Etiopia, crocevia dei popoli
L’idea era di star via due settimane in sette persone, dedicando la prima parte del viaggio alla zona storica dell’Etiopia e la seconda alle etnie sull’Omo River. Pianifico quindi il viaggio, ma quando arriva il momento di prenotare i voli interni, non mi è stato possibile trovare il volo a metà viaggio, cioè il 02.11, ma solo per il 03.11, ho quindi dovuto ripianificare il tutto aggiungendo un giorno in più a Lalibela, anche se l’agenzia locale (www.greenlandtoursandhotels.com), a cui ci siamo appoggiati per la logistica e la prenotazione degli alberghi di Arba Minch e Turmi, mi aveva consigliato di aggiungerlo alla visita delle chiese del Tigrai; la mia impressione è stata però che volesse addebitarci un giorno in più di pulmino, piuttosto che darci un buon consiglio; alla fine ho deciso di aggiungerlo a Lalibela, dove ci siamo mossi con un contatto locale, che avevo trovato tramite l’Emanuel Guest House. Con il senno di poi avrei dedicato un giorno in più alla zona del lago Tana, dato che i tempi erano troppo stretti, anche se tutto ci fosse andato bene.
Il problema è stato però decidere a che cosa rinunciare nella seconda parte del viaggio tra le tribù dell’Omo River, perché ognuna aveva la sua peculiarità. Leggendo qua e là, ho deciso di escludere Gesergio e un mercato locale. Il mio gruppo di amici ha di buon grado accettato la nuova riorganizzazione, che comunque abbiamo poi ulteriormente stravolto per poter vedere il Bull Jumping, escludendo anche El Sod con la discesa al cratere e al pozzo cantante di Dubluk, che poi abbiamo scoperto non essere percorribile a causa delle forti piogge di quei giorni.
Una volta prenotati i voli, abbiamo richiesto online il visto turistico da 30 giorni sul sito www.evisa.gov.et. Viene emesso in due giorni, con 52 USD, con estrema facilità di compilazione e mandato via e-mail, va quindi stampato e portato con sé per tutto il viaggio (attenzione che a Omorate, essendo al confine con il Kenya, viene richiesto). Non vengono richieste informazioni particolari, se non i dati del passaporto, del volo e dell’albergo (noi abbiamo messo il primo in cui abbiamo soggiornato). Se volete qualche spiegazione in più, su questo sito ho trovato notizie utili: www.ethiopianembassy.it/servizioConsolare.html#richiestaVisto
Volendo dare qualche informazione generale e premettendo che queste indicazioni non vogliono sostituire i consigli che fornisce la ASL (ufficio vaccinazioni internazionali), nessun vaccino è obbligatorio, ma sono consigliate le vaccinazioni contro l’epatite A, l’epatite B, il tetano, la difterite, il tifo e l’anticolerica, utile per la diarrea del viaggiatore. Anche la profilassi antimalarica è consigliata, io personalmente non l’ho fatta, perché la stagione delle piogge era ormai passata e perché ero munita di repellenti: per la pelle consigliato il Jungle o l’Autan tropicale e per gli abiti e le lenzuola, il Biokill, perché contiene permetrina, molto efficace anche contro le pulci, che sono un problema endemico, anche negli hotel di livello: noi, per fortuna, non ci siamo imbattuti in questi fastidiosi animaletti, ma ci eravamo portati dietro anche il sacco lenzuolo per ogni evenienza.
Per la preparazione della valigia, abbiamo tenuto presente che in quel periodo a sud le temperature erano tra i 20° e i 35°, mentre a nord, essendo su di un altipiano, con un’altitudine tra i 2000 e i 3000 metri, erano tra 10° e i 25°.
Le prese elettriche sono tipo le nostre, ma senza messa a terra e abbiamo trovato il wi-fi in quasi tutti gli hotel.
