: Khartar che prova e riprova a far funzionare il suo cellulare senza riuscirci (a quest’altitudine non c’è campo!), Stefano disteso in macchina con un forte mal di testa, io che, sul bordo dello strapiombo calcio i sassi e continuo a ripetere, come un mantra, “Mai più, mai più” (di nuovo…). Il cielo è sempre più scuro e nuvole minacciose si accalcano all’orizzonte. Ogni tanto passa un’auto che regolarmente Khartar ferma e si mette a parlare con l’autista. Alla terza auto che si ferma e poi riparte di gran carriera, mi decido a chiedergli che cosa sta succedendo. Mi dice che non sa come uscire da questa situazione: le soluzioni sono due, o scende una Toyota Innova e ci dà la sua ruota di scorta oppure qualcuno degli autisti che sono passati fino ad ora avvertono l’ufficio di Leh che manderà qualcuno a prenderci. Agli autisti che fermava Khartar dava a tutti un biglietto con scritto il numero di telefono dell’agenzia Ladakha e chiedeva se una volta arrivati più giù, potevano chiamare per spiegare l’accaduto e farci mandare i soccorsi. Perplesso chiedo se conosceva personalmente gli autisti. Risposta “No, ma spero che qualcuno lo faccia”. Dunque, considerando che per arrivare a Leh servono circa 2 ore, di tempo da passare qui ce n’è ancora molto! Nel frattempo il mal di testa di Stefano continua ad aumentare così come la preoccupazione: uno dei sintomi tipici del mal d’altitudine è infatti la forte cefalea e visto che siamo sopra i 5.000, la prima cosa da fare è far scendere di quota chi sta male. Pur se Stefano cerca di rassicurarmi dicendomi che il mal di testa è dovuto solo a mancata digestione, ho paura lo stesso perché nessuno ha certezza sull’origine dell’emicrania. In quel mentre arriva un piccolo furgoncino con a bordo due ragazze americane, due guide e l ‘autista, che viene subito fermato da Khartar che spiega loro cosa è successo. Sono già in tanti dentro il veicolo per cui possono caricare solo una persona. Vado da Stefano per convincerlo a scendere, ma rifiuta categoricamente e secondo me stupidamente. Torno quindi dalle ragazze e dico che non me la sento di scendere lasciando Stefano qui. La simpatica americana mi risponde che anche lei farebbe la stessa cosa per la sua amica. Si confronta con gli altri occupanti del furgoncino ed infine mi sfodera un sorriso radioso e mi dice che ci stringeremo e che ci porteranno tutti e due a Leh. Parlo con un sollevato Khartar che mi dice di andare subito all’ufficio per avvertire che mandino una macchina a prenderlo, prelevo Stefano dalla nostra Toyota e saliamo sul furgoncino: lasciano a lui il posto davanti mentre a me tocca il …. bagagliaio, mentre Cindy e Susan si stringono con le due guide sul sedile posteriore. Mi sento un po’ come quei cani che vengono trasportati alle scampagnate domenicali col muso schiacciato sul lunotto posteriore ed ammiro, un po’ sollevato, lo stupendo paesaggio soleggiato delle valli che sovrastano il Ladhak. Scambio quattro chiacchiere con le ragazze che sono di Seattle e da sei mesi girano per l’India. Stanno tornando da una 7 giorni di trekking al lago Tsomoriri e sono distrutte, sporche, con tanta voglia di fare la doccia…….

UNA DOCCIA A LUME DI CANDELA

Ladhak – 23 agosto / 1° settembre 2008

…..Dopo due ore abbondanti, correndo lentamente per la strada in mezzo a villaggi con le classiche case Ladhake imbiancate a calce e con il tetto ricoperto di fieno messo a seccare, attraversando piccoli ponticelli in pietra che scavalcano torrenti impetuosi, arriviamo finalmente alle porte di Leh con Stefano che già si sente meglio. Ci portano all’ufficio di S.B. il titolare dell’agenzia Ladhaka, e ci salutano: con le ragazze ci scambiamo abbracci calorosi e io le ringrazio mille volte; rimarranno ancora qualche giorno a Leh e quindi si augurano di incontrarci un po’ più in forma.

Entriamo nell’ufficio di S.B. e spieghiamo l’accaduto; lui ci risponde che qualche minuto fa è partita una jeep per recuperare Khartar e le nostre valigie rimaste sulla Toyota ma che ci vorranno almeno 5 ore prima che faccia ritorno. Evidentemente l’espediente di Khartar ha dato i suoi frutti! Ci porta quindi in albergo e già quando scendiamo sul piazzale d’ingresso del Lharimo Hotel ci prende un coccolone visto che non si presenta affatto bene! Ancora una bettola! No, no, questa volta non lo sopportiamo! S.B. si fa dare la chiave e ci accompagna di sopra: la porta è bloccata dal di fuori con il solito catenaccio che oramai abbiamo imparato a conoscere: dentro la stanza sarà brutta, lo sappiamo. Entriamo e pur non essendo desolante come quella dell’hotel di Keylong non ci ispira affatto fiducia. Chiediamo quindi di cambiare albergo ma S.B. ci dice che questo è il migliore di Leh ed ha il vantaggio di essere a due passi dal centro. Scettico gli dico di aver letto belle cose sul Dragoon Hotel e quindi chiedo di essere spostato lì, ma lui mi dissuade dicendo che si tratta di un albergo per indiani, con il tipico stile opulento che piace loro, ma che non è niente di particolare e che soprattutto è lontano dal centro un paio di chilometri. A malincuore acconsentiamo a rimanere lì e gli do appuntamento fra una mezz’oretta per discutere del nostro programma che dovrà subire alcuni cambiamenti. Stefano si sistema a letto dopo aver bevuto un tè caldo ed ha voglia solo di riposare. Lo lascio e scendo nel bel giardino dell’albergo (che sto già rivalutando…) e discuto con S.B. sul programma: per domani mattina erano infatti già previste le prime visite ma dico che non sapendo come si sentirà Stefano, mi pare prematuro decidere ora per cui annullo tutto. Dico anche che abbiamo serie perplessità nell’andare alla Nubra Valley dovete dovremo rimanere 3 giorni. Visti i giorni pesanti appena trascorsi abbiamo bisogno di tranquillità. Molto gentilmente mi spiega che non c’è problema e chiederà da subito all’albergo di confermarci le due notti che avremmo dovuto passare in Nubra. Tuttavia domani mattina, dopo colazione, verrà a trovarci per sapere come stiamo. Lascio quindi SB e risalgo in camera. Ste sta riposando ed anch’io mi butto a letto. Guardandomi intorno scopro che la camera non è poi così male a parte una moquettona posata malamente. Trascorro il tempo un po’ leggendo un po’ dormicchiando fino a quando si fa ora di cena. Ste sta decisamente meglio per cui scendiamo al ristorante affollato di occidentali (americani e francesi) e mangiamo dell’ottimo pollo (pollo? siiiiiiiiiiiiiiiiii finalmente un po’ di proteine!!!) con del buonissimo purè di patate ed un ottimo dolce fatto di fette di pane sommerse da miele. Alle otto e mezza proprio mentre abbiamo finito di mangiare e stiamo per uscire dal ristorante per fumare una sigaretta nell’accogliente giardino arriva, tutto trafelato, un preoccupato Khartar con le nostre valigie. Lo rassicuriamo dicendogli che non ha di certo colpa se ben due ruote sono scoppiate e quando vede che Stefano sta meglio pare tranquillizzarsi. Quest’omino che all’inizio non riuscivamo a capire totalmente e che continuamente confrontavamo (sbagliando!) con il nostro Raj, l’autista che due anni fa ci aveva scorazzato per un mese nell’India del Sud, si sta rivelando una persona a modo. Peccato che l’abbiamo scoperto alla fine del viaggio. Ci abbracciamo e gli chiediamo notizie dell’auto: ci dice che è ancora su, sugli alti passi, abbandonata nella posizione in cui l’abbiamo lasciata. Domattina partirà con una gomma nuova, la sostituirà, e poi tornerà a Leh per ripartire il giorno dopo ancora con tranquillità. Anche lui ha bisogno di riposare un po’. Gli chiediamo di dare un’occhiata all’interno della macchina per essere sicuri di non aver dimenticato nulla visto che l’abbiamo abbandonata in fretta e furia. Ci conferma che lo farà e si congeda. Noi facciamo giusto due passi nella frizzante serata e poi ce ne andiamo distrutti a letto.

