America Centrale in Motocicletta
Parte 1, Citta’ del Messico e Citta’ Coloniali
Dopo l´esperienza Asiatica dello scorso anno, eccomi di nuovo in America Latina, stavolta Messico e Centro America. Il viaggio e’ iniziato gia’ 2 settimane prima della partenza, con una bella influenza Messicana che mi sono preso e che per fortuna e’ passata in 2-3 giorni: che coincidenza, sembra quasi che la febbre lo sapesse che dovevo andare in Messico e quindi si e’ fatta viva fin da subito. Naturalmente nessun allarme e zaino pronto per la partenza. Io ed Alba atterriamo quindi il 30 Settembre a Citta’ del Messico (che si trova a 2200 metri di altezza), il mio volo di ritorno e’ fissato per l’8 Febbraio 2010. Con 3 cambi di metropolitana ci rechiamo fino in centro per la modica cifra di 2 pesos a testa (circa 10 centesimi di Euro) e andiamo alla ricerca di un posto per dormire. Stranamente lo zaino e’ piu’ carico rispetto agli altri anni e per la prima volta da quando viaggio ho deciso di comprare una guida (forse sara’ la vecchiaia); ma giusto per evitare di finire a dormire negli stessi posti con le masse dei turisti in giro per l’America Latina, evito la famosa bibbia Lonely Planet e, sotto consiglio di Michele, ho comprato una Footprint. La guida si rivela subito utile, l’hotel Juarez suggerito e’ pulito ed economico (camera doppia per 200 pesos, circa 10 Euro per tutti e due), a 2 isolati dalla piazza Centrale, meglio conosciuta in Centro America come Zocalo). Da subito giriamo il centro, molto bello, con la Cattedrale, il Palazzo Nazionale, il Tempio Mayor etc. In molti stati dell’America Latina si fa il conto alla rovescia per festeggiare i 200 anni dell’Indipendenza dagli Spagnoli (in Messico sara’ nel 2010) e la piazza Centrale e’ tutta addobbata. Ma appena dopo mangiato ci buttiamo dritti al nostro obiettivo principale: trovare una moto abbastanza buona da portarmi fino a Panama: e’ un po’ di mesi che macinavo l’idea di fare un viaggio diverso dagli altri fatti in passato e l’idea di percorrere la Panamericana in moto fino al canale che unisce i 2 oceani mi stuzzicava non poco. Certo che cercare una moto usata appena arrivati nella seconda citta’ piu’ grande del mondo, credetemi non e’ facile: chiediamo informazioni un po’ in giro e finiamo nella giungla dei furbi, meccanici e pseudo-concessionari, che vogliono venderti un po’ di tutto, e’ difficile fidarsi di qualcuno, specie quando sei uno straniero; non sai se la moto e’ rubata o mezza scassata. E poi io di motociclette ne capisco ben poco. A quanto pare ci vogliono almeno 2500 Euro per trovare una moto decente, ma e’ un po’ una lotteria, non sai quello che ti capita e poi non vogliamo spendere troppo con il rischio di prendere un bidone. Inoltre piu’ di qualcuno ci allerta di stare attenti nei Paesi del Centro America in quanto non sono molto sicuro, specie El Salvador. Quasi quasi ci convinciamo che sarebbe meglio una macchina, piu’ economica, sicura e ci ripara in caso di pioggia. Senza portarla troppo alla lunga, dopo vari giri, telefonate, internet e giornale con gli annunci dell’usato, con Alba gia’ stanca e stressata che mi fa pesare ogni mia parola o movimento, il giorno dopo, durante una passeggiata nel quartiere sud di Xochimilco, ecco un tizio che ci carica su una camionetta e ci da un passaggio verso la zona giusta. Chiedendo ad un po’ di officine meccaniche entriamo in contatto con Roberto Leon, un signore che vuole vendere la sua moto per 25000 pesos. La andiamo a vedere, e’ vecchia e abbastanza scassata, ma ci convinciamo che questa sara’ la scelta giusta. Preleviamo il contante in banca, ceniamo nella turistica e ben pulita Zona Rosa ed il giorno dopo compriamo i caschi, torniamo da Roberto, trattiamo il prezzo fino a portarlo a 21000 pesos (circa 1100 Euro) e prima di chiudere l’affare (che e’ un affare solo per lui) io gli chiedo di andare in commissariato per controllare che la moto sia a posto. Lui accetta ed un ufficiale controlla il tutto, documenti, numeri di telaio e targa al computer, sotto pagamento di mazzetta da 200 pesos (qui funziona ancora cosi’) : la moto ha una denuncia per furto, ma poi e’ stata regolarizzata con un nuovo numero di telaio e nuovi documenti (da noi si dice che e’ stata battuta), tutto cio’ per la polizia e’ regolare. In Messico l’assicurazione non e’ obbligatoria, quindi non la facciamo, e la compravendita si fa su un semplice foglio di carta firmato dalle 2 parti ed un testimone (che io nomino in Alba). Dopo una controllatina al meccanico, eccoci in sella ad una Kawasaki Vulcan del 1987, motore 454 di cilindrata, ovviamente in condizioni pessime, sconsigliatissima per un viaggio cosi’ lungo; ma il tempo e i soldi sono pochi, quindi bisogna rischiare un po’. La moto ha 2 marmitte che fanno un casino incredibile, ci sentono anche ad 1 km di distanza, siamo i piu’ tamarri di tutto il Messico, in Italia ci avrebbero gia’ arrestato con un mezzo cosi’. Era un po’ un sogno quello di trovare una moto per affrontare il mio viaggio, ma mai avrei immaginato che al terzo giorno di viaggio ne avrei gia’ comprata una. Torniamo quindi in hotel in sella e abbastanza carichi di energia e ci rendiamo conto di quanto sia grande ed inquinata questa citta’; forse ci avremmo impiegato 2 ore per attraversarne un quarto ed abbiamo respirato l’impossibile su quelle strade. All’indomani iniziamo l’avventura ripartendo dalla capitale verso nord ed ovviamente gli acciacchi della nostra vecchia Kawasaki non si fanno attendere: una volta si ferma, l’altra perde acqua, facciamo controllare le candele etc. Intanto visitiamo il sito archeologico di Teotihuacan con le sue imponenti piramidi, molto bello, e prima di partire, ancora sosta da un meccanico. Facciamo qualche decina di chilometri e ancora problemi. Insomma sta moto e’ proprio un bidone: una volta cambiamo il tubo che porta il decongelante, una volta una saldatura da uno pseudo-maestro che trovo in mezzo alle campagne di un villaggio… Tutte le riparazioni qui vengono fatte con mezzi di fortuna, si riciclano tubi da vecchie macchine scassate, si creano pezzi dal niente etc. Etc. In giro si vedono moto con le gomme consumate fino all’osso, e tutti sembrano sapere trovarti la soluzione al tuo problema. Gireremo 7 meccanici in 6 giorni (potete immaginare lo stress raddoppiato dai commenti di Alba), credo che sia un vero record il mio, appena torno mando un’e-mail a quelli del Guinness. Il problema e’ che se supero i 100 km all’ora (piu’ o meno 100 perche’ il contachilometri naturalmente non funziona) il motore si scalda e il decongelante cade per terra; ma nessun meccanico riesce a capire il perche’: un paio di tecnici apparentemente esperti me l’hanno aperta tutta e a quanto pare l’unico problema che puo’ esserci e’ la punta della testa del motore (oh mio Dio). E va bene, vorra’ dire che continueremo senza superare i 90-100 km/h, tanto su queste strade e’ anche difficile andare piu’ veloci, di sicuro non mi metto a cambiare il motore, al massimo la butto sta moto e continuo in bus come ho fatto negli anni passati. Intanto in questi giorni di pit-stop ci siamo fermati a dormire nei paesini piu’ sconosciuti del Messico, dove non abbiamo incontrato neanche un turista, quindi abbiamo vissuto un po’ la vita locale e mangiato tanti tacos piccanti e tortillas. Passiamo velocemente dentro San Miguel de Allende, molto bella e coloniale, ma abbastanza americanizzata e 30 km prima di arrivare a Guanajuato la moto si ferma di nuovo: questa volta la benzina (eh si, la moto non ha neanche il contatore della benzina ed io ancora non avevo capito quanto era capiente il serbatoio). Si fa buio e comincio a preoccuparmi, ma per fortuna ad un certo punto un tizio si ferma ai nostri segnali di luce, poi arriva anche una pattuglia della stradale e quindi ci caricano sia a noi che la moto dietro un pick-up fino al prossimo distributore. Devo dire che in Messico e’ pieno di problemi e cose scassate, ma c’e’ sempre una soluzione a tutto (a modo loro, pero’ c’e’), se rimani a terra difficilmente ci rimani, qualcuno ti tira su. Regaliamo 100 pesos di mancia al tipo che non ha avuto paura a fermarsi da solo sulla stradina buia per raccoglierci, ma non regaliamo niente ai poliziotti, che una battutina sui soldi ce l’hanno buttata (aouuuuu… E che m’avete preso per zio Tom). Con questo pieno finalmente so quanto e’ capiente il serbatoio della moto (sono solo 11,5 litri e con un pieno faccio 200 km circa, non male direi). Arrivati a Guanajuato (il settimo meccanico sara’ qui all’indomani per un problema di batteria) scopriamo che e’ una bellissima citta’ coloniale: le stradine, i monumenti, le piazzette, i localini, tanti universitari, la vista panoramica dal Cerro; e poi e’ particolarissima perche’ ci sono un paio di strade sottoterra costruite tipo metropolitana che la tagliano a meta’ per evitare il traffico; poi da giu’ si sale attraverso le scale verso il centro storico. Veramente particolare. Peccato che siamo al settimo giorno del nostro viaggio e questa e’ ancora la seconda tappa (un po’ in ritardo sulla tabella di marcia direi). Si riparte alla volta di Real de Catorce: il viaggio e’ lungo (piu’ di 400 km, che in Messico significano 8 ore), quindi ci fermiamo a dormire a meta’ strada. Passiamo quindi la linea del Tropico del Cancro con tanto di cartello, ed ai lati della strada si cominciano a vedere i cactus ed un paesaggio piu’ brullo. Real de Catorce e’ un posto molto particolare, raccontato anche nel film Puerto Escondido, con Abatantuono e Bisio: una citta’ mineraria come tante nel nord del Messico, ma questa e’ stata abbandonata dai minatori anni fa ed e’ rinata grazie al turismo. Per accederci bisogna deviare su una strada di 25 km fatta di sanpietrini (o almeno io li chiamo cosi’): sembrava di stare su un campo minato, ci e’ voluto almeno un’ora per percorrerla ed io gia’ pensavo alle conseguenze che sarebbero successe alla moto, li’ in mezzo al niente. Per fortuna me la cavo stringendo solo il cavo della frizione che sembrava partita ormai, anche perche’ a Real de Catorce non credo avrei mai potuto trovare un meccanico. Nel paese si entra attraverso un tunnel a senso alterno lungo 3 chilometri circa ed i visitatori pagano 20 pesos per attraversarlo con un mezzo: alla fine del tunnel eccoci arrivati in questo posto sperduto in mezzo alle montagne. Non so quanti abitanti facesse, ma e’ davvero piccolo, le case tutte in pietra, sembra di tornare indietro di 100 anni. Fin da subito mi piace, il tunnel chiude di notte e quindi si resta isolati qui, l’atmosfera e’ particolare, Alba invece inizia gia’ con le prime lamentele e le sue voglie di andare al mare (purtroppo per la maggior parte di noi Italiani le vacanze e il Messico significano solo relax in spiaggia, amaca e cocco, che peccato, e’ un po’ riduttivo direi). Faro’ una passeggiata alla citta’ fantasma (una piccola Real a qualche chilometro di distanza, ma completamente abbandonata) e tornero’ per il tramonto. In serata vado vicino ad una pseudo Arena dei Tori, dove i ragazzi del posto giocavano a pallone. La scena e’ stata bellissima: dopo l’ultimo goal sono andati tutti via, un paio di macchine ed il resto di loro ha preso il cavallo parcheggiato fuori dal campo e tornato a casa galoppando. Mi sembrava “Ritorno al Futuro”. All’indomani passeggiata a cavallo alla montagna sacra, dove alcuni indigeni fanno a piedi fino a 400 km per compiere il proprio cammino alla montagna tutti gli anni (ci mettono alcune settimane). Intanto in mattinata abbiamo conosciuto Gianni e Carla che ci invitano a pranzo e noi accettiamo: sono 2 commercialisti torinesi che sono scappati 3 anni fa dallo stress delle nostre citta’ e si sono fermati qui comprando una bella casetta costruita da uno svizzero. Che storia, pare ci siano un’altra decina di Italiani che vivono a Real (oltre naturalmente ad altri stranieri), tra i quali una ragazza che lavorava per la NASA negli Stati Uniti (o qualcosa del genere), una giornalista (non ricordo se del Corriere della Sera o Repubblica) ed un tizio al quale hanno dato 8 anni in Italia per un po’ di mariuana e quindi e’ scappato via e non e’ piu’ tornato (anche se ora sembra siano caduti i termini). Veramente interessante e strano sto posto, pare che qui si viva veramente in pace e tranquilli, anche se gia’ da qualche anno e’ abbastanza turistico. Cucineranno un’ottima polenta e carne con una bella vista dal salotto sulle montagne vicine e i 2 amici piemontesi ci racconteranno un sacco di storie curiose; dal signor Pedro che pensava di avere 83 anni e al momento di dovere farsi il documento d’identita’ ha scoperto di averne 85, alle feste di compleanno dove inviti 3 persone e se ne presentano 25, alle escursioni notturne con saccappelo nel deserto, all’uscita settimanale a Matehuala (la citta’ piu’ vicina a 2 ore di distanza) per fare le compre e cambiare un po’ d’aria, fino ai gruppi che vengono a suonare e che se non piacciono la gente spara ai piedi dei musicisti, i quali scappano via (tipo far west praticamente)… E’ venerdi’, il tempo e’ brutto, io sarei anche rimasto un giorno in piu’, il posto mi piace, ma Alba vuole arrivare al mare, quindi partiamo nel tardo pomeriggio, anche per paura che in coincidenza della festa di San Francesco chiudano il tunnel per il fine settimana per evitare che non ci sia abbastanza spazio per le macchine in entrata. Ripercorriamo la strada di sanpietrini (i nostri glutei la ricorderanno a lungo) e all’incrocio ci prendiamo un bel aquazzone: troveremo una bettola per dormire non prima di tarda sera ed in un paesino sperduto dove cerco il proprietario della pseudo stanza per piu’ di un’ora chiedendo alla gente del posto, quindi viaggeremo al buio e bagnati: mai piu’!!! Qui e’ pericoloso guidare di notte, specialmente in moto, ci sono gli assalti armati e le rapine, ma intanto non avevamo calcolato bene i tempi. Siamo a Zacatecas, un’altra bella citta’ coloniale, con la solita piazza con Cattedrale, musicisti in strada ed una manifestazione religiosa. Nell’America Latina sono malati per la religione e piu’ o meno dappertutto si vedono scritte del tipo “Dio Ti Ama”, “La Risposta E’ Gesu'” e robe del genere. A Zacatecas visiteremo anche una vecchia miniera e proveremo per la prima volta lo zip line (o qualcosa del genere) che collega 2 colline della citta’: in poche parole si viaggia attaccati ad una cerniera a qualche centinaio di metri d’altezza per quasi 1 km da una collina all’altra e poi si ritorna alla stessa maniera (giusto perche’ questa non l’avevo ancora provata, erano gia’ un paio d’anni che volevo farlo in Basilicata). Si parte per Guadalajara, la seconda citta’ piu’ grande del Messico dopo l’immensa capitale, la moto ormai pare vada bene, ma occhio a non superare i 100 (80 in salita) altrimenti tira acqua (come dicono i messicani). Anche qui mega messa religiosa in piazza e festa patronale con bancarelle dappertutto (in Messico pare ci sia sempre una festa) ed un bel Luna Park nel nord della citta’ che noi non ci facciamo sfuggire facendo un po’ di giri sulle giostre piu’ grandi. E capitiamo pure il 12 Ottobre, giusti per la festa della Madonna di Zapopan, con file chilometriche per entrare in chiesa nel piccolo sobborgo vicino Guadalajara (che noi naturalmente non abbiamo fatto, di chiese ne avevamo viste gia’ troppe). Ci fermeremo una notte a Chapala sulle rive di un lago, un bel posticino tranquillo, ma anche qui becchiamo la pioggia e l’indomani partenza verso il Pacifico: per la gioia di Alba saranno piu’ di 400 km e ci fermeremo pure 2 volte dal meccanico, una volta il cambio, l’altra la catena (fesserie per fortuna).