La moneta è il birr che abbiamo cambiato a 32,71 in banca a Bahir Dar e a 33,33 a Lalibela e a Turmi. Per darvi un’idea del costo della vita, una bottiglietta d’acqua costa circa 5/10 birr, un casco di banane 20 birr e una birra 70 birr. Le entrate richieste in USD e gli hotel prenotati in USD o euro (tutti su Booking.com), conviene pagarli in birr, perché fanno sempre un ulteriore sconto con il cambio. Indicherò costo di cene e hotel per sette persone e entrate per persona.
Non avendo la certezza che nella seconda parte del viaggio, le valigie sarebbero state protette da polvere e pioggia, ci siamo portati dietro anche sacchi neri e/o quelle che io chiamo sacche “cadavere”, fatte apposta per contenere e proteggere valigie e borsoni e per evitare che i lacci degli zaini rimangano impigliati ovunque. Per fortuna però le valigie non hanno viaggiato sul tetto e quindi non c’è stato bisogno di queste protezioni.
Siamo partiti inoltre con penne, quaderni e matite per i bambini, ma la prima volta che abbiamo cercato di distribuirli, siamo stati letteralmente assaliti da un gruppo che ce li ha strappati di mano; dopo di che, l’autista ci ha chiesto di donarli, solo quando lo diceva lui, perché aveva paura che i bambini rimasti senza “regalo” potessero danneggiare l’auto tirando sassi, cosa che ci è capitata alla fine della prima parte del viaggio: per fortuna senza danni.
25/10
Il nostro viaggio inizia parcheggiando l’auto presso il nostro parcheggio di fiducia, Ceria Malpensa www.ceriamalpensa.it che per 47 euro custodirà la nostra auto per l’intero periodo. Partiamo con un volo Ethiopian Airlines da Malpensa per Addis Abeba alle 23.30, con arrivo alle 06.50, quindi coincidenza delle 08.10 per Bahir Dahr, dove arriveremo alle 09.10 (391 euro). La franchigia per il bagaglio da stiva è di 2 valigie da 23 kg l’una sui voli internazionali, mentre è di 20 kg per i nazionali. Il bagaglio a mano non deve superare i 7 Kg, con dimensioni 23 x 40 x 55 cm ed è consentito portare anche un accessorio (borsa, PC portatile, etc.).
26/10
Arriviamo in orario da Milano ad Addis Abeba. Nell’aeroporto della capitale, capire quale sia il gate della coincidenza per Bahir Dar è un’impresa, dato che non ci sono né video né indicazioni; abbiamo chiesto a tre persone, che ci hanno dato tre indicazioni diverse, una ci ha addirittura fatto fare i controlli di zaino e corporali prima di dirci che eravamo nel posto sbagliato. Una volta indirizzati verso il gate corretto, ci hanno fatto passare “saltando” ulteriori controlli, pur di non far ritardare il volo. Purtroppo alcune valigie non arrivano a destino, ma ci mettiamo d’accordo con il personale di terra che ci vengano consegnate direttamente in hotel, dato che le avrebbero caricate sul volo del pomeriggio. Ad Arba Minch non c’è un ufficio cambi, quindi ci fermiamo alla macchinetta cambio valuta, infiliamo euro e cambiamo in birr, finché non ci vengono “mangiati” 100€. Un addetto dell’aeroporto ci aiuta a chiamare la banca, il tecnico però di sabato non lavora. Ci indicano la banca di riferimento e dopo aver trovato Tafari, l’autista del nostro pulmino, prima ci fermiamo a cambiare i soldi in banca, chiedendo a un responsabile di mettersi in contatto con la filiale centrale per risolvere il problema della macchinetta. Ci dicono che dobbiamo andare di persona alla banca centrale; una volta arrivati chiediamo di Salomon, che pensavamo essere il tecnico, ma è invece il direttore. Chiaramente non ci ridanno i soldi, ma ci spiegano come fare la denuncia. Usciti dalla banca, possiamo finalmente iniziare il nostro viaggio. Andiamo verso il lago Tana, il più grande del paese con i suoi 3500 mq e dalle cui acque nasce il Nilo Azzurro. Tafari ci consegna al barcaiolo (noleggio barca 2300 birr) che si occuperà di farci arrivare in 40 minuti di navigazione sulla penisola di Zege. Rallentiamo in mezzo al lago, perché un pescatore