Castelli della Loira 3
La settimana prima di Ferragosto siamo in fermento: si va in Francia per visitare i famosi Castelli della Loira in bicicletta. Alle ore 5.15 del 5 agosto il cielo, appena rischiarato dalle primissime luci del mattino, è basso e nuvoloso. Nei pressi di Bologna una pioggia leggera picchietta armoniosa sul parabrezza e poi, chissà come, compare l’arcobaleno! Per molte ore ci muoviamo in autostrada sotto un vero e proprio nubifragio. Per la precisione trascorriamo quasi quindici interminabili ore dentro l’abitacolo climatizzato della nostra Croma e finalmente approdiamo al Relais St. Eloi a Tours: sono le otto di sera. Per fortuna siamo ancora in tempo per la cena, per la quale non ci viene offerta alcuna alternativa: il menù del ciclista di Pedalo –il nostro tour operator austriaco- è uno solo, prendere o lasciare.
La nostra camera è al quarto piano: Leo ed io abbiamo un letto matrimoniale sufficientemente ampio, mentre Fede, il nostro ragazzo di tredici anni, deve usare una scaletta di legno per salire alla sua alcova nel sottotetto, dalla ringhiera della quale si può affacciare sulla nostra e lanciarci una scuscinata.
6/08 Al momento della partenza in bici altri italiani ci salutano come conterranei e ci dicono in faccia che non provano nemmeno un pizzico di invidia nei confronti del nostro mezzo di locomozione: loro prendono l’auto.
In effetti il primo giorno di pedalata è devastante: ieri siamo stati una giornata intera fermi in macchina, oggi, ancora scombussolati dal viaggio ci sorbettiamo oltre 70 km in bici, in generale su stradine rurali, mentre solo qualche chilometro dell’itinerario si snoda su piste ciclabili. Il terrreno, soprattutto verso la fine della tappa, è piuttosto ondulato, comunque abbastanza da costringerci a scalare tutti i rapporti e anche Leo, nonostante la sua fiammante bici ibrida, adotta un’andatura lenta.
La nostra tappa Tours-Chinon comincia con una visita piuttosto frettolosa alla città di Tours. In bici ci dirigiamo verso il municipio, un edificio del XX secolo. Poi, nella zona della città vecchia, troviamo ciò che rimane della primitiva basilica di S. Martino, ovvero la torre dell’orologio e la gotica tour Charlemagne. Vediamo che esiste anche una nuova basilica della fine dell’Ottocento dove c’è la tomba del famoso santo che tagliò in due il suo mantello per darlo a un povero. In seguito ci spingiamo fino a Place Plumerau con un gruppo compatto di case a graticcio dei secoli XV e XVI che sono un cortese dono di bellezza al passante. Della cattedrale di Saint-Gatien scorgiamo solo le torri gemelle in lontananza.
Seguendo le freccette bianche su fondo verde posizionate strategicamente da Pedalo usciamo dalla città e, assaporando l’aria tiepida del mattino, iniziamo a solcare una campagna fatta di dolci pendii dove spesso l’azzurro del cielo si assomma al giallo dei girasoli.
La pausa merenda è sul fiume: dopo pochi secondi le prime vespe ci ronzano attorno al panino, perciò giriamo i pedali e attraversiamo un ponte nel pittoresco borgo di Savonnières. Alcune persone vanno in canoa. Ci mettiamo a pedalare di buona lena lungo la ciclabile fino alle indicazioni per il castello di Villandry. Ormai nei pressi della residenza, lungo un viale alberato, prendiamo posto a sedere su una panchina per una seconda pausa ristoratrice.
Una volta parcheggiate le biciclette ci uniamo alla piccola coda di turisti che attendono davanti alla biglietteria di Villandry e decidiamo di visitare solo i giardini, che sappiamo essere una scenografica architettura vegetale, riuscitissimo connubio tra natura e arte. Nel fossato ci sono pesci giganteschi (un bambino francese grida entusiasta “Il y a des megapoissons!”). Innanzitutto accediamo al cortile lastricato del castello -dove si sviluppano gallerie e portici- attraverso un ponticello, poi seguendo le frecce raggiungiamo un belvedere, da cui ci godiamo una panoramica d’insieme dei tetti di ardesia del castello e soprattutto degli stupefacenti giochi di simmetria creati con aiuole di fiori e piante ornamentali. Il giardino d’acqua, che incontriamo più avanti, è di una bellezza distillata ed è dominato da un laghetto artificiale ritagliato in mezzo a un verde prato.