Indice dei contenuti
Parte 2, Il Pacifico, Oaxaca e Chiapas
Pian piano si scende verso la costa (fino a quel momento avevamo sempre viaggiato sugli altipiani a quote che andavano dai 1500 ai 2500 metri circa, il caldo umido si fa sentire e il paesaggio comincia a diventare verde con mega distese di alberi di palme (siamo ai tropici). E intanto mi sento sempre piu’ come Che Guevara nei Diari della Motocicletta, solo che lui e il suo amico avevano una moto un po’ migliore della mia per girare il Sud America. Prima destinazione al mare, Maruata, un bel posto selvaggio sperduto nella giungla con un solo albergo e qualche cabana sul mare. Noi scegliamo la comodita’ dell’hotel, nel paesino non c’e’ veramente niente, una piazzetta, strade di terra (o meglio fango Di notte sul bagnasciuga arrivano le tartarughe a deporre le uova, ma noi non andremo a vederle. In mattinata primo bagno nel Pacifico con le onde fortissime, passeggiata in spiaggia e via con la prima di un’interminabile serie di mangiate di pesce. Si riparte subito attraverso il verde della vegetazione verso Caleta de Campos. Non ci e’ piaciuta molto, piu’ costruita della precedente, ci siamo pentiti, saremmo rimasti volentieri un altro giorno a Maruata. Ripartiamo verso Zihuatanejo che e’ il posto dove sono ambientate le scene finali del film per via delle piogge) ed il rumore delle onde del Pacifico che si infrangono sulla spiaggia. “Le Ali della Liberta”. In strada ci fermeremo a pranzo (di pesce naturalmente a Playa Azul). Zihuatanejo e’ molto bella, con diverse baie e spiagge, ma naturalmente piu’ turistica delle altre e quindi piena di alberghi, locali etc. Dopo un paio di giorni ripartiremo alla volta della mitica e famosa Acapulco. In strada ci fermeremo prima a Baia de Potosi per un po’ di relax e l’ennesima bevuta di cocco e poi pranzo (di pesce ovviamente) alla spiaggia di Cayaquitos. Che dire di Acapulco: e’ uno di quei posti che bisogna vedere, una baia bellissima ed enorme, ma naturalmente e’ come andare a Rimini: ci sono i McDonalds, le discoteche, i grandi hotel e perfino il Bungy Jumping vicino la spiaggia, che questa volta non provero’. Un classico da non perdere ad Acapulco sono i tuffatori alla Quebrada, che ogni sera danno uno spettacolo tuffandosi da 35 metri, dovendo calcolare il momento in cui arriva l’onda forte che entra nella baia. Faremo anche una bella camminata nel verde dell’isola La Roqueta, raggiunta in barca da un molo, dove finalmente troveremo una spiaggietta senza onde (finora avevamo solo trovato mare agitato, d’altronde il Pacifico non potevamo aspettarcelo diversamente da queste parti). Ripartiamo alla volta di Puerto Escondido, ancora una volta 400 km dove difficilmente si puo’ superare una media di 50 km all’ora e quindi ci fermiamo a dormire ancora una volta a meta’ strada. Puerto Escondido ci piace subito. Il bello di questo viaggio e’ che siamo in bassissima stagione, quindi in ogni posto che andiamo troviamo spiagge isolate ed hotel con cui trattiamo alla grande il prezzo. Ci concediamo una stanza vista mare. Pare che qui in alta stagione sia strapieno; in effetti il posto e’ fin troppo costruito e dedito al turismo e ricorda solo lontanamente il villaggio di pescatori per il quale era diventato famoso. Le giornate al mare passano come al solito tra bagni e mangiate di pesce, per la gioia di Alba (ma anche mia) e a Puerto Escondido decido di riprovarci col surf; dopo l’esperienza fallimentare in Australia qualche anno fa, affitto una tavola e mi riammazzo una paio di volte con una bella botta al collo; le onde sono veramente forti e mi sballottolano come se fossi una formica; non riesco a stare piu’ di 2 secondi in piedi, mi sa che non e’ per me e un giorno ci riprovero’ con il kite surf, per il quale mi sento piu’ portato; la spiaggia accanto a quella dove sto io pare sia la terza spiaggia piu’ famosa al mondo per il surf (e infatti si vedono certi cavalloni che fanno paura). In serata ci concediamo un ristorante Italiano (una volta ogni tanto e’ bello non mangiare sempre Nachos, Pastor, Encillada e Tortas de Carne) e qui conosciamo il proprietario 25enne Marco Conti, figlio del veronese Claudio Conti che pare abbia inspirato il film Puerto Escondido (il locale e’ pieno di locandine, articoli di giornale e foto). Conti e’ stato rapito ed ucciso l’anno scorso. Eh gia’, proprio cosi’, successivamente ho trovato anche informazioni su internet a riguardo. Marco mi offre un paio di mojito e ci racconta come e’ andata la scena del rapimento del padre, la richiesta del riscatto eccetera eccetera. Qui non si scherza quindi, piu’ di qualche volta, specie viaggiando in mezzo alla giungla i militari ci hanno fermato per controlli di routine (anche se non sono mai stati dei grandi controlli approfonditi), pero’ di sicuro con tutto questo verde, clima caldo e umido e centinaia di chilometri di sentieri, i narcotrafficanti sono ben rappresentati. Ultima tappa al mare prima di risalire gli altipiani, Zipolite; ad Alba non piace tanto, a me va bene direi. Zipolite e’ un posto hippy, qui la gente sta intere giornate a dondolare sulle amache, fuma, si sballa e non si fa niente; il solito spiaggione vuoto tutto per noi con le onde che si massacrano sul bagnasciuga; ma soprattutto Zipolite e’ un posto famoso per i nudisti, anche se in bassa stagione ce n’e’ pochi naturalmente. E poi la sfortuna vuole che nei posti per nudisti per la maggior parte si vedono solo maschi adulti col pisello di fuori, quindi non e’ che siano tanto gradevoli da vedere alla fine. Qui notiamo la presenza di molti francesi e infatti andremo a cenare in un posto gestito da una coppia francese. Domani ripartiremo verso Oaxaca e poi il Chiapas. Lasciamo il Pacifico e pian piano risaliamo la Serra Madre del Sur, passiamo il passo a San Jose’ del Pacifico, che pare sia famoso per i funghi allucinogeni, ed arriviamo a Oaxaca. Ma mica arriviamo come le persone normali!!! La moto ricomincia a fare i capricci, si scalda di nuovo e questa volta proprio non ne vuole sapere di riprendersi. Un po’ a singhiozzo arriviamo ancora una volta di sera. La citta’ e’ bella, piacevole da camminare a piedi e poi produce una cioccolata buonissima che io naturalmente non mi faccio sfuggire. L’indomani andiamo a visitare il sito di Monte Alban (girando per il Messico ci sono talmente tanti resti archeologici millenari che ci si rende conto che Colombo non ha scoperto proprio un bel niente, qui la civilizzazione esisteva gia’ dapprima). Ma la giornata di oggi si presenta piena di lavoro: bisogna capire di che morte morira’ la nostra moto. Visto che qui tutti dicono di sapere, ma ognuno da soluzioni diverse, decido di fare di testa mia. Vado prima da un radiatorista e mi faccio smontare e pulire il radiatore, poi da un meccanico di moto per smontare, pulire e cambiare i pezzi vecchi del carburatore. Dopo ore e ore di montaggio e smontaggio ci accorgiamo, ormai superato il tramonto, che il cappuccio di una candela fa un falso contatto e quindi la moto non ha spinta e si riscalda subito. Bene, amici miei, con questi 3 ritocchini la moto va de puta madre, come dicono in Sud America. Ma non come andava prima, bensi’ meglio. La sento sotto di me che va meglio di prima ed infatti ci mettiamo poco ad accorgerci che il problema del riscaldamento non esiste piu’, e’ ormai superato e non abbiamo piu’ il limite dei 100 da rispettare. E’ incredibile: dopo 3 settimane di penitenze e bestemmie, quando ormai ero convinto che la mia moto era un catorcio, tutto inizia a girare bene (altro che punta della caveza del motor, come avevano detti i 2 santoni, qui il motore va alla grande). Ripartiamo verso l’Istmo, che e’ la parte piu’ stretta del Messico (210 km da un lato all’ altro). Finalmente la temperatura della moto non sale piu’ e l’acceleratore spinge come una moto normale. Questa volta sara’ il viaggio piu’ lungo, sono 600 km da qui a San Cristobal, nel Chiapas. In strada ci fermiamo al convento di Cuilapan del Guerrero per una visita breve, poi al Tule (che pare essere l’albero piu’ vecchio al mondo, veramente enorme), poi ancora un mercato domenicale in un paesino in strada e via attraverso la sierra ed i paesaggi che cambiano man mano che saliamo e scendiamo. Bellissimi. Pranzo in un paesino sperduto in compagnia di alcuni abitanti riuniti per la domenica in strada a mangiare e ci fermiamo a dormire a Tehuantepec. La mattina sveglia presto, e’ incredibile come ci si sveglia presto in viaggio, tante volte in serata non c’e’ niente da fare, quindi non si va a letto tardi e la mattina e’ meglio partire intorno alle 7 per evitare il sole bruciante delle ore calde (a volte mi stresso piu’ quando viaggio che quando lavoro). Siamo di nuovo al livello del mare e fa caldo. Prenderemo una deviazione per ammirare il bel canyon del Sumidero e poi 50 chilometri di salita, per fortuna autostrada a pedaggio questa volta, fino a San Cristobal. Alba avvista alcuni ragazzi che danno il benvenuto in Chiapas tirando le pietre agli automobilisti (bene, un po’ come in Italia dai cavalcavia) e nel tardo pomeriggio arriviamo a destinazione. San Cristobal della Casas subito ci appare bellissima, siamo nel Chiapas, si cominciano a vedere i lineamenti Maya tra gli abitanti, nelle vicinanze vivono diversi gruppi indigeni che parlano la propria lingua, pare siano 21, molti di loro vestono con abiti tipici ed un colore ben definito a seconda del gruppo al quale appartengono. Questa e’ la zona dei ribelli Zapatisti che occuparono la citta’ nel 1994 e nella piazza centrale vediamo dei dimostranti di un villaggio poco distante da qui che hanno occupato l’entrata della Cattedrale per protestare contro i militari che pare abbiano fatto fuori dei loro compagneri ed arrestato altri. San Cristobal e’ naturalmente molto turistica, ma veramente bella, qui prenderemo la stanza piu’ bella mai presa finora, con stupenda vista sulle montagne circostanti per la modica cifra di 250 pesos a notte (praticamente 7 Euro a persona) e la mattina dopo partiremo in direzione Palenque per poi fare ritorno. Saranno 210 km, ma ci vogliono 5 ore; curve, rallentamenti, frane, tir che bloccano la strade e poi i tanto odiati TOPES; le strade in Messico assomigliano un po’ alle nostre vecchie statali, ma molto piu’ malandate, ci sono sempre lavori in corso, passano all’interno di paesini e villaggi e in ogni centro anche minimamente abitato ci sono numerosi dossi, che qui chiamano Topes; rallentamenti obbligati quindi, ma il bello e’ che molte volte non sono segnalati e quindi se non li vedi si fanno dei gran bei salti tipo motocross, e la vecchia Kawasaki ormai soffre in silenzio. Purtroppo le autostrade non sono presenti dappertutto, ma quando ci sono conviene alla grande prenderle, anche se costano abbastanza direi. E poi questi Messicani non hanno proprio il senso dell’orario e delle distanze: se per andare da un punto A ad un punto B uno ti dice che ci vuole un’ora, un altro tranquillamente ti dice 4 ore. E sono in pochi a dirti non lo so. Piuttosto ti dicono cazzate. Un Messicano difficilmente ti dice “torno tra 20 minuti”, piuttosto ti dice “torno tra un po'”. Per non parlare delle direzioni: se chiedo a 10 persone, 5 mi diranno vai a sinistra e 5 a destra, e la cosa piu’ bella che in molti non sanno la differenza tra la destra e la sinistra: non e’ difficile trovare qualcuno che ti dice gira a destra, ma ti fa segno con la mano sinistra o viceversa. Questa cosa mi fa troppo ridere. Tutto funziona un po’ cosi’, tante vale fare da soli. In strada per Palenque ci fermeremo alle Cascate di Agua Azul, molto belle, ho fatto pure un bagnetto fresco. Alle cascate abbiamo anche incontrato il furbo di turno che ha provato a metterci paura, dicendo che andando nella giungla sarebbe stato pericoloso e che ci avrebbero derubato, cosi’ era meglio pagare lui per farci da guida. Un po’ ci e’ venuto il dubbio, ma alla fine non gli abbiamo creduto ed abbiamo continuato da soli nella giungla. Per fortuna non e’ successo niente. Visitiamo Palenque subito all’apertura, alle 8, bellissimo sito Maya avvolto nella giungla, con cascate e fiumi che passano vicino le rovine. Veramente interessante. Prendiamo quindi la strada per il ritorno e dopo altre 5 ore di sofferenza e caldo ritorniamo a San Cristobal. Accompagno Alba all’ipermercato dove avrebbe acquistato un po’ di mangiare messicano da portare in Italia all’indomani. E’ il 28 Ottobre e al multisala accanto pubblicizzano l’uscita del film di Michael Jackson, che naturalmente non mi perdero’. Trovo un taxista che porti in aeroporto Alba alle 4:45 di mattina (in moto sarebbe stato troppo buio e rischioso fare 50 km fino all’aeroporto della capitale Tuxtla Gutierrez). Cenetta ad un ristorantino Argentino, che ci ha deluso abbastanza (ne avevamo gia’ provati un paio abbastanza buoni in questo viaggio, e poi dopo le scorpacciate di carne di 2 anni fa a Buenos Aires il paragone non tiene molto). Sveglia presto la mattina, Alba parte ed io comincio a respirare un po’: mi svegliero’ con calma, colazione, giretto per la citta’, il mercato, internet e, naturalmente, vado al cinema a vedere “This Is It”. Inutile dirvi che mi e’ piaciuto e che sarei rimasto in sala per la replica se il chico non mi avesse fatto notare che io ero l’ultimo rimasto ancora li’. Decido comunque di non rientrare in sala e tornare in centro, avro’ modo di rivederlo piu’ in la’. Intanto la batteria della moto fa ancora i capricci, ormai sto diventando esperto e riconosco i problemi solo con l’orecchio (proprio io che non ci avevo mai capito niente di motori). Avevo gia’ fatto un’altra carica ad Acapulco dopo quella precedente a Guanajuato, quindi e’ arrivato il momento di cambiarla sta batteria e comprarne una nuova. Nel pomeriggio vado a visitare San Juan Chamula con un microbus, che e’ un villaggio di un gruppo indigeno nelle vicinanze, ma anche qui mi prende la pioggia, mi godo per l’ultima sera la mega stanza con vista panoramica e preparo il tutto per l’indomani. Sono pronto a lasciare il Messico ed entrare in Guatemala.
Parte 3, Guatemala
Si riparte in direzione sud, pronto per attraversare il primo confine del viaggio. All’indomani sara’ l’1 Novembre e qual’e’ il posto migliore dove trascorrere la Festa di Tutti i Santi? Ma naturalmente a Todos Santos, in Guatemala. Nel tragitto verso la frontiera sento che qualcosa alla moto non va (tanto per cambiare), ma la mia ormai solida esperienza nel campo mi suggerisce che e’ solo una questione di candele. Mi fermo in ferramenta a comprare gli ultimi attrezzi che mi mancavano, acquisto anche un paio di guanti per guidare e con l’aiuto del venditore puliamo le candele. La pioggia mi costringe ad una sosta in un Centro Commerciale, dove pranzero’ e poi pian piano via verso la frontiera. E qui inizia il bello: timbro sul passaporto in uscita dal Messico, timbro in entrata in Guatemala con tentativo non riuscito da parte del doganiere di spillarmi qualche soldo, tassa per la fumigazione sulla moto, ma all’ultimo ufficio che rilascia il permesso per il veicolo mi bloccano: la moto e’ regolare in Messico, ma non in Guatemala. Eh gia’, perche’ mentre in Messico posso comprare un mezzo compilando una semplice carta bianca tra me e il venditore, in Guatemala c’e’ bisogno che sia presente un notaio al momento del passaggio che testimoni il tutto. E ora che faccio? Mica posso tornare a Citta’ del Messico a cercare chi me l’ha venduta per andare da un notaio? Saranno forse 1500 km.! Entro in crisi. Provo a chiedere un po’ a questo e a quello, cerco vie alternative, ma niente, la moto non puo’ passare. Mi suggeriscono di tornare alla prima citta’ messicana a 80 chilometri e cercare un notaio che renda valida la compravendita. Ma e’ gia’ sabato pomeriggio e non troverei nessuno per tutto il weekend. Inoltre inizia a piovere fortemente e qui quando piove, piove sul serio. E poi non voglio perdermi la festa a Todos Santos all’indomani. Percio’ l’unica soluzione e’ di parcheggiare la moto al confine, proseguire in bus e il lunedi’ tornare a riprenderla, ripassare la frontiera e regolare il tutto. Sara’ una bella sfacchinata e perdita di tempo, ma non ho scelta. Gli ufficiali mi fanno gentilmente mettere la moto nel loro parcheggio (io spero che non me la freghino proprio loro!) e dopo un ape-taxi che mi porta al terminal dei bus, eccomi a bordo di un chicken bus per la citta’ di Huehuetenango, crocevia dove cambiare il bus per Todos Santos. I chicken bus sono in tutto il Centro America e non sono altro che dei vecchi scuolabus americani riadattati per il trasporto locale. Per percorrere meno di 100 km ci vorranno 2 ore. Il controllore riempe il mezzo fino all’inverosimile occupando ogni singolo spazio, si viaggia tutti ammassati e appiccicati, in 3 o 4 sui sedili da 2 posti, in molti stanno in piedi e non e’ difficile che il tuo compagno di viaggio sia una gallina o qualche altro animale strano. La pioggia continua fortissima e il chicken bus e’ talmente scassato che piove anche all’interno; ed io inizio a rimpiangere la mia vecchia Kawasaki. E pure negli anni passati ho sempre viaggiato sui mezzi locali di diversi paesi, ma forse mi sono troppo abituato alla liberta’ della moto che, anche se da problemi, resta comunque un modo piu’ comodo per spostarsi rispetto ai mezzi locali. Arrivato al terminal dei bus di Hue Hue (qui la chiamano cosi’) vado un po’ in giro ad informarmi se c’e’ qualche mezzo che prosegua per Todos Santos, ma niente, non si riesce proprio a trovare un micro bus, e’ ormai sera e l’ultimo e’ partito da una mezz’oretta circa. E il bello e’ che in molti mi dicono che non ci sara’ neanche all’indomani, in quanto e’ un giorno festivo, anche se le informazioni come al solito sono diverse da persona a persona. Intanto prendo una stanza in hotel proprio davanti al terminal dei bus, che di notte e’ un gran bel postaccio. Vado in centro dove pare ci sia una festa, ma piove troppo, mi bagno e quindi torno in hotel. C’e’ una famiglia di Todos Santos in albergo che sostiene che all’indomani mattina presto ci sara’ un bus che ci portera’ a destinazione, ma nessuno e’ sicuro di niente. All’indomani mi svegliero’ quindi alle 4 di mattina che e’ ancora buio profondo e qualcuno mi dice che e’ partito un microbus addirittura alle 3 e che non ce ne saranno piu’. Al terminal c’e’ una famiglia con bambino piccolo in braccio che aspetta da 2 ore e sostiene che un mezzo ci sara’. Altri sostengono il contrario, qualcuno dice che il chicken bus parcheggiato li davanti partira’ per Todos Santos, ma non c’e’ un cartello che indichi la destinazione ne’ l’orario, tutto e’ lasciato al caso, non ci sono indicazioni e la gente aspetta tranquillamente le ore con la speranza di partire, e’ incredibile. Un altro ragazzo guatemalteco che aspetta lo stesso bus ci rinuncia e torna in stanza dicendo che rimarra’ quindi ad aspettare un altro giorno. Per loro e’ normale vivere cosi’ e la vita qui e’ fatta di attese interminabili. Anch’io ormai sconfitto me ne vado a dormire che sono ancora le 5 di mattina. Ma proprio sul piu’ bello, mentre stavo per rimboccarmi il lenzuolo, ecco sentire i passi del receptionista che corre su per le scale: lo sento, sta venendo da me. E infatti e’ proprio cosi’, mi dice di sbrigarmi che c’e’ un microbus fuori pronto a partire non appena si riempe e che mi avrebbe lasciato ad un incrocio da dove sarebbe stato facile trovare un passaggio per Todos Santos, magari in autostop, in quanto tutta la gente di quella zona va verso la festa. Mmmmmhhhhhhh, si prospetta un’altra bella avventura. Ma in pochi minuti sono giu’, lascio lo zaino grande in hotel (lo avrei ripreso la sera stessa o il giorno seguente al mio ritorno) e via sul micro. Aspetteremo un po’ e appena si riempe si parte, il ragazzino controllare tanto per cambiare tenta di spillarmi qualche soldo in piu’ rispetto ai locali, ma non aveva capito che con me c’era poco da fare. La strada e’ sterrata, in condizioni pessime e si arrampica su per le montagne; dopo un’oretta abbondante arriviamo ad un incrocio dove mi dicono di scendere ed eccomi davanti un bus che aspetta di partire per Todos Santos. Una breve attesa, un altro viaggio di un’oretta ed eccomi arrivare. Ancora non ci credo, sono passate da poco le 8 di mattina dell’1 Novembre e sono a Todos Santos. Che sfacchinata!!! Ma ne e’ valsa veramente la pena. A parte la pioggia che viene e va, a Todos Santos trovo tutti i cittadini vestiti uguali, uomini con pantaloni a striscie bianche e rosse e camicia, donne con gonne larghe tendenti al blu. Anche in Guatemala come in Chiapas ogni comunita’ indigena oltre a parlare la propria lingua veste tutti i giorni con i propri colori, ma mentre fin’ora avevo trovato villaggi nei quali non tutti seguivano alla lettera la tradizione, a Todos Santos i cittadini sono vestiti uguali, proprio come una squadra di calcio. E non solo il giorno di festa, ma tutti i giorni dell’anno!!! Successivamente un signore locale mi spieghera’ che tutti portano il vestito uguale, anche se non sono obbligati, e’ una tradizione del posto ed ogni anno l’1 Novembre si butta il vestito vecchio e si indossa quello nuovo, naturalmente dello stesso colore. Lui pero’ ha ancora conservato quello nuovo, non ha voluto rovinarlo per via della pioggia e quindi lo inaugurera’ prossimamente. In pratica per 365 qui la gente indossa gli stessi indumenti, si cambiano una volta l’anno. Ma il clou della festa e’ la corsa dei cavalli: su una stradina sterrata ed in quest’occasione ovviamente infangata per via del’acqua, gli uomini del paese corrono a bordo di un cavallo avanti e dietro da un punto all’altro, con la particolarita’ che sono tutti ubriachi fin dalla mattina; quindi si vedono le scene piu’ impensabili, cavalieri che gridano, che cadono da cavallo e tutto il pubblico intorno ad incitare e divertirsi (tra i quali un folto gruppo di viaggiatori come me). Si svolge anche una partita di calcio con la squadra locale che sfida un altro villaggio e naturalmente il match e’ seguitissimo. Nella piazzetta centrale 2 specie di ruote panoramiche arrugginite piene di gente che fanno paura solo a vedersi e che io non provero’. Bande che suonano musica. In giro per il paesino numerosissime bancarelle che vendono un po’ di tutto. Man mano che la giornata avanza si vedono sempre piu’ uomini del posto stesi per terra ubriachi ed in serata sara’ davvero un delirio. Davanti al piccolo carcere locale parenti e amici parlano con i detenuti attraverso una ringhiera che da proprio sulla strada principale. Io devo decidere cosa fare: tornare a Hue Hue oppure fermarmi la notte qui? Intanto la pioggia incalza e mi riparo in un negozietto. Qui incontrero’ una ragazza che avevo incrociato in un bar a San Cristobal dove faceva la cameriera. Le spiego il problema che mi e’ successo con la moto in frontiera e lei mi tranqullizza dicendomi che con la macchina di un suo amico e’ successa la stessa cosa ed hanno risolto il problema molto facilmente con l’aiuto di un avvocato messicano in un paesino a 20 chilometri dal confine. Mi dice anche che loro non hanno pagato niente e quindi mi faccio dare il nome ed il contatto di questo signore. Che pare sia disponibile ad aiutare pratiche di questo tipo. Ora sono piu’ tranquillo e decido di fermarmi a Todos Santos per la notte. La ricerca del posto dove dormire si rivelera’ piu’ difficile del previsto: gli alberghi sono pieni ed i pochi che hanno un posto libero lo vendono a prezzi alti. Anche le famiglie che si vendono le stanze delle proprie case sono full. E allora quando c’e’ da risparmiare chi puo’ aiutarmi se non 3 ragazze ebree? Eh gia’, proprio loro: hanno una stanza con 4 posti letto, quindi uno e’ libero; divideremo la spesa di 3 persone in 4. All’indomani e’ il giorno dei Morti che in tutto il Centro America e’ una festa enorme: vado quindi al cimitero dove stanno per iniziare un po’ di celebrazioni, ma per me e’ arrivato il momento di andare via, la moto mi aspetta al confine. Il microbus del ritorno e’ zeppo di gente, non solo e’ pieno dentro, ma ci sono una decina di persone che siedono sul tetto e viaggiano all’aperto. Ad ogni salita sulle stradine sterrate di montagna dobbiamo scendere tutti e proseguire per un tratto a piedi, altrimenti il micro proprio non ce la fa. Passero’ nuovamente da Huehuetenango a prendere lo zaino che avevo lasciato in hotel e poi dritti verso il confine, saranno in tutto 5 ore di viaggio. Riprendo la moto, riattraverso il confine senza neanche timbrare il passaporto e vado a Comalapa alla ricerca dell’Avvocato Hugo Ramirez (in Messico gli avvocati hanno anche funzione di notaio); dopo aver chiesto un po’ in giro arrivo al suo ufficio che naturalmente e’ chiuso per la festa del Dia de Los Muertos; fortunatamente pero’ Ramirez ha un negozio di alimentari proprio accanto e lo trovo li dentro. Mi apre quindi il suo ufficio, gli spiego il problema, ma in paese e’ saltata la luce e quindi non puo’ accedere al computer per completare il mio documento (ma guarda un po’…). Dopo un po’ di attesa decide di tirare fuori la vecchia macchina da scrivere ed in pochi minuti il tutto e’ pronto: in poche parole scrivera’ sul retro del mio foglio di compravendita della moto che lui era presente al momento del pagamento, quindi firma e tanto di timbro. Si frega 20 dollari americani (forse non sono abbastanza carino come l’altra ragazza a cui lo ha fatto gratis) e via, riparto verso il confine. Mi reco all’ufficio, il tizio controlla un po’ e alla fine mi autorizza, pago il bollettino in banca e mi firma il permesso per entrare: SIIIIIIIIIIII, ce l’ho fatta, la mia moto e’ in Guatemala con me. Guidero’ per una cinquantina di chilometri e poi ecco che arriva l’acquazzone: mi riparo un’oretta, ma questa pioggia non ne vuole proprio sapere di smettere ed intanto sta diventando buio, che da queste parti significa pericolo, specialmente se sei straniero e viaggi in moto. Intorno a me non ci sono posti per dormire, quindi forza e coraggio, sotto la pioggia incessante per 30 chilometri ancora fino a Huehuetenango, che ormai conosco come le mie tasche e dove trovero’ un albergo per la notte. Arrivero’ talmente insuppato che saro’ costretto a stendere nella stanza il passaporto (ormai ridotto ad uno straccio) e i soldi (sembrava un film di Toto’). Il giorno seguente sono di nuovo in strada accompagnato a tratti dalla pioggia, direzione Lago Atitlan. Come in Messico, anche in Guatemala le strade sono testimonianze di vita quotidiana, case, baracche, persone, venditori ambulanti ed animali di tutti i tipi: non bisogna meravigliarsi se mentre vai a 100, tutto ad un tratto ti attraversa una mucca, un cavallo o qualche incrocio strano di animali. Insomma bisogna fare bene attenzione. Inoltre mi accorgo subito che a differenza del Messico non ci sono piu’ i tanti odiati TOPES!!! E infatti… In Guatemala ci sono i TUMULOS, che sempre dossi sono e che io odio da morire perche’ sono messi nei posti piu’ imprevedibili per farti rallentare. Pero’ devo dire che man mano ci si avvicina alla capitale la strada diventa buona e a doppia corsia per senso di marcia, io prendo sempre piu’ confidenza con la mia vecchia Kawasaki ed inizio a divertirmi sulle curve: piego a destra, a sinistra e via dicendo. La benzina in Guatemala costa di piu’ e si misura in galloni anziche’ in litri. Pausa pranzo a San Francisco El Alto, un piccolo villaggio molto guatemalteco e si riparte. Non mi accorgero’ dell’uscita per San Pedro La Laguna (qui i cartelli stradali sono quasi inesistenti e laddove esistono sono peggio che nel Salento), quindi vado piu’ avanti verso Panachel, faccio un giro nella cittadina e percorro tutta la strada panoramica del Lago Atitlan con vari stop per foto stupende, passando nei vari villaggi in riva fino ad arrivare a San Pedro. 5 chilometri di questa strada saranno in condizioni pessime, da moto cross direi, ma non ho scelta, devo continuare, non posso mica rifarmi tutto il lungolago e la Panamericana per tornare indietro, sarebbero piu’ di 2 ore. Nei giorni successivi, parlando con qualcuno del posto, mi diranno che quel tratto e’ spesso soggetto ad assalti da parti di banditi locali e mi fanno notare quanto io sia stato fortunato a passarmela liscia. Purtroppo a volte anche se non vuoi finirci in quelle situazioni, ti ci ritrovi per caso e non puoi farci proprio niente, le indicazioni non sono mai precise ed e’ quindi facile ritrovarsi nei pericoli. Il livello di attenzione non e’ mai abbastanza e da queste parti e’ sempre meglio non abbassare la guardia. Mi fermero’ a San Pedro per 3 notti: pare che il lago sia un posto splendido per nuotare, ma da circa 3 settimane ci sono dei batteri che lo hanno inquinato e quindi niente bagno, i locali stanno tentando di pulirlo manualmente (ma dico, come si fa a pulire un lago cosi’ grande manualmente?). Qui le giornate passano tranquille ai piedi del vulcano San Pedro, ci sono dei bei panorami ed io ne approfitto per riparare da solo il faro della moto e la targa che sui famosi 5 chilometri l’avevo quasi persa per via delle vibrazioni (ormai sono un meccanico esperto). A San Pedro incrociero’ di nuovo le israeliane e faro’ un po’ di conoscenze: Gustavo e Fabio, il primo argentino, il secondo bolognese suonano in un gruppo a Isla Mujeres in Messico e sono qui per fare qualche serata, visto che di la’ e’ bassa stagione e non c’e’ lavoro. Miguel, vicentino e manager di un ristorante-bar mi prepara un bel piatto di pasta (io accetto solo a condizione che sia lui a prepararmelo). Un altro bolognese, Massimo, perennemente scoppiato, in attesa di aprire un bar in riva al lago. Un altro veneto che si e’ fermato qui da una decina d’anni e vende pollo allo spiedo e’ scappato dallo stress e le tasse dell’Italia. Mi raccontano anche di un napoletano arrestato da poco per droga (qui si dice lo abbiano usato come scusa per far vedere che ogni tanto arrestano qualcuno ed abbiano scelto lui come cavia in quanto era arrogante, non salutava e non portava rispetto alla gente del paese). In un bar mi fermo a parlare con una Canadese che ha un neonato in mano e mi racconta la sua storia: una scappatella nel lago con uno del posto ed e’ nato il bebe’, lei molto tranquilla a raccontare della sua vita e a come guadagnava i soldi facendo tatuaggi. San Pedro La Laguna e’ una piccola comunita’ con Guatemaltechi che occupano la parte centrale del villaggio e stranieri in riva al lago che restano folgorati dal posto e si fermano qui a vivere. E’ un posto moooolto hippy, quindi gira un bel po’ di droga e si passano le giornate a non fare niente e dondolare sull’amaca. Io mi concedero’ anche un bagno caldo all’aperto in una delle tanti vaschette che qui chiamane termali, ma proprio termali non sono. La pioggia non smette e saro’ costretto a rinunciare a visitare Chichicastanengo che pare sia il mercato piu’ grande del Centro America dove il giovedi’ e la domenica gli indigeni di diverse comunita’ circostanti si incontrano a vendere i propri prodotti artigianali e tessili. Ma a dir la verita’ la mia era solo una curiosita’, a me i mercati sembrano tutti uguali e dei vari souvenir non me ne frega proprio niente. Proseguo il mio viaggio e sono ancora nei pressi del lago quando rimarro’ di nuovo senza benzina. Per fortuna qui la gente compra la super e se la rivende dentro casa, quindi il problema si risolve in un’oretta di ricerche. Ancora la pioggia mi costringera’ a fermarmi in un ristorante a buffet sulla strada e finalmente in serata arrivo ad Antigua, l’antica capitale del Guatemala. Qui rincontrero’ Xander, che avevo conosciuto l’anno scorso in barca sul Mekong ed e’ qui a studiare lo spagnolo. Passeremo un paio di serate insieme ai suoi amici. Sara’ la prima volta di questo viaggio che dormiro’ in un ostello: non si risparmia moltissimo rispetto ad una pensione economica e addirittura se si viaggia in 2 a volte costa anche di piu’, pero’ devo dire che alcuni ostelli sono un modo come un altro di conoscere altri viaggiatori e a volte si incontrano persone interessanti con delle esperienze incredibili, quindi non e’ male se si viaggia da soli e poi alcuni hanno anche delle discrete stanze doppie e singole. Antigua e’ molto carina, architettura coloniale, tanti stranieri che studiano lo spagnolo ed e’ circondata dai vulcani (ma tutto il Centro America direi che e’ circondato dai vulcani). Prendero’ un tour per scalare il piu’ accessibile e famoso dei vulcani ancora attivo, il Pacaya. Saranno 2 ore di arrampicata e si arriva nella zona dove scorre la lava: SPETTACOLARE!!! Si sente il calore sotto i piedi e tutto intorno il fiume rosso di lava. Si cammina su pietre instabilissime e la lava e’ proprio li’, a un metro di distanza. Pericolosissimo direi, non sembra difficile caderci dentro, in Europa sicuramente non sarebbe possibile camminarci cosi’ tanto vicino su dei sassi che si muovono. Fino all’ultimo saro’ indeciso se proseguire per Guatemala City oppure fermarmi un’altra notte ad Antigua. Sono in molti a suggerirmi che la capitale non e’ molto interessante ed oltretutto e’ anche pericolosa, quindi alla fine mi convinco a restare. Cazzeggio in piazza dove c’e’ una processione religiosa e l’immancabile pioggerellina che non mi abbandona (pare che il periodo delle pioggie abbia tardato ad arrivare quest’anno e percio’ ha aspettato il mio arrivo), mangio qualcosa alle bancarelle ed un gelato in un baretto prima di tornare in ostello.