sta dando del pesce a dei pellicani: è chiaramente uno spettacolino per noi turisti, che però ci permette di vedere da vicino i pellicani e le loro grandi sacche sotto il becco. Non possiamo esimerci da lasciare una piccola mancia (30 birr). Sulla penisola, si trovano diversi monasteri costruiti originariamente tra il XIII e XIV sec, ma molti hanno subito una recente ricostruzione. Le donne sono ammesse in quasi tutti. Ho scelto i due monasteri, che mi sembravano più significativi, anche perché avevo letto che erano fra di loro piuttosto ripetitivi. Arrivati sulla riva della penisola, siamo obbligati a prendere la guida (440 birr), ma capiremo ben presto che in Etiopia sei obbligato ad avere la guida quasi ovunque, a volte anche per garantire la tua sicurezza. Dalle parole della guida, iniziamo a scoprire che ci sono “soggetti” che sono una costante nella rappresentazione pittorica, ad esempio i sette santi, Abuna Aregawi, fondatore di Debre Damo, Belai il cannibale, che venne protetto da Maria per un unico atto di pietà verso un lebbroso, nonostante avesse divorato anche i membri della propria famiglia, Maria stessa è straordinariamente venerata, San Giorgio, santo patrono d’Etiopia, San Raffaele e la balena arenata sulla spiaggia, etc.
Dato che faremo dentro e fuori dalle chiese, dove si può entrare solo scalzi, i più schizzinosi di noi, tenevamo un paio di calzini a portata di mano. In alcune chiese è richiesto il capo coperto alle donne, quindi abbiamo portato un foulard, da tirar fuori all’occorrenza.
Visitiamo Ura Kidane Meret (150 birr per persona), il più grande e famoso monastero della zona e Bete Maryam (150 birr per persona), dedicato a Maria, il più antico, con magnifici dipinti. Appena usciti da Bete Maryam, vediamo un serpente nero che cerca di entrare in chiesa, lo segnaliamo alla guida, che subito aiutato dal prete lo uccide: la guida ci spiega subito che, essendo un simbolo del male, era di cattivissimo auspicio che entrasse in chiesa. Speriamo tutti che non porti sfortuna al nostro viaggio, perché la guida era veramente preoccupata. All’esterno ci vengono mostrati degli strumenti musicali, che rivedremo anche altrove, tamburi, le cui decorazioni rappresentano la divisione tra il regno dei cieli nella parte alta, e la terra, nella parte bassa; dei bracciali di metallo che spostati da destra a sinistra e viceversa fanno un rumore ipnotico e infine una specie di gong fatto con una grossa pietra piatta. Per arrivare ai monasteri si percorre un sentiero in mezzo al verde, dove gli abitanti locali hanno allestito le proprie bancarelle, qui e a Lalibela troveremo i souvenir più carini e a buon mercato. Se cercate la famosa mirra, qui è l’unico posto deve l’abbiamo trovata. Ci fermiamo in un baretto in riva al lago e ci beviamo il nostro primo caffè etiope (bunna, 100 birr per caffè e Coca Cola). Il rito prevede che si metta dell’erba sul pavimento, per portare la natura in casa, si faccia tostare il caffè su di un incensiere con della resina, che si faccia annusare agli ospiti, che ovviamente devono mostrare segno di apprezzamento, dopo di che si macina e si fa bollire, per poi ricavarne quel liquido scuro che tanto piace a noi italiani e che loro curiosamente offrono accompagnato da popcorn. La pianta del caffè ha la sua origine proprio in Etiopia, si pensa che i predecessori del popolo attuale degli Oromo, fossero i primi a scoprire e riconoscere l’effetto energizzante dei suoi grani, che macinavano, facendone una pasta che aumentava le forze dei propri guerrieri. Facciamo ritorno al pulmino (mancia al barcaiolo 100 birr), pensando di fare in tempo ad andare alle cascate del Nilo azzurro, ma ci vogliono 4 ore per andare, tornare e visitare. Abbiamo perso troppo tempo in aeroporto e gli autisti qui non guidano con il buio, dato che le strade sono piene di bestiame (mucche, capre, asini, etc.) e non sono illuminate.