25 agosto. La mattina ci svegliamo riposati e ritemprati e quando scendiamo a far colazione anche l’albergo ci sembra diverso con il bel giardino soleggiato e pieno di fiori e l’architettura tipica ladhaka muri a calce bianchi e finestre rosso lacca. Se in Himachal Pradesh a farla da padrone era la mela, qui è l’albicocca ed infatti per colazione ci portano una buonissima marmellata di questi frutti arancioni, ma prima ci sbafiamo una frittatona al formaggio per tirarci su. Con la panza piena ci versiamo l’ennesima tazza di caffè e ci spostiamo in giardino per crogiolarci un po’ al sole; siamo raggiunti prima da Khartar che viene a salutarci e ad accertarsi sul nostro stato di salute e poi da S.B. che viene a conoscere le nostre decisioni. Sarà per il sole, sarà perché a Leh ci sentiamo bene anche se siamo arrivati da meno di 24 ore ma confermiamo tutto il programma recuperando nel pomeriggio la visita che avremmo dovuto fare stamattina. Visto che abbiamo appuntamento con la nostra guida alle due del pomeriggio passiamo la mattinata in giro per Leh. La capitale del Ladhak è in realtà una piccola cittadina di 28.000 abitanti, situata alla quota di 3.500 metri sul livello del mare. Le strade principali sono due o tre al massimo, piene di banchetti di tibetani che vendono ogni genere di souvenir. Girovaghiamo alla scoperta della città senza una meta precisa e ci imbattiamo, quasi per caso, in un piccolo sgabuzzino da dove si possono fare telefonate anche internazionali. Qui infatti i nostri cellulari non hanno campo e quindi entriamo in questo vero e proprio sottoscala che sarà lungo un paio di metri e largo due con, come unico arredamento, una panca un tavolino con sopra il telefono e, proprio sotto alla scala di cemento, il minuscolo ufficio di Mohammad il ragazzino che gestisce questo mini call center. L’incredibilità di questo posto è il costo diremmo quasi irrisorio per telefonare in Italia: con circa 18/20 rupie (circa 30 centesimi di euro) facciamo le telefonate ai nostri genitori che non sentiamo da un bel po’ di giorni. Chiacchieriamo un po’ con Mohammad che parla un discreto inglese e ci spiega che lavora in quel sottoscala dalle 9 di mattina fino alle 10 di sera, concedendosi una piccola pausa di un’ora per pranzo. Incredibile! Ovviamente arrotondiamo la cifra che ci chiede per le telefonate e, da subito, tra di noi si instaura un bel feeling. Lo salutiamo promettendogli che saremo tornati nei prossimi 10 giorni. Facciamo scorta d’acqua e di biscotti e poi torniamo in albergo per il pranzo, discreto. Ci rimettiamo quindi in giardino a prendere il sole fino a quando puntuale alle 2.00 arriva Tsirin, che sarà la nostra guida per tutto il nostro soggiorno in Ladhak, un giovanissimo ragazzo di 25 anni dinoccolato e di poche parole. Per oggi il nostro autista sarà un maturo signore molto gioviale e simpatico. Partiamo quindi alla scoperta dei dintorni di Leh e visitiamo i monasteri di Pyang e Spituk, con le bellissime e stupendamente decorate sala da preghiera, piene di statue del Buddha, trombe, tamburi e vecchissimi tangka (chi ferma più Stefano????). Tsirin, evidentemente, è molto conosciuto perché i monaci che sorvegliano i monasteri ci aprono tutte le porte; sarà forse per la sua forte religiosità: ogni volta che entriamo in una sala di preghiera si prostra per terra con le mani giunte per fare le sue invocazioni, conosce a memoria tutti i nomi delle statue (incarnazioni, trasformazioni e trasfigurazioni del Buddha), accende incensi, mette monetine per le offerte, mangia cibo sacro simile a del pop corn caramellato che offre anche a noi. Bellissima la posizione del monastero di Pyang, che sorge in mezzo ad una brulla pietraia ed è arroccato su una collina. Anche lo Spituk Gompa (Gompa è il termine ladhako per indicare i monasteri) non è male ma sorgendo subito alle spalle dell’aeroporto occorre fare molta attenzione a non scattare foto in quella direzione perché potremmo passare dei guai. Scavalchiamo quindi il fiume Indo e ci addentriamo in un’altra Leh, senza palazzi e senza strutture particolari, dominata dalla verde campagna e da basse casette di calce bianca con le finestre colorate di rosso: sembra davvero un altro mondo questa terra stupenda baciata dal sole. E pensare che il gruppo di ANM che avevamo conosciuto a Sarchu ci aveva detto di aver trovato dieci giorni di pioggia fitta! Percorrendo una strada sterrata arriviamo ad uno stupendo sito di alti ed antichi chorten bianchi: i chorten sono degli stupa costruiti dagli abitanti del Ladhak per ringraziare il Buddha per qualche grazia ricevuta o per ottenerne una. La loro base quadrata, sormontata da una cupola a cipolla, spicca nel cielo azzurrissimo e ci fa uno strano effetto. Verso le cinque del pomeriggio, con il sole che comincia a calare arriviamo allo Stock Palace, ex residenza del sovrano del Ladhak e trasformata in museo: la struttura è davvero imponente, squadrata e tutta bianca e sarebbe da foto se non ci avessero piantato proprio di fronte una orrenda antenna per le telecomunicazioni. Il museo sarebbe già chiuso ma l’influenza di Tsirin sul custode, un simpatico vecchietto che scherza moltissimo con me, fa aprire per noi tutte le porte. Visitiamo le stanze del palazzo stracolme di tesori reali tra cui dei tangka vecchissimi e bellissimi, dei servizi da tè in porcellana finissima, delle foto in bianco e nero che ritraggono un’epoca oramai passata, vecchi filatoi, antichi gioielli e perfino una portantina che serviva per il trasporto della regina. Usciamo dal palazzo che oramai il sole sta quasi tramontando e riprendiamo la strada verso Leh: a quest’ora del giorno i piccoli agglomerati di case che incontriamo sulla stretta via sono, se possibile, ancora più belli. Incontriamo uomini e donne che stanno tornando dai campi con sulle spalle pesanti gerle stracolme di fieno ed erbe, tutti con il sorriso sulle labbra. Ovunque, nel paesaggio che ci circonda, sono disseminati stupa, alcuni ben conservati, altri diroccati, ma tutti affascinanti. Arriviamo in albergo dove, a sorpresa, troviamo Khartar che ci aspetta per riportarci la nostra borraccia che quotidianamente riempivamo di enervit protein ed un pacchetto di biscotti che avevamo lasciato in macchina: ci riabbracciamo, ci facciamo una foto insieme, e lo salutiamo augurandogli buona fortuna, visto che domani mattina all’alba partirà per tornare a Delhi. Ci sediamo in giardino dove conosciamo Matteo e Federica, una simpatica coppia di Vicenza che domani partirà per una 14 giorni di trekking. Sono in viaggio di nozze ed hanno scelto questa meta atipica perché appassionatissimi di montagna e di camminate. Chiacchieriamo del più e del meno fino a quando viene ora di cena. Ci diamo appuntamento fra una mezz’ora al ristorante e saliamo per la doccia. Le pietanze, stasera, non sono nulla di speciale per cui mi faccio portare un po’ di burro con cui condire il riso bianco onnipresente. Passiamo una bella serata con Matteo e Federica, scambiandoci impressioni di viaggio, preoccupazioni legate all’altitudine ed alle condizioni atmosferiche, fino a quando non arriva l’ora di ritirarci in camera a fare le valigie: domani si parte per la Nubra Valley.

26 agosto. La sveglia suona presto, stamattina, ma ci svegliamo ben riposati. Mentre stiamo facendo colazione, ci raggiunge Tsirin che si accomoda con noi e con fare del tutto indifferente si prende una fetta di pane e la spalma con il burro, proprio come se fosse uno di famiglia! Usciamo quindi in parcheggio con le nostre valigie che carichiamo sulla Skorpio. Al volante dell’auto il nostro nuovo autista che rimarrà con noi fino alla fine del viaggio. Si chiama Tashi ed ha la stessa età di Tsirin, pur essendo completamente differente: basso di statura, jeans da rapper, felpa, occhiale simil-rayban a goccia, insomma un tipo ganzo davvero. La giornata è strepitosa ed il sole scalda cuori e corpi. Dopo aver imboccato le strette carrozzabili della catena montuosa che circonda Leh ed aver ammirato paesaggi desolati e pietrosi, arriviamo finalmente al Karthung La, il passo carrozzabile più alto al mondo (oltre 5.600 metri!!!). Scendiamo dall’auto con uno spirito completamente diverso da quello che avevamo quando eravamo al Taglang-La e ci guardiamo intorno ammirando un paesaggio che, come dice la Lonely, solo le aquile normalmente possono vedere! Intorno a noi si levano altissimi picchi innevati che si stagliano su un cielo di un azzurro incredibile, mentre sulla strada sorge un piccolo tempietto fatto di pietre letteralmente ricoperto di bandiere votive multicolori. Ci facciamo un po’ di foto e, in onore all’amica Manuela che l’hanno scorso ci ha anticipato in questo luogo desolato, ci fumiamo pure una sigaretta visto che lei stessa l’aveva fatto prima di noi. Abbandonando il passo ci addentriamo dunque nella Nubra Valley, una valle che rimane quasi isolata per molti mesi all’anno: nonostante le squadre speciali di manutentori si diano da fare per tenere il passo sgombro dalla neve durante l’inverno, capita che lo stesso debba essere chiuso e quindi chi abita dall’altra parte del passo rimane completamente isolato! Sarà per questo motivo che la Nubra Valley è considerata uno degli ultimi shangri-la ossia paradisi isolati ed incontaminati. Più scendiamo più il paesaggio diventa davvero meraviglioso e si ha davvero l’impressione di entrare in un altro mondo: il maestoso fiume Shyok ogni tanto crea delle anse strettissime sulle quali sorgono villaggi che sembrano uscire direttamente da un libro di fiabe formati da un gruppo di casette con i giardini stracolmi di fiori colorati ed alti pioppi alternati a coltivazioni di mais e di patate. Poco prima di buttarsi nel più grande fiume Nubra, lo Shyok River si innesta in una vastissima distesa di sabbia bianca che sembra quasi un deserto e la cosa che più colpisce è che esattamente nel centro di questa distesa si srotola una strada dritta come un fuso che sembra tagliare in due la terra e che percorreremo stasera per raggiungere Teggar. Ora siamo infatti diretti verso nord dove raggiungeremo i due villaggi di Deskit e Hunder. Stoppiamo nel primo villaggio formato da una decina di casupole, una stazione degli autobus (poco più che un parcheggio con un’unica vecchia corriera parcheggiata) uno store che vende un po’ di tutto ed una specie di bar dove i ragazzi si fermano a prendere un tè. Bighelloniamo sulla strada impolverata ed osserviamo scene di vita quotidiana: donne con gerle sulle spalle che fanno ritorno a casa, bambini che giocano a rincorrersi, anziani uomini che stazionano davanti allo store con bicchieri di tè in mano. Risaliamo in macchina e ci dirigiamo verso il Diskit Gompa, un bel monastero che si sviluppa in verticale con le sale che salgono sempre più verso l’alto. Splendide le sale di preghiera con stupendi affreschi, preziosi libri antichi, tangka e statue del Buddha di tutte le dimensioni e in tutte le sue trasfigurazioni, i cui nomi Tsirin ci snocciola con una facilità e rapidità impressionante. Lasciamo quindi Diskit per dirigerci ancora più a nord verso Hunder. Il paesaggio cambia e sembra di entrare in un vero e proprio deserto perchè ai lati dello Shyok River si ergono delle vere e proprie dune di sabbia grigia. Tutt’intorno coltivazioni di ortaggi e piccoli boschi che contrastano con la sabbia, verde su grigio, e a completare questo scenario da favola, il sole del tardo pomeriggio che infonde una luce dorata su tutto.