Parte 4, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costarica, Panama
E’ arrivato il momento di proseguire verso il prossimo confine: si parte la mattina in direzione pacifico e da li’ verso la frontiera con El Salvador. Finalmente una bella giornata di sole, un paio d’ore per sbrigare le pratiche doganali e stavolta nessun problema per oltrepassare il confine. Ma come al solito non puo’ andare tutto liscio: dopo pochi chilometri la catena della mia moto decide di uscire fuori sede. Mi era gia’ successo in passato ed avevo risolto semplicemente reinserendola e stringendo le viti dietro. Ma stavolta il problema e’ molto piu’ grave: quando e’ successo andavo abbastanza veloce e quindi la forza dell’impatto ha rotto un pezzo vicino al motore, tutto l’olio e’ per terra in strada, sono in mezzo alle campagne e non posso ripartire altrimenti fondo la moto. Inizio a pensare che stavolta sara’ l’ultima e che la moto non si riparera’ piu’. Dopo varie richieste di aiuto alla fine mi caricano con tutta la moto su un pick-up (sara’ la seconda volta dopo l’esperienza senza benzina a Guanajuato, in Messico) e mi portano in un’officina. Una specie di meccanico dalla faccia poco raccomandabile prova a risolvere il problema incollando il pezzo caduto, ma l’olio continua a fuoriuscire; quindi cambio meccanico e l’unica soluzione pare essere quella di smontare il motore, saldare il pezzo e ricostruire praticamente la moto pezzo per pezzo. Che stress!!! Alla fine diventera’ una fermata di 2 notti nell’unico albergo di un paesino di confine chiamato La Hachadura, dove non c’e’ niente; la sera trovo solo bancarelle che vendono patate fritte, le strade buie e la gente del posto che ormai mi riconosce in quanto unico straniero. Dopo un giorno intero e mezza mattinata di lavoro la moto e’ pronta per ripartire, o almeno quasi pronta: infatti rimarra’ una piccola fuga di olio della quale non si riesce proprio a trovarne la soluzione e decido che proseguiro’ il mio viaggio in queste condizioni, abbiamo fatto 30, facciamo 31; se gia’ prima dovevo aggiungere un litro di olio ogni 3000-4000 chilometri, ora dovro’ farlo ogni 2000, ci manca poco che mi servira’ piu’ olio che benzina. Il meccanico salvadoregno mi e’ sembrato sicuramente bravo, pero’ ci ha fatto la cresta alla grande con “lo straniero” e mi ha spellato quasi 100 dollari, portando questo pit stop 6 volte piu’ costoso della fermata piu’ cara mai fatta fino a quel momento; lascio a voi immaginare la tonalita’ delle mie bestemmie in dialetto pugliese. El Salvador e’ una nazione piu’ piccola della Sicilia, ma molto popolato e piu’ caro rispetto agli altri Stati della stessa area. Qui si usano i dollari americani come moneta locale. Se piu’ volte mi avevano avvertito che viaggiare in Centro America poteva rivelarsi pericoloso, El Salvador dovrebbe in teoria essere la punta dell’iceberg e chiunque da queste parti parla dei Maras, che sono una banda ferocissima, i quali membri non si fanno tanti scrupoli ad ammazzare la gente per i motivi piu’ futili. Sicuramente si nota che il Paese e’ molto popolato e che piu’ di qualcuno si atteggia tipo gangster americano, ma fortunatamente io non ho percepito tutta questa paura e poi con le solite precauzioni e buon senso credo si possa andare quasi dappertutto. Mi fermero’ 2 giorni in una specie di resort dei poveri in riva all’Oceano a El Tunco, sabbia nera vulcanica, tramonti spettacolari, famosa per i surfisti. Purtroppo in spiaggia sono presenti tronchi d’albero spezzati e natura morta un po’ dappertutto per via dell’uragano che e’ passato da queste parti proprio qualche giorno prima del mio arrivo, uccidendo un centinaio di salvadoregni. E’ crollato anche un ponte e la strada costiera da quel punto in poi e’ inpraticabile, quindi per proseguire verso est devo passare a nord attraverso la capitale. San Salvador si rivelera’ molto caotica e come tutte le capitali del Centro America pare non abbia particolari luoghi di interesse. Mi fermero’ la notte a San Miguel, dove ogni sera di Novembre e’ carnevale fino all’ultimo sabato del mese, passero’ la serata nella piazza centrale a vedere il concerto e la sfilata delle miss e poi a nanna. Si riparte quindi verso l’Honduras e in una sola giornata attraversero’ 2 confini fino ad arrivare in Nicaragua. Le frontiere in Centro America sono tutte uguali, file di gente, camionisti dappertutto, persone che ti assalgono e provano a spellarti soldi in tutti i modi; ci sono sempre negozi o chioschetti che fanno fotocopie (le carte da presentare sono sempre troppe) e i mestieri piu’ comuni sono il cambia soldi abusivo e il “tramite”, sarebbe a dire qualcuno che ti aiuta nella giungla dei documenti burocratici in cambio di qualche dollaro. Ne avevo usato uno per passare dal Guatemala a El Salvador, ma solo perche’ si era incollato come una zecca; da quel momento in poi, con l’esperienza della burocrazia lenta e contorta maturata in Italia, ho imparato a cavarmela da solo e non ho piu’ pagato a nessuno. Il confine honduregno si rivelera’ il piu’ caro e odiato da tutti i camionisti: ci vorranno quasi 40 dollari per attraversarlo con la moto e il bello e’ che, a differenza del Guatemala, non potro’ utilizzare lo stesso permesso quando rientrero’ durante il mio ritorno verso nord, ma dovro’ pagare di nuovo; e io pagooooooo. Inoltre il tipo della dogana fa un po’ di storie sul fatto che il telaio non corrispondeva esattamente al numero scritto del mio libretto, ma avevo un documento integrativo che attestava il cambio della numerazione. E poi sono lenti, lenti, sempre troppo lenti sti latini, ogni movimento, ogni operazione viene svolta con una comodita’ estrema. Appena passata la frontiera gia’ al primo posto di blocco trovero’ il poliziotto furbo cerca soldi, si attacchera’ ad un coltello che avevo nello zaino, ma dopo un paio di tentativi gli ho fatto capire con le buone maniere che da me non avrebbe incassato un centesimo e che si potevano tenere quella che lui definiva arma. Ci vorranno circa 3 ore per arrivare al confine con il Nicaragua (faro’ solo una breve sosta in un supermercato a San Lorenzo). L’Honduras recentemente ha sofferto di un colpo di stato ed il periodo non e’ dei migliori per visitare il Paese, pare ci siano state un po’ di rivolte nella capitale e la tensione e’ alta, ma io devo attraversarlo per forza per andare verso sud e quindi con le solite precauzioni e un po’ di attenzione, eccomi arrivare al confine successivo. Entrando in Nicaragua dovro’ fare l’assicurazione alla moto (finora non era mai stata obbligatoria): si fa direttamente in frontiera alla modica cifra di 12 dollari e vale per un mese (non male direi). Arrivero’ a Leon che e’ quasi buio, ma la citta’ e la gente mi piacciono fin da subito. Sembrano tutti piu’ acculturati da queste parti, nonostante siano molto poveri. Questo Paese mi ricorda un po’ Cuba, forse per il fatto che negli anni ha saputo tenere testa agli Stati Uniti, dopo la famosa rivoluzione di fine anni ‘70. Il giorno seguente andro’ allo stadio a vedere la partita di baseball, che qui e’ lo sport nazionale e il Leon e’ primo in classifica. Bella esperienza, prendero’ il posto nella tribuna piu’ cara vicino ai telecronisti (2 dollari il biglietto!!!), ma scopro subito che i posti alla fine sono tutti uguali, l’unica differenza e’ che i settori piu’ economici sono piu’ affollatti. Assistero’ alla sconfitta della squadra locale, anche se io della partita non ci ho capito molto (il baseball mi sembra cosi’ noioso). In ostello conoscero’ anche 2 motociclisti, un israeliano 23enne partito dalla California con l’idea di arrivare in un anno alla Tierra del Fuego (ma era gia’ in viaggio da 8 mesi e non aveva fatto tantissima strada, quindi pensava che alla fine non sarebbe andato oltre Panama) e un canadese perennemente sotto effetto di qualche fungo speciale partito addirittura da Montreal, anche lui diretto a Ushuaia, ma gli era rimasto solo un mese di tempo, doveva tornare presto in Quebec in quanto pare che la sua ragazza fosse incinta; lui era convinto di farcela in tempo per arrivare fino laggiu’ per Natale, ma sia io che l’Israeliano non ci avremmo scommesso 1 Euro e in molti lo prendevano in giro di questa sua convinzione; il canadese sosteneva che Leon fosse la sua ultima tappa e che da li’ in poi avrebbe fatto tutto un tiro fino in Argentina. E’ inutile dire che i 2 motociclisti avevano moto molto piu’ serie della mia e che, al racconto della mia avventura con la Kawasaki, si sono spaccati dal ridere; inoltre mi hanno fatto notare piu’ volte come le mie gomme siano assolutamente da cambiare in quanto consumatissime e quindi pericolosissime e a rischio esplosione, specie su queste strade. Leon si rivelera’ comunque una bella cittadina coloniale, con una Cattedrale enorme e piacevole per passeggiare. La tappa successiva sara’ San Juan del Sur, ma non prima di aver guidato tra le strade della capitale: nonostante le voci di pericolo che definivano Managua non proprio bella da visitare, devo dire che a differenza delle altre capitali centroamericane qui mi e’ sembrato di respirare di piu’ e la citta’ e’ abbastanza estesa da non essere poi cosi’ soffocante. Inoltre la strada che porta a Managua e’ molto bella, costeggia il lago e offre delle belle viste sui vulcani. Faro’ un giro in centro e sul lungolago, andro’ in cima alla collina per ammirare un bel panorama dalla statua del Sandino, poi dopo pranzo via verso il mare. Strada facendo inizio la ricerca dei pneumatici nuovi per la Kawasaki man mano che passo attraverso le citta’, ma in Nicaragua avro’ poco successo. San Juan del Sur e’ un piacevole paesino in riva al mare, con una bella spiaggia: anche qui tramonti mozzafiato sull’ Oceano Pacifico e meta famosa tra i surfisti che cercano l’onda perfetta a Playa Maderas, a qualche chilometro di distanza. Una piccola sosta dal meccanico prevedera’ il cambio del cavo dell’acceleratore, rotto per fortuna proprio al mio arrivo a destinazione; se ne occupera’ un tizio che ripara biciclette. Trascorrero’ mezza giornata in spiaggia a Maderas e per raggiungerla il tratto finale della strada sterrata e’ un vero incubo di pietre, salite e discese ripide; invece di surfare mi consolero’ con una partita a calcio sul bagnasciuga con i Nicaraguensi. E siamo in Costarica!!! Anche qui assicurazione obbligatoria in frontiera, saranno 15 dollari che valgono addirittura per 3 mesi (che figata, ma non posso assicurare anche il mio scooter in Costarica?). Si viaggia in direzione Liberia e ci vorra’ poco a capire che il Costarica e’ la nazione piu’ ricca del Centro America: le case sembrano piu’ curate, le persone vestono meglio e tutto costa di piu’. A Liberia si vedono tanti Americani con cappello da cowboy e macchine 4×4. Ma io mi fermero’ qui solo per il pranzo e per cercare i pneumatici che non trovero’, poi via verso Fortuna e il vulcano Arenal. Il vulcano Arenal e’ alto 1633 metri, e’ attivo e caratterizzato da nuvole di gas grigio che discendono dai lati a velocita’ allarmanti e la lava e’ ben visibile, specie di sera. Il vulcano e’ attivo dal 1968 ed e’ impressionante come illumini il cielo, ancor piu’ quando c’e’ la luna piena……………. Beh, almeno cosi’ mi hanno raccontato perche’ io del vulcano non vedro’ neanche l’ombra: appena devio verso l’interno del Paese i nuvoloni lasciati in Guatemala ricominciano a perseguitarmi e gia’ nell’approcciare il lago artificiale Arenal la pioggia iniziera’ a tormentarmi nuovamente. Una quindicina di chilometri prima di Fortuna saro’ costretto a ripararmi bello ed inzuppato all’entrata di un resort lussuoso e spendero’ piu’ di un’ora in compagnia del portiere ad ascoltare in radio lo spareggio per le qualificazioni ai mondiali tra Costarica e Uruguay, vinto da quest’ultimo. Proseguiro’ che ormai e’ sera verso Fortuna, guidero’ completamente al buio solo seguendo come punto di riferimento le linee sull’asfalto che dividono le 2 corsie (laddove ci sono). Come gia’ sperimentato precedentemente in Centro America, viaggiare di sera con la pioggia significa non vedere assolutamente niente, a volte sembra di guidare ad occhi chiusi; prendero’ dei buchi enormi in strada senza neanche accorgermene, ma alla fine arrivero’ a destinazione. Ogni volta che concludo una tappa del mio viaggio e’ una piccola vittoria, sempre molto sofferta, succede di rado che concludo un tragitto senza intoppi o problemi. A Fortuna restero’ 3 notti, con la speranza che il cielo schiarisca, ma niente da fare: solo pioggia e nuvole. C’e’ gente che attende da piu’ di una settimana di vedere il vulcano ed ormai e’ pronta a gettare la spugna; addirittura in molti ci chiediamo se non fosse tutta una bufala, magari il vulcano neanche esiste e questi ci hanno costruito un business enorme intorno, tipo napoletani. Rimediero’ con un intero pomeriggio immerso in un complesso termale di piscine calde a diverse temperature, ne approfitto per comprare via internet il biglietto aereo per Cuba dove finalmente trascorrero’ le meritate vacanze a Gennaio e l’ultimo giorno andro’ a fare il bagno nel fiume Fortuna con tanto di corda appesa ad un albero per fare tuffi tipo Tarzan, e di sfondo una piccola cascata. Fortuna e’ piena di agenzie che offrono tour di ogni tipo e ha tutta l’aria di una cittadina costruita ad hoc per i turisti, addirittura c’e’ una cascata alta 70 metri che e’ privata e bisogna pagare l’ingresso per andarla a vedere; ma qui sono in pochi ad andarci perche’ da queste parti le cascate sono in tutti gli angoli. Stranamente proprio a Fortuna dormiro’ nell’ostello piu’ economico di tutto il viaggio: si chiama Gringo’s Pete, e’ gestito da un gringo abbastanza antipatico, ma il posto e’ ben pulito, acqua calda, una bella area comune, il tutto per 4 dollari a notte. A Fortuna incontrero’ il meccanico numero 17: per la prima volta non sara’ una sosta forzata da qualche problema, ma bensi’ la decisione di cambiare finalmente i tanto desiderati pneumatici. Il punto e’ che le mie gomme non erano solo consumate, ma quasi camminavo con i cerchi e il pericolo che mi scoppiassero le ruote in strada era ormai imminente. Riparto in direzione sud, voglio raggiungere a tutti i costi il parco del Corcovado, che pare sia l’ultima frontiera rimasta davvero selvaggia in questo Paese. Il tragitto e’ bellissimo, si passa tra le montagne, cascate e fiumi, tutto verde; attraversero’ la capitale e la panamericana prosegue su per le montagne fino a superare i 3000 metri di altezza. Ovviamente ricomincia a piovere, oltre al freddo: prima saro’ costretto a fermarmi a mangiare in un ristorante elegante che pare abbia un ottimo panorama (ma io vedro’ solo nebbia e nuvole), poi in un altro posto di ristoro. A quanto pare, come gia’ constatato in Guatemala, anche in Costarica le piogge dovrebbero essere finite, ma quest’anno il cattivo tempo ha tardato ad arrivare. Alla fine saro’ obbligato a cambiare per l’ennesima volta il mio tragitto, deviare verso il Pacifico e fermarmi per la notte a Quepos: anche qui tanto turismo, americani e si vedono le prostitute davanti a qualche locale notturno. Ne approfittero’ quindi per visitare all’indomani il vicino parco Manuel Antonio: non avevo molte aspettative da questo posto e infatti Manuel Antonio mi si e’ rivelato piu’ come uno zoo che un parco. Sicuramente ci sono tanti animali e la natura e’ bella, pero’ e’ pieno di gringo che danno da mangiare alle scimmie per avvicinarle ed avere la foto ricordo, ci sono i sentieri con le mattonelle eccetera eccetera; devo comunque ammettere che le spiagge da queste parti sono spettacolari. Passero’ la notte in un posticino nei pressi del parco e qui conoscero’ un saggio viaggiatore newyorkese sulla sessantina che ha tanta voglia di parlare: a me e gli altri ragazzi riempira’ la testa di parole e racconti dei suoi viaggi, ci mostrera’ delle belle vecchie foto in bianco e nero dell’ Africa e della Thailandia e si vantava di quanto sia stato piu’ bello e avventuriero viaggiare negli anni ’70 (immagino proprio di si); pareva proprio essere un grande viaggiatore il tipo cresciuto nel Bronx, ma aveva un ego esagerato che riusciro’ a calmare solo nel momento in cui lui mi dira’ che e’ stato in 60 Paesi del mondo ed io gli rispondero’ che ne ho visti 65. Faro’ la strada costiera per arrivare finalmente a Puerto Jimenez, ideale per la visita del tanto atteso Corcovado. Da queste parti le strade sono orrende ed attraversero’ diversi ponti assolutamente piccoli ed instabili. Da subito mi dirigo all’ufficio del parco per prenotarne l’ingresso per il giorno successivo, ma gia’ alle 4 del pomeriggio trovero’ tutto chiuso. Solita pioggia che rompe le scatole e all’indomani sveglia presto per prendere una specie di camionetta che alle 6 della mattina in un paio d’ore porta la gente all’entrata del parco. Qui i ponti decadenti neanche ci sono piu’ e si guida proprio dentro i fiumi per attraversare da un lato all’altro. All’arrivo camminata di un’ora circa su uno spiaggione fino ad arrivare all’entrata del Corcovado dove il ranger mi fa sapere che non ho possibilita’ di dormire all’interno la notte se non ho prenotato prima con l’ufficio a Puerto Jimenez. Il percorso classico sarebbe di camminare per 20 km nella foresta (circa 5-6 ore) e fermarsi alla stazione chiamata Sirena da dove partono i sentieri piu’ interessanti e pieni di animali e poi fare ritorno per gli stessi 20 km (sempre a piedi naturalmente, non c’e’ altra maniera). Provo a spiegare che il giorno prima avevo trovato l’ufficio chiuso, ma il ranger proprio non puo’ autorizzarmi, quindi mi accontentero’ di una camminata di 3 ore circa nel sentiero vicino e ritorno a Puerto Jimenez lo stesso giorno. Peccato, anche questa visita e’ sfumata e il clima non e’ dalla mia parte e purtroppo, tanto per cambiare, voglio fare troppe cose in poco tempo, quindi alla fine non mi godo niente. Anche quest’anno sto correndo troppo e mi stresso abbastanza. Riparto sulla strada piena di buche in direzione Panama, la panamericana nel sud del Costarica e’ davvero orribile e appena passato il confine anche qui il cattivo tempo non mi lascia in pace: pare che da quando Paolo Villaggio abbia smesso di fare i film, la nuvoletta di Fantozzi ha scelto me come sua vittima. Pranzero’ in un centro commerciale a David, nella speranza del ciel sereno, ma niente da fare, mi tocca fermarmi a dormire da queste parti e scelgo Boquete come localita’, una destinazione a 40 km famosa per il vulcano, la natura, l’aria fresca, il rafting etc.; una bella cittadina direi.