Ci facciamo quindi portare al mercato di Bahir Dar, ma non ci attardiamo, sentendoci “puntati” da alcuni ragazzotti che non sembrano avere buone intenzioni: magari erano solo curiosi, ma preferiamo non rischiare. Siamo comunque stanchi per il lungo viaggio e quindi nonostante la delusione per le cascate, raggiungiamo l’Abay International Hotel (St.George Ave, Bahirdar 6th Floor, Bahar Dar, 72,90 USD/2385 birr, stanze ampie, letti grandi, pulito, buona colazione). Ogni giorno il nostro autista verificherà lui stesso che le nostre prenotazioni fatte su Booking.com siano giuste, onde evitare sorprese. Cena da Olive, non lontanissimo dall’hotel, che troviamo consigliato su TripAdvisor. Mangiamo tutti pesce alla griglia o fritto ed è molto buono (1445 birr).
27/10
Il giorno dopo partiamo alla volta di Gondar (circa 170 km / 3 ore), che significa “Città di pietra”: una città medievale che ha sviluppato uno stile architettonico unico, una miscela tra lo stile gotico europeo e quello arabo locale. Dopo circa un’ora e mezza dalla partenza, ci fermiamo al villaggio di Awra Amba, una società utopica, fondata da Zumra Nuru. La comunità è fondata sull’uguaglianza di diritti e doveri, dove lavoro e istruzione, ma anche il prendersi cura degli anziani, sono fondamentali per il bene comune. Thomas More sarebbe stato contento di vedere in un certo senso realizzata la sua Utopia!
Mi sarebbe piaciuto dormire qui. Comprate i loro prodotti tessili, ma non fate elemosina o doni, perché è considerato disonorevole. Il tour guidato fino a 5 persone costa 100 birr, fino a 10 costa 200 birr, oltre 300 birr a cui va aggiunto il prezzo di entrata di 50 birr per persona. Per tutto il viaggio, non troveremo cibo da strada, se non frutta e pannocchie arrostite (bakolo, 5 birr); quindi per il pranzo, dato che non ci fermiamo, ci siamo organizzati comprando qualcosa qua e là. Farsi capire dai negozianti non era però cosa facile, la maggior parte a stento parlava amarico, che è la lingua nazionale, figuriamoci l’inglese: tenete presente che l’Etiopia ha tra le 80 e le 90 lingue e quasi 200 dialetti, quasi quante sono le tribù e le etnie. Proseguendo, lungo la strada vediamo una stele naturale di roccia, detta God Finger, che si staglia tra una montagna e l’altra. Prendiamo a salire proprio da qui e a un certo punto vediamo degli uccelli enormi in mezzo alla strada: sono avvoltoi che probabilmente hanno appena finito di banchettare, la nostra presenza però li disturba e con una grande apertura alare, si allontanano nell’azzurro di questa giornata, che come tante altre, sarà senza nuvole. Non sarà l’unica volta che vedremo avvoltoi all’ora di pranzo.
Ci sono moltissime case in costruzione, mentre ci avviciniamo a Gondar e sembrerebbero di cemento, mentre fino ad ora abbiamo visto solo case fatte con lunghe travi di legno. Arriviamo quindi a Gondar, detta la Camelot d’Africa, scelta come capitale da Fasilladas nel 1636, in quanto incrocio carovaniero e per la sua terra fertile. All’entrata della cittadella imperiale (200 birr per persona), veniamo affidati a una guida, Sherbet (850 birr), che parla un buon inglese, ma non ci racconta tantissimo e non riesce a spiegarci bene il perché l’anno etiope è in ritardo rispetto al nostro di 7 anni e 113 giorni, abbiamo capito solo che dipende dal viaggio in Etiopia di Menelick I, figlio di Salomone e della regina di Saba, primo imperatore d’Etiopia. Inoltre gli orologi etiopi sono indietro di 6 ore, ma non per il fuso che è di 3 ore in avanti rispetto a Greenwich, ma perché gli etiopi misurano il tempo dal sorgere del sole e contano il tempo nel senso opposto dell’orologio. Quando il sole sorge, alle 6, per gli etiopi é mezzogiorno, e inizia un nuovo giorno. Tutti però ci daranno appuntamenti e indicazioni usando il nostro calcolo orario.