Con la nostra Skorpio ci dirigiamo proprio verso il letto del fiume, guadando torrenti impetuosi e sobbalzando a più non posso. Qui ci attende un’esperienza che, anche se turistica, si rivelerà bellissima: la cammellata! Arriviamo infatti in un grande spiazzo dove sono adagiati una ventina di cammelli speciali, i cammelli battriani, re incontrastati di questa parte di Asia, capaci di percorrere chilometri su e giù per le alte vette Himalayane e che hanno trasportato i più famosi esploratori lungo la mitica Via Della Seta che passa proprio di qua. I pastori ci accolgono senza tanto entusiasmo e con un po’ di stanchezza: in questa zona, infatti, la stagione turistica è praticamente finita e se, durante l’estate piena fino a metà agosto, ci sono pochi turisti che si addentrano fin qui, oggi siamo in sei, noi due ed altri quattro ragazzi italiani che resteranno in Nubra un paio di giorni. In fila indiana, saliti sui nostri due splendidi animali, guidati dal pastore, ci incamminiamo verso le dune: il paesaggio intorno a noi è davvero splendido ma non altrettanto bello è cavalcare questi bestioni che ad ogni passo provocano un contraccolpo che spinge il miei gioielli di famiglia verso lo sperone della sella! Esperienza traumatica! Al termine della bella passeggiata, ci attardiamo seduti sulla sabbia con le imponenti bestie ed i loro guardiani, a fumare una sigaretta: il silenzio intorno a noi è quasi totale e guardandoci intorno ammiriamo estasiati le alte vette e le dune di sabbia che si stagliano in lontananza. Ma è arrivato il momento di ripartire per raggiungere il nostro alberghetto che si trova nella parte opposta della vallata. Rifacciamo quindi a ritroso il percorso fino a Diskit ma qui, invece di svoltare per il Khardung-La pass, prendiamo la strada che avevamo visto in mattinata e che taglia in due come una lama il terreno fra le due catene montane! Tashi mette un cd ed una canzone nostalgica, tratta da un film di Bollywood ed interpretata da un cantante pakistano, si diffonde in macchina: il sole che sta scendendo, l’aria fresca, la pace e la tranquillità, questa musica, i due ragazzi che canticchiano …. penso che così potrei andare fino in capo al mondo senza stancarmi mai! Attraversiamo il paesino di Sumur e da qui passiamo a quello ancora più piccolo di Teggar dove si trova il nostro albergo. Percorriamo la strada sterrata e ci fermiamo di fronte ad un cancello verde che Tashi si fa aprire suonando il clacson; entriamo in un bellissimo e selvaggio giardino pieno di fiori e di piante; sotto un immenso albero di mele è stata sistemata una tenda bianca che copre un tavolo e delle sedie e che serve più a raccogliere i piccoli frutti che si staccano dai grossi rami che non a fare ombra. Dietro all’albero ed in mezzo a fiori multicolori, si erge il nostro alberghetto, l’Hotel Yaratsbo, una casa tradizionale imbiancata a calce e con le finestre rosse. Due ragazzi che per comodità battezzeremo Cip & Ciop, ci accolgono sotto l’albero di mele portandoci tè e biscotti e ci danno appuntamento per la cena alle 19.30. Qui non c’è assolutamente nulla da fare se non rilassarsi totalmente: non c’è una piazza, non c’è un bar, un negozio, nulla di nulla. Solo, e scusate se è poco, l’antica Via Della Seta che passa esattamente dietro il nostro albergo e che domani abbiamo tutta l’intenzione di percorrere per conto nostro. Dopo esserci ristorati con il tè caldo siccome comincia a fare buio, saliamo in camera. Il corridoio dell’albergo e totalmente spoglio ed un po’ deprimente così come le scale che salgono al piano superiore. La stanza non è nulla di speciale, arredata con molta semplicità, ma sembra pulita. Proviamo ad accendere la luce ma non succede nulla: ci informiamo da Cip & Ciop che si materializzano dal nulla come se avessero sentito una nostra chiamata e ci dicono che l’elettricità è disponibile solo per tre ore, dalle 19.30 alle 22.30. Bene! Ritorno alle origini! La camera è in penombra e decido di andare a farmi la doccia. Entro in bagno (molto spartano) ed apro l’acqua che però esce completamente ghiacciata; aspetto cinque minuti lasciandola scorrere ma non succede nulla. Esco dal bagno e richiamo Cip & Ciop per chiedere se anche l’acqua calda è contingentata o se c’è qualche orario speciale in cui ci si possa lavare. Loro entrano in bagno e provano a far scorrere l’acqua; attirati dal rumore ci raggiungono anche Tashi e Tsirin accompagnati da un altro autista. Il risultato è grottesco: io e Stefano in mutande, in questa stanza affollata di gente, quasi al buio! L’uscita dell’acqua calda, insieme all’arrivo dell’elettricità, è accolta da tutti con un grido di felicità| Finalmente! Facciamo sgomberare la stanza (è proprio il caso di dirlo) e ci laviamo perché fra un po’ ci serviranno la cena. Dopo esserci scrollati di dosso la puzza di cammello battriano, usciamo in corridoio e invece di scendere nella sala da pranzo entriamo direttamente in una bella stanza arredata in stile tibetano, con tappeti, bassi tavolini e tangka appesi alle pareti. Visto che siamo gli unici ospiti dell’albergo, chiediamo se possiamo mangiare lì. Nessuno solleva obiezioni per cui in men che non si dica ci vengono appoggiati piatti e bicchieri su un basso tavolino e dopo un po’ Cip & Ciop cominciano a portarci il cibo: riso, strani spinaci piccantissimi con foglie immense e verdure che navigano letteralmente dentro ad un sugo denso e scuro. Io spilucco qualcosina perché le pietanze non sono molto commestibili mentre Stefano si abbuffa di spinaci (gli sono piaciuti talmente tanto che durante la notte ne sognerà dei piatti colmi!!!). Tsirin si siede per cenare con noi e ci rivela che quella stanza non sarebbe destinata agli ospiti dell’albergo in quanto è il “salotto” dei proprietari! Sconvolti, chiediamo scusa a Cip & Ciop, spiegando che non intendevamo invadere spazi privati ma che la stanza ci piaceva così tanto! Loro sorridono felici e ci dicono che non c’è nessun problema: siamo gli unici ospiti dell’albergo, quindi possiamo mangiare dove vogliamo e per stasera il padrone dell’hotel farà a meno di guardare la TV. Ancora imbarazzati finiamo di mangiare e scendiamo da basso, in giardino, dove ci godiamo una stellata meravigliosa. Due chiacchiere con Tsirin, un paio di sigarette e poi, alle 21.30 siamo già a letto!

27 agosto. Per non offendere oltremodo i proprietari facciamo colazione nella sala da pranzo situata al pian terreno: un bella frittatona, pane ladhako (una specie di piadina bella gonfia e calda), marmellata di mango e di albicocche ed un burro fatto in casa che ha un profumo (o forse un odore…) incredibile. Visto che partiremo verso le dieci, andiamo a fare una passeggiata lungo la stradina che corre dietro all’albergo: per raggiungere il cancello dobbiamo attraversare il giardino in mezzo al quale troneggia un … cammello battriano legato con una cima ad un paletto. La cosa ci diverte perché di solito nelle nostre case c’è un cane, un gatto o al massimo un paio di cocorite mentre qui, evidentemente, l’animale domestico abituale è il cammello! Cerchiamo di scansarlo perché, a dire il vero, ci incute un po’ di timore e raggiungiamo lo scalcinato cancello che ci conduce in un posto davvero strepitoso: percorriamo questo sentiero, che non è altro che l’Antica Via della Seta, passando in mezzo ad orti tenuti benissimo con cavoli giganteschi, alberi di albicocche carichi di frutti arancioni, canali di acqua trasparente che attraversano il sentiero, giardini con fiori multicolori. Incontriamo qualche abitante che sempre ci saluta e sempre ci sorride, ci fermiamo a giocare con un bambino che sta passeggiando con l’anziano nonno, fotografiamo un gruppo di donne con immense gerle sulle spalle. Questo posto è davvero un mondo meraviglioso e ci sentiamo davvero in pace con noi stessi. Torniamo quindi sui nostri passi rientrando al nostro albergo dal cancello sul retro dove troviamo ad attenderci Tsirin preoccupato perché non sapeva dove fossimo: non ce ne siamo accorti ma siamo stati via più di un’ora!