Parte 5, Citta’ di Panama e Ritorno Verso Nord-Ovest
Sveglia presto (ma questa non e’ piu’ una novita’), piccola riparazione ad una borsa della moto e via, destinazione Panama City. Saranno 450 km, qui la strada e’ abbastanza comoda e scorrevole, per lunghi tratti diventa addirittura a doppia corsia per senso di marcia e quindi riesco ad andare abbastanza veloce verso l’obiettivo finale del mio viaggio. Sono molto carico, ci sono quasi, ma a soli 80 km dal traguardo, ecco che salta il freno posteriore; mi avvio pian piano verso il meccanico piu’ vicino e rompo completamente una borsa della moto ed il beauty case che striscia per chilometri sul pneumatico: lo shampoo ed altri prodotti ne usciranno devastati e consumati. Risolto il problema, solo una manciata di chilometri in piu’ e si rompe pure la catena: non ci posso credere, questa e’ proprio sfiga, fino alla fine! Sono nervosissimo, se prima avevo intenzione di vendere la moto una volta raggiunta la Citta’ di Panama, adesso mi convinco che faro’ il possibile per togliermela davanti. Mi raccogliera’ in strada una famiglia che vive in una specie di baracca sulla carrettera, lascio a loro la moto (con un po’ di paura di non ritrovarla piu’) e con un bus faro’ una quarantina di chilometri per cercare un pezzo di catena, ma trovo l’unico negozio di moto del paese chiuso; alla fine un chico mi aiutera’ smontando un pezzo da una catena di un’altra moto, c’e’ sempre una soluzione a tutto; pago e di nuovo altri 40 km per tornare indietro. Il tizio che mi aveva raccolto in strada e’ stato molto gentile, per fortuna ci capisce un po’ di moto e mi aiutera’ a riparare il tutto; mi offriranno anche la cena con la famiglia, mi fa capire che qualche dollaro di riconoscenza e’ ben accetto per sdebitarmi, io ricambio e quindi riparto che e’ ormai sera inoltrata. Mi assicurano che non e’ pericoloso guidare di notte da queste parti, quindi piano piano mi avvio a percorrere gli ultimi 80 chilometri che completeranno la mia sfida; comincio a sentirmi emozionato e alle 22:24 del 26 Novembre eccomi con la mia vecchia Kawasaki sul Puente de las Americas, che oltrepassa il Canale per raggiungere la citta’. Luci e grattacieli di fronte a me, oggi anche il tempo ha deciso di festeggiare evitandomi la tanta odiata pioggia. Entrato nella capitale subito mi ferma la polizia turistica per un mio controsenso, ma alla fine saranno proprio loro che finiranno con lo scortarmi alla ricerca di un hotel per dormire (e si, questa volta mi concedero’ un hotel serio, mica le solite bettole), e’ proprio una grande festa! Ci ho messo 54 giorni e mezzo da quando sono partito da Citta’ del Messico, mi sono fermato dal meccanico 18 volte e mezzo (l’ultimo lo consideriamo mezzo in quanto non era proprio un meccanico) ed ho percorso círca 7000-8000 chilometri (circa perche’ come gia’ detto in precedenza il contachilometri non ha mai funzionato). Panama City e´il traguardo del mio viaggio, rappresenta la vittoria della mia sfida, ora puo’ succedere qualsiasi cosa, sono pienamente soddisfatto e sento di avercela fatta. Non ci avrei scommesso molto all’inizio, viste le condizioni del mio mezzo. Citta´ di Panama rappresenta un po’ il giro di boa: se possiamo dividere il mio viaggio in 4 parti, direi che la prima parte si chiama Messico, la seconda Centro America, la terza Ritorno verso Nord-Ovest e la quarta Cuba. Dormiro’ nella zona nuova della citta’ ed il mio hotel si rivelera’ piu’ un Motel che altro, con prostitute che entrano ed escono e camere a tariffe orarie. La mattina seguente dedico alla moto il primo lavaggio, se l’e’ proprio meritata e poi sta talmente zozza che non le offrirebbero un centesimo. Faro’ un giro nel Casco Viejo della citta’, molto carino, e subito realizzo e stampo in tipografia un piccolo cartello con scritto “Se Vende” da attaccare sul retro della moto. Poi via alla ricerca di un acquirente. Come al solito le informazioni sono sempre diverse e confuse e mi sbatteranno da un lato all’altro della citta’, ma a quanto pare non sara’ cosa facile: una moto non si vende da un giorno all’altro e poi avendo una targa messicana, l’eventuale compratore dovrebbe pagare onerosissime imposte per l’importazione che abbasserebbero quindi il prezzo del veicolo. E allora mi faccio forza, in serata assisto alla parata per l’anniversario dell’Indipendenza, ceno in un ostello con una coppia di Italiani che ogni anno se ne stanno all’estero per 6 mesi e l’indomani si riparte di nuovo in sella sulla strada del ritorno, ho a disposizione poco piu’ di 20 giorni per arrivare fino a Flores, in Guatemala, dove ritornera’ Alba per la seconda parte del suo viaggio. Purtroppo i vari problemi tecnici incontrati lungo il cammino mi hanno rubato un bel po’di giorni di viaggio e quindi dovro’ rinunciare alla visita delle isole San Blas, di cui in molti, troppi me ne hanno parlato benissimo. Addirittura inizialmente l’idea era di arrivare fino in Colombia, che pare sia un altro paese spettacolare da visitare, ma il tempo non e’ mai abbastanza e per percorrere poche centinaia di chilometri bisognerebbe organizzarsi in barca o in aereo, in quanto il Darien Gap (che e’ quel piccolo istmo di foresta che divide il Panama dalla Colombia) pare sia fin troppo pericoloso e zona di indigeni ma soprattutto trafficanti che ammazzano senza scrupoli: e’ una delle ultime sfide che ogni avventuriero vorrebbe affrontare, ma bisognerebbe avere un bel paio di palle per attraversarlo a piedi ed io non credo lo faro’ mai (non per ora almeno). Alle 7 e mezzo sono fuori dall’hotel, giro per la citta’, vado su una collina ad ammirare lo stretto di Panama (non andro’ nella zona delle chiuse, in quanto ci ero gia’ stato qualche anno fa quando lavoravo in crociera), sempre in moto vado in una bella e pulita zona chiamata Causeway, nei pressi di Balboa (piena di yatch, ristoranti e locali) e via di nuovo sulla Panamericana. Sara’ il tragitto piu’ lungo in sella mai fatto in vita mia in una sola giornata: 650 km e 12 ore di guida, l’ultimo tratto attraversando le montagne, un lago artificiale, strade sterrate ed un po’ di pioggia che non guasta mai. In strada mi scontrero’ anche con il primo poliziotto furbo del mio viaggio: posto di blocco proprio in una piccola conca a trabocchetto e beccato per eccesso di velocita’. Lo sbirro sostiene che in quel tratto si va a 40, ma io andavo a 90, praticamente un tranello. Sono 50 dollari e 5 punti sulla patente (dice lui), ma io ci credo poco che mi toglieranno i punti da una patente italiana; e ci credo poco anche che non mi faranno passare la frontiera per uscire dal Paese senza pagare la multa, pero’ non me la sento di rischiare. Lui dice che mi puo’ “aiutare” se pago subito 30 dollari (che gentileeeeeeeeeee), io dico di no, lui abbassa a 20 dollari, alla fine gli daro’ 10 dollari e il poliziotto sara’ contento. Arrivero’ stanco morto ad Almirante che sono le 7:30 di sera, l’ultima ora guidero’ al buio completo. La ruota davanti e’ quasi forata, ma non ho piu’ voglia di pensarci, quindi trovo subito un parcheggio e mi imbarco sull’ultima lancia che mi portera’ a Bocas del Toro (il ferry per imbarcare la moto era gia’ partito da un pezzo). Restero’ 3 notti sull’isola, una bella atmosfera hippy, feste in riva al mare, escursioni in barca, bagni e un po’ di relax. A Bocas del Toro incontrero’ Sebastian, un motociclista argentino che vive in California, partito da Los Angeles con una gran bella moto enduro Suzuki 650, attrezzatissimo e diretto alla Tierra del Fuego per poi finire in Venezuela. Nel suo viaggio visitava gli orfanotrofi dell’America Latina, incontrando e scambiandosi i sorrisi con i bambini. Mi ha raccontato che quasi sempre dormiva a casa di persone che lo ospitavano e che aveva contattato tramite internet durante un anno di preparazione del viaggio (un anno? Proprio come me…); ha anche realizzato un sito internet fatto molto bene e che segue in diretta la sua avventura: www.batimoto.com. Che grande! E’ un po’ che anch’io volevo fare qualcosa del genere e Sebastian mi passera’ qualche contatto per organizzarmi una visita agli orfanotrofi e magari dormire con qualche famiglia locale nei posti dove lui e’ gia’ stato ed io devo ancora andare. Ritorno sulla terra ferma e partenza verso il Costarica, ma non prima di aver riparato la gomma forata. La frontiera tra i due Paesi dal lato caraibico e’ a dir poco incredibile, un ponte ad un solo senso di marcia mezzo scassato che per attraversare dovro’ attendere almeno un’ora per il passaggio dei vari tir in direzione opposta alla mia. Arrivo quindi a Puerto Viejo, in riva al mare, e qui alloggero’ nell’ostello piu’ bello e pulito di tutto il viaggio: si chiama Pagalu’, non e’ presente nelle guide in quanto e’ nuovo, pero’ diverse persone incontrate prima me lo avevano consigliato: letti grandi, bagni puliti, struttura nuova, internet gratis e docce calde che finalmente non utilizzano il tanto odiato sistema elettrico per scaldare l’acqua, tanto diffuso in America Latina e molto spesso collegato con delle saldature assurde e del quale io ho sempre un po’ di timore (non a caso visto che qualche anno prima in Brasile ho preso la corrente). In ostello conoscero’ Amalia, una simpatica signora israeliana di 55 anni, sempre sorridente e di buon spirito positivo, che se ne va in giro da sola per mesi con la sua Lonely Planet. La costa caraibica del Costarica, come anche quella degli altri stati confinanti, e’ abitata da gente di colore, molti discendenti da vecchi immigranti giamaicani venuti qui per lavorare nelle piantagioni di banane. La maggior parte parla inglese e fuma marjuana; sembra davvero di stare a Ocho Rios o Montego Bay piuttosto che in Centro America, c’e’ sempre un buon odore di arrosto (come lo chiamo io) e spesso si incontrano i rasta che prima ancora di salutarti chiedono se vuoi un po’ di ganja. Proseguo per la prossima tappa che si chiama Turrialba. Viaggio lungo la costa atlantica piena di piantagioni della multinazionale Chiquita (quella della banana 10 e lode) e mi fermo a pranzo a Limon, citta’ portuale in cui ero stato qualche anno prima, sempre quando lavoravo sulle navi. A Turrialba mi fermero’ 2 notti perche’ qui c’e’ il rafting piu’ famoso del Costarica, nel fiume Pacuare. Scelgo una delle tante agenzie che organizzano il tour e trascorrero’ una bella giornata sui 20 km circa del tratto, con belle rapide classe III e classe IV, panorami mozzafiato, ma una guida moooolto antipatica. Prima di lasciare la citta’ giretto alla ricerca di un acquirente per la Kawasaki, ma non si muove niente, quindi si riparte in direzione Penisola di Nicoya. Come gia’ successo all’andata riattraversero’ la capitale, faccio qualche giro nei negozi di moto per vedere se c’e’ interesse e capire quanto valutano il mio mezzo, ma di nuovo tutto tace e prima del tramonto arrivero’ a Tamarindo. Gia’ da un po’ di tempo avevo notato, specie nelle citta’ piu’ grandi, che gli allarmi delle macchine suonano in continuazione. Bene, ho scoperto il motivo: e’ la mia Kawasaki che le fa suonare, se fin dall’inizio le marmitte facevano un gran casino, ora ne fanno ancora di piu’, sto per diventare sordo ed al mio passaggio gli allarmi si scatenano; inoltre la moto vibra troppo e alla fine di ogni tappa il mio culo ne esce fuori non troppo bene. Tamarindo e’ una destinazione molto turistica, abbastanza organizzata e non e’ proprio il posto di mare da sogno che uno cerca quando va in Centro America. Ma io ho scelto di fermarmi qui perche’ c’era Xander che fa la scuola di surf e visto che ci siamo incontrati gia’ in Laos un anno prima e in Guatemala quest’anno perche’ non fare una terza rimpatriata? In un ostello trovero’ un dormitorio da 8 letti tutti liberi, quindi avro’ la stanza a mia completa disposizione; saranno 3 giorni di relax con gli amici di Xander, spiaggia, qualche baretto, dolce far niente e naturalmente meccanico: e beh, quello non puo’ mancare, anche se si trattera’ di una semplice ricarica di batteria. Passando di nuovo attraverso Liberia eccomi rientrare in Nicaragua, che e’ un Paese che mi piace tanto. Come avevo notato all’andata, questa frontiera ha sempre una lunghissima fila di tir, ma parlo di chilometri e chilometri. I camion sono praticamente fermi ed i camionisti dormono o semplicemente si rilassano su delle amache attaccate proprio sotto la carrozzeria dell’autotreno. Mi fermo un attimo a chiedere come mai questa storia e mi spiegano che e’ una cosa normalissima, a volte li tengono li anche piu’ di 24 ore per i vari controlli. Dormiro’ 2 notti alla Isla de Ometepe, la vendono come l’isola di acqua dolce piu’ grande al mondo, non so quanto sia vero, ma e’ comunque un bel posto, pacifico e rilassante, ci sono questi 2 vulcani che mettono un po’ di timore, poche strade percorribili e tante strade moooolto sterrate. Qui conoscero’ Miguel, un veronese che si e’ fermato da queste parti da poco tempo e che sta tentando di fare il ristoratore, mi offrira’ una bella carbonara e mi raccontera’ dei suoi viaggi fatti negli anni. Faro’ anche una camminata fin sopra la cascata e ripartiro’ con l’ormai solito rimpianto di non avere il tempo di restare in un posto qualche giorno in piu’. E proprio a partire da Ometepe iniziera’ una lunga serie di pit-stop che mi costringeranno a fermarmi da 10 meccanici diversi in soli 8 giorni, superato quindi anche il record di inizio viaggio. Proprio cosi’, 10 meccanici in 8 giorni. Si inizia con un problema di starter, ma il meccanico sull’isola ci capisce ben poco; vado quindi sulla terra ferma a Rivas, ma anche qui ne esco con un pugno di mosche. Ormai la moto si accende a spinta ed e’ curioso come ogni volta che mi fermo a comprare qualcosa o a fare benzina chiedo alla gente in strada di spingermi per mettere in moto; devo dire che tutti si mettono sempre a disposizione, anche se si fanno sempre delle gran risate a vedermi in quelle condizioni. Arrivo a Granada e vado subito a trovare gli amici di Sebastian a cui avevo mandato un’e-mail qualche giorno prima, ma sia la signora della fabbrica di sigari che avrebbe dovuto ospitarmi, sia un’amica che doveva organizzarmi una visita in un orfanotrofio locale, si riveleranno un buco nell’acqua. Comunque non ho modo di annoiarmi, me ne vado in giro per le vie coloniali, ma soprattutto spendo ore ed ore ad impazzire con i meccanici. Il “maestro” incontrato a Granada lo battezzero´ con il nome di Maradona per via dei suoi capelli, lui se ne approfittera´ abbastanza del fatto che io sia uno straniero. Il tutto e’ fin troppo snervante: i ritmi di lavoro sono lentissimi, ancora piu’ lenti di quanto mi fossi abituato in precedenza, ogni 5-10 minuti c’e’ una pausa e se passa qualcuno a salutare, iniziano conversazioni senza fine; nell’America Latina si parla, si parla e si parla, si dicono un sacco di chiacchere, si discute tanto di politica, dei problemi eccetera eccetera. E poi specie in Nicaragua son tutti pensatori e schierati, mi raccontano della rivoluzione sandinista, di quando poche decine di anni fa tutti avevano le armi in casa e si dava battaglia. Se incontri un comunista ti dice che la rivoluzione e’ giusta, che Ortega e’ un gran presidente e Chavez un esempio da seguire; se incontri uno di destra ti dice che si muore di fame, che la rivoluzione e’ una farsa e che e’ meglio seguire gli americani. Insomma e’ sempre la solita storia come in tutto il mondo: ma non si possono abolire del tutto questi politici? Comunque alla fine il “mago” di turno saldera´ il pezzo rotto del motorino di avviamento, fara´ una pulizia al carburatore e cambiera´ la batteria alla moto. C’e’ sempre una soluzione a tutto, a modo loro, ma c’e’ sempre un modo per risolvere i problemi con dei mezzi di fortuna. Pero’ mica finisce qui: ora iniziano i problemi con la marmitta, che a causa della vecchiaia e delle vibrazioni si spezzera’ in due. All’indomani la porto da un saldatore e dopo pochi chilometri se ne rompe un altro pezzo; ancora un altro saldatore ed in strada ancora un altro pezzo rotto; mi convinco che tanto vale farsi un centinaio di chilometri con la marmitta rotta, tanto la moto gia’ faceva un bel casino e ormai l’inquinamento acustico e’ talmente alto da non calcolarsi piu’. Anche stavolta per via delle perdite di tempo, saltero’ una tappa che avrei voluto conoscere; e cioe’ Masaya e la Laguana Apoyo, ma questo viaggio ormai sara’ ricordato come la vacanza delle destinazioni perse e piu’ che un diario di viaggio, questo mio racconto sta diventando un vero e proprio “diario di motocicletta”. Arrivero’ ad Esteli stanco e abbastanza mortificato (oltre che con la marmitta rotta), e’ sabato sera e c’e’ una festa patronale, ma io dopo aver trovato un alloggio economico mi fiondo subito alla ricerca di un taller de torno che possa saldare per la terza volta la mia marmitta arrugginita. Mi danno un po’ di indicazioni e finisco a casa di un saldatore che mi dice di lasciargli la moto e che l’indomani, anche se domenica, mi avrebbe sistemato il tutto, cosi’ che io possa ripartire per l’Honduras la mattina stessa. Mi rianimo, mi godo la festa nelle strade di Esteli ed il giorno seguente vado dal saldatore: la moto e’ praticamente pronta e prima di partire mi viene offerta anche la colazione in casa. Che bello il Nicaragua, sono tutti abbastanza disponibili e gentili, forse perche’ non sono ancora soffocati dal turismo come per esempio in Costarica. Il problema pero’ e’ che la colazione ha sempre come piatto principale il solito “gallo pinto”, che non e’ altro che riso e fagioli mischiati ed e’ un motivo di grande orgoglio e sfida tra il Nicaragua e il Costarica, in quanto ambedue i Paesi sostengono di averlo inventato e trasformato in piatto nazionale. Riparto, faccio una ventina di chilometri e la marmitta si rompe di nuovo (non e’ possibile!!! Un altro pezzo); disperato penso di continuare per l’Honduras in queste condizioni, ma poco dopo perdo per strada un pezzo del tubo. Lo raccolgo e non mi resta altro che tornare ad Esteli, ma dopo pochi chilometri la moto si ferma completamente: lo stress ha raggiunto ormai livelli assurdi. Per raggiungere la citta’ questa volta non mi caricheranno su un pick-up come gia’ successo in passato, bensi mi tireranno per chilometri con una corda legata alla moto, pericolosissimo direi, ma alla fine eccomi tornare dallo stesso saldatore per la quarta saldatura sulla stessa marmitta in 2 giorni. Ma la moto non parte piu’, c’e’ forse un problema elettrico, e’ domenica, non si trovano meccanici e tra pochi giorni devo essere nel nord del Guatemala a centinaia di chilometri di distanza. Sono esasperato direi e se prima ero pronto a svendere la moto, ora sono pronto a tirarle un calcio e buttarla. L’indomani ci provo prima con un meccanico ed anche qui mi offriranno da mangiare (almeno mi consolo!!!): pare sia un problema elettrico e bisogna cambiare un pezzo che si trova solo a Managua ed e’ pure abbastanza caro. Inizia quindi la ricerca di un pezzo da adattare, ma niente da fare. Allora trasferiamo la moto da un tizio che pare essere esperto, ma da queste parti tutti dicono di essere capaci e di risolverti le cose. Io intanto vado su internet a cercare di mandare messaggi a 2 o 3 persone che conosco in Nicaragua e che possano prendersi cura della moto: ormai ho deciso, gettero’ la spugna e l’abbandono qui per continuare in bus. Ma questa e’ diventata una telenovela a puntate: al mio ritorno dall'”esperto” di turno ecco la moto che funziona nuovamente, non so cos’abbia fatto, ma il problema elettrico pare essere risolto ed io mi chiedo, ma quanti chilometri faro’ prima che si rompa di nuovo? Ad ogni modo decido di riprovarci ancora una volta e proseguire in moto.