La Cittadella imperiale, patrimonio dell’UNESCO, è un ampio spazio verde, su cui è stato costruito da ogni imperatore, il proprio palazzo.
Palazzo Fasiladas è il palazzo più maestoso e antico (1632-1667), opera di un architetto indiano, che portò con sé influenze portoghesi, moresche, oltre a quelle della propria terra. Tra gli elementi decorativi la guida ci fa notare la stella di David, che ricorda il legame con la stirpe salomonica; Palazzo Iyasu I (1730-1755) con il soffitto a volta, fatto costruire da quello che viene considerato il più grande sovrano di Gondar; si dice che una volta le pareti erano adorne di ogni ricchezza, ma oggi è completamente spoglio. A Yohannes I, si deve la costruzione della biblioteca, mentre il grande salone per i banchetti a Dawit III, il quale iniziò la consuetudine di tenere leoni abissini (di cui si vedono le gabbie), che venne perpetrata per più di 200 anni, fino al 1990 da Hailé Selassié: La consorte di Dawitt, fece invece costruire il palazzo di Mentewab, dove si nota, come elemento decorativo, la croce di Gondar. Qua e là piante di pepe e stelle di Natale alte come alberi, che farebbero vergognare le nostre piantine. Inoltre vediamo una gran varietà di uccelli, ma la cosa non ci stupisce dato che l’Etiopia è una meta nota per il bird watching.
La guida ci mostra le gabbie dei leoni e ci racconta di Haile Selassié, che è stato imperatore d’Etiopia tra il 1930 e il 1974 (con un’interruzione di 5 anni), considerato dai sostenitori del movimento Rastafari, l’incarnazione del Messia sulla terra: per un secondo mi sento catapultata indietro negli anni, quando durante un viaggio in Giamaica mi avevano raccontato la stessa storia ed è proprio per questo che molti scambiano la bandiera etiope rosso-giallo-verde usata dai rastafariani per quella giamaicana verde-nera. Non posso trattenermi dal dirlo alla guida che sembra contentissimo e mi fa diverse domande sui fratelli giamaicani. Usciamo dalla cittadella dopo un paio d’ore e la guida sale con noi sul pulmino. Proseguiamo quindi facendoci portare alla chiesa di Debre Berhan Selassié (200 birr per persona), ritenuta una delle più belle chiese d’Etiopia, con affreschi stupendi, che però riuscirete a vedere solo portandovi una torcia. La leggenda narra che è ancora intatta, perché uno sciame di api, attaccò i dervisci sudanesi che volevano distruggerla. Mi raccomando, alzate il naso per vedere i 135 cherubini dipinti sul soffitto. Dicono che ci sia un’immagine blasfema di Maometto, ma non siamo riusciti a vederla, data la scarsa illuminazione.
A circa 2 km dalla cittadella, si trovano i bagni di Fasilidas, una vasca con al centro un palazzotto, che si pensa fosse una casa di villeggiatura. Gli alberi qui sono uno spettacolo della natura, le radici formano degli intrecci sorprendenti che inglobano qualsiasi cosa su cui si sono posate. La guida ci racconta che il giorno della festa del Timkat, la nostra Epifania, le ragazze vengono prese letteralmente di mira con un frutto, lanciato da uno o più pretendenti, se la fanciulla una volta colpita, raccoglie il frutto, vuol dire che accetta la corte. Attraversiamo il parco con splendide acacie a ombrello e all’uscita, la guida ci dice che l’uomo che vende i souvenir, ora è in pensione, ma prima faceva il guardiano dei leoni di Salassié, il quale viaggiava sempre anche all’estero con i propri felini. Lasciamo 200 birr di mancia alla guida. La nostra giornata finisce al Kino hotel, Gonder Kebele 18, Gondar, (123 USD/3900 birr, stanze ampie, pulito, buona colazione), dove ceneremo molto bene (1042 birr), provando i tibs, che sono straccetti di carne fritta con cipolle, aglio e spezie, il wat a base di curry, che è una sorta di stufato di carne di manzo o pecora da consumarsi con l’enjera; lenticchie (messer), cavolo o spinaci (gomen) e purè di ceci (shiro). Purtroppo la cucina etiope è scarsa e piuttosto ripetitiva.