Partiamo quindi con Tashi e Tsirin alla volta di Panamik. Al ritmo di “Peli Nazar Mei” ed altre hits bollywodiane, incise su cd ahinoi rovinati che saltano ogni secondo, percorriamo strade fantastiche: ovunque lo sguardo si posi ci sono stupa vecchissimi, ruote della preghiera in formato gigante, agglomerati di case basse e di un bianco immacolato con il fieno sul tetto piatto. E poi la gente: bambini ovunque che corrono per andare alla locale scuola, anziani seduti sui muretti che fumano tranquillamente senza aver nulla da fare se non aspettare che venga buio, donne indaffarate nei giardini e negli orti o che trasportano gerle cariche di erba. Arriviamo quindi a Panamik e con una breve scarpinata sul fianco della montagna, raggiungiamo le brutte sorgenti calde, un paio di grezze vasche di cemento collegate tra loro da tubi dove scorre acqua bollente che proviene dal sottosuolo: niente stabilimenti termali, niente piscine, niente ombrelloni né sedie a sdraio. Ci chiediamo come mai nessuno abbia ancora pensato di creare un resort in questa zona ma poi ci ricordiamo che siamo in una valle sperduta in capo al mondo! D’altronde, il solo pensiero di vedere questi paesaggi stupendi rovinati da un albergone con donzelle che sorseggiano un mojto a mollo dentro ad una piscina fatta a forma di cuore, ci fa inorridire! Quindi siamo d’accordo con chiunque abbia, per una volta, pensato di preservare questi splendidi luoghi. Anche se non è in programma, chiediamo a Tashi e Tsirin di andare a visitare l’Ensa Gompa, un solitario monastero arroccato sul cucuzzolo di una montagna dall’altra parte del fiume Nubra. Ci informiamo sul percorso (dobbiamo ricordare che siamo sempre oltre i 3.000 metri e che anche il più piccolo sforzo va ponderato attentamente) e Tsirin ci tranquillizza dicendoci che si può fare e che il tutto si risolverà in una passeggiata. Attraversiamo quindi il piccolo paesino di Panamik, che costituisce il punto più a Nord dell’India accessibile agli stranieri, e di questo ci congratuliamo con noi stessi: due anni fa, più o meno in questo periodo, eravamo a Kanyakumari, il punto più a Sud dell’India quindi possiamo affermare di aver toccato le due estremità del paese! Anche in questo minuscolo agglomerato di casa, le scene si ripetono: abitanti del luogo che si riposano lungo le strade, seduti per terra, bimbi che giocano felici, qualche cane randagio che insegue la nostra auto, le solite casette, un gruppo di mucche che improvvisamente invade la strada e ci costringe ad andare a passo d’uomo, i piccoli corsi d’acqua che si diramano dal maestoso fiume Nubra dove un gruppo di donne si sta lavando i capelli e le oasi di un verde brillante. E, sullo sfondo, imponenti montagne che si innalzano verso un cielo che oggi è azzurro e limpido. Percorriamo un pezzo di sentiero passando in mezzo a bassi muretti di pietra che dividono le proprietà, ricoperti di rovi secchi: Tsirin ci spiega che queste barriere naturali servono per impedire agli animali di entrare e devastare gli orti ed i giardini perfettamente tenuti. Attraversiamo il fiume, ci registriamo al posto di blocco (qui bisogna esibire i passaporti ogni due per tre, ma di tutto si occupa l’efficiente Tashi mentre noi aspettiamo in macchina) ed imbocchiamo una strada sterrata che ci porta alla base del sentiero per salire al monastero. Ci avviamo a piedi su per la scarpata ma ad un certo punto Tsirin ci fa deviare e siamo costretti ad arrampicarci su una immensa pietraia. La salita è dura da morire e sembra non finire mai; fatichiamo con il respiro corto e dopo un po’ ci viene il dubbio che Tsirin non conosca la strada visto che del monastero non vediamo nemmeno l’ombra nonostante sia più di mezzora che arrampichiamo. Meno male che doveva essere una salita tranquilla! Ad un certo punto quando siamo sull’orlo di una crisi di nervi sentiamo un lungo fischio che spezza il silenzio: è Tashi, arrampicato sopra uno spuntone di roccia sopra di noi che richiama la nostra attenzione per indicarci la strada giusta che è…esattamente dalla parte opposta rispetto a dove stavamo andando! Ci incamminiamo nella giusta direzione e dopo aver attraversato un fitto bosco pieno di stupa diroccati arriviamo al minuscolo ma bellissimo Ensa Gompa. Il cortile del monastero bordato da alti alberi è decorato con mille bandierine sbiadite dal sole e la vista sulla valle sottostante è davvero strepitosa. Uno dei due monaci che abitano il monastero ci apre la porta dell’antichissima sala da preghiera, molto meno fastosa di quelle che abbiamo visto ma con dei dipinti murali incredibili. L’atmosfera che si respira in questo luogo è davvero di pace e tranquillità: tutto è silenzio, luce e natura e ci chiediamo come deve essere vivere qui d’inverno, quando la neve ricopre ogni cosa. Soddisfatti di questa bella esperienza iniziamo la discesa che si rivela più insidiosa della salita e le nostre ginocchia vengono messe a dura prova. Riprendiamo quindi la strada per il nostro albergo dove arriviamo dopo un’oretta buona. Vista la strepitosa giornata di sole chiediamo a Cip&Ciop se possiamo pranzare sotto l’albero di mele e loro acconsentono sfoderando i soliti sorrisi. Ma questi qui ci stanno proprio viziando! Mangiamo quindi il nostro riso accompagnato da una scatoletta di tonno, raccogliamo qualche mela da terra che si rivela essere dolce e succosa, ci rilassiamo un po’ al sole e poi ripartiamo per Sumur dove visitiamo il Samstelling Gompa, un imponente monastero costruito recentemente con annessa scuola per i monaci. Rimaniamo un bel po’ nel piazzale visto che questa è l’ora in cui viene servito il tè del pomeriggio e quindi tutti i monaci sono occupati a banchettare. Finalmente qualcuno viene ad aprirci le belle sale da preghiera che ammiriamo come al solito estasiati ed affascinati soprattutto dai vecchi tangka. Uscendo dal monastero e percorrendo a ritroso la ripida scalinata notiamo alla base della stessa un anziano monaco seduto all’ombra che osserva e sorveglia un bimbetto di 3 o 4 anni che sta giocando con un camioncino. Con la coda dell’occhio vedo Tsirin che si accorge del bimbo e….cade in catalessi: congiunge le mani davanti al viso, sgrana gli occhi, si avvicina al bambino con la devozione pari solo a quella di qualcuno che ha visto un morto o un santo, si inginocchia e, a fatica visto che il bimbo non sta fermo, cerca di toccargli i piedi in un gesto di rispetto e, direi, di adorazione. Poi si rialza e rimane imbambolato a fissare il piccolo che pare fregarsene di tutto e di tutti e continua a giocare con le sue macchinine. Emozionatissimo, Tsirin ci spiega che il bimbo è stato riconosciuto dal Dalai Lama come uno dei prossimi rimpochè (alte cariche del buddismo tibetano) ed incarnazione di non so quale Buddha. Ci impressiona da morire guardare questo ragazzo di venticinque anni in stato di totale adorazione per un bambino di tre anni e che si allontana da lui senza mai volgergli le spalle inchinandosi ogni due metri. Quando risaliamo in macchina Tsirin è in un evidente stato di beatitudine, con un sorriso perennemente stampato sulla faccia: orgogliosissimo ci fa vedere sul cellulare la foto della stesso bimbo appena nato e ci dice che per lui è stato un onore immenso incontrarlo. Chiediamo a Tsirin di lasciarci alla base dello Zamskhang Palace, il vecchio palazzo reale bruciato molti anni fa ed ora completamente disabitato, che vorremmo visitare per conto nostro visto che non è incluso nel programma, ma lui si rifiuta di lasciarci da soli e ci chiede se può venire con noi. Facciamo fatica a capire questo ragazzo, sembra quasi che abbia bisogno di compagnia visto che non ci molla un attimo nemmeno quando il suo “servizio” di guida turistica è terminato. Come possiamo dirgli di no? Tashi, invece, molto più indipendente e solitario, non ci accompagna e va via per i fatti suoi. Pur essendoci ancora il sole si è alzato il vento che ha sollevato polvere e sabbia, facendo assumere alla valle un aspetto torbido e particolare. Il fianco della montagna è disseminato di vecchi ed immensi stupa che contengono tavolette di ardesia che i viaggiatori della Via della Seta lasciavano come offerta e richiesta di grazia: guardare questi manufatti che sono qui da migliaia di anni fa un effetto davvero strano. Mentre saliamo, Tsirin mi chiede di insegnargli qualche parola di italiano e così per mezz’ora buona, mentre facciamo il giro di questo posto desolato, cerco di fargli conoscere le parole che magari gli potranno servire con i turisti italiani: rimarranno storiche le frasi tipo “Piacere conoscerla” e “Buonasera” che Tsirin pronuncia arrotolando la erre a più non posso facendoci schiattare dalle risate. In mezzo alla polvere alzata dal vento, torniamo quindi verso il nostro albergo e questa volta chiediamo a Tsirin un po’ di tempo per noi: visto che c’è ancora luce vorremmo fare una passeggiata lungo la stradina di stamattina. Attraversiamo il giardino salutando il nostro cammello e, nella bellissima luce che precede il tramonto, percorriamo il sentiero in direzione opposta a quella del mattino. A circa mezz’ora di cammino ci imbattiamo in un vero e proprio monumento a cielo aperto: un muro lungo circa un chilometro ed alto un metro sopra il quale sono state buttate (è proprio il caso di usare questo termine) migliaia di antichissime lastre di ardesia con incise delle preghiere; queste tavolette sono come quelle che si trovano all’interno degli stupa e costituiscono offerte che i pellegrini che percorrevano la Via della Seta lasciavano lungo la strada. Fa impressione vedere queste tavolette davvero bellissime, messe lì a casaccio, accatastate quasi fossero dei sassi, ed esposte alle intemperie e….alla mano dell’uomo! Nonostante ci siano cartelli che proibiscono di raccoglierle non c’è nessuno che sorvegli il muro e non deve essere poi così difficile metterne una nello zaino. Devo dire che ho faticato parecchio a tenere fermo Stefano che voleva…fare la spesa! Torniamo quindi sui nostri passi perché oramai comincia a fare buio. Arriviamo all’albergo dove troviamo il nostro cammello accovacciato e dormiente e saliamo in camera per farci la doccia. Pur essendo già buio fuori, l’elettricità stasera tarda ad arrivare per cui non possiamo far altro che prendere una candela ed accenderla in bagno godendoci una meravigliosa doccia a lume di candela! Scendiamo per cena nella spartana sala da pranzo dove ci aspetta una bella sorpresa: su nostra richiesta il cuoco ci ha preparato dei fantastici momo, piatto tipico di questa parte di India, una specie di tortelli ripieni con carne o verdura (quelli che ci hanno preparato qui sono con cavolo e formaggio) e poi cotti al vapore. Sono deliziosi, forse più buoni ancora di quelli mangiati a Dharamsala. Mancherebbe solo un po’ di burro fuso e parmigiano…. Ci strafoghiamo di queste fantastiche specialità e siamo già con la panza piena ma Cip&Ciop arrivano con riso, verdure stufate, spinaci piccanti…..No! Non potremmo mangiare altro, per cui decliniamo l’invito scusandoci. Loro pensavano che i momo servissero solo da antipasto. Non rifiutiamo, invece, delle crepes al cioccolato tanto buone da far invidia ad un cuoco francese. Ma la nostra serata non finisce qui visto che siamo invitati ad un spettacolo di danze locali messo in piedi dalle donne del villaggio. Imbacuccati (la sera fa freddo) ci dirigiamo verso il luogo dello show che altro non è altro che una tenda bianca tesa tra gli alberi con grandi teli di stoffa a far da perimetro per impedire che il vento pungente “disturbi” lo spettacolo. Una decina di donne sia anziane che giovani, si prodigano in numerose danze locali indossando dei costumi davvero notevoli, soprattutto per quanto riguarda i copricapo tipici di questa valle: dei semplici lembi di stoffa sui quali, però, sono state attaccate con minuzia particolare ogni sorta di pietre preziose grezze, dai coralli ai turchesi ai lapislazzuli. Ogni tanto, nell’intervallo tra una danza e l’altra, escono un paio di donne con tè caldo o grappa locale che offrono generosamente agli ospiti che poi siamo noi due, quattro turisti indiani infagottati dentro a coperte ed un altro ragazzo occidentale. Ma se noi sette siamo gli unici ospiti paganti, la tenda in realtà è piena di gente: praticamente si è riunito tutto il villaggio, bambini e vecchi compresi. Verso la fine dello spettacolo l’uomo che accompagna con il tamburo le danze, evidentemente servito troppe volte di grappa, è decisamente ubriaco e non riesce ad andare più a tempo con i canti. Ciò provoca l’ilarità della danzatrici che ormai ridono a scena aperta schernendolo e coprendosi la bocca. Non possiamo fare a meno di unirci alla risata e, alla fine dello show, di congratularci con tutte le protagoniste di questo grazioso spettacolo. A piedi e muniti di torcia, torniamo al nostro albergo facendo attenzione a non inciampare e raggiungiamo la nostra stanza. Stasera andiamo a letto decisamente tardi rispetto alla norma (sono quasi le dieci) e siamo davvero stanchi. Sto leggendo alla luce fievole della lampada vicino al letto quando c’è un improvviso sbalzo di elettricità che fa spegnere e riaccendere la luce per due o tre volte. Capirò poi che quello è il segnale per dirci “attenzione, tra un po’ spegniamo tutto”, ed infatti dopo cinque minuti la luce si spegne definitivamente lasciandomi al buio. A tentoni, poggio il libro per terra e chiudo gli occhi pensando a questo luogo davvero incredibile, e mi addormento accompagnato da strani rumori che provengono dal soffitto, molto simili ad uno zampettio di animali…..Mah!