Parte 6, Visita Orfanotrofio, Tikal e Caraibi
Ho sempre pensato che c’e’ una bella differenza tra un viaggiatore e un turista, ma a questo giro devo dire che ho proprio esagerato e non si tratta piu’ neanche di un viaggio, questa e’ una vera e propria spedizione. Riparto in direzione Honduras, ho gia’ preso i contatti con un orfanotrofio che mi ospitera’ e con Dario, un amico di Sebastian che fa parte di un club di motociclisti. Come gia’ successo all’andata la frontiera honduregna si rivelera’ una bella rottura di scatole, ma alla fine paghero’ i soliti 35 dollari e riusciro’ a passare il confine prima che faccia buio e trovare un posto per dormire in un paesino di frontiera. A nanna presto e sveglia prestissimo che e’ ancora buio, ripartenza in direzione San Pedro Sula. La Kawasaki vibra e vibra ed io non posso andare piu’ veloce dei 70-80 chilometri per ora, altrimenti la sella diventa un elettrostimolatore. Sulla strada tanti rallentamenti e code per i lavori in corso, ma questa non e’ una novita’ in Centro America, da queste parti i lavori di riparazione possono durare anche decenni. Attraverso la capitale Tegucigalpa che fa abbastanza paura direi, tanta gente, disordine e costruzioni abusive; l’Honduras e’ un po’ in fibrillazione recentemente e le elezioni si sono svolte poco piu’ di una settimana fa. Il sistema elettrico non da piu’ problemi e la solita marmitta, nonostante le vibrazioni, non si rompe piu’: la “solita marmitta”!!! Infatti, si rompera’ la marmitta dell’altro lato. Eh si, sembra proprio una barzelletta questa. Ormai sono talmente abituato che mi cerco con scioltezza il taller di turno ed ecco che in un’ora mi eseguono l’ennesima saldatura. Finalmente a mezzogiorno arrivo alle porte di San Pedro Sula, faccio un colpo di telefono a Dario che subito mi viene a prendere al casello e mi porta a mangiare a casa sua. Wuauhhhh!!! Un bel sospiro di sollievo per un´altra bella tappa lunga portata a termine. Ci conosciamo, si chiacchera del piu’ e del meno e anche qui si parla di politica: mi spiega la storia del presidente appena messo in esilio, poi rientrato nel Paese con l’aiuto delle sue guardie ed ora rinchiuso nell’ambasciata brasiliana. Si parla delle elezioni appena svoltesi che hanno rovesciato il tutto e della situazione di instabilita’ che il Paese sta vivendo in questo momento. Chiamo all’orfanotrofio che mi ospitera’ per avvisare che arrivero’ nel tardo pomeriggio e Dario mi porta un po’ in giro: San Pedro Sula si rivelera’ una citta’ molto moderna per i canoni centroamericani, stradoni larghi e bei quartieri puliti; almeno questo e’ cio’ che ho visto. Andiamo a trovare Ana, una manager di un hotel, amica di Sebastian, a cui consegnero’ la fotocamera che l’argentino mi aveva lasciato durante l’incontro in Panama; lei gentilmente ricambia offrendomi gratis la stanza per dormire. Ed ora che faccio? Sono 3 giorni che scrivo e-mail al direttore dell´orfanotrofio, ritardando ogni volta il mio arrivo a causa dei problemi occorsi, mi dispiacerebbe fargli un bidone; ma alla fine tutti insistono e mi convincono a restare nell’albergo, anche perche’ incontrero’ alcuni membri del club di motociclisti “Los Renegados” per capire un po’ se posso lasciare la moto qui, cosi’ che loro mi aiutino nella vendita. Avviso quindi l’orfanotrofio che non andro’ piu’ a dormire da loro, ma che voglio comunque fare una visita ai bambini il giorno seguente. Questa moto non ce la fa proprio piu’, Dario mi sembra affidabile e decidiamo che la lascero’ qui e che andro’ a prendere Alba in bus, un membro del gruppo che e’ anche meccanico me la rimettera’ a posto, cercheranno con calma un acquirente e mi spediranno i soldi ricavati dall’eventuale vendita. Ho un timbro di entrata della Kawasaki sul mio passaporto che pero’ mi pone qualche dubbio sul fatto che io possa uscire dal Paese senza moto, ma un altro amico del gruppo mi assicura che e’ solo burocrazia e che nessuno mi blocchera’ in uscita dalla frontiera, nella peggiore delle ipotesi tutto si risolve con una telefonata ad amici e conoscenti che lavorano in dogana o con qualche dollaro di mancia. Resta quindi solo da capire quanto costa nazionalizzare la mia moto messicana in Honduras, cosi’ da decidere a che prezzo poterla vendere. Mi sento felice, libero e rilassato e la sera ce ne andiamo in giro con una decina di moto per le strade di San Pedro Sula. Che figata!!! E pensare che avevo deciso di scartare a priori questa citta’ perche’ la ritenevo poco interessante! E infatti non ci sono molte attrazioni, pero’ in ogni viaggio la gente che incontri fa la differenza e San Pedro Sula si rivelera’ uno dei posti piu’ piacevoli visitati proprio perche’ essere portato in giro dalla gente locale e’ un grande valore aggiunto in ogni viaggio e cambia tutte le carte in tavola. Sto cosi’ bene che decido di fermarmi un giorno in piu’ anche se non ho tempo. Sono simpatici sti ragazzi, molto rockettari, come la gran parte dei motociclisti, ma la cosa forte e’ che hanno tutte le moto addobbate in modo strano, alcune hanno lo stereo con delle mega casse che sparano musica, altre tutte disegnate e i ragazzi ci tengono a mostrarmi la loro originalita’ nelle decorazioni come se fosse una cosa figa; a me invece sembrano abbastanza tamarri. Inoltre sono veramente pochi ad avere delle moto serie, la maggior parte di loro hanno dei mezzi cinesi che hanno l’aspetto di una grande moto, ma sono 250 di cilindrata o al massimo 400. All’indomani Dario mi viene a prendere e scopriamo subito che i nostri programmi andranno in fumo: la mia moto e’ del 1987 e quindi troppo vecchia per essere nazionalizzata in Honduras, non ci sarebbero speranze di venderla e percio’ sono costretto a riportarmela in Messico. Ormai e’ diventata una sfida con me stesso e mi tocca portarla a termine. Dicono che sia una dote l’essere testardi e portare le cose fino in fondo, ma io penso che in questo caso ho proprio esagerato e se solo avessi abbandonato o regalato la moto quando era a Citta’ di Panama, avrei perso meno tempo e denaro e mi sarei divertito un po’ di piu’. Andiamo quindi dal membro del gruppo di motociclisti che e’ anche un meccanico e gli lasciamo la mia moto per un po’ di ore, cosi’ che lui me la metta bene a posto per poter percorrere almeno gli ultimi 1200 chilometri che mi porteranno fino a Cancun. Nel frattempo si va finalmente all’orfanotrofio; e qui diventa tutta un’esperienza a parte: i bambini sapevano che dovevo arrivare ed iniziano a chiamarmi già quando mi vedono al cancello. Ci vorra’ un solo minuto per finire coinvolto in una partita di calcio con poche regole e tanto divertimento. Conoscero’ Christof, che e’ il fondatore e direttore di questo posto chiamato El Refugio e che esiste gia’ da qualche decina di anni. Mi spiega un po’ come funziona, il lavoro dei dipendenti, dei volontari, ma soprattutto dei bambini: eh si, qui i bambini sono autosufficienti, tutti hanno qualche compito, chi pulisce, chi lava, chi mette a posto, chi fa la manutenzione etc.; il tutto va da se’. Ognuno ha una classe di scuola da seguire, poi c’e’ una scuola esterna per gli ultimi 3 anni, fino ad arrivare al mondo del lavoro e alla vita indipendente. Ogni anno 2 o 3 bambini scappano via, pensando di trovare una strada migliore e, a quanto pare, tutto cio’ e’ normale, non c’e’ molto da fare, gia’ da ragazzi si e’ responsabili delle proprie azioni e della proprio vita. Non sono tutti orfani, ma molti di loro hanno famiglie poverissime che consegnano i figli alla struttura per dargli un futuro migliore. I bambini mi faranno fare un giro turistico e El Refugio si presenta veramente ben organizzato ed equipaggiato con sale computer, mense, biblioteca, campo da basket, sale di studio, sale tv, etc., il tutto creato con le donazioni di gente svizzera. Conoscero’ anche alcuni volontari che decidono di fare quest’esperienza stando li alcuni mesi o anche un anno. Veramente bello. E poi i bambini si sono subito affezionati e, al momento di andare via, non ci lasciavano piu’. Sempre sorrisi, saluti, foto… E al momento di ripartire si ricominciava: saluti, abbracci, foto… E poi di nuovo… Veramente una bella esperienza. Mi sarebbe piaciuto aver avuto il tempo di fermarmi almeno una settimana, ma proprio non mi e’ possibile. Credo che in ogni viaggio nei Paesi poveri si dovrebbe prevedere almeno una visita di questo genere, non c’e’ bisogno di portare regali o soldi, la presenza e’ gia’ tanto e poi i bambini fanno il tutto, sono loro che ti guidano e dirigono il gioco, io dovevo solo stare li’. Come gia’ successo per l’ospedale di Emergency in Cambogia lo scorso anno, questo tipo di esperienza mi ha arricchito tantissimo e sicuramente si ripetera’ in un viaggio futuro. Ritorniamo a prendere la mia moto che andra’ un po’ meglio (diciamo meno peggio): anche le vibrazioni si sono ridotte e pare che abbiamo ristretto il problema con un semplice cambio di olio; infatti nei 10000 chilometri percorsi non lo avevo mai cambiato (che ignorante che sono), mi ero convinto che siccome ne aggiungevo un po’ ogni tanto (per via della perdita) sarei stato a posto cosi’: niente di piu’ sbagliato. Andro’ a cena di nuovo a casa di Dario e giochero’ con i suoi figli prima a Playstation 2 e poi scacchi (ah ah… Vincero’ tutte e due le sfide). E’ difficile mangiare da queste parti se non ti piacciono i fagioli e le banane, qui si cibano di frijoles e platano praticamente tutti i giorni, ma la moglie di Dario ci ride sopra e non se la prendera’ se lascero’ qualcosa nel piatto. Sono pronto a ripartire, a malincuore direi. Se fossi rimasto qui per un po’ gli amici di Dario mi avrebbero portato a visitare la costa nord e l’isola di Roatan, ma sara’ per la prossima volta. Dario mi dice che ha una sorellastra di cui non ha contatti da quasi vent’anni e che dovrebbe vivere in Italia, mi lascia l’unico recapito che ha e mi chiede quando ho tempo di provare a dare un colpo di telefono. Lo faro’ volentieri al mio ritorno, anche se ho i miei dubbi che dopo tanti anni riesca a trovare questa persona. Mi spiega che il padre era un po’ Casanova e che lui ha diversi fratellastri nati da diverse madri. Sara’ cosi’ gentile da venirmi a prendere la mattina presto e guidarmi fino all’entrata della strada statale, la moto va benino e, seguendo la costa, arrivo in un paio d’ore alla frontiera. Le pratiche doganali saranno veloci ed efficienti come non mai ed il timbro d’entrata in Guatemala andra’ ad occupare l’unica pagina rimasta disponibile sul mio passaporto, appunto la numero 32. Il documento si e’ ormai ridotto ad uno straccio, in alcune frontiere gia’ da un paio d’anni mi fanno storie, sono 10 anni di viaggi e vagabondaggi in giro per il mondo, quando torno in Italia ne faro’ uno nuovo e questo lo conservero’ molto accuratamente come un reperto da museo. Arrivo a Rio Dulce che sono le 12 e, se non fosse stato per il tizio della barca che si e’ svenduto ad altri turisti cambiandomi l’orario del ritorno, sarei anche riuscito ad arrivare sulla costa fino a Livingston per poi ritornare presto la mattina seguente e correre a Flores a prendere Alba. Ma niente da fare, ci litigo, lui mi da i soldi indietro ed io resto a dormire a Rio Dulce: questo e’ proprio il viaggio delle destinazioni perse. Mi avvio il giorno seguente verso il nord del Guatemala, ma non prima di una breve visita al vicino castello di San Felipe. Sara’ una tappa di 200 chilometri e sull’ultimo tratto di strada la moto inizia a darmi problemi, si ferma e poi riparte, si ferma di nuovo e poi riparte. Mi convinco che non riusciro’ ad arrivare in tempo a Flores, ma alla fine giocando un po’ con il cappuccio della candela e l’apertura del serbatoio (che in teoria non funziona), la Kawasaki si riprende e con un po’ di fortuna arrivo in ritardo in aeroporto che Alba gia’ mi attendeva fuori. Sospiro di sollievo, un’altro obiettivo raggiunto in extremis. Da qui in poi il viaggio dovrebbe procedere piu’ tranquillo, sono 800 chilometri circa che ci separano da Cancun ed abbiamo 2 settimane a disposizione. Cerchiamo un alberghetto, cena e, al ritorno in stanza il portiere di notte ci dice che un ragazzo ha visto il cartello di vendita della moto e ritornera’ domani in quanto potrebbe essere interessato; bene, chissa’ che Alba non mi porti fortuna allora. Ad ogni modo, abituato alle parole dei latini, non do molta importanza e organizziamo per l’indomani alle 4 e mezza di mattina la visita alle rovine di Tikal: la citta’ Maya e’ molto bella, immersa nella foresta e con gli animali liberi che ci girano intorno. Andremo con un tour organizzato stavolta, almeno la guida spieghera’ e proveremo a capire qualcosa di cio’ che stiamo vedendo. Con noi ci sara’ anche un tipo canadese ubriaco e che continua a bere anche durante l’escursione venendo fuori con delle scenate troppo forti. Al ritorno a Flores, la receptionista ci avvisa che il ragazzo interessato alla moto era ripassato a cercarmi nella mattinata. Noooooooooo, forse un’occasione persa, pensiamo. O forse ritornera’? Purtroppo quest’ultima opzione non succedera’ e l’indomani lasceremo la cittadina sul lago in direzione Belize. Partiremo un po’ in ritardo a causa della pioggia ed il serbatoio rimasto secco ci fara’ perdere un’oretta prima di trovare qualcuno in strada disposto a venderci un po’ di gasolina. Formalita’ doganali abbastanza rapide, facciamo l’assicurazione obbligatoria e ci fermiamo nella citta’ di San Ignacio. Anche la mattina dopo partenza in ritardo per via della pioggia, ma pian piano ci avviciniamo a Belize City. E saremmo arrivati anche in tempo per la lancia che porta alle isole vicine se non fosse accaduto l’ennesimo problema alla moto: cavo della batteria rotto e rimpiazzato da un collegamento molto rozzo creato dal meccanico di turno. La cosa bella in tutti questi stop e’ proprio il fatto di trovare sempre un meccanico nelle vicinanze. E’ incredibile come in tutto il viaggio abbia sempre trovato una soluzione ai problemi: e’ vero che da queste parti tutti si dilettano a fare un po’ tutto, pero’ e’ anche vero che a volte ho percorso dei tratti completamente disabitati; e se fosse successo qualche problema in quelle occasioni? Per fortuna non e’ mai andata cosi’ e ogni tanto mi viene da pensare che forse qualche santo in paradiso ce l’ho anch’io. Faremo solo pochi chilometri e di nuovo la moto si fermera’: pare che ci sia un corto circuito da qualche parte tanto che ad un certo punto la moto comincia ad andare letteralmente in fumo e ci spaventiamo un po’: un signore molto gentile ci aiutera’ in 2 tempi a rimettere a posto i cavi elettrici e nell’attesa Alba si mette a giocare con le bambine di una casa di fronte. Arriveremo a Belize City in serata e quindi dobbiamo fermarci qui per la notte. Che postaccio, sembra di stare a Kingstown, in Giamaica, sbarre di ferro a chiusura delle finestre, facce poco affidabili ed espressioni caraibiche; proprio come me la ricordavo dall’ultima visita di qualche anno fa, Belize City non e’ proprio una cittadina tranquilla. Nonostante l’atmosfera poco sicura parcheggiamo la moto in strada, decidiamo che forse quasi quasi e’ meglio che ce la rubano, forse e’ l’unico modo per togliercela davanti. Ma la mattina successiva la moto e’ ancora li, ritorneremo ad usare il vecchio sistema a spinta per accenderla, in quanto il mezzo incendio del giorno prima ha buttato giu’ la batteria, e ce ne andiamo per un paio di notti a Cayo Culker, dove affitteremo una vera e propria capanna in spiaggia. Bagnetto nel Mar dei Caraibi non proprio caldissimo in inverno, mangiate di aragosta ed io il giorno dopo decido di dedicarmi alle immersioni. Infatti nelle vicinanze non c’e’ solo San Pedro (quella della canzone La Isla Bonita di Madonna), ma esiste uno dei piu’ famosi diving al mondo, il Blue Hole: si tratta di un vero e proprio buco enorme nel mare che va giu’ per centinaia di metri formando stalagmiti e stalagtiti in profondita’. Con un diving center di San Pedro andremo giu’ fino a 40 metri e poi un paio di immersioni nelle barriere coralline circostanti. Il tour in generale e’ risultato molto schematico e gli istruttori poco umani, ci buttavano in acqua senza troppi problemi e senza troppa attenzione per la sicurezza. Come gia’ successo in precedenza, anche in Belize provo a spargere la voce qua e la’ per quanto riguarda la vendita della Kawasaki, offrendo una commissione a chi dovesse aiutarmi nella vendita. Ad ogni modo anche questo sistema non funziona, quindi si ritorna verso il Messico. Sara’ un altro bel viaggietto di 300 chilometri, si passa per la laguna di Bacalar, fino ad arrivare a Mahahual, in spiaggia. Sono felice che siamo rientrati nel Paese di partenza, il Messico mi piace e gia’ appena si passa il confine si ha la sensazione di rilassatezza. Da questo punto fino a Cancun conosco piu’ o meno tutti i posti in cui ci fermeremo, sono tutte destinazioni dove i croceristi arrivano con le escursioni comprate a bordo. Pero’ Mahahual l’ho trovata proprio diversa, talmente diversa che mi viene il dubbio che forse mi sono sbagliato e non ci sono mai stato prima: ora c’e’ una stradina pedonale che costeggia la spiaggia con i vari negozietti per turisti, ma io solo qualche anno fa mi ricordavo una strada sterrata con poche capanne e ho scelto questa destinazione proprio perche’ me l’aspettavo molto rustica. Alla fine mi spiegheranno che l’uragano passato da queste parti nel 2007 ha spazzato via tutto ed hanno ricostruito tutto da capo, cercando di sviluppare il porto per l’attracco delle navi da crociera; insomma, un’altra destinazione che va in mano al turismo organizzato e perde pian piano il suo fascino. A Mahahual passeremo il Natale in spiaggia, ci concederemo un po’ di dolce far niente e mangiate nei ristoranti italiani. In tutta la penisola dello Yucatan gli italiani sono molto presenti, addirittura a Playa del Carmen si parla di una comunita’ italica di 6000-7000 persone. Da questo punto in poi iniziero’ a spingere di piu’ sulla vendita della moto in quanto siamo in Messico e quindi qui la moto e’ in regola. Prima di ripartire sosta dall’unico saldatore della zona per l’ennesima riparazione alla marmitta, che ormai se ne sta cadendo a pezzi. Inoltre arriveremo al distributore di benzina quasi a moto spenta, ma stavolta non per colpa mia, bensi per un furto di gasolina subìto durante la notte: avevo notato il serbatoio un po’ sporco, ma non ci avevo dato molta importanza e invece a quanto pare qualcuno lo ha aperto, ma non ne ha trovata moltissima.