28/10
La nostra giornata inizia con una passeggiata nel villaggio ebraico falascia di Wolleka, a 3 km da Gondar, carino addentrarsi fra le abitazioni dei pochi rimasti, dato che questa etnia ha lasciato l’Etiopia grazie a ponti aerei dal Sudan a Israele nel 1984 e nel 1991. Risaliamo sul pulmino e dopo mezz’ora ci ritroviamo in mezzo alla vita vera. Un pezzo di montagna è franata occupando mezza carreggiata, un camion nel tentativo di passare ugualmente si impantana e scivola bloccando anche l’altro lato della strada. Tutti scendono dalle proprie auto per curiosare, per dare consigli allo sfortunato camionista. Gli autisti dei bus intanto scaricano la gente prima dell’intoppo da entrambi i lati e aspettano che arrivino i passeggeri che attraversano la zona bloccata a piedi con le proprie mercanzie: sembra che si siano messi d’accordo, tanto sembra efficiente questa soluzione. Ripartiamo dopo circa un’ora e due ore dopo attraversiamo la cittadina di Debark, da dove iniziano i trekking nel Simien National Park, dichiarato patrimonio dall’UNESCO, qui se si ha fortuna, si possono vedere dei gelada, scimmie socievoli, che vivono ad alta quota. La giornata sarà dedicata al lungo trasferimento verso Aksum, attraverso stupendi paesaggi, con in lontananza il profilo dei monti Simien, un altopiano con pinnacoli vulcanici e strapiombi, tra i quali svetta il Ras Dascian (4543 m), la montagna più alta d’Etiopia.
I primi chilometri attraversano lunghe distese pianeggianti punteggiate di acacie a ombrello, ma poi qua e là spuntano montagne coniche, che sembrano disegnate da un bambino. Pian piano saliamo finché non arriviamo alla strada panoramica detta degli Italiani, perché costruita ai tempi del fascio. Una strada di 1100 km chiamata in origine della Vittoria, che collega Addis Abeba ad Asmara, costruita per favorire i traffici via mare da Massaua, in Eritrea. In questo punto la strada è particolarmente trascurata, sterrata e con il guard rail fatto a blocchi di rocce, proprio come quelli che ancora fanno bella mostra sulle nostre montagne. Scendiamo dal pulmino e facciamo due passi per goderci il paesaggio: non avrei mai detto che l’Etiopia potesse essere così verde e ricca di acqua, ovunque ci sono piccole cascatelle. Volevo fare una deviazione alla cascata di Jinbar, che doveva essere su un dirupo pazzesco, ma purtroppo secondo il nostro autista era troppo lontana. Risaliamo e dopo poco il paesaggio cambia, vediamo delle scimmie e le montagne sono terrazzate e coltivate a teff, il cereale che è l’ingrediente chiave dell’enjera, il pane spugnoso e fermentato alla base della cucina etiope, che è di bassa qualità se scura e grezza, mentre è di buona qualità quella chiara e liscia, perché il teff è utilizzato senza pula: credo la cosa meno commestibile al mondo per un italiano!
Pian piano scendiamo, attraversando paesetti e vediamo la vita locale che ci scorre a fianco, i bambini escono da scuola in centinaia con la stessa divisa, perché qui l’istruzione è obbligatoria e lo stato sta facendo una grandiosa opera, investendo molto, puntando anche sull’apprendimento dell’inglese; per questo motivo sconsigliano di dare soldi o regali ai bambini per strada, perché questo li incoraggia a marinare la scuola e andare a venderli. Chiacchiero molto con Tafari e vedo il suo sconcerto quando gli dico che noi italiani mangiamo sia carne di asino, che di cavallo, sarà motivo di ilarità anche per gli autisti della seconda parte del viaggio a cui lo racconterò: per loro sono solo animali da lavoro. Dopo 5 ore dal primo intoppo, ci ritroviamo bloccati nuovamente a causa di grosse pietre cadute dalla montagna e due sono i pensieri… che fortuna potevamo passare proprio mentre cadevano, che sfortuna, bloccati di nuovo, non sarà colpa del serpente? Il nostro autista scende a spostarle e rimane sorpreso quando ci vede tutti giù a fare altrettanto. Nel frattempo arriva un’auto dall’altro lato e non capiamo se sono più incuriositi da noi “bianchi” che spostiamo le pietre o se hanno fretta di passare, in ogni caso ci fanno mille sorrisi e noi naturalmente ricambiamo.
Arriviamo al ponte in ferro sul fiume Tekeze, uno dei tanti che segna queste verdi vallate, che delimita la frontiera tra le regioni di Amara e Tigrai. La strada torna a essere asfaltata e finisce così il nostro “African massage” come lo chiama Tafari.
Come tutti i giorni, Tafari mi chiede il programma del giorno dopo e mi dice che non possiamo fare tutto e dobbiamo togliere Dobre Damo, un monastero che potrà visitare l’unico uomo del gruppo, ma che si trova in un posto spettacolare. Mi arrabbio, perché già il giorno prima abbiamo dovuto togliere le cascate Jabar. Vedendomi decisa, Tafari desiste e capisco che ci ha provato. Ogni giorno cerca di togliere qualcosa per arrivare prima, ma gli starò addosso. A un certo punto ci sembra di avere le traveggole, due cammelli a bordo strada che camminano tranquillamente da soli. Siamo su una via carovaniera, la Dancalia non è lontanissima e questi sono gli animali più adatti per attraversare il deserto.
Continuiamo fino ad Aksum sulla B30 e, una volta arrivati, dormiremo all’Hotel Delina, Fikada Kebele 02, Āksum (100 USD/2930 birr). La stanza è piccola, ma pulita e con finestra e porta in vetro che danno sul ballatoio, da cui da fuori si vedono le sagome di chi sta all’interno. Per un qui pro quo avevo capito che ci fosse inclusa la colazione, ma il bar serve solo alcolici e bibite. Avevo letto su Turisti per Caso del ristorante Antika Cultural Restaurant (1620 birr), dove si poteva cenare vedendo balli tipici, ma quello che mi aveva colpito è che non era per stranieri. Nella danza iskita si muove prevalentemente la parte sopra la cintola, specialmente le spalle e il collo, mentre in quella dell’Omo, si muove la parte bassa, con balzi, come fanno anche i Masai del Kenya. Abbiamo passato una serata piacevole, mentre gli indigeni ci guardavano mangiare con le posate, una delle nostre amiche è stata invitata sul palco a ballare e suonare. Proviamo l’ennesima birra, la Walia, fino ad ora sono tutte chiare e buone (St. George, Dashen, Castel), ma il cibo qui è scarso sia in quantità sia in qualità, ma vale la pena andarci anche solo per vedere come le cameriere aprono le bottiglie, con una sola mano, sorreggendole tra spalla e collo. Accanto a questo ristorante ce n’è un altro sempre con danze tipiche, però pieno di turisti accompagnati dalla propria guida.
29/10
Ci svegliano di buonora, in quanto non avendo colazione, dobbiamo andare a procacciarci il cibo, anche perché in genere a pranzo non mangiamo. Dopo aver trovato biscotti e succhi di frutta, ci mettiamo in coda alla Telecom locale, sulla stessa strada del ristorante, per acquistare le schede sim, che non possiamo comprare nei normali negozi dove prendi le ricariche, ma solo in posta o alla loro compagnia telefonica presentando il passaporto (alcuni chiedono anche le foto tessera, ma a noi no). Un po’ per la confusione creata dal non parlare la lingua e un po’ dall’ansia di alcuni di noi di poter parlare con casa, ci mettiamo più del dovuto, ma ne usciamo un’ora dopo con le nostre 5 tessere. Io francamente ero interessata ad averne una per poter chiamare hotel, etc. e non appoggiarmi sempre all’autista. All’hotel arriva la guida Bisrat,che avevo prenotato attraverso l’hotel (1200 birr+mancia 100 birr), per fortuna è la stessa che mi voleva proporre Tafari, che era rimasto deluso quando gli avevo detto che già avevamo una guida, perché qui c’è un giro di percentuali riscosse da chi ti trova guide, hotel, etc.
Il pulmino ci recupera e ci porta all’inizio del nostro tour di Aksum, passando accanto ai bagni della regina di Saba, una sorta di piscina, ma più probabilmente un bacino idrico, dove non ci fermiamo. La guida ci dice che anche qui si usa fare il bagno in occasione del Timkat, proprio come a Gondar, dove, come detto, tirano anche la frutta.
Ci fermiamo a circa 2 km dal parco delle steli settentrionali, in una zona collinare con vista sui monti di Adua. Qui si trovano le tombe di re Kaleb e del figlio Gebre Mesqel, la loro caratteristica è che le pietre si incastrano alla perfezione, senza bisogno di elementi che le tengano insieme, come le mura di Cuzco. La tomba del figlio è più raffinata, sebbene non sia rimasto nulla, dell’avorio, delle monete, delle pietre preziose, dell’oro, che conteneva questa grotta di Ali Babà!
Ci fermiamo a fare il biglietto collettivo, che permette di visitare tutto quello che vedremo (biglietto parco archeologico 300 birr per persona). Proseguiamo con il pulmino verso la piccola costruzione che custodisce l’iscrizione che glorifica le vittorie di Re Ezana, scoperta per caso da dei contadini, una sorta di stele di Rosetta etiope, che permise di comprendere le lingue locali, grazie alla triplice traduzione in greco, sabeo e in ge’ez, una lingua semitica.
Risaliamo sul pulmino per scendere al parco delle Stele settentrionali, che nasce dall’esigenza dei regnanti, come in Egitto con le piramidi, di costruire qualcosa che ricordasse ai posteri la loro grandiosità, così ora ci troviamo davanti ad un esercito di stele, ognuna ricavata da un singolo pezzo di granito, trasportato per circa 4 km, con l’aiuto forse anche degli elefanti, che una volta vivevano in queste zone. La Stele di Roma (alta 24,6 m, pesa 170 tons), rotta in tre punti in seguito alla caduta, è decorata con finestre e porte. Mussolini la fece portare a Roma, dove fu restaurata ed eretta in piazza di porta Capena; nel 2005 è stata però resa all’Etiopia. La Stele di re Ezana (alta 23 m, pesa 160 tons) è rimasta invece in piedi, mentre la Grande Stele, detta anche Stele di re Ramhai (alta 33m), è collassata sopra la tomba di Nefas Mawcha ed è rimasta lì per 1600 anni; l’importanza invece della stele incompiuta, è che dimostra che gli artisti scolpivano qui le stele, non alla cava.
Ci sono tre tipi di stele: ruvide e basse, lisce ad altezza media e decorate alte. Le decorazioni rappresentano finestre e il numero di finestre, indica quante tombe nascondono sottoterra.
La tomba detta della Falsa Porta, per una lastra all’inizio delle scale che riporta incisa una porta, risale al IV sec a. C. e risulta ancora finemente decorata.
Nello stesso parco troviamo anche il Mausoleo, un corridoio su cui affacciano diverse camere, cui si accede da una porta, che una volta veniva chiusa da una lastra unica di granito, decorata con le stesse false porte che compaiono sulle stele.
Facciamo anche una breve visita al piccolo Museo e scopriamo che circa il 90% del parco, rimane ancora nascosto sotto ai nostri piedi, in attesa di essere riportato alla luce.
Attraversiamo la strada ed ci troviamo davanti alla Cattedrale di