28 agosto. Ci alziamo con calma e bissiamo l’abbondante colazione del mattino precedente: se vi capita di passare da queste parti, non fatevi sfuggire il soffice e caldo pane ladhako perché è davvero delizioso. Alle dieci siamo belli e pronti per partire e salutiamo Cip&Ciop che, sull’attenti e con un sorriso stampato sulle facce, si sbracciano fino a quando non spariamo dalla loro vista. Incredibili ragazzi. Fra l’altro abbiamo scoperto che uno dei due (sapere se fosse Cip o Ciop è impossibile!!!) è Nepalese e torna a casa una volta all’anno proprio al termine della stagione estiva; rimane nella valle di Kathmandu per qualche giorno e poi riparte per Goa dove lavora come cameriere in un grande albergo. Abbiamo parlato un po’ con lui in questi due giorni e gli abbiamo detto di essere stati cinque anni fa in Nepal, ricordando insieme luoghi ed impressioni di questo splendido paese a cui siamo particolarmente affezionati. Tsirin mette il solito cd che, nonostante continui a saltare, ci piace tantissimo e, baciati dal sole, cominciamo ad inerpicarci verso il Khardung-la ripercorrendo a ritroso la strada dell’andata e fermandoci a fare delle belle foto. Verso mezzogiorno ci fermiamo per pranzo a South Pollu più che un centro abitato un agglomerato di tende dove si fermano corriere e camion per un tè veloce. Ci sediamo al sole e tiriamo fuori i nostri cestini da viaggio: sandwich con cipolle, maionese e tonno, un pezzetto di cioccolato, succo di mango e un paio di mele raccolte direttamente dall’albero davanti allo Yarat-sbo. Mentre sbocconcelliamo il nostro pasto ci guardiamo intorno e davvero le montagne alte sono bellissime e ci lasciano senza fiato: non dimenticheremo facilmente questa tre giorni in un luogo che ci ha affascinato tantissimo. Arriviamo a Leh verso le due, salutiamo i ragazzi che ritroveremo domani mattina e saliamo nella nostra solita camera che ci pare più bella e accogliente. Ste si dedica alle lavatrici, nel senso che si mette in bagno a lavare pantaloni e mutande: fare la valigia per un mese di vacanza non è così semplice, bisogna economizzare lo spazio, soprattutto quest’anno visto che abbiamo dovuto portare indumenti sia invernali che estivi, e quindi ci arrangiamo come possiamo. Risultato: il bagno sembra lo stenditoio di una lavanderia. Io invece, di natura molto più pigro, mi siedo nel bellissimo giardino pieno di fiori ad aggiornare il mio diario. Verso le quattro andiamo a farci un giro per negozi a caccia più che altro di un posto dove vendano DVD visto che oramai sono diventato un fanatico di film bollywodiani, ma scopriamo che a Leh vendono solo cd e DVD tibetani. Ste passa come al solito ore nelle botteghe degli “antiquari” in cerca di scatole di burro di yak che puzzano in maniera incredibile. Poi ci perdiamo nel piccolo quartiere dove vendono capi di abbigliamento locale con negozi che traboccano di indumenti in lana, coperte coloratissime, stivali di feltro. Entriamo per un break in un negozietto a prenderci delle Lays e del succo di mango e passeggiamo senza meta ammirando le decine di donne che vendono, lungo il viale principale, i loro ortaggi distesi ordinatamente su coperte appoggiate direttamente sul marciapiedi. Facciamo un salto in una bella libreria, compriamo qualche cavolata da portare a casa ed entriamo in un negozietto di un commerciante kashmiro dove acquistiamo i famosi tangka: ci vengono spacciati per “antique” cosa che non possiamo appurare, ma ci piacciono tantissimo e quindi facciamo l’affare.