Parte 7, Yucatan, Addio Moto e Inizio Vacanze a Cuba
Arriviamo quindi a Tulum, solita ispezione di 3 o 4 alberghi alla ricerca di quello che piu’ fa per noi, ma non si puo’ stare troppo in pace ed ecco che il giorno seguente un altro corto circuito manda nuovamente in fumo la moto, con tanto di persona che corre fuori da un hotel nelle vicinanze con in mano un estintore per spegnere l’eventuale incendio che per fortuna non accadra’. Uno pseudo elettrauto messicano fa una riparazione da mettersi le mani nei capelli ed io per poco non lo meno, costringendolo a rifare la riparazione come si deve e minacciandolo di non pagarlo (a volte bisogna usare le maniere forti, altrimenti qui ti prendono in giro sempre e alla grande). Tulum si rivelera’ una gran bella spiaggia, sabbia bianchissima e mare cristallino (come in tutto lo Yucatan del resto), le rovine sono a qualche centinaio di metri piu’ in la’ e la cittadina a 4 chilometri verso l’interno. Siamo nel pieno delle vacanze natalizie, quindi si vede piu’ gente in giro e, naturalmente pieno di italiani, che vanno in vacanza solo nelle 2 settimane a cavallo di Capodanno. L’ultimo giorno prima di ripartire faro’ un’altra immersione, ma molto piu’ bella della precedente: per la prima volta provero’ il diving nel cenote. In questa zona ci sono migliaia di cenote che non sono altro che degli sprofondamenti della superficie terrestre avvenuti nei millenni e che hanno creato quindi accesso agli intricati labirinti di acqua dolce presenti sotto terra. Saremo solo io ed un simpatico istruttore basco di nome Xavier e faremo le immersioni tra le caverne del Gran Cenote e del cenote Calavera; addirittura in quest’ultimo l’incrocio tra l’acqua dolce e quella salata crea a certi livelli uno strano e curioso mix con visibilita’ ridotta e cambiamento immediato di temperatura. Mi e’ piaciuto veramente tanto. Ormai ci siamo, la prossima destinazione e’ Playa del Carmen e si trova a soli 60 chilometri. Qui con Alba ci inventeremo un vero e proprio volantinaggio per promuovere la moto, oltre ad un bel giro dei saloni di auto usate e meccanici vari, ma anche stavolta niente; questa storia ormai è diventata un vero e proprio incubo ed io sto iniziando a prendere in considerazione anche le offerte piu’ basse per la vendita della moto, penso che forse dovrei accettare 10000 pesos pur di togliermela davanti. Tra gli altri, in spiaggia conosceremo un simpatico signore toscano, ormai in pensione, che viaggia tutto l’anno e conosce molto bene Cuba, quindi mi darà qualche indicazione interessante per la mia prossima destinazione. Tra le altre cose ci racconterà di aver girato la Mongolia in sella ad una mucca. Eh si… proprio una mucca, in vero stile mongolo, altro che moto. Ci siamo ammazzati dalle risate quando ci ha raccontato che ad un certo punto del viaggio alcuni poliziotti al confine con la Russia lo hanno fermato ed hanno ammazzato l’animale per vendersi la carne. Roba da far west. Se in tutto lo Yucatan abbiamo trovato un turismo molto diffuso e sviluppato (con naturale aumento dei prezzi), a Playa del Carmen ci sara’ proprio una situazione tipo Rimini, con vie pedonali piene di negozi occidentali, franchising, turisti vestiti bene eccetera eccetera. Il 31 Dicembre andro’ all’isola di Cozumel per incontrare Corrado, un ex collega che lavora a bordo di navi da crociera, e insieme affitteremo uno scooter per girare l’isola; alla fine faremo lo stesso e identico giro fatto qualche anno prima con un maggiolone, ma ci divertiremo ugualmente. In serata ritorno sulla terra ferma e la mezzanotte di Capodanno la trascorreremo in Calle 12, stracolma di gente e con tutti i bar e le discoteche che spopolano. Come gia’ accade da un po’ di anni difficilmente riusciamo a superare le 3 di notte e quindi dopo una lunga passeggiata in spiaggia si torna a nanna in albergo. Ripartiamo verso l’ultima destinazione del viaggio in motocicletta: Cancun. Arriveremo in un’oretta circa: è incredibile come alla fine siamo riusciti a completare l’itinerario intero in sella alla moto. In una maniera o nell’altra la vecchia Kawasaki morirà qui. Non appena ci sistemiamo in albergo, subito giretto per capire un po’ come andrà a finire questa storia. Vorrei svenderla immediatamente per poter trascorrere gli ultimi giorni al mare sull’isola Mujeres, ma non andrà così. Spenderemo quasi 2 giorni nei pressi dello stadio di calcio dove la gente (specie nel weekend) si incontra per comprare e vendere macchine e moto usate. Ma niente da fare, non si muove una foglia e la tensione è oltre ogni limite ormai. L’ultimo giorno prima della partenza di Alba ce ne andiamo nella zona hoteliera di Cancun per cercare un po’ di mare, ma il tempo già da un po’ di giorni non e’ dei migliori da questo lato dei Caraibi. E la zona hoteliera non è altro che chilometri e chilometri di grandi alberghi all inclusive che non rispecchiano proprio i nostri gusti. La principessa quindi riparte verso l’Italia ed io ho ancora qualche giorno per provare a concludere l’affare, è diventata ormai una questione di principio. Ricomincio il giro dei meccanici e ritorno in zona stadio per riprendere le pubbliche relazioni con i vari mediatori volponi che non aspettano altro che qualcuno con l’acqua alla gola come me, per comprare a cifre bassissime. Ma la sfiga mi perseguita: oltre a non ricevere alcuna offerta valida, mi accorgo che ho perso la targa della moto. Proprio così, la targa non c’è più: era già abbastanza crepata ed evidentemente con le vibrazioni ormai assurde della Kawasaki si deve essere staccata completamente. E ora che si fa? Se già era difficile venderla così, figuriamoci senza targa!!! Mi immergo completamente nella burocrazia messicana cercando di risolvere la cosa in giornata, quindi eccomi andare in polizia per la denuncia, poi in fila presso un altro ufficio per avere altre firme e documenti che attestino l’accaduto, poi ancora motorizzazione eccetera. Grazie ad alcuni impiegati gentili che prendono a cuore il mio problema, riesco a fare in giornata un paio di documenti che normalmente richiedono 1 o 2 giorni di tempo, però non riesco ad ottenere la nuova targa: per questo ci vorrebbero un bel po’ di giorni, ancora altri documenti e bisogna essere residenti. Bene, allora siamo proprio alla frutta e credo sia arrivato davvero il momento di mandare tutto a quel paese. Mi sono rimasti solo 3 giorni in Messico e forse è il caso che mi vada a rilassare un po’ in spiaggia. Mi metto quindi d’accordo con una famiglia di ristoratori veneti conosciuti qualche giorno prima, che gentilmente si offrono di prendere la moto in consegna se non dovessi darla entro l’ultimo giorno: loro gestirebbero la vendita per conto mio e a distanza dall’Italia. Sono anche molto simpatici e mi racconteranno come siano arrivati ad avere un ristorante nella piazza centrale di Cancun, dopo aver iniziato solo 3 anni prima con una ricarica postepay (di queste storie in Messico se ne sentono proprio tante). Decido quindi di andare senza targa all’isola Mujeres, attacco sulla moto un altro paio di cartelli dove spiego chiaramente che accetto qualsiasi tipo di offerta e chissà che proprio laggiù non trovi il mio cliente. Al porto d’imbarco per il traghetto un funzionario mi lascia il proprio numero di cellulare, dicendomi che se non concludessi, lui sarebbe disposto ad offrirmi 15000 pesos per il mio mezzo. Bene, mi sembra un buon inizio, ma chissà se poi l’offerta sarà concreta? (da queste parti è tutto un punto interrogativo e le parole volano, si sa). Mi godo i 2 giorni sull’isola, bella, turistica, ma molto meglio di Cancun e Playa del Carmen, si può girare interamente in bicicletta, ma volendo anche a piedi. Ad Isla Mujeres ritroverò Fabio e Gustavo, i 2 musicisti conosciuti un paio di mesi prima in Guatemala, con cui trascorrerò le serate dopo le loro esibizioni nei locali. Parcheggerò la vecchia Kawasaki in un punto strategico e ben visibile fuori dall’ostello più popolare dell’isola, il Pocna, punto di ritrovo dei giovani per le serate in spiaggia, e più di qualcuno si avvicinerà attratto dai cartelli che avevo scritto; ma purtroppo del cash ancora non se ne vede l’ombra. Ma ora arriva il Gran Finale? Siete pronti? Il 7 Gennaio in serata si avvicina alla moto un signore messicano, pare interessato, la prova, sembra che gli piace, gli dico che la mollerei per 20000, ma lui risponde che non ha molto da spendere (tanto per cambiare) e si prende una mezz’oretta per pensarci. Io incrocio le dita. Dopo meno di un’ora lo vado a trovare nel suo ufficio ancora aperto a pochi isolati di distanza, gli faccio vedere i vari documenti, racconto un po’ il mio viaggio, lo rassicuro, prendiamo in mano la calcolatrice e lui mi dice: “ok, la compro per 20000, portami la moto e firmiamo il foglio di compravendita”. Niente di più facile, sembra quasi fatta, ma io resto ancora freddo finché non ho i pesos in tasca. Torno in ostello per prendere moto, caschi e tutti gli accessori e incontro una ragazza che aveva mostrato qualche interesse negli ultimi 2 giorni: le dico chiaramente che sto per vendere, lei mi blocca e mi chiede di comprarla. Incredibile!!! Da non avere nessuna persona interessata per più di un mese son finito a trovare 3 persone in 2 giorni (incluso il tizio conosciuto al porto), di cui 2 nell’ultimissima serata utile. E proprio nel posto in cui non ci avrei scommesso un Euro, l’isola Mujeres appunto: questo è proprio culo. Alla fine della storia concluderò la compravendita in pochi minuti con Treacy, si chiama così l’australiana che ha comprato la Kawasaki. 20000 pesos!!! No dico, 20000 pesos. Lo scrivo in lettere per essere sicuro: VENTIMILAPESOS!!! Tutti in contanti, uno sopra l’altro, per una moto scassata, senza targa e con numeri di telaio e motore alterati. E’ lo stesso prezzo al quale l’ho acquistata. E nell’ultimo giorno utile. Ma come avrò fatto? E’ assurdo!!! Non riesco ad esternare la gioia, ma forse anche un po’ per scelta mi tengo tutto dentro, non si sa mai che Treacy cambi idea. Le lascio i miei recapiti nel caso abbia bisogno di aiuto o consigli, foto di rito baciando la moto, poi un’altra foto insieme con i pesos in mano, serata tranquilla in un bar con Gustavo e a nanna non tardissimo. Ho deciso che l’indomani mi sveglierò presto e lascerò l’isola, meglio evitare ripensamenti. Solo nel momento in cui lo scafo veloce lasceerà Isla Mujeres per fare ritorno a Cancun inizio ad avere un senso di rilassatezza, l’incubo pare davvero finito, l’avventura si è conclusa nel migliore dei modi, io sono tutto d’un pezzo ed ora è arrivato il momento di andare in vacanza. Spendo la giornata intera tra internet, mangiata, cambio i soldi, poi la ceretta, poi di nuovo mangiata, riorganizzo lo zaino e sono pronto per ricominciare. Saluto la famiglia veneta che si era messa a disposizione e l’indomani ho il volo da Cancun per Cuba, dove trascorrerò l’ultimo mese di questa incredibile avventura. E’ già da un po’ di giorni che le temperature sono basse e appena atterro all’Avana la situazione non cambia, trovo freddo e pioggia, pare sia l’inverno peggiore degli ultimi anni. Resto un po’ in aeroporto per pensare cosa fare, poi approccio una coppia di italiani diretta in macchina a Cienfuegos e chiedo loro di unirmi e dividere la benzina; ma il marito non si fida molto di me e alla fine condivido un taxi con 2 americani (per 5 CUC a testa) e mi faccio lasciare direttamente alla stazione dei bus: ho deciso che approfitterò del brutto tempo per viaggiare tutta la notte ed iniziare da Santiago de Cuba, nella parte orientale dell’isola. A Cuba ci sono 2 monete diverse, i CUC (pesos convertibili) usati dai turisti (valgono poco più di un dollaro americano) e i CUP (moneta nazionale) usati dai cubani (valgono 25 volte meno del CUC). Per i viaggi a lunga percorrenza ci sono i bus per i cubani ed i bus per i turisti, in treno il cubano paga un prezzo ed il turista ne paga un altro, ci sono i ristoranti in moneta nazionale e quelli in moneta convertibile, i negozi sono quasi tutti in CUC. Per fortuna da un paio d’anni a questa parte anche i cubani possono accedere ai posti riservati per i turisti (prima per loro era proibito), però è facile rendersi conto che qualcosa di strano in questa economia c’è se un cubano guadagna in media 20 CUC al mese ed una stanza nell’hotel più economico di Varadero ne costa 35, una cena in un ristorante locale vale circa 2 e via dicendo. Fin da subito proverò in tutti i modi a salire sul bus a lunga percorrenza Astro, quello usato dai cubani, ma non ci riuscirò e alla fine la stanchezza mi porterà a viaggiare con gli altri turisti in Viazul fino a Santiago per la cifra di 51 CUC (invece di 7). A Cuba si dorme nelle case particular, le persone un po’ più benestanti pagano una tassa mensile al governo e possono quindi ospitare i turisti in casa propria: le case legali hanno il simbolo del ciavito fuori la porta, ma ovviamente ci sono anche tanti che affittano illegalmente, rischiando multe sproporzionate e il sequestro dell’abitazione. In molti mi avevano avvertito che difficilmente avrei trovato da dormire a meno di 20 CUC al giorno, ma non appena arrivato in terminal a Santiago, la freddezza con cui ho risposto al primo di un’infinita serie di cubani che ti assaltano in cerca di commissioni facili e supportato ampiamente dalla mia faccia da culo perenne, ha fatto in modo che trovassi una casa legale per soli 5 CUC e ci sono rimasto 4 giorni. La stanza non è proprio il massimo ed il bagno ancora meno, ma per meno di 4 Euro al giorno in stanza singola non mi sembra proprio il caso di lamentarmi. Santiago è bella, molto coloniale e molto musicale, mi abituo fin da subito alla propaganda politica sui cartelli e sui muri un po’ dappertutto e mi addentro in questa dimensione strana dove sembra che il tempo si sia fermato al 1959, anno della rivoluzione. Fin dall’inizio sono abbastanza infastidito dall’atteggiamento di molti cubani: loro vedono in me solo il simbolo del dollaro e non mi lasciano molto in pace, tutti vogliono diventare amici, tutti mi offrono ragazze, sigari, consigli eccetera, è un assalto continuo, ma io li conosco da un bel po’ di anni e se la memoria non mi tradisce, credo che il cubano sia l’unico popolo che io reputo più furbo del napoletano, ti girano e ti rivoltano fino a quando non ottengono ciò che vogliono. A Cuba ci sono file dappertutto: fuori dai negozi, le banche, ai chioschetti in strada, alle gelaterie e ristoranti in moneta nazionale, pare che qui la gente abbia un sacco di tempo da perdere e non è poi un grande problema stare in fila. Quando si arriva all’entrata di un posto bisogna chiedere chi è l’ultimo e qualcuno ti risponderà, poi io risponderò a qualcun altro e così via: è un po’ una catena di Sant’Antonio e tutto funziona così, in vero stile comunista. Un altro avvertimento ricevuto più o meno da tutti era quello di non cambiare troppi soldi in moneta nazionale in quanto non mi sarebbero serviti: niente di più sbagliato, da subito inizio a frequentare i posti per cubani e i CUP mi saranno utilissimi, ma ho capito che a Cuba per la maggior parte ci sono solo turisti da vacanzetta e quindi per ogni consiglio ricevuto basta semplicemente fare l’opposto. Un giorno conosco una signora cubana in fila ad un ristorante. Come è solito fare da queste parti, per non aspettare troppo la fila ci si siede a mangiare allo stesso tavolo, anche se non ci si conosce. Cristina è dell’Avana, vive in Germania da tanti anni, è sposata con un tedesco, ma è qui a Santiago perché la madre sta facendo una radioterapia in ospedale (all’Avana pare che il macchinario non funzioni). Io come al solito sono un po’ prevenuto nei suoi confronti, ma lei sembra diversa dagli altri cubani e provo a fidarmi un po’. Andremo in un negozio a comprare un secchio per la madre in quanto lo scarico del bagno in ospedale non funziona. Il secchio non è di oro laccato, e pure costa quasi 4 CUC (cioè lo stipendio di una settimana): se non si comprende bene il sistema di questo paese è difficile capirne le proporzioni in termini di numeri, ma è facile immaginare che esiste un’intera economia sotterranea ed illegale dove il cubano s’inventa un po’ di tutto per sopravvivere; e in questa maniera circola il denaro che entra nel paese grazie ai turisti ed ai parenti dei cubani a Miami (che sono più di un milione). “Per un cubano è una lotta continua”, come mi dirà un giovane conosciuto una sera in una piazzetta, lui aveva una borsa piena di rum e se ne andava in giro la notte per cercare di tirare su qualche peso. Spiego a Cristina che sto viaggiando per provare a conoscere veramente Cuba e mi lamento con lei del fatto che il comportamento dei cubani non aiuta proprio la mia missione; lei quindi decide di invitarmi in ospedale dalla madre, così posso vedere la struttura, io non mancherò all’appuntamento e alle 19 in punto (orario delle visite) vado a trovare la signora anziana.. E allora sfatiamo subito un mito: a Cuba i medici saranno pure bravi e capaci, ma gli ospedali non sono un granché, ci sono camerate da 10 letti, quasi tutti i bagni non funzionano e le finestre sono rotte. E mi dicono pure che quello di Santiago è un ospedale all’avanguardia!!! Mentre provo a fare qualche foto all’interno della struttura, una guardia si incazza abbastanza e lo riferisce al suo superiore, ma alla fine per fortuna si risolve tutto con una stretta di mano. Oggi è anche il giorno del forte terremoto che ha provocato enormi disastri ad Haiti, qui in ospedale in molti ne parlano e qualcuno lo ha anche avvertito (siamo a soli 300 km). E’ strano come ogni volta che succeda qualche grande catastrofe naturale io mi trovi spesso nelle vicinanze. Cristina ha un desiderio: vuole andare nelle campagne a 2 ore da qui per tornare nel posto in cui è nata e dal quale manca da 17 anni. Entusiasta del mio interesse mi chiede se voglio accompagnarla ed io non ci penso 2 volte. L’indomani prenderemo un bus locale per 3 CUP direzione Contramaestre, dove trascorreremo la giornata a fare visita a casa di persone, cugini, parenti, anziani, baci, abbracci, saluti e via dicendo. Contramaestre mi appare un posto più tranquillo e vero, ci inviteranno a mangiare sia a pranzo che a cena e i cubani sembrano meno aggressivi da queste parti. Sembra che nelle campagne e piccoli villaggi siano rimasti gli unici che credono ancora nella rivoluzione e quindi un po’ meno furbi e incazzati della gente che si conosce nelle città o sulle spiagge. Faremo ritorno a Santiago con un pullman Astro (quello dei cubani), ma l’autista accetterà di farmi salire solo dietro il pagamento di una mancia da 5 CUC. Tutto funziona così a Cuba, nessuno vuole rischiare multe salate per portare i turisti dove non potrebbe, ma alla fine alzando la posta in gioco tutto si può e l’autista mi farà scendere all’incrocio prima del terminal per evitare controlli incrociati all’arrivo del bus. Arriverò a casa abbastanza stanco, Cristina mi ha parlato per tutto il giorno, mi ha raccontato tutta la sua vita e la mia testa sta scoppiando. Parte 8, Santiago de Cuba, La Grande Bugia e Carne in Vendita Anni fa lavoravo su una crociera che si fermava a Cuba per 3 giorni a settimana, conoscevo bene sia l’Avana che l’isola della Juventud; ma ho deciso di tornarci per vivere e capire meglio l’embargo prima che tutta questa storia finisca. Cuba è un posto proprio strano, unico al mondo, e forse tra non molto cambierà; non è proprio il paese preferito dai viaggiatori, qui si viene come incanalati nei circuiti turistici dai quali è difficile venirne fuori, inoltre i cubani difficilmente sono disponibili se non per ricevere qualcosa in cambio e questo fa di Cuba un paese abbastanza caro per uno straniero, se non si decide di viaggiare in una certa maniera. Se un paese delle dimensioni di Cuba (che è circa un terzo rispetto all’Italia) lo si visita bene in una ventina di giorni, qui, se si vuole conoscere per davvero, un mese forse non basta, appunto per via delle difficoltà nel muoversi liberamente fuori dai circuiti del turismo. Un modo molto comodo per muoversi a Santiago sono le moto: ogni cubano che viaggia in moto ed ha un casco in più in mano, vuol dire che è un taxista. Illegale ovviamente. Però tutti lo sanno, l’importante è che il poliziotto non veda il movimento di denaro per il pagamento della corsa, tutti sanno dove ci sono le telecamere che controllano e molte volte il motociclista chiede di pagare la corsa anticipatamente per evitare rischi. Una corsa in città costa 10 pesos nazionali (circa 30 centesimi di Euro) di giorno e 20 pesos di sera, basta alzare la mano quando passa un motociclista e lui si fermerà. Però è proibito portare un turista in moto, ma più o meno tutti se la rischiano ed io ho notato un lieve rilassamento rispetto alla Cuba che avevo visto qualche anno prima (forse qualcosa sta davvero cambiando, ma moooolto lentamente). Durante la mia permanenza in città andrò a visitare il Castello del Morro, il cimitero con la tomba di Martì e la caserma Moncada, dove ci fu il primo assalto dei ribelli comandati da Fidel Castro, finito poi con l’uccisione e la cattura dei pochi rivoluzionari rimasti vivi (inclusi Fidel stesso e il fratello Raul). Da quello storico attacco dovranno passare circa 5 anni e mezzo per arrivare alla vittoria della rivoluzione. Naturalmente per entrare in questi luoghi il turista paga in CUC e il cubano in CUP e il mio tentativo di entrare gratuitamente al cimitero come se fossi un cubano in visita ai propri defunti verrà subito stroncato all’ingresso; ma il tutto si concluderà in una simpatica scenetta dove l’impiegata farà finta di credere che io sono avanero e quindi mi lascerà passare senza problemi. Ci sono 2 stanze nella casa dove dormo a Santiago, l’altra è occupata da un sessantenne italiano che naturalmente è qui per turismo sessuale: mi racconterà come abbia vinto una causa contro la banca nella quale lavorava e quindi faceva il mantenuto trasferendosi da queste parti per ben 9 mesi all’anno. Mi prenderà per un pazzo quando gli dico che io voglio viaggiare a Cuba normalmente e non sono venuto qui per pagare ragazze da portarmi a letto. Lui da buon maestro mi spiegherà che non conoscerò mai nessun cubano che diventerà davvero mio amico per mostrarmi il suo paese e che è meglio lasciar perdere da subito e andarmene in spiaggia: “a Cuba si viene solo per scopare”. Che dire, conoscevo già come funzionava la storia da queste parti, ma resto comunque sconvolto dalla sua convinzione in quelle parole, specialmente perché R. (lo chiamiamo così giusto per non sputtanarlo) viene qui da 17 anni, è stato anche sposato a Ciego de Avila e quindi credo conosca bene la situazione. Ma io voglio provarci lo stesso e lui scoppierà dalle risate quando gli racconto che mi metto in fila con i cubani ai ristoranti in moneta nazionale e alle gelaterie e che mi muovo con i bus locali e i camiones. Devo dire che Cuba sarà pure cara per un turista, ma quando si vive come i cubani diventa il posto più economico al mondo: il bus locale a Santiago costa 20 centesimi di CUP, il che significa mezzo centesimo di Euro, al ristorante si mangia con poco più di un Euro, 5 palline di gelato non cattivissimo valgono 20 centesimi di Euro, per un chilo di mandarini al mercato della frutta siamo a 5 centesimi di Euro; i prezzi sono imposti dal governo e quindi difficilmente cambiano tra un negozio e l’altro o tra le varie bancarelle, qui tutti sono uguali; l’unico problema è che bisogna fare le file e per i mezzi pubblici non ci sono orari, quindi si perde un sacco di tempo nella ricerca delle informazioni giuste e nelle attese, ma si fanno un sacco di esperienze interessanti. R. Resterà sorpreso dal fatto che io paghi solo 5 CUC per la stanza, quando lui, che ci vive 9 mesi all’anno, ne paga 8, ma poi mi spiega che la signora paga le tasse solo per una camera e quindi, siccome viaggiavo da solo, mi dichiarava come suo accompagnatore (il governo autorizza fino a 2 persone per stanza); e la sua di stanza era molto più presentabile della mia. Durante le chiacchierate in cucina con R. C’è spesso la ragazza di turno che lo chiama al telefono di casa e lui, manco fosse George Clooney, risponde oggi no, ci vediamo domani, poi chiama un’altra e le dice dopodomani, l’altra la settimana prossima e via dicendo. Un giorno faremo la strada verso il centro insieme e saluterà un sacco di gente, entriamo nelle case delle famiglie che conosce ed eccolo che dà appuntamenti alle sue donne giovani e carine, anche davanti al loro marito: è proprio come la ricordavo, Cuba è un puttanaio generale ed è difficile essendo stranieri non venire schedati in questa maniera. R. Resta comunque una persona intelligente rispetto agli altri papponi incontrati a Cuba, un giorno ci sediamo in Plaza Dolores e lui cerca di far cadere un altro mio mito che ho sempre avuto su Cuba: il fatto che le scuole abbiano un livello di istruzione molto elevato. R. Mi chiederà di fermare gli studenti delle scuole superiori che sono in pausa nella piazzetta e domandare loro se sanno il nome dell’oceano che divide Cuba dall’Europa, domanda abbastanza facile, no? R. Ha ragione, non ci sarà nessuno che darà la risposta corretta, qualcuno addirittura ci pensa e poi spara un nome a caso, tanto per provarci. E allora dopo la sanità con ospedali e macchinari scassati ecco che anche l’istruzione cubana fa un buco nell’acqua. Per carità, anche qui ci sono delle sfumature positive: la scuola a Cuba è obbligatoria per tutti ed il tasso d’analfabetismo resta tra i più bassi dell’America Latina, purtroppo però i programmi scolastici non sono aggiornatissimi e restano troppo focalizzati nell’inculcare un modo di pensare a senso unico: se chiedi ad una persona qualsiasi quando è nato Fidel oppure in che giorno è iniziata la rivoluzione, sanno rispondere tutti. Il cinema a Santiago costa 2 pesos nazionali (6 centesimi di Euro o poco più) ed una sera vado a vedere un film: è una di quelle commedie che da noi trasmetterebbero sulle reti locali, con attori di serie C e storielle tipo scuola elementare. Il pubblico pare si diverta molto, ma io non resisterò più di mezz’ora e andrò via. E pure a Cuba esiste un movimento di cinema indipendente di un certo livello, ma forse non ho scelto la sala giusta. Nei locali e discoteche di Santiago si vede sempre la solita scenetta: turisti occidentali e ragazze cubane (purtroppo non c’è n’è una che ci sta davvero perché ci vuole stare). Però a volte si vede anche il contrario: ed ecco allora le tardone europee che vengono qui a cercare i ragazzi del posto. Una sera entro in una discoteca ed un ragazzo non mi molla più, mi sta alle calcagne dicendomi che lui mi avrebbe trovato la ragazza che volevo; ma secondo lui se io volessi cercarmi una ragazza andrei a chiedere il suo aiuto? Ma sembro veramente così sfigato? Purtroppo da queste parti esportiamo il peggio della nostra cultura e quindi loro pensano che in Italia siamo tutti così. Tra le tante persone che provano in qualche modo ad approcciarmi in strada, diventerò amico di Liu, un ragazzo che dice di essere un cantante e che mi assicura di non avere secondi fini nei miei confronti. Io convinco me stesso a fidarmi e trascorrerò con Liu delle belle giornate in giro nei posti per cubani e serate fuori dai circuiti turistici. Alla fine trascorreremo ben 3 notti in Piazza della Rivoluzione, dove gratuitamente diversi dj mettono musica reggaeton e salsa ed è pieno di giovani. Qui non se ne vedono turisti, ma la storia cambia poco: tutti mi guardano come se fossi un extraterrestre ed in molti mi chiedono se sto cercando chicas. Con Liu ci divertiremo nel far credere che io sono un gigolò italiano e che sono abituato ad essere pagato per le mie prestazioni, così forse riusciamo a toglierci qualche attenzione da dosso; qualcuna si mette a ridere e qualcuna addirittura si incazza e mi chiama un paio di amici con cui risolverò pacificamente la storia in pochi minuti. E’ inutile, qui c’è fame e i cubani sono abbastanza maschilisti, quindi per loro è normale che un uomo dia in cambio qualcosa alla donna che accetta di passare la serata con lui, è tutto un commercio. Addirittura anche molti uomini che sono eterosessuali si prestano tranquillamente ad avere relazioni con i gay occidentali pur di guadagnare qualcosina. Una sera arriva in piazza l’italiano vecchio di turno insieme ad un ragazzo cubano che lo aiuta a cercare una donna. Lui cerca di fermare le ragazze, anche senza conoscerle e loro se ci stanno si fermano, altrimenti continuano per la loro strada. In pratica non ci sono solo le prostitute che si dedicano a questo, ma la maggior parte delle donne sono disposte a diventarlo per una sera, povertà e poca dignità.. E il sistema è sempre lo stesso, a chi ha portato il turista la ragazza riconoscerà una commissione in denaro. Il bello è che non stiamo parlando di cifre astronomiche: la maggior parte di loro si accontentano di 5 CUC e molte sono anche belle. E’ proprio una cosa normale, sono molto disinibiti da queste parti, ma allo stesso tempo non si fa niente per niente, tutto è legato ad interessi economici: bene, almeno con questa autogestione abbiamo trovato la maniera di eliminare i magnacci!!! E così i matrimoni a Cuba si fanno molto velocemente ed alla stessa velocità si fanno anche i divorzi, che costano solo 5 CUC e la pratica si risolve in 3 mesi circa. E allora ecco che i ragazzi si conoscono e si sposano senza pensarci 2 volte. Tra le altre cose Liu mi racconterà della sua nipote di 16 anni che è incinta e non sa chi è il padre. Proprio un bel curriculum. Spostandosi un poco nella periferia della città si avverte meno la pressione dei cubani nei confronti degli stranieri e si entra in una dimensione più reale con strade non asfaltate e palazzoni di stampo sovietico. Intanto già dal giorno in cui ero andato a Contramaestre avevo cambiato casa: Liu mi aveva presentato una signora che mi poteva ospitare per la stessa cifra di 5 CUC che ero abituato a pagare, ma la casa è molto più bella, grande e pulita, anche se non è legale; ma ormai mi fidavo di lui. Un giorno Liu mi ha portato in spiaggia; mi aveva consigliato di portare meno cose possibili con me, in quanto c’era rischio di furti. Anche qui si ripeterà la solita scena, ci sono i papponi (per la maggior parte vecchi e italiani) accoppiati a belle ragazze cubane. Una di queste è amica di Liu e mentre stava con il vecchietto di turno, ogni volta che ci guardava si passava la mano sulla fronte ridendo, come per dire “sto lavorando”; il bello è che il vecchietto accanto non si accorgeva assolutamente di niente ed era convinto che quella stava con lui per piacere. Una venditrice anziana ambulante molto insistente ci racconterà senza troppi problemi che aveva deciso di fare questo lavoro perché era stanca, nella vita l’aveva preso da tutte le parti e forse era meglio vendere cocco e frutta in spiaggia, sfuggendo ai controlli frequenti della polizia; diciamo che questi cubani non hanno molti peli sulla lingua e forse sto iniziando ad abituarmi al fatto che qui la prostituzione è esistita da sempre e fa anche un po’ parte della cultura di una certa classe della popolazione. Ma io sono ancora convinto che non sono tutti così e nonostante l’impatto iniziale proseguirò per la mia strada. Al ritorno a casa dalla spiaggia ho dato una controllata nello zaino e scoperto che dalla cintura mancavano 20 Euro e 20 CUC. Non ero sicurissimo dei 20 CUC, ma molto sicuro dei 20 Euro: avevo appena cambiato i pesos messicani ricavati dalla vendita della moto, quindi sapevo benissimo quanto avevo in tasca. Esco incazzato, mi dirigo all’internet point (che è il più caro al mondo, in tutto il paese costa 6 CUC all’ora ed è proibito ai cubani) e sulla strada del ritorno ho provato a convincere me stesso che forse mi ero sbagliato e che avendo quasi 1000 euro in contanti, me li avrebbero rubati tutti, non solo 20. Ad ogni modo per sicurezza d’ora in poi chiuderò lo zaino con 2 lucchetti. Il giorno seguente andiamo a Siboney, un’altra spiaggia della zona, questa volta Liu porta anche una sua amica. Tra di noi si parla spesso di come funzioni qui la storia con i turisti, del fatto che i cubani chiamino asilo la Plaza Dolores (che è il posto dove si riuniscono la maggior parte dei vecchietti puttanieri trasferitisi qui a Santiago) e di come il giorno che finirà questa dittatura quegli italiani saranno le prime vittime di una mattanza generale che il paese rischierà di vivere; mi spiega sul come ogni cosa, ogni favore, ogni servizio sia ripagato da una commissione, anche sulle minime cose, sul fatto che qui non si fa niente per niente e che tutti si arrangiano un po’ come possono. In spiaggia conosceremo Sasha, uno dei primi viaggiatori veri che incontro a Cuba: è strano sto tipo, è un paracadutista della squadra nazionale della Bielorussia, la compagnia aerea gli ha perso il bagaglio, quindi se ne va in giro con il suo sacchetto e dorme tra le montagne e in mezzo alle campagne (non parla mezza parola di spagnolo e conosce pochissimo l’inglese!!!). Liu lo inviterà a dormire da un amico suo senza fargli pagare niente, almeno si fa anche una doccia; mi sembra proprio un bravo ragazzo sto Liu. Mi sta piacendo Santiago e dico a Liu che voglio rimanere ancora un altro giorno; in serata gli mostro anche 3 magliette ed un paio di pantaloni che voglio regalargli e che gli avrei lasciato sul letto alla mia partenza. La mattina seguente subito dopo essermi svegliato mi preparo per la mia ultima giornata a Santiago. Apro i lucchetti del mio zaino per un controllo e trovo la sorpresa: tra i miei contanti mancano altri 40 Euro; questa volta non mi posso essere sbagliato, qui mi stanno raggirando come un deficiente, dovevo aspettarmelo. Molto bene, il giocattolo si è rotto, io non sono uno che se le fa proprio scivolare addosso le cose, quindi abbastanza incazzato, ma sempre freddo, preparo lo zaino, mi riprendo anche la roba che avrei dovuto regalare a Liu, vado verso la porta di casa e punto dritto negli occhi la signora: “Isabel, mi avete fregato 20 Euro venerdì e 40 Euro sabato, è arrivato il momento di andare via”. Inizia la commedia napoletana: Isabel mi dice “ma cosa stai dicendo, ti stai sbagliando” etc. Io la blocco subito, le pago 15 CUC per le 3 notti trascorse da lei, la riguardo fissa negli occhi e le dico: “è inutile sprecare troppe parole, sono sicuro che non sei stata tu, ma forse qualcuno che è entrato in casa, magari la nipote, la donna delle pulizie o qualcun altro. Io ora esco, mi siedo sulla panchina del marciapiede di fronte casa tua, aspetto 5 minuti, tu trovi chi è stato e mi riporti le mie 60 Euro, altrimenti mi costringi a denunciarti e faccio scoppiare un casino”. Lei riprende la commedia napoletana, ma la interrompo nuovamente dopo pochi secondi, esco, vado sulla panchina e dall’esterno inizio a fotografare ogni angolo della sua casa. Lei chiama il mio amico Liu che viene a chiedermi spiegazioni ed io mi comporterò alla stessa maniera anche con lui. Poche parole, “mi dovete ridare tutti i soldi altrimenti finisce male”. Se c’è una cosa che tutela il turista a Cuba è proprio la polizia, la dittatura qui è severissima, quindi tutti se la cagano, per una cosa del genere sequestrerebbero la casa e farebbero una multa che per pagarla ci vorrebbero anni. Inoltre bisogna essere molto sicuri di se e non farli parlare troppo, specie in queste situazioni, altrimenti ti raggirano un po’ come vogliono. In circa 10 minuti riavrò tutti i miei soldi fino all’ultimo centesimo, dico addio a Liu e torno per una notte ancora nella casa dove alloggiavo in precedenza. Qui ritroverò R. Al quale racconterò la vicenda che mi è accaduta e lui invece di consolarmi si incazza con me e mi dice: “te lo avevo detto, ma allora non mi ascolti, questo è un paese allo sfascio, se loro potessero ci ammazzerebbero, se non lo fanno è solo perché sono oppressi dal regime che li chiude dentro e butta la chiave. Ma allora sei proprio scemo, tu puoi stare anche tutta la sera con un cubano a raccontare un sacco di cose e lui nella sua testa starà pensando solo a quando tu gli offrirai una birra. Io vengo qui solo per scopare, non ci sono altri motivi per venire a Cuba”. Io continuo a pensare che non possono essere tutti così, a me non piace generalizzare; intanto mentre parlo con R. Entra la ragazza di turno, molto carina, lo saluta, poi saluta me ed io me ne vado in camera mia. Solo qualche minuto e parte una lite molto accesa tra la proprietaria della casa e R.. Alla fine quest’ultimo. Mi spiegherà che la ragazza era diciassettenne e la signora pensava che noi stavamo facendo un’orgia in camera con una minorenne, quindi si è incazzata. Porca puttana, non riesco a vedere altro a Cuba, è arrivato il momento di cambiare città. Ci sono un sacco di contrasti e cose difficili da capire qui, tanto che alla fine mi sarò fermato a Santiago per ben 8 giorni prima di iniziare il mio giro; e questa sarà la permanenza più lunga nella stessa città che io abbia mai fatto in tutti i miei viaggi; ma alla fine ripartirò più confuso e deluso di prima.
Parte 9, Cuba da est verso ovest
Arrivo quindi a Baracoa, nell’estremo est dell’isola, oltre Guantanamo. Qui siamo a meno di 100 km da Haiti e gli abitanti mi racconteranno dell’evacuazione avvenuta il giorno del terremoto: c’era il rischio tsunami e tutta la popolazione è stata obbligata a rifugiarsi in collina per un po’ di ore. Anche qui spunterò un ottimo prezzo per dormire, con 10 CUC una bella stanza legale (saranno tutte legali d’ora in poi) a casa di una signora anziana (che sono sempre le più affidabili) che subito si raccomanda con me: “accetto il prezzo di 10, ma non mi porti nessuna chica in casa”; a quanto pare qui la storia non cambia e la fissazione è sempre la stessa. Si dice che Baracoa sia il posto meno cubano di Cuba, in quanto è molto isolato e perciò qui la gente sia un po’ più vera. In effetti a Baracoa si sta bene, le aggressioni dei cubani sono meno che a Santiago e la cittadina è talmente piccola che la sera ci si riunisce tutti in una piazzetta o in un paio di bar, sia i turisti che la gente del posto. Baracoa è immersa in una bella natura verde ed io passerò le giornate tra lunghe camminate, escursioni a grotte nascoste, passeggiate in bicicletta e relax nella vicina spiaggia Maguana. Conoscerò tra gli altri 2 cinquantenni toscani di origine calabrese molto simpatici, i quali condivideranno con me molte delle mie opinioni su Cuba e sul modo di viaggiare. Fin dall’inizio del mio viaggio avevo deciso che lascerò a Cuba tutti i miei indumenti, medicinali, telefonini ed altra roba portata dall’Italia. Fanno la stessa cosa la maggior parte delle persone in visita nell’isola ed è normale che sia così, vista la situazione estrema che i cubani sono costretti a vivere quotidianamente. Allo stesso tempo però sono convinto che la maggior parte di quello che noi occidentali portiamo a Cuba, vada a finire quasi sempre nelle mani sbagliate, nelle mani dei jineteros (che sono quelli che vanno a caccia dei turisti per mestiere), nelle mani dei proprietari delle case particular, nelle mani di chiunque cerca o per qualsiasi motivo ha a che fare con gli stranieri. Come in ogni zona povera del mondo sono molto comuni le storie di medicinali arrivati come donazioni, ma che finiscono nel mercato nero o sui banconi delle farmacie, indumenti regalati che vengono messi in vendita e via dicendo. Perciò cercherò di fare del mio meglio per non contribuire a tutto ciò. Ho deciso che andrò verso Holguin e pare che la strada più breve non sia coperta dai bus a lunga percorrenza, quindi mi toccherà andare in camion. La mattina presto mi presento al terminal, inizia un’altra lotta con l’autista che si rifiuta di far salire lo “straniero” a bordo, ma alla fine con un po’ di contrattazione eccomi in viaggio seduto su delle panchine distrutte, su strade sterratissime, dove ogni singola buca crea dolore e lividi sulle mie chiappe, naturalmente tutti ammassati come sardine. Il camion ci metterà 3 ore e mezza per percorrere i 70-80 chilometri che separano Baracoa da Moa e sarà un viaggio durissimo. Si passa in mezzo alle campagne, i villaggi isolatissimi e i posti più disparati, perciò decido che questo è il posto adatto per dare il mio piccolissimo contributo al popolo cubano iniziando a distribuire quel poco che ho e ricevendo l’approvazione dai passeggeri che viaggiano con me. Quanto meno sono sicuro che la mia roba va nelle mani di chi non è abituatissimo a riceverne… o almeno quasi sicuro, visto che con i cubani non si sa mai la verità. Moa ha tutta l’aria di essere un posto non piacevolissimo per restarci, pieno di fabbriche e pochi spunti interessanti. Aspetterò quindi in terminal l’arrivo di un bus locale che mi porti ad Holguin. Anche qui gli orari sono inesistenti (una persona mi avviserà al volo che un bus stava partendo verso Holguin) e lotto con l’autista che non vuole farmi salire (ma ormai mi sono abituato). Arriverò ad Holguin che è ormai quasi sera, ho viaggiato tutto il giorno su mezzi di fortuna e sono stanchissimo. Con 2 ragazzi messicani che hanno fatto il viaggio con me andiamo alla ricerca di una casa, ma troviamo subito gente scontrosa. Alla fine con il proprietario di un appartamento finiremo a bordo di una mitica sidecar (la moto che porta anche un passeggero a lato), ma inizieremo una discussione molto accesa in quanto il tipo voleva che noi lasciassimo la stanza molto presto il giorno seguente. I 2 messicani decidono che ne hanno le scatole piene e si fanno riaccompagnare alla stazione degli autobus, le mie di scatole sono ancora più piene e mi aggrego: ho deciso che l’approccio con Holguin non è stato positivo, lo prendo come un segnale e quindi di nuovo a bordo di un bus (quello ufficiale Viazul stavolta) in direzione Camaguey. Arrivo al terminal che sono quasi le 11, mi affido ad un acchiappa-turisti che mi procura un taxi verso il centro e casa a 15 CUC, ma ovviamente ennesimo bidone. Il furbo di turno mi aveva solo venduto la corsa in taxi, mentre la casa se l’era inventata. Alla fine mi ritroverò, che è ormai notte, a bussare le porte delle case particular alla ricerca di un letto per dormire non solo per me, ma anche per 3 ragazzi dell’Estonia, conosciuti a Moa, i quali poverini non parlavano mezza parola di spagnolo e mi sembrava giusto dargli una mano. Chiudo gli occhi stanco morto che sono le 2 di notte. In casa dove dormo a Camaguey c’è una signora olandese che ha un marito cubano in carcere da non so quanti anni e che pare gli abbiano dato spaccio di marijuana dopo averlo pizzicato semplicemente a fumare (non conosco quanto sia vera questa versione, ma una cosa è certa: qui il regime è durissimo e non perdona). Lei ha il tesserino come studente e quindi è autorizzata “addirittura” ad avere internet sul proprio portatile (cosa più unica che rara a Cuba). La proprietaria della casa è così gentile da farmi utilizzare la lavatrice, e così sono pronto a ripartire con lo zaino di nuovo pulito. Camaguey mi è sembrata molto carina, una città coloniale con edifici belli e colorati, ma ho voglia di viaggiare un po’ libero e senza tanta gente che mi stia addosso, quindi già la sera prima, durante l’ultimo tratto di bus, mi ero organizzato via sms con 2 ragazze italiane conosciute a Santiago, anche loro abbastanza incazzate: uniremo le forze e affitteremo una macchina per 5 giorni per andare dove ci pare e quando ci pare (e non è poco a Cuba). Anna e Ambra verranno a prendermi verso l’ora di pranzo. Anche le loro esperienze dei giorni precedenti non sono positivissime (almeno per quanto riguarda il rapporto con i cubani), ad ogni modo decidiamo di prenderla con filosofia e divertirci un po’. Eccoci quindi in strada verso Puerto Padre, una cittadina sul mare nella provincia di Las Tunas. Ad una stazione di servizio lasceremo una bottiglia vuota da un litro e mezzo su un muretto, facciamo il giro dell’isolato e la bottiglia, come avevamo previsto, sparisce. A Cuba tutto ha un valore, una bottiglia vuota vale 5 pesos nazionali (poco meno di 20 centesimi di €uro), con gli stessi soldi in Italia ne compriamo una piena d’acqua, ma a Cuba le proporzioni non esistono. Il giorno seguente andiamo al mare a La Herradura, molto bella, mare da catalogo Francorosso, e finalmente mangio il primo pranzo a base di aragosta (costo 6 CUC, 5 €uro). La Herradura è una spiaggia non troppo turistica, ma anche qui si vedono i papponi italiani con le donne cubane; ma almeno ora ho la compagnia giusta con cui ridere e prenderli per il culo, ne conosceremo anche un paio, di cui un pastore sardo molto simpatico. In serata arriviamo a Gibara, una cittadina nella provincia di Holguin, che è anche sede del Festival Internazionale del Cinema Povero: tanto per cambiare abbiamo un dibattito acceso con un cubano che ha tentato di rifilarci una casa raccontando un sacco di bugie e alla fine finiremo col dormire in macchina. Il giorno seguente un vecchietto pescatore simpatico ci guiderà insieme ai suoi nipotini su di un’isola di fronte a Gibara. Prendiamo una barchetta per 5 centesimi di €uro e, dopo una camminata di una ventina di minuti, ancora una barchetta verso un’altra isola dove, nel modo più illegale, si svolge una lotta tra galli, con tanto di scommesse clandestine e venditori ambulanti di sandwich. Che posto, proprio non me lo aspettavo di trovarlo a Cuba. Il pomeriggio siamo in spiaggia a Pesquero, questa volta abbiamo i resort alle nostre spalle, ma il mare ne vale veramente la pena. In serata eccomi ritornare ad Holguin, ma solo per cenare in un ristorante, e poi via di nuovo verso Camaguey. L’arrivo notturno e la poca pazienza nel cercare un alloggio, ci porterà a dormire nuovamente in macchina: ed è stato così che sia la vigilia che il giorno del mio trentesimo compleanno ho passato la notte dentro un’auto. Trascorreremo un’altra giornata in spiaggia nella famosa Cayo Coco e, stanchi dei 2 giorni passati a dormire in macchina, decidiamo che forse è il momento di concederci un vero resort da turisti, di quelli all inclusive. Con un piccolo giochetto riusciamo ad ottenere 3 braccialetti al prezzo di 2, pagheremo 120 CUC, ma saranno ben spesi: mangiate al buffet, camera king size, piscine, giardiniere che ti raccoglie il cocco dalla palma eccetera. Ci siamo proprio ripresi grazie a questa mossa, ma è arrivato il momento di ripartire (io se sto più di un giorno in un villaggio turistico mi rompo le scatole): in giornata piccola escursione a Cayo Guillermo e via di ritorno verso la terra ferma. A Cuba viaggiare in macchina non è proprio economico, ma si hanno dei gran bei vantaggi, ti fermi quando vuoi e vai in posti dove difficilmente si arriva con altri mezzi di trasporto. E allora nei giorni passati ci siamo ritrovati a comprare la frutta alle bancarelle nei villaggi e la famosa peso-pizza, una sottospecie di focaccina del valore di 5 pesos e dal sapore assolutamente nullo, che si è diffusa molto nei momenti critici della storia del paese per scongiurare la fame e a basso costo. Siamo arrivati a Trinidad, andiamo in spiaggia ad Ancon e lasciamo la macchina presa in affitto, il giorno dopo Ambra ed Anna ripartiranno verso Cienfuegos ed io decido di rimanere qualche giorno in più: è arrivato il momento di dividerci. Trinidad credo sia la più turistica delle città cubane, ma devo dire che è molto bella e particolare: ci sono le stradine in acciottolato e la sera ci si riunisce tutti in centro su una scalinata piena di turisti dove suonano e ballano ogni volta diversi gruppi musicali. Anche qui cerco di fare un po’ di sport affittando una bicicletta con cui arriverò fino alla spiaggia e mi farò un paio di mangiate di aragoste per i soliti 5 €uro. Prossima destinazione Cienfuegos, una città che si rivelerà abbastanza piacevole da spenderci un paio di giorni. Un pomeriggio provo a giocare a pallone con un gruppo di ragazzi: a Cuba, come un po’ in tutta l’America Latina le partite hanno la durata di un gol, la squadra che segna resta, quella che perde esce e lascia il posto al nuovo team, così si ha una rotazione veloce, le partite difficilmente durano più di 10 minuti e non si perde troppo tempo ad aspettare. La mia di partita durerà una trentina di secondi: la squadra avversaria prende palla, fa un’azione e gol. Grazie e arrivederci, meglio una passeggiata sul lungomare, che la sera tardi si riempe di giovani e diventa il punto di ritrovo dell’intera città. Cuba tra i vari difetti resta il posto perfetto per chi ama fare fotografie, ci sono tante scene e situazioni veramente assurde e un sacco di cose da raccontare; quello che si vede a Cuba, lo si vede solo a Cuba, difficilmente si vede qualcosa di simile in altre parti del mondo: le poche macchine in giro sono vecchie di 50 anni (tranne quelle in affitto ai turisti e qualche eccezione), aggiustate e ripristinate con pezzi trovati qua e là. I cubani si devono inventare di tutto per tirare avanti. Mi ricordo a Santiago che mi avevano raccontato di un tizio che aveva ricostruito un motore mettendo insieme i pezzi di due motori rotti. E poi ci sono i sidecar che sono bellissimi, i bici-taxi con questi ragazzi che pedalano tutto il giorno per portare i passeggeri e naturalmente i cavalli. A Cuba è obbligatorio avere un lavoro, teoricamente non esiste disoccupazione, ma gli stipendi sono così bassi che in molti fanno carte false pur di non lavorare, in modo da avere più tempo per dedicarsi a qualche “negocio”, come lo chiamano loro, ossia un lavoretto a nero sicuramente più remunerativo. In ogni ufficio, in ogni negozio, in ogni posto di lavoro legale ci si scontra con una lentezza e poca voglia di lavorare assolutamente disarmanti; tanto la paga a fine mese sempre quella è. A Cuba c’è un sistema di controllo del territorio che è infallibile: ricordo che a Camaguey ogni cittadino a turno una volta al mese aveva il compito di sorvegliare la propria strada nelle ore notturne (se sei un uomo dalla mezzanotte alle cinque, se sei una donna farai il servizio in due dalle 10 alle 12 la sera). In ogni isolato c’era una porta di casa con la targa “Presidente”: significa che lì abita il presidente di quella zona che è a sua volta controllato dal presidente del quartiere, poi da quello che noi chiameremo sindaco, poi dal segretario provinciale del partito comunista e infine Raul Castro a capo di tutti. E’ un sistema infallibile che tiene tutti a bacchetta, i cubani sono oppressi e hanno paura di sbagliare ed essere puniti: d’altronde non si spiega diversamente come mai in un paese così povero non ci sia molta violenza e delinquenza e droga sono mantenute ai minimi livelli; si dice che ogni 4 cubani 1 sia una spia, non oso pensare cosa potrà succedere quando finirà questo regime, immagino che in molti si siano legati il nodo al dito e stiano aspettando di risolvere le proprie controversie con la spia di turno. Gli scaffali dei negozi sono vuoti o quasi e la merce è contata in modo che nessuno (dipendenti compresi) possa rubare. I menu nelle gelaterie molte volte non hanno più di 2 o 3 scelte, è curioso che ti portano un menu enorme, lo apri e ci sono scritte solo un paio di righe. Addirittura nei menu dei ristoranti per ogni porzione è indicato a quanti grammi corrisponde, così il cliente sa cosa dovrà aspettarsi nel piatto; ed ecco la coscia di pollo da 324 grammi, o la porzione di maiale da 238 e gli spaghetti da 156 grammi, peccato che nel piatto te ne trovi sempre la metà o anche meno (d’altronde chi lavora nei ristoranti guadagna 20 CUC al mese come tutti gli altri e quindi recupera portandosi il mangiare a casa). Ma la cosa forte è che sui menu dopo il caffè c’è sempre il preservativo!!! Avete capito bene: al ristorante si vendono i condom, uno costa mezzo centesimo di €uro, il pacco da 3 di qualità superiore costa 3 centesimi di €uro, il tutto made in China. Quanto meno sponsorizzano i rapporti protetti alla portata di tutti e il governo non permette alla religione di mettere troppo il dito in mezzo alle situazioni sociali del paese. Cuba ha rapporti economici con la Cina ed importa molti beni dall’impero comunista, quindi nei pochi negozi di marche conosciute esistenti, tipo Adidas, Vans eccetera, si può anche trovare lo stesso modello che si trova in Europa, ma fatto con materiali più scarsi e nonostante ciò ad un prezzo altissimo. In teoria il sistema non permetterebbe al cubano di avere accesso a tali beni, in pratica qualcuno che è più benestante, ma non si sa come, compra. Si dice addirittura che il cambio di moneta effettuato qualche anno fa (da quando sono stati introdotti i CUC a Cuba il dollaro americano è proibito) sia stato fatto apposta per controllare ogni cittadino e sapere così quanti soldi ha. Forse per lo stesso motivo è stata presa la decisione di concedere ai cittadini cubani l’accesso nei posti fino al 2008 riservati solo ai turisti; come per esempio gli hotel di Varadero e Cayo Coco. Per un cubano resta vietato mangiare la carne di vacca, l’aragosta e i gamberi, eccessi che ufficialmente sono riservati agli stranieri e che quindi alimentano ancora una volta il mercato nero di questi prodotti. Ma torniamo a Cienfuegos: un pomeriggio di rientro verso casa mi ritrovo Ambra e Anna, che risate! Andiamo a cena insieme e poi in serata quasi per caso mi ritrovo in teatro al concerto musicale di un artista cubano famoso di cui non ricordo il nome. Teatro pieno con i fan vestiti bene che cantano tutti i brani a memoria. E nessuno che rompe le scatole!!! Quasi non ci credevo più che a Cuba potesse esistere tale situazione. Ma evidentemente qui gli eventi culturali sono molto promossi dal governo e la prova lo è il costo irrisorio del biglietto che non superava i 25 centesimi di €uro (quanto costa da noi andare a vedere Jovanotti o Ligabue?). Subito dopo il concerto vado in un locale, una specie di discoteca e qui si torna alla solita situazione: gli italiani (che sono sempre troppi) e le cubane; e allora decido di divertirmi un po’: me ne sto con una ragazza del posto in cerca di fortuna che avevo conosciuto nello stesso locale la sera prima. Lei già sa che da me non otterrà nulla, però è una tipa simpatica e parla anche italiano, visto che è stata sposata per qualche anno a Rimini (ma va?). Quindi l’aiuterò a trovare l’italiano tonto di turno e lei in cambio mi spiegherà nei dettagli tutta la storia della prostituzione in quel locale. Ne verrà fuori un quadro raccapricciante: tutte le ragazze nella discoteca stanno lì solo per cercare di riempire un po’ il portafoglio e quando a noi si avvicinano le sue amiche, le vedo sempre a spettegolare e prendere per il culo i ragazzi stranieri che ci cascano. La verità è che loro sono bravissime, delle vere attrici e ci faremo delle gran risate insieme. Peccato per la mia amica che non sono riuscito a trovarle nessuno per quella sera, lei mi ringrazierà lo stesso offrendomi da bere e ci salutiamo a fine serata. Lascio Cienfuegos, direzione Santa Clara, la città dove Che Guevara ottenne una grande vittoria durante la rivoluzione. Non si trovano bus che coprano il tragitto prima di sera, quindi dopo le solite lotte con gli autisti, riesco a partire con uno di quei macchinoni particular usati dai cubani e parcheggiati fuori dai terminal. L’autista pare una brava persona rispetto agli altri, gli lascio quindi 100 pesos per il rischio presosi per portarmi (la tariffa pagata dai cubani per quel tragitto è 40), ma lui mi da 50 indietro e mi dice che non è di quelli che si approfittano dei turisti. Ed ecco che allora anche a Cuba ogni tanto ci sono dei segnali di gente onesta… o quasi. Avevo deciso di visitare la tomba ed il museo del Che e poi ripartire direttamente per l’Avana, ma purtroppo di lunedì è tutto chiuso e quindi resterò a dormire in città per poi riprendere il viaggio il giorno seguente, subito dopo la visita al mausoleo. In una piazzetta di Santa Clara ci sono ancora i vagoni deragliati che Che Guevara aveva assaltato con i suoi uomini per entrare in possesso delle munizioni dell’esercito di Batista. Per il resto è una cittadina tranquilla, simile a molte altre città cubane. La tomba del Che non è niente di speciale, è incassata e si trova insieme alle tombe di altri combattenti, fu riportata a Cuba non so quanti anni fa e si riconosce solo grazie al nome scritto sulla lapide.