Siepi di bosso e tasso potate ad hoc formano un labirinto, ma Fede ed io prendiamo una scorciatoia e ci ritroviamo sulla torretta di legno che segna il punto di arrivo senza far fatica e senza perderci. Passiamo sotto a un pergolato, scendiamo più in basso verso le perfette ed armoniose geometrie degli orti. Leggiamo che l’attuale fisionomia dei giardini rinascimentali, magnificamente estesi su sette ettari di terreno, deve molto all’intervento appassionato di uno spagnolo che porta lo stesso cognome del commissario protagonista delle storie di Vázquez Montalbán e cioè Carvallo -per nulla parsimonioso quando si trattava di spendere i soldi della consorte-, che acquistò il castello di Villandry agli inizi del Novecento, con il denaro della moglie, appunto.
Nel pomeriggio ci rimettiamo in marcia: a un certo punto attraversiamo il ponte di Langeais, che ricorda vagamente quello di Brooklyn.
Il castello di Langeais ha un aspetto simile a quello delle fortezze medievali, cioè l’architettura pare tornare indietro rispetto a Villandry, verso tempi più bellicosi: infatti si vede che in origine era una roccaforte perché all’ingresso ci accoglie un ponte levatoio e non mancano le torri dotate di caditoie. Una scala s’impernia in una torre del castello conducendo ai vari piani, con stanze abbellite da numerosi arazzi. Sulla tavola imbandita di una sala con caminetto fanno bella mostra di sé pagnotte, mele, melegrane, uva e altri frutti tutti rigorosamente plastificati. E’ facile immaginare un pantagruelico banchetto e molti levar di calici in onore dei festeggiati: in effetti anche i manichini di cera che rievocano il matrimonio di Anna di Bretagna e Carlo VIII fanno parte di questa volontà di cristallizzare il passato. D’un tratto le luci si spengono e viene proiettato sulla parete un video in cui le statue di cera si animano e come in un film raccontano una storia in francese. Proseguendo nel giardino del castello vediamo i resti del muro di un mastio, dietro al quale si trova la riproduzione di un’impalcatura medievale. Scansiamo la fatica di salirci sopra, ma ci facciamo una foto sostituendo la nostra faccia al buco con attorno un’armatura nella silouette che sta a pochi passi da una casa costruita su un albero.
In sella alla bici andiamo fino a Ussé, che sta sul fiume Indre, sul circuito della Bella addormentata. Qui entro da sola mentre Leo e Fede, già pronti per una flebo, si riposano al bar. L’esterno è di grande impatto: una meraviglia architettonica, con torri circolari sormontante da tetti conici che sembrano ispirati ai cappelli delle fate o dei maghi. All’interno, invece, la ricostruzione tramite statue di cera dei momenti salienti della favola della Bella addormentata mi fa storcere un po’ il naso. Dal cammino di ronda del castello si spia dentro a delle specie di vetrine in cui vengono riproposte varie scene tratte dalla fiaba di Perrault: in una il “bambolottone” del Principe Azzurro si trova da solo nella stanza della Bella Addormentata che ha appena aperto gli occhi dopo il bacio. Di cattivo gusto, ma ai marmocchi pare che piaccia. Un ragazzino, credendo che stiano per arrivare i suoi, mi tende un agguato e mi fa “booh!”. Ridicolo. Pochi istanti dopo, afflitto da un rimorso di coscienza, mi chiede scusa in inglese.
Insomma, in generale gli interni di questo castello sono di una scarna semplicità a livello dei solai, dove pare di penetrare in un sottotetto semiabbandonato –ci sono oggetti impolverati e si ha l’impressione di aggirarsi negli ambienti di una vecchia soffitta-, pomposi invece nella parte che mescola arredi otto-novecenteschi. Qui uno si sente osservato dai manichini femminili, vestiti in stile anni venti, che sembrano sul punto di mettersi a ballare il charleston.