Andiamo dall’amico Mohammed per telefonare a casa e lui appena ci vede ci fa un sacco di feste: è davvero incredibile questo ragazzino che si è decisamente affezionato a noi…e noi a lui. Arrotondiamo come al solito la cifra delle telefonate (ci sembra davvero il minimo) e visto che oramai è buio, torniamo verso l’albergo anche perché comincia a fare un po’ freddo. Dopo aver ritirato i panni ancora un po’ umidicci ed aver fatto una bella doccia calda, andiamo a cena e poi subito a letto visto che siamo davvero stanchissimi.

29 agosto. Alle nove, dopo colazione, Tashi e Tsirin vengono a prelevarci con la Skorpio: destinazione Lamayuru, un antico monastero che si trova sulla strada Leh-Srinagar. Appena fuori città i paesaggi si fanno sempre più belli: le onnipresenti alte montagne, gole profondissime dove scorre il fiume Indus, distese di conifere verdi ed i villaggi, sempre sonnacchiosi, sempre ordinati e puliti, sempre pieni di gente sorridente che sembra non aver null’altro da fare che oziare lungo la strada principale, sempre pieni di casette divise da muretti con sopra i famosi rovi secchi e con giardini pieni di fiori multicolori. Facciamo uno stop a Kalshi dove acquistiamo albicocche secche mischiate alle mandorle che si trovano all’interno del nocciolo: davvero squisite. Mentre stiamo tornando alla macchina, scivolo dentro ad un basso fossato e mi inzuppo completamente la scarpa e la parte bassa dei pantaloni suscitando le risate sguaiate della gente del posto, di Ste e di Tashi e Tsirin: che ci posso fare se sono svanito e non guardo mai dove metto i piedi? Così conciato, salgo in macchina e metto la gamba fuori dal finestrino al sole ed all’aria sperando che si asciughi, ma quando Tsirin capisce cosa sto facendo ferma immediatamente la macchina e mi chiede di dargli la scarpa che lega saldamente al portapacchi sul tetto. Incredibile ragazzo! Così lanciati verso strade che si inerpicano su per le montagne con il fiume sempre alla nostra sinistra, un CD con musica bellissima anche se “saltante”, una scarpa legata sopra la macchina, ma felici, prosegue la nostra mattinata. I canyon che l’Indus ha scavato sono profondissimi e le rocce rossastre fanno da contrasto al colore grigio dell’acqua. Percorriamo quindi chilometri in mezzo al nulla più assoluto, intorno a noi solo montagne e roccia, salvo qualche piccolo villaggio con relativa macchia di verde vegetazione, fino a quando arriviamo alla Moonland, una maestosa valle contornata da ondulate rocce nude di colore giallo senza l’ombra di un albero: sembra davvero di vedere un paesaggio lunare. Giungiamo quindi al Lamayuru Gompa, arroccato sopra un altura, con le costruzioni edificate sul fianco della montagna di un bianco accecante. Qui visitiamo le solite sale da preghiera ed ammiriamo il paesaggio che si stende sotto di noi. Al momento di ripartire un monaco ci chiede un passaggio fino a Leh: i ragazzi non possono rifiutare visto che si tratta di un religioso e chiedono l’autorizzazione a noi che assentiamo senza problemi. Riprendiamo quindi la strada verso Alchi, un tranquillo paesino rurale, dove visitiamo i bellissimi templi rupestri. Per arrivarci percorriamo a piedi uno stretto viottolo fra basse case bianche e, oltre queste, distese a perdita d’occhio di campi di grano ed alberi di albicocche. Attraversiamo un ruscello e numerosi siti di stupa vecchi e diroccati, fino a quando arriviamo al portale che ci porterà ai tre templi. Quello più grande, il Vairocana Temple, è davvero bellissimo con le pareti dipinte con bellissimi mandala dai colori scuri fatti risaltare dall’oro. Risaliamo in macchina e facciamo di nuovo sosta a Kalshi per il pranzo: stavolta faccio bene attenzione a dove metto i piedi! I sandwich di formaggio sono davvero buonissimi e ce li mangiamo godendoci il sole che ci scalda. Dopo la sosta ci dirigiamo quindi a Basgo, l’antica capitale del Ladhak, dove visitiamo lo splendido palazzo reale ora abbandonato ma in ristrutturazione: la posizione dove sorge l’imponente costruzione è davvero stratosferica, sopra un’altura, circondata da rocce rossastre, con una vista magnifica. Torniamo quindi verso Leh mentre il sole sta pian piano tramontando portandosi via un’altra giornata passata in questa terra davvero unica. Facciamo una passeggiata in centro dove incontriamo Cindy e Susan che ci abbracciano e ci baciano felici di vederci in forma, chiacchieriamo un po’ con loro poi di nuovo in albergo per la doccia, una cena con pollo tandoori e patate arrosto e quindi il meritato riposo.

30 agosto. Tashi e Tsirin arrivano puntuali subito dopo colazione. A bordo della Skorpio ci dirigiamo verso sud fino ad arrivare all’Hemish Gompa, un bel monastero antico. Attraversiamo quindi il fiume Indus e ci inoltriamo in un territorio assolutamente desertico, lungo una strada che solitaria taglia in due la prateria. Raggiungiamo il maestoso Matho Gompa un monastero particolare, fuori dalle normali rotte turistiche ed appartenente alla setta buddista di Sakya. All’ultimo piano del monastero entriamo in una cella scavata nella roccia nuda dove stagna un odore sgradevole e dove filtra solo un sottile filo di luce dalla stretta finestrella; siamo a piedi nudi (come sempre quando si entra in un monastero) e calpestiamo dei minuscoli sassolini che poi scopriremo essere una quantità infinita di chicchi di riso; illuminiamo con la nostra torcia le pareti della cella e scopriamo che sono ricoperte da un ammasso incredibile di offerte, perlopiù teschi di animali. Qui ogni anno si ritirano in meditazione i due oracoli del tempio, due monaci che raggiungono un particolare stato di trance; al termine di questo periodo di meditazione che coincide con il culmine del festival del Monastero, questi due soggetti escono dalla minuscola finestrella (e vi dico che è davvero minuscola) e si mettono a correre all’impazzata sopra i tetti della costruzione, col viso coperto da maschere, urlando frasi sconnesse. Poi scendono nel cortile, in mezzo alla folla, e si feriscono trafiggendosi ogni parte del corpo, lingua compresa, con delle spade affilatissime che vediamo appese ad una parete della caverna. Pare che nonostante le ferite aperte e sgorganti sangue, il giorno successivo non rimanga sui loro corpi neppure la più piccola cicatrice. Infine, così conciati e totalmente invasati, si siedono di fronte ai fedeli accorsi e predicono il futuro per l’anno a venire. Devo dire che stare dentro a questo spazio angusto fa un certo effetto, figuriamoci starci per due mesi! Usciamo di nuovo al sole che ci pare una benedizione e raggiungiamo la nostra Skorpio. Riattraversiamo l’Indus River e visitiamo lo Stok Palace, altro ex palazzo reale, dove ammiriamo una bella ed isolata sala da preghiera costruita sulla terrazza più alta da dove si gode un paesaggio stratosferico. Ai piedi del palazzo c’è un immenso campo di stupa antichissimi ma ancora immacolati dove Stefano si perde a fare mille e più foto. E’ ora di pranzo e con i nostri cestini ci dirigiamo verso un’area pic-nic in mezzo ad un prato verdissimo attraversato da un calmo corso d’acqua. Qui ci sono una cinquantina di ragazzi e ragazze, tutti radunati sotto una tenda che ballano come forsennati al ritmo di una musica dance indiana sparata al massimo da un impianto stereo antidiluviano. Mangiamo i nostri sandwich al formaggio seduti su una panchina in riva al fiumiciattolo con il sole che ci scalda e poi riprendiamo le visite dirigendoci verso il maestoso Tiksey Gompa, forse il più grande monastero antico della valle: ci appare come all’improvviso, addossato sul fianco della montagna, in alto il monastero principale e, digradanti verso valle, centinaia di piccole costruzioni imbiancate a calce dove vivono circa 1000 monaci. Ammiriamo anche qui degli splendidi tangka e degli antichi libri sacri e godiamo della pace di questo luogo di preghiera. Oggi io non mi sento molto bene ed arrivo a fatica a fare le scale per scendere dal Tiksey. Appena tornati in albergo mi faccio una bella doccia calda e mi metto a letto perché faccio fatica a stare in piedi. Rimaniamo sotto le coperte fino all’ora di cena quando scendiamo in ristorante per una zuppa calda e niente più. Sarà l’altitudine che magari si fa sentire (in fin dei conti sono quasi quindici giorni che “navighiamo” sopra i tremila metri) o più semplicemente la stanchezza accumulata in questa vacanza non proprio rilassante. Fatto sta che me ne torno subito a letto e mi addormento di botto.

31 agosto. L’ultimo giorno a Leh vede il tempo che comincia a cambiare: fa un po’ più freddo ed il sole fatica a scaldarci. Dopo colazione mi sforzo di reagire a questa stanchezza che mi rende difficile anche “scalare” i venti gradini che portano alla nostra camera, e partiamo per la nostra ultima escursione. Una sorpresa al negativo ci aspetta: niente Skorpio, niente Tashi! Il nostro giovane autista è infatti partito stamattina all’alba con un gruppo di turisti per il lago Tsomoriri e tornerà fra due giorni. Peccato! Comunque incontriamo di nuovo l’autista del primo giorno ed il solito Tsirin e, con loro, attraversiamo per l’ultima volta Leh in direzione sud verso la Chemrey Valley. Anche Tsirin oggi sembra stanco tanto è taciturno, forse sentirà la mancanza del suo compagno di lavoro o forse, più semplicemente è dispiaciuto perchè il lavoro sta finendo. Leh, infatti, vive di turismo per circa quattro mesi all’anno da metà maggio a metà settembre. Con l’ultimo giorno del grande Festival di Leh (che, per nostra sfiga, comincia domani quando noi torneremo a Mumbai) si chiudono quasi tutte le attività e quasi tutti gli alberghi: qualche negoziante o proprietario di albergo si trasferisce a Goa dove ha un’altra attività, ma la maggior parte della gente si prepara per affrontare il lungo e duro inverno che porterà freddo e neve in abbondanza. Anche il sole si è nascosto ed il cielo è pieno di nuvoloni scuri. Dopo un’oretta di strada arriviamo al Thekchhok Gompa un grazioso monastero che sorge in mezzo a campi coltivati e sopra al piccolo villaggio di Chemrey. Faccio molta fatica a salire le scale ma non voglio perdermi l’ultimo giorno di visite. Le sale da preghiera sono come sempre ricchissime e piene di oggetti antichi ed i monaci sempre disponibili ad aprirci le porte. Riprendiamo la strada fino al piccolo Takthong Gompa dove, sotto un cielo completamente annuvolato, scendiamo dall’auto e ci mettiamo ad attendere vicino ad un albero di fichi, visto che non c’è il monaco che dovrebbe aprirci la porta. Tsirin sparisce per andare in cerca del custode che però non trova. Decide però di salire lo stesso la lunga scalinata che porta alle sale da preghiera per vedere se trova qualcuno. Io proprio non ce la faccio e mi chiudo in macchina a riposare, totalmente spossato. Quando scendono, Stefano mi dice che solo una sala era aperta e che non era nulla di speciale. Bene, in fin dei conti non mi sono perso nulla. Torniamo quindi verso l’albergo visto che questa era la nostra ultima visita. Diamo appuntamento all’autista per l’indomani mattina (alle quattro e mezzo dobbiamo essere in aeroporto!!!), abbracciamo e salutiamo Tsirin, ringraziandolo per il tempo trascorso con noi e dopo essere passati al mercato a comprare dei limoni, torniamo direttamente in camera, saltando a piè pari ristorante e pranzo. Mi faccio un tè caldo e mi metto subito a letto perchè proprio non sto in piedi, mentre Ste si mangia i tramezzini al formaggio che il personale dell’albergo ci aveva preparato per pranzo. Verso le quattro mi sento molto meglio e quindi ci vestiamo ed usciamo per un giro di shopping dell’ultimo minuto nel centro di Leh. Prima sorpresa: incontriamo di nuovo Cindy e Susan che indossano top con scollature fantasmagoriche e sopra delle coperte da … letto buttate con noncuranza sulle spalle: come diceva mia mamma, le belle ragazze stanno bene anche con addosso un sacco dell’immondizia! Con i loro gridolini ed i loro abbracci ci mettono subito di buon umore. Chiacchieriamo un po’ e poi le salutiamo definitivamente, visto che domani noi partiremo mentre loro si fermeranno ancora qualche giorno a Leh per poi raggiungere il nord est dell’India fino a fine settembre. Ad ottobre, poi, andranno direttamente in Croazia e poi in Italia! Ah, che invidia! Non abbiamo il coraggio di chiedere loro con che soldi si mantengono, visto che non ci pare educato, e quindi ci limitiamo ad abbracciarle ancora una volta augurando loro buona fortuna. Entriamo ed usciamo dai negozi a caccia di souvenir per gli amici ed all’uscita di uno di questi incontriamo nuovamente Barbara del Gruppo di ANM che con noi aveva condiviso le due disastrose giornate di Keylong e Sarchu. Passiamo a salutare Mohammed che, come al solito, se ne sta rintanato nel suo sottoscala, e chiamiamo Danika per avvertirla della nostra ora di arrivo e del fatto che abbiamo assolutamente bisogno di una … pasta al ragù! Lasciamo un po’ di mancia a Mohammed che ci abbraccia commosso e, visto che il sole pallido sta tramontando per l’ultima volta (per noi!) su Leh, carichi di borse e borsette, torniamo verso l’albergo. Mentre io decido di tornare in camera, però, Stefano si ferma in un negozio di una specie di antiquario beone (la fiatella era davvero impressionante…) che avevamo conosciuto qualche sera fa e che era rimasto molto impressionato dal giubbotto di Ste, un bomber acquistato sottoscosto allo spaccio Replay, dichiarandosi disposto a scambiarlo con qualche oggetto prezioso. Lo lascio al suo baratto e me ne torno in camera dove mi godo il calduccio della stanza dopo una doccia bollente. Stefano arriva alle otto passate, senza giubbotto (ha fatto la strada fino all’albergo di corsa visto che fuori fa freddo) ma con due grandi cartocci: in uno c’è una antica bambola in legno con le orecchie da mucca originaria dello stato del Bihar (una delle zone più povere dell’India) nell’altro invece c’è il frutto del baratto: una splendida, e per altri versi impressionante, cintura in legno con raffigurati due teschi e dei ciuffi di capelli umani…. A dire dell’antiquario si tratta di una cintura sacra, utilizzata dalle popolazioni tribali del Nagaland, un isolato (e pericolosissimo) stato del nord est dell’India. Così Ste si ritrova con un giubbotto in meno ma con un souvenir in più! Scendiamo a cena dove mangiamo una gustosa e bollente zuppa di pomodoro ed un po’ di riso e, dopo aver salutato i camerieri che sono sempre stati gentilissimi con noi (se a pranzo eravamo in giro, ci conservavano addirittura il buonissimo purè per la sera!!!), risaliamo in camera dove ci attende un compito complessissimo: fare le valigie. Dagli aeroporti di Leh e Jammu, infatti, non è possibile portare il bagaglio a mano sull’aereo e quindi dobbiamo per forza far entrare tutto nei dinosauri. Ci mettiamo un bel po’ di tempo, ma alla fine ci riusciamo, anche perchè decidiamo di metterci un bel po’ di roba addosso per risparmiare spazio. Ci sediamo, come sempre, sulla nostra finestra per fumarci un’ultima sigaretta guardando il cielo di Leh che ci lascia ancora una volta senza fiato.

DOPPIO RITORNO A CASA

Mumbai – Italia – 1-2 Settembre 2008

1° settembre. Questa volta la sveglia suona DAVVERO all’alba. Quando il cellulare comincia a trillare, infatti, sono le quattro. Ancora con gli occhi incollati scendiamo in ristorante per fare colazione, anche se vista l’ora non abbiamo granchè voglia di mangiare, ma un caldo e robusto caffè ci fa uscire dal nostro torpore.

Uno dei due titolari dell’agenzia dove ci siamo appoggiati ci viene a prendere con il nostro autista di ieri e con loro percorriamo le buie e deserte strade di Leh. Arriviamo all’aeroporto e cominciamo a passare i vari controlli: alla fine ne conteremo ben cinque, tutti presieduti da militari armati fino ai denti e con un’espressione seria ed ingrugnita. Alle 6.00, puntualissimo, decolla il volo della Deccan Airlines: la cosa che ci impressiona di più sono le montagne che continuiamo a fiancheggiare anche parecchi minuti dopo il decollo! Di solito quando si decolla, le montagne si vedono sotto all’aereo, qui invece no, ci stanno giusto giusto a fianco. Dopo un’ora e mezza di volo arriviamo al terminal domestico dell’Aeroporto di Delhi e quando usciamo dalla sala arrivi per raggiungere quella di partenza il caldo ci aggredisce in maniera impressionante: buttiamo un occhio al termometro che segna 32 gradi, alle otto di mattina!!!! Cerchiamo un filo d’ombra scavalcando le orde di tassisti e procacciatori che si ammassano fuori dall’aeroporto e ci fumiamo una sigaretta: abbiamo ancora un paio d’ore prima del nostro volo che ci porterà a Mumbai. O meglio, CREDIAMO, di avere ancora un paio d’ore. Eh si, perchè appena entranti nel gelo della sala partenze scopriamo che la nostra cara Spicejet ci ha di nuovo cancellato il volo!!!! Con aria sconsolata ci trasciniamo le nostre valigie fino al banco del check in dove, senza nemmeno chiedere spiegazioni (tanto sappiamo che è inutile protestare perchè ci risponderebbero che hanno cancellato il volo per … problemi operativi) chiediamo di essere spostati sul volo di mezzogiorno e mezzo. L’operatrice, senza batter ciglio, ci fa il cambio ma stavolta non ci facciamo fregare: visto che abbiamo ben quattro ore da aspettare, faremo il check-in all’ultimo momento, perlomeno potremo fumare in pace! Tutto sommato il tempo passa abbastanza velocemente e lo impieghiamo a sistemare le valigie visto che la franchigia bagaglio con Spicejet è più bassa della Deccan e quindi dobbiamo trasferire un po’ di roba nel bagaglio a mano, e a mangiucchiare qualcosa. Fortunatamente il volo è in orario e, puntuali, alle due e mezza di un pomeriggio infuocato, usciamo dal terminal del Santa Cruz Airport di Mumbai dove, quasi un mese fa, avevamo trascorso ore in attesa del volo per Delhi. Anche qui veniamo subiti aggrediti da taxisti e procacciatori che respingiamo con forza dirigendoci verso l’area dove sono parcheggiati i taxi ufficiali gialli e neri. Ci fermiamo accanto al primo e subito intorno a noi si raduna un capannello di gente: l’autista del taxi, due militari, una guardia dell’aeroporto e diversi ragazzini. Uno dei due militari mi dice che l’autista non parla inglese e che quindi lui farà da traduttore. Do l’indirizzo del “nostro” appartamento e chiedo se utilizza il tassametro. Mi dice di no, niente tassametro, e la corsa costa 700 rupie. Gli chiedo, educatamente, se è impazzito visto che una corsa da Mumbai Sud e Mulund West costa 350 rupie e non vedo perchè dovremmo pagare il doppio per fare metà strada. I militari confabulano tra di loro, discutono con il taxista, e poi acconsentono a farci pagare 350 rupie. Non abbiamo voglia di tirare giù ulteriormente il prezzo (anche perchè Christian ci aveva detto che 350 rupie era un prezzo abbastanza giusto) e quindi acconsentiamo. Subito uno dei ragazzini ci prende le valigie che vengono caricate sul tetto della scassata automobile ed a questo assicurate con una corda abbastanza volante. Saliamo in macchina e subito il ragazzino ci bussa al finestrino … vuole essere pagato! Pagato? E per cosa? Sfodero una delle poche parole in Hindi che conosco e grido all’autista “Chalo, chalo” che significa “andiamo, andiamo” e lui, forse impressionato dalla mia intelligenza (?????) o forse perchè non vede l’ora di scrollarsi di dosso tutta quella gente, parte sgommando con l’auto che fa un casino del diavolo. Invece di prendere la strada statale il nostro caro taxista imbocca una stradina interna che “taglia” in due lo slum più grande di Mumbai che sorge giusto a fianco dell’aeroporto Santa Cruz. Capirete che un taxi che passa in mezzo a gente che non ha nemmeno da mangiare, con due valigie assicurate al tetto da una corda posticcia, suscita una certa curiosità tra gli abitanti dello slum che stupiti ci guardano passare. Noi abbiamo qualche minuto di smarrimento ed anche un attimo (ma breve) di panico che però passa subito non appena imbocchiamo l’autostrada. Ah, finalmente si torna a casa! Come si torna a casa? Eh si, tornare nel nostro appartamento 401 a Mulund West è un po’ come tornare a casa: ritroveremo Danika e Christian, ritroveremo i gentili commessi dei negozi del Nirmal e del Big Bazar, ritroveremo la piccola Sarju, le lenzuola pulite e profumate, il nostro terrazzino dove, in mezzo al casino del condizionatore, ci siamo fumati un bel po’ di sigarette, insomma ci risentiremo accolti! Passiamo nuovamente, come un mese fa, in mezzo ai lussuosi palazzi di Povai ed ai disastrati condomini a schiera che fiancheggiano l’autostrada e siamo così felici di tornare a Mulund che ci accorgiamo solo dopo molto tempo che il fondo del taxi ha un buco grande quasi quanto un pallone da basket: fa una certa impressione vedere l’asfalto che corre letteralmente sotto i nostri piedi e ci sentiamo un po’ Flinstone. Ogni tanto Stefano mette fuori la mano dal finestrino per assicurarsi che le valigie ci siano ancora visto che facciamo dei salti pazzeschi (probabilmente insieme ad un pezzo di pavimento, sono partite pure le sospensioni). Arrivati in prossimità del Nirmal mi sento un figo nel dare le indicazioni al tassista sulla strada da prendere e la sensazione aumenta quando passiamo sotto all’arco del Vasant Oscar dove la guardia, quando il taxi si ferma, ci vede e si mette sull’attenti alzando la sbarra!

Ci facciamo portare fino al portone, il taxista ci ringrazia, ci chiede una sigaretta e poi riparte. Noi saliamo da Shindu per prenderci la chiave che ci viene cortesemente consegnata e riscendiamo al quarto piano dove entriamo nel nostro freschissimo appartamento. Ah, non ci sembra vero di essere di nuovo qui: Danika ci ha lavato le lenzuola e ritroviamo quel profumo di “casa” che già ci aveva confortato quella notte a Keylong. Ma non abbiamo tempo da perdere, dobbiamo fare un sacco di cose ed in più è appena entrato Savanth, il signore che fa le pulizie, che dopo averci salutato si è seduto tranquillo sul divano sotto il condizionatore aspettando la nostra uscita. Ci cambiamo velocemente ed usciamo nell’afoso pomeriggio diretti al Nirmal dove, prima di tutto, andiamo da McDonald’s a mangiarci un buonissimo hamburger di carne (finalmente!!). Poi gironzoliamo tra i negozi per fare gli ultimi acquisiti o semplicemente per curiosare: qualche DVD nel corner del supermercato, una borsa al negozio Levi’s dove veniamo accolti con calore dai commessi che si ricordano perfettamente di noi e sembra che abbiano conservato per me la borsa (unico pezzo) che avevo visto un mese fa, un giro sui due piani di FabIndia ed uno da Crosswords per dare un’occhiata ai libri. Sono quasi le sette, è già buio, e se vogliamo andare a cena puntuali dobbiamo fare in fretta un salto al Big Bazar. Per cui, all’uscita del Nirmal, prendiamo un tuk tuk che in dieci minuti ci scarica di fronte ad un’altra sfilza di negozi. Prima di tutto al negozio di cose per la casa dove Ste acquista delle stoffe per la tavola a poche rupie, poi un salto al negozio di DVD dove siamo accolti, ancora una volta, con un calore incredibile dai ragazzini che lo gestiscono e dove prendo nota dei film di prossima uscita che Danika, spero, diligentemente mi porterà per Natale. Ecco, la giornata sta per finire per cui, sotto un diluvio universale, riprendiamo un altro tuk tuk per tornare al Vasant Oscar: lungo la strada lucida di pioggia vediamo le mille luci accese di un tempio dedicato a Ganesh. Domani inizierà il Chartuti Ganesh uno dei più grandi festival dell’India (che ci stiamo perdendo per un giorno come il Ladhak Festival!) che ha il suo culmine proprio qui a Mumbai. Arriviamo sotto casa un po’ fradici e saliamo di corsa a farci una doccia calda. Alle otto e mezza ci presentiamo di fronte alla porta di Danika che ci apre e ci sfodera uno dei suoi migliori sorrisi. Entriamo in casa e già il profumo di ragù ci prende alla gola. Christian non c’è perchè in giornata è andato a Pune per lavoro e dovrebbe rientrare verso le undici e mezza. Chiacchieriamo amabilmente con la nostra cara amica di fronte ad un fantastico piatto di pasta, formaggio e crema di mascarpone, guardiamo un po’ di foto, raccontiamo le nostre carambolanti avventure fino a quando arriva anche Christian. Altri baci, abbracci e racconti. Ci scambiamo quindi i pensierini: abbiamo portato dal Ladhak un tangka che regaliamo ai ragazzi e loro ci regalano una bellissima e coloratissima statua in gesso di Ganesh acquistata in una fabbrica lì vicino (dove Danika ha rinunciato ad un fantastico Ganesh viola alto un metro!!! Troppo ingombrante da portare in Italia). A questo punto, essendo quasi mezzanotte, dobbiamo a tutti i costi andare a letto visto che domattina alle cinque dobbiamo partire per l’aeroporto: Dani e Chri ci hanno messo gentilmente a disposizione (ancora una volta!) il caro Santosh e dobbiamo insistere perchè Christian rimanga a casa visto che a tutti i costi vuole accompagnarci. Alla fine troviamo un compromesso: si alzerà e ci accompagnerà solo fino al portone lasciandoci poi nelle mani di Santosh.

Con un po’ di nostalgia, prendiamo per l’ultima volta l’ascensore per l’appartamento 401, sistemiamo le nostre valigie e ci ficchiamo a letto addormentandoci con il suono della pioggia che batte sulla lamiera del condizionatore.

2 settembre. Con gli occhi semichiusi ed i pesanti dinosauri al seguito, raggiungiamo Christian e Santosh che ci stanno aspettando sul piazzale del condominio. Salutiamo il nostro caro amico e saliamo sulla lussuosa Toyota. Santosh guida come al solito con prudenza e l’ultima immagine che conserveremo di Mumbai sarà un immenso camion, giusto davanti a noi, sulla strada buia con, sul cassone, una statua di Ganesh alta almeno tre metri. La nostalgia ci assale di brutto. Arrivati al Chattrapati International Ariport lasciamo qualcosa di mancia al buon Santosh che ha dovuto farsi una levataccia, ci beviamo un caffè all’esterno della sala partenze e poi facciamo il check in. Il volo Lufthansa per Monaco è in perfetto orario ma stavolta niente upgrade in business. Le ore a bordo del boeing passano abbastanza in fretta e ci ritroviamo in terra germanica. La bellezza dell’aeroporto di Monaco è che puoi uscire e raggiungere una bellissima piazza all’aperto piena di bar e caffè. Ci sediamo ad un tavolino sotto il sole e ci gustiamo un caffè tedesco ripensando alla nostra vacanza e scrivendo gli ultimi appunti. Il fokker della Tirolean è puntuale e ci porta, nel giro di mezz’ora, all’aeroporto di Venezia dove troviamo ad attenderci il caro Igor che ci riporterà a casa. Anche questa volta è finita. Ma, potete scommetterci, in India ci torneremo.



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