Parte 10 (ultima), L’Avana, Conclusioni e Statistiche di Viaggio
Questo mio viaggio è stato una gran bella sfacchinata e ho deciso che quindi anche l’ultimo tratto di strada che mi avrebbe riportato a L’Avana doveva essere particolare. Tra le tante cose strane, a Cuba ci sono gli amarillos , si chiamano così semplicemente perché indossano un giubbotto giallo. Il loro lavoro è quello di fermare le macchine in strada per la gente che ha bisogno di un passaggio: in teoria chiunque ha un mezzo con la targa blu (il colore delle targhe è diverso in base alla professione che uno svolge) è obbligato a fermarsi e dare un passaggio a chi ne ha bisogno, proprio bella e comunista sta storia; peccato che sono in pochi a rispettare questa regola. Io vado in ufficio, pago 3 pesos per mettermi in coda e aspetto in strada insieme agli altri. Dopo 1 ora e mezza si fermerà solo un camion che caricherà una ventina di persone, ma purtroppo era diretto da un’altra parte. Un po’ per la stanchezza e un po’ per il sole che spacca le pietre decido di abbandonare subito l’idea degli amarillos. E’ mattina e purtroppo il primo bus Viazul per l’Avana parte in serata (tra l’altro non sono sicuro che ci sia posto), quindi decido di tornare nella zona del mausoleo del Che e fare l’autostop: mi darà il passaggio un italiano con moglie e bambino cubani al seguito molto gentili. 270 chilometri separano L’Avana da Santa Clara e il veronese mi lascerà più o meno a metà strada, vicino dove abitavano loro. Per il secondo tratto troverò al volo un passaggio con un tir. Pagherò all’autista 40 pesos nazionali (poco più di 1 €uro, qui anche gli autostop hanno un prezzo) ed eccomi a bordo di un autotreno nuovo di zecca importato dal Brasile (pare che Cuba abbia rapporti commerciali con questo paese) che trasporta anidride carbonica e che mi lascerà proprio all’entrata della capitale sul raccordo più esterno. In tutta Cuba il traffico è pressoché inesistente e la strada nazionale che entra nella capitale è quasi deserta: per l’intero tragitto incroceremo pochissimi veicoli ed abbiamo le corsie tutte per noi. Il camionista mi lascerà sotto un ponte da dove con un altro autostop mi dirigerò ai quartieri periferici della capitale. Nell’attesa di trovare il passaggio mi libererò delle mie ciabatte che naturalmente spariranno nel giro di pochi minuti, prese in consegna da un signore che ne ha sicuramente più bisogno di me. Ci vorranno ncora un paio di bus locali per raggiungere il Vedado, quartiere residenziale dove vive la mamma di Cristina a cui vado a fare una visita, e poi un altro ancora per raggiungere Centro Avana. Sarà buio quando avrò trovato alloggio (non con poche difficoltà) a L’Habana Vieja, il centro storico della capitale. Sono stanco morto, ma questo resterà l’ultimo grande sacrificio del mio viaggio. A distanza di 8 anni sono ritornato a L’Avana, la trovo molto cambiata, il centro storico ha molte piazzette e palazzi completamente restaurati e sembra un po’ più curato di come lo avevo lasciato. Ma basta spingersi un po’ più in periferia per ritrovare i palazzi decadenti che crollano se piove un po’ troppo. I miei 5 giorni li trascorrerò a gironzolare un po’ qua e la, la proprietaria della casa in cui alloggio (prezzo strappato a 15 CUC per notte), oltre a farmi usare la lavatrice per l’ultimo lavaggio, mi presterà una bicicletta con la quale farò un sacco di chilometri spingendomi fino al quartiere Miramar. Andrò a cercare i quartieri più poveri oltre il Centro Avana per completare la mia distribuzione di vestiti e prodotti per l’igiene e, come sempre, non darò niente a chi mi chiede l’elemosina in strada nelle zone turistiche; anche l’Avana è un continuo bombardamento di richiesta di penne, magliette, chi ti propone questa o quella cosa, il turismo di massa purtroppo crea anche queste conseguenze. In un paio di occasioni finisco quasi per caso dentro vecchie stanze trasformate in sale di registrazione: gruppi di 10 o 15 elementi che suonano da Dio con strumenti forse vecchi di 50 anni; proprio come me la ricordavo, a Cuba la musica è una storia a parte. Tra le altre cose andrò a visitare il museo della Rivoluzione, pieno di oggetti, foto e articoli di giornale che ripercorrono passo dopo passo gli avvenimenti della storia cubana ed il Granma tutto restaurato e rimesso a nuovo. Un paio di giorni li trascorrero in spiaggia a Playa de l’Este dove mangerò l’ultima aragosta del mio viaggio; peccato però che c’è vento ed il mar dei Caraibi non mi offrirà proprio il meglio di sé. Nella piazza dove c’è la Cattedrale farò amicizia con 3 ragazzi cubani, bravi sti qua, per niente aggressivi, uno di loro suona il basso nei locali dell’Havana Vieja e quasi ogni anno ha dei contratti in Europa per suonare un po’ in giro. Si radunano tutte le sere in una specie di piccolo teatro ed io andrò a trovarli praticamente sempre. Una notte siamo usciti insieme nella zona del Vedado e devo dire che qui si trova una Cuba diversa da quella alla quale sono stato abituato: pieno di giovani, gente che suona la chitarra in strada, ragazzi nei bar e poca aggressione nei miei confronti. In una piccola discoteca di musica elettronica, troviamo quelli dell’Avana bene, i benestanti, tutti tirati e infighettiti tipo gli europei, alla ricerca dell’ultima moda. Ma basta ritornare nella zona ad alta densità di bar e discoteche, sempre nel Vedado per ritrovarsi nella solita storia di salsa, reggaeton e chicas che mostrano interesse verso lo straniero. Ci sono inoltre intere vie ed isolati ad altissima densità omosessuale nel quartiere. In questi giorni a L’Avana approfitterò dell’amicizia con i 3 ragazzi cubani per approfondire le mie informazioni su Cuba: ed ecco scoprire che anche ognuno di loro ha un lavoro che il governo li obbliga a svolgere per i soliti 20-25 CUC mensili, ma poi si cerca sempre di arrotondare in altre maniere: uno è un maestro di educazione fisica, ma fa i salti mortali per cercare di assentarsi il più possibile da scuola per dedicare il tempo alla sua vera attività: quella di venditore di indumenti porta a porta; mi spiegherà che svolge la sua attività tramite passaparola, ma che non vende mai niente a coloro che abitano nel suo condominio perché a Cuba ci sono troppe spie e sarebbe quindi pericoloso. Ma come la trova questa roba da vendere? Parenti, amici, ma soprattutto i turisti che si pagano le vacanze importando e vendendo l’impossibile ai cubani. Eh già, perché un altro aspetto dell’embargo è proprio questo: nonostante la povertà estrema alcune cose che da noi valgono 1, a Cuba costano per 4 o 5 volte, proprio a causa della mancanza di relazioni che il paese non ha con il mondo esterno; ricordo che a Holguin mi avevano indicato un Italiano che veniva in vacanza tutti gli anni e vendeva per 5 CUC gli orecchini e le collanine made in China che da noi si trovano un po’ dappertutto per 1 Euro; e come sempre si approfitta quindi della situazione estrema del paese, uno sciacallo in poche parole. Ma come lui ne esistono tantissimi a Cuba. Un altro dei 3 amici mi racconterà della sua disavventura vissuta durante un tentativo di fuga verso Miami, poi conclusasi con il rientro a Cuba dopo giorni in mezzo al mare. C’è stato un periodo degli anni ’90 in cui la povertà aveva toccato il fondo e molti cubani si erano messi in fuga tutti insieme con barche e canotti di fortuna, con l’esercito che sparava un po’ dove poteva e ammazzava chiunque finisse sotto tiro. Per un momento Fidel aveva addirittura aperto le frontiere, dando la possibilità a tutti i cubani di fuggire, quindi chiunque ha potuto se n’è andato a Miami; fino a quando gli Stati Uniti non hanno bloccato in qualche maniera questa fuga di massa, raggiungendo un accordo con Castro. Oggi fuggire a Miami costa 8000 dollari circa, è un viaggio clandestino naturalmente, ci sono barche che lasciano l’isola praticamente tutti i giorni; si paga la metà in anticipo ed il resto una volta raggiunte le acque internazionali; ma ovviamente senza nessuna garanzia di raggiungere la sponda opposta. Un’altra ragazza mi ha raccontato che il modo più economico per raggiungere gli States è quello di fare un finto contratto di lavoro in Equador (Cuba autorizza questo tipo di contratti con i paesi amici), per il costo di “soli” 2000 dollari, e poi da lì risalire via terra verso gli Stati Uniti; questo è il suo sogno. Negli Usa il cubano può usufruire di una legge particolare (credo si chiami la legge del “pie seco” o qualcosa del genere), dove se si viene beccati nel territorio statunitense e si è asciutti, in automatico si viene accettati negli Stati Uniti; se invece si viene presi con una parte del corpo ancora umida (probabilmente perché arrivati con una barca clandestina) si viene rispediti a Cuba come clandestini. Questa è una delle tante stranezze dell’America e significa che mentre un clandestino di un altro paese resta sempre tale finché non trova una maniera alternativa per legalizzarsi (per esempio un finto matrimonio, un figlio, un contratto di lavoro etc.), ad un cubano che riesce a passare la frontiera illegalmente basta presentarsi ad un posto di polizia (asciutto naturalmente) per ricevere documenti e addirittura assistenza per vivere negli Stati Uniti; questo privilegio è naturalmente una maniera per gli Stati Uniti di andare contro il governo cubano ed aiutare simbolicamente i profughi. Il mio viaggio a Cuba si concluderà con un incontro strano: l’ultima mattina, poco prima di prendere il taxi che mi avrebbe riportato in aeroporto, stavo passeggiando nella strada principale della zona vecchia, entravo ed uscivo dalle case del quartiere per cercare qualche buon sigaro di qualità e indovinate chi mi ritrovo di fronte? Romano Prodi, si proprio lui, insieme ad un gruppo di suoi amici. Che strano, no? Lo saluto e gli chiedo di fare una foto insieme; lui molto gentilmente accetta con la sua solita faccia da fesso che si ritrova. E pensare che la maggior parte delle volte che ho raccontato ad un cubano del mio incontro con Fidel Castro avvenuto nel 2002, difficilmente sono stato creduto; il problema è che non ho potuto neanche dar loro il link del video caricato su Youtube, in quanto internet è un vero lusso. Sono a bordo di un taxi contrattato per 10 CUC e la valigia praticamente svuotata dei miei indumenti, ma ricaricata con un paio di bottiglie di rum e qualche scatola di sigari. Da Cuba si riparte sempre con una grande confusione in testa, i contrasti sono veramente troppi e la mia idea rimane sempre la stessa: qui tutto è ed è stato una “grande bugia”, dall’inizio della rivoluzione fino ai tempi nostri; Fidel è stato un grande rivoluzionario, ma con il potere in mano si è comportato uguale o anche peggio degli altri; chi ci rimette è naturalmente il popolo. C’è un po’ l’aria del cambiamento, ma il tutto è ancora troppo lento; e questo tipo di situazione come al solito mantiene i poveri sempre più poveri e non fa che avvantaggiare i furbi e gli stranieri in cerca di business e sesso facili. Ricordo ancora l’impiegata dell’ufficio del turismo di Santiago quando mi disse che un giorno uno di quei voli della Panorama in arrivo dall’Italia lo faranno scomparire dai radar; credo che questo sia un po’ il sentimento di molti cubani. E se penso ai racconti di Liu di quando nei periodi più poveri c’è chi vendeva al mercato la carne di cane con la testa di maiale appoggiata sopra, spacciandola appunto per maiale, c’è da farsi venire un po’ i brividi. Nonostante mi sia piaciuta molto Baracoa, alla fine dei conti comunque Cuba non resterà il mio posto preferito per viaggiare: ci sono un sacco di difficoltà, la poca varietà nel mangiare unita ad un lungo viaggio iniziato già mesi prima mi ha un po’ stancato e, nonostante tutte le lotte, penso che, tirando le somme, molti cubani siano un po’ senza palle. Certo è che c’è da rendersi conto di quanto sono fortunato a poter prendere un aereo quando voglio e tornarmene a casa, cosa che da queste parti viene vista come un miraggio. Conclusioni: faccio ritorno a Città del Messico, ormai sul mio passaporto non ci sono più pagine vuote e la dogana stamperà il timbro d’entrata sopra vecchi timbri di altri paesi; mi fanno una multa in aeroporto per aver importato qualche sigaro di troppo e ritorno nello stesso hotel dove ho alloggiato il primo giorno del mio lungo viaggio. Il dia seguente trascorro la mattinata tra mercatini e negozi, l’aria messicana mi piace sempre, passeggiata al parco (purtroppo non potrò visitare il museo di Antropologia in quanto è chiuso di lunedì) e volo di rientro via Londra. Solitamente è mia abitudine svegliarmi presto e fare tante cose prima di un volo a lungo raggio, così da arrivare stanco a bordo e dormire come un bambino; peccato però che la British mi ha fatto trovare sullo schermo davanti al sedile, il film “This is it” con Michael Jackson, che non ho potuto non vedere almeno 2 volte, arrivando a Londra come uno zombie. Ora sono sul terzo volo, quello che mi porta da Roma a casa e mi passano per la mente tutti i momenti ed i flash dell’intero viaggio. Penso a tutto quello che mi è successo in questi mesi, ma come alla fine dei conti sia finita bene l’avventura in moto, penso ai viaggiatori incontrati in bicicletta (quelli che partono dal Canada ed arrivano alla Tierra del Fuego) e di come loro siano ancora più pazzi e pazienti a fare quel tipo di avventura, penso agli animali che mi attraversavano all’improvviso sulle strade rotte del Centro America, penso alle formiche enormi che una notte mi hanno morso in Nicaragua e che mi hanno provocato ore di prurito inarrestabile (mi ero gonfiato tutto, pensavo di morire!!!), penso alla situazione povera che vivono la maggior parte dei cittadini del mondo e di come noi invece siamo i privilegiati del pianeta, ma soprattutto penso già al mio prossimo viaggio, un viaggio che è nel cassetto da ormai troppi anni e non può più attendere: l’Africa non può deludermi…
STATISTICHE
Giorni di viaggio: 134 Giorni in moto: 98 Chilometri percorsi: circa 15000 – 16000 Chilometri percorsi in moto: circa 12000 – 13000 Numero di meccanici: 38 Record assoluto di pit-stop: 10 meccanici in 8 giorni Giorni di viaggio bruciati per problemi tecnici: piu’ o meno 15 Paesi visitati: Messico, Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costarica, Panama, Belize, Cuba Paesi preferiti: Nicaragua, Messico, Guatemala Paese piu’ caro: Costarica e Cuba (se si fa il turista) Paeso piu’ economico: Nicaragua e Cuba (se si fa il cubano) Spese per passaggio frontiere (passaporto, permessi e assicurazioni moto): 200 dollari circa (più o meno 140 Euro) Totale spese meccanici: 9000 Pesos (500 Euro circa) Costo moto: 21000 Pesos (1100 Euro circa) Vendita moto: 20000 Pesos (sempre 1100 Euro, per via della variazione del cambio) Totale spese incluso voli: 5200 Euro (standomene a casa non avrei speso molto di meno)
Itinerario di viaggio:
Messico 30/9 – Città del Messico 3/10 – Teotihuacan 4/10 – Horobas 5/10 – San Juan del Rio 6/10 – Tequisquiapan – San Miguel de Allende – Guanajuato 8/10 – San Luis Potosi – Real de Catorce 9/10 – San Tiburcio 10/10 – Zacatecas 11/10 – Guadalajara 12/10 – Chapala 13/10 – Maruata 14/10 – Caleta de Campos 15/10 – Playa Azul – Zihuatanejo 17/10 – Baia de Potosi – Cayaquitos – Acapulco 20/10 – Puerto Escondido 22/10 – Zipolite 23/10 – San Jose del Pacifico – Oaxaca 25/10 – Cuilapan de Guerrero – San Pedro Totolapan – Tehuantepec 26/10 – Canyon Sumidero – San Cristobal de las Casas 27/10 – Agua Azul – Palenque 28/10 – San Cristobal de las Casas 30/10 – San Juan Chamula Guatemala 31/10 – Huehuetenango 1/11 – Todos Santos Messico 2/11 – Comalapa Guatemala – Huehuetenango 3/11 – San Francisco El Alto – Lago Atitlan – San Pedro Laguna 6/11 – Antigua El Salvador 9/11 – La Hachadura 11/11 – El Tunco 13/11 – San Salvador – San Miguel Nicaragua 14/11 – Leon 16/11 – Managua – San Juan del Sur – Playa Maderas Costa Rica 18/11 – Liberia – Lago Arenal – Fortuna 21/11 – San Jose – Quepos 22/11 – Manuel Antonio 23/11 – Puerto Jimenez – Corcovado Panama 25/11 – Boquete 26/11 – Città di Panama 28/11 – Bocas del Toro Costa Rica 1/12 – Puerto Viejo 3/12 – Limon – Turrialba – San Jose 5/12 – Tamarindo 8/12 – Liberia Nicaragua – Isla de Ometepe – Rivas 10/12 – Granada 12/12 – Esteli Honduras 14/12 – El Paraiso 15/12 – San Pedro Sula 17/12 – Rio Dulce Guatemala 18/12 – Flores 19/12 – Tikal Belize 20/12 – San Ignacio 21/12 – Belize City 22/12 – Cayo Culker 23/12 – Belize City Messico 24/12 – Laguna di Bacalar – Mahahual 26/12 – Tulum 29/12 – Playa del Carmen 31/12 – Cozumel – Playa del Carmen 2/1 – Cancun 6/1 – Isla Mujeres 8/1 – Cancun Cuba 9/1 – L’Avana 10/1 – Santiago de Cuba 14/1 – Contramaestre – Santiago de Cuba 18/1 – Baracoa 21/1 – Moa – Holguin – Camaguey 22/1 – Puerto Padre 23/1 – Playa La Herradura – Gibara 24/1 – Playa Pesquero – Camaguey 25/1 – Cayo Coco 26/1 – Cayo Guillermo – Trinidad 30/1 – Cienfuegos 1/2 – Santa Clara 2/2 – L’Avana Messico 7/2 – Città del Messico