Prima di varcare il cancello che mi porta fuori dal parco di Ussé passeggio nei deliziosi giardini terrazzati che si aprono nella parte bassa della tenuta, in direzione del fiume; quindi, dopo aver scattato una foto niente male in cui il fiabesco castello appare incorniciato dalle foglie di un fico, mi spingo in alto, fino alla cappella sulle pendici della collina, accanto alla quale si trovano anche le antiche cantine scavate nella roccia e le scuderie che accolgono una collezione di calesse e carrozze d’epoca.
Alla sera, verso le otto, siamo ancora in strada alla ricerca disperata della place Jeanne d`Arc a Chinon. Altro che armonia, pace, ritmi lenti, vacanze sostenibili: sono in fin di vita! E la piazza Jean d’Arc assieme all’hotel Le Lion d’Or si ostinano a sfuggirci. Tiriamo fuori le scartoffie (mappe, indicazioni di Pedalo sul percorso). Una serie di brevi strappi mettono a dura prova le nostre gambe stanche. Chiediamo aiuto ad alcune persone che ci indirizzano infine correttamente. E siamo al Leone d’Oro. La cena è nel déhors, sulla piazza Giovanna d’Arco e non è granché, ma almeno la camera al primo piano è accogliente e il letto matrimoniale capiente.
7/08 Cominciamo ad acclimatarci. Il sole troneggia sul cielo mattutino. E’ il nostro secondo giorno di pedalata che prevede un’andata e quindi un ritorno Chinon-Chinon di circa 60 km. Attorno alle dieci e un quarto ci ritroviamo a spingere la bici a mano in mezzo a un mercato medievale in costume nella cittadina di Chinon: dapprima stiamo alle calcagna di un paio di tizi travestiti da frate poi ci tocca affrontare una pendenza ardita per arrivare al castello lungo la rue Jeanne d`Arc ma alla fine siamo ricompensati da una bella vista dei tetti di Chinon dalle mura medievali sulla sommità dell’abitato. Le mura seguono l’andamento della rupe cingendo gli edifici del castello in un perimetro a forma di fuso. Verso le dieci e mezza mi aggrego a una visita guidata gratuita in francese al castello che fu teatro dell’incontro fra Giovanna d’Arco e Carlo VII. La guida, Anne-Laure, ci racconta che il castello -di impianto medievale- è stato usato come cava di pietra a cielo aperto dagli abitanti stessi di Chinon e che la fortezza, essendo stata abbandonata a vantaggio di altri castelli, era ridotta a una pittoresca rovina che connotava il paesaggio, meritevole solo di lavori di consolidamento e non di restauro. Nel secolo scorso è stato dichiarato Monumento Storico e quindi sono stati rifatti i tetti e si è tirato su qualche muro.
La guida arricchisce la sua spiegazione con un aneddoto sulla Pulzella d’Orléans, vergine e contadina della Lorena appena diciassettenne che avrebbe “sentito delle voci” che la invitavano ad aiutare il Delfino (futuro Carlo VII) a rivendicare il proprio diritto al trono di Francia contro gli inglesi –si era infatti nel bel mezzo della Guerra dei Cent’anni-. Nel 1429 da Dorémy si reca a Chinon appositamente per parlargli, ma il Delfino escogita qualcosa per metterla alla prova: fa sedere sul trono un cortigiano mentre lui si nasconde dietro una colonna, eppure la vergine visionaria va a salutarlo a colpo sicuro come se avesse visto già la sua foto su tutti i giornali…
Un tratto distintivo dell’apparato difensivo del castello è la presenza del torrione -di cui adesso ci sta parlando la nostra guida- che si innalza con fierezza sopra i tetti della città vecchia. Infatti da qui si abbraccia una buona panoramica della cittadina e del fiume Vienne. Anne-Laure ci ricorda che gli scalini e il resto della struttura della torre erano stati concepiti appositamente per rendere difficoltosa l’avanzata del nemico. Al termine della visita mi addentro da sola negli stanzoni nudi: alcuni schermi formano un corridoio di immagini verticali oppure orizzontali, dove si può ascoltare e vedere la Storia. E’ un percorso “spettacolo” che uno può decidere di attivare –anche in italiano- usando un opuscoletto che ti consegnano in biglietteria e che si fa passare su un lettore posizionato all’entrata di ogni sala. Un giochetto simpatico la prima volta che lo fai, ma poi diventa un po’ noioso. Certo ho apprezzato di più la spiegazione di Anne-Laure.
Leo e Fede mi aspettano. Attorno a mezzogiorno attraversiamo un ponte di pietra e lasciamo la città di Chinon. Qualche ora dopo ci ritroviamo immersi in un insolito paesaggio caratterizzato da case nella roccia e qualche mulino a vento del tipo cavier. Più avanti pedaliamo su sonnolente stradine di campagna dove l’asfalto è sconnesso oppure è un susseguirsi di crepe rattoppate, e dopo il momento della “bioarchitettura” (le particolari abitazioni trogloditiche) riprende il solito valzer di terreni adibiti a vigneti.
Oggi il pezzo forte è l’abbazia di Fontenvraud. Vagheggiavo una distensiva passeggiata, ma tanto per cambiare smarriamo le freccine verdi. Comincio a essere stressata e leggermente irascibile. Mi sforzo di recuperare un umore esultante, ma la strada sale senza tregua…
Giungiamo al climax della tappa odierna: come già accennato si tratta della visita all’abbazia di Fontevraud, imponente costruzione medievale. Rimango stordita nell’entrare nell’ampiezza smisurata della chiesa abbaziale: mi trovo davanti austeri ambienti in pietra, molto suggestivi, che contengono anche un mausoleo reale. Difatti, nella navata unica, coronata da una serie di cupole, si trovano quattro statue giacenti con resti di policromia: mi avvicino al sarcofago di Enrico II che è accoppiato a quello della moglie Eleonora d’Aquitania, grande benefattrice dell’abbazia. Lui è completamente steso, tiene gli occhi chiusi, ha la corona sulla testa e non molla lo scettro, lei ha il capo un po’ rialzato avvolto da un velo bianco che le passa anche sotto il mento e sembra che l’abbiano imbalsamata con le mani che reggono un libro d’ore al quale dà una sbirciatina di sottecchi. Il “gisant” di Riccardo Cuor di Leone sta assieme a quello della cognata Isabella d’Angoulême –moglie di Giovanni Senzaterra-, che però è sproporzionato rispetto agli altri tre, essendo il più piccolo. I piedi di tutti sono rivolti verso il transetto e il coro.
Cammino attorno al deambulatorio. Sull’altare sono incise una lettera Alpha e una lettera Omega -cioè la prima e l’ultima dell’alfabeto greco- incastrate una nell’altra: un riferimento all’Apocalisse.
Cerco di cogliere la ricchezza architettonica di questa abbazia affacciandomi a un chiostro e addentrandomi nella sala capitolare, che presenta un portale lavorato. Dentro ammiro degli affreschi con scene del Nuovo Testamento dipinte da Thomas Pot nella seconda metà del Cinquecento.
Per comprendere meglio la storia dell’abbazia si visitano anche alcune sale in cui si ricorda che questo non è stato solo un luogo di religioso silenzio ma anche un carcere, dall’epoca di Napoleone fino al secolo scorso.
Mi resta ancora da esplorare un sotterraneo, dove regna un penentrante odore di umido. Mi accorgo che nei pressi del bar c’è un edificio rotondeggiante con absidiole e lanternoni: sono le antiche cucine. Infine mi ritrovo a ridosso dell’antico priorato di Saint-Lazare, adesso trasformato in struttura ricettiva.
Il ritorno passa attaverso una valle ammantata di vigneti. Dopo un po’ di chilometri andiamo in salita verso il paese di Seuilly e qui ci appare chiara l’inclemenza di questa parte del tragitto (è pur sempre vero che a me basta qualche moderata salita per lamentarmi). So, per averlo letto su un opuscolo, che qui nelle vicinanze si trova La Devinière, casa natale di Rabelais, ma mi mancano le forze anche solo per tentare di scoprire dov’è esattamente.
8/08 Siamo ancora all’Hotel Le Lion d`Or – place Jeanne d`Arc. Al mattino Leo si avvinghia al cuscino e si avvolge ancora di più nel lenzuolo. Ha scolpito in faccia il progetto di battere la fiacca … Del resto abbiamo tutti la schiena e il posteriore indolenziti. Restare seduti sul sellino della bici per molte ore, si sa, è un vero e proprio supplizio. Fuori, per fortuna, l’aria è fresca e ritemprante: infatti è spuntata una di quelle giornate struggenti, che ti fanno sospettare che qualcuno ci abbia passato sopra una mano di vernice trasparente e poi ci sono buone notizie: oggi ci attende una tappa abbastanza corta Chinon-Azay-le-Rideau.
Ci fermiamo per il pranzo al sacco al villaggio rurale di Villaines-les-Rochers, dove ci sono le insegne delle sporte di vimini appese davanti alle case, difatti nel paese si trova un museo che documenta la produzione di oggetti in vimini. Arriviamo troppo presto all’Hotel de Biencourt in rue Balzac ad Azay-le-Rideau –un paese formato francobollo-, perché è solo l’una e mezza e l’albergo riapre i battenti alle due (più tardi avremo un’amara sorpresa, cioè che il letto è striminzito, a una piazza e mezza anziché matrimoniale).
Be’ nell’attesa dell’apertura dell’hotel io vado a visitare il maniero, che è placidamente adagiato su un’isoletta fra due rami dell’Indre.
Qui decido di seguire una visita guidata gratuita –ovvero compresa nel prezzo del biglietto- in francese. Dopo una breve attesa compare una signora di mezz’età, Monique, che ci fa da cicerone ed è subito inghiottita dalla sua nutrita comitiva. Anche all’interno di questo castello si respirano atmosfere d’altri tempi grazie alle ricostruzioni d’ambienti d’epoca: accanto ai mobili, alcuni dei quali intarsiati, si ammirano arazzi, dipinti e un maestoso camino. Nel giardino colgo l’immagine sdoppiata del castello: quella reale e quella riflessa nell’acqua.
Alla sera, proprio quando la pancia comincia ad emettere un inquietante brontolio, abbiamo un piccolo disguido con la cena. Il voucher in nostro possesso testimonia il pagamento della mezza pensione ma le tipe alla reception non sanno indirizzarci al ristorante in cui dovremmo avere un tavolo riservato. Alla fine si informano e per fortuna si mangia e anche piuttosto bene. Mentre ci impegnamo ad azzerare le vettovaglie leggo l’articolo di Meridiani sull’avvincente storia delle due donne “rivali” di Enrico II: la moglie Caterina de’ Medici e la favorita Diane di Poitiers, che ha a che vedere con il castello che visiteremo domani.
Una volta finito di masticare l’ultimo boccone Fede va in camera, mentre Leo ed io ci sediamo su una panchina davanti all’ingresso del castello di Azay-le-Rideau e notiamo che un gruppo di turisti si assiepa davanti ai cancelli per lo spettacolo di luci che sta per iniziare. Noi però non abbocchiamo. Abbiamo un desiderio preciso: coricarci presto.
Così torniamo al Biencourt, ma la porta dell’alloggio è sprangata! Leo era stato avvisato del fatto che chiudevano alle nove, ma se ne era dimenticato. Gli darei una bella legnata in testa! Insomma, dobbiamo andare nel cortiletto a bussare alla finestra di Fede affinché ci apra.
Finalmente Leo ed io ci strizziamo nel letto e buonanotte!
9/08 Stamattina per prima cosa ci dirigiamo verso il castello di Saché, in cui ha soggiornato Balzac, ma lo troviamo ancora chiuso perché sono le dieci meno un quarto e il museo apre alle dieci. Lo saltiamo.
Lungo la strada ci sono diversi mulini ad acqua, ancora funzionanti.
Subito oltre Bléré andiamo lungo lo Cher e per la prima volta incontriamo qualche tratto sterrato a partire da un campeggio sulle rive del fiume. Ci sono varie persone che eseguono acrobatici esercizi sugli sci d’acqua.
Troviamo subito l’hotel du Roy nel villaggio di Chenonceaux (la nostra meta di oggi). Sono le tre e mezza del pomeriggio e facciamo subito il check in. L’albergo è vicinissimo al castello, ma davanti alla biglietteria mi rendo subito conto che la visita richiede una buona dose di sopportazione nei confronti delle orde di turisti. Il grande viale alberato è occupato per intero da un gregge di persone, che poi va a formare una barriera umana davanti alla porta d’accesso.
Appena entrata vengo assorbita da un vortice di visitatori. Adotto la seguente tattica di avanzamento: cerco di aggirare coloro che sostano sulla soglia delle stanze e di fotografare soprattutto i soffitti (perché mobilio e quadreria si immortalano solo assieme al naso o alla natica di qualcuno). L’airosa galleria, con il pavimento a quadrati bianchi e neri che sembra una scacchiera, sarebbe uno degli ambienti più memorabili di tutta la residenza, dato che si trova all’interno del ponte sopraelevato sullo Cher: qui la luce entra prepotente dalle grandi finestre… Peccato che con questo bagno di folla diventi un corridoio claustrofobico.
Purtroppo l’esistenza del groviglio umano sopra descritto ha cambiato completamente la mia reazione emotiva di fronte all’incantevole castello di Chenonceaux.
Chenonceaux: eretto su un ponte ad archi sullo Cher, dove si resta affatati a guardare il brillio della luce sull’acqua e si sente uno sciabordio di remi e …dove c’è una fila mega per comprare un gelato e dei lavori in corso che impediscono di vedere l’edificio nel suo splendore.
Al bookshop acquisto due scatole di biscotti “gran sablé” con sopra una foto “ufficiale” del castello. Infine mi trincero fuori dal flusso di gente e rientro all’hotel.
10/08: Oggi rinunciamo alla tappa lunga che ci porterebbe a visitare l’immenso castello di Chambord e meno ambiziosamente scegliamo l’itinerario con visita al castello di Chaumont. A quanto pare anche questo “bene culturale” richiama folte schiere di turisti, dato che c’è la fila davanti alla biglietteria. Non entro nel maniero, ma mi attardo nei mirabili giardini, che sono stati riplasmati da artisti moderni: infatti è in corso un festival dei giardini, con installazioni artistiche accomunate dal tema I giardini « corpo e anima »: le mie installazioni preferite sono Cheveux d’Anges –uno stagno molto particolare sul quale sembrano galleggiare magicamente una casetta o teca di vetro trasparente dal telaio bianco e delle sedie bianche, appoggiate e riflesse dallo specchio d’acqua- e L’arbre à prières -dove ciascuno può attaccare a una struttura di canne di bambù un bigliettino con un messaggio, un desiderio, un segreto, etc-. Rimango colpita anche dalla zona del Vallon des Brumes, che pare voler imitare un ambiente tropicale: le scalette e le passerelle di legno scendono in una sorta di valletta animata da scenografici aliti di vapore. Passeggiare qui è un incanto!
Di nuovo in sella lungo la strada verso Blois: immancabilmente ci perdiamo e perciò raggiungiamo Blois pedalando per 9 km lungo una strada intasata da un traffico rabbioso e malevolo. Facciamo il nostro glorioso ingresso a Blois deviando a sinistra verso la zona del castello, di cui scorgiamo per prima la facciata illeggiadrita da un loggiato rinascimentale.
Anche la Casa della Magia attira l’attenzione, visto che dalle finestre escono i musi e la coda di un mostruoso drago meccanico a cinque teste. Il solito girotondo di campanili, cupolette, distesa di tegole vecchie e tutto il resto è invece ciò che si vede affacciandosi dal belvedere accanto alla Tour du Foix del castello.
11/08 Oggi si va da Blois a Tours passando per Amboise: ci attende una giornata lunga e impegnativa, in più il cielo sembra promettere pioggia. La settimana è trascorsa in fretta e le nostre scorribande “bordo Loira” stanno per finire. Attraversiamo il ponte, dove ci accoglie il pittoresco sfondo degli edifici della città di Amboise. Cade una pioggia leggerissima (gocce minuscole mi si coagulano subito sugli occhiali, impedendomi di vedere). Immediatamente il Castello di Amboise e la cappella dove si trova la tomba di Leonardo diventano l’obiettivo della macchina digitale appannato dalla condensa.
Una volta uscita non mi resta che contemplare i miei acquisti: una maglietta bianca con la scritta Amboise, France e l’immagine del maniero e un DVD sui castelli della Loira, che suppongo risalire al tempo in cui Berta filava dato il sottotitolo “voir et revoir”. Li avvolgo in un altro sacchetto. Non voglio correre il rischio di sciuparli dato che potrebbe piovere di nuovo.
Arriviamo a Tours che non è ancora calata la sera e percorriamo Boulevard Béranger. Visto che oggi è mercoledì pedaliamo in mezzo ai profumi inebrianti e ai colori sgargianti del mercato dei fiori.
12/08 Sollevo la mano in segno di saluto: addio Castelli della Loira!!! Adesso ci resta solo un’altra bella “smacchinata” di quindici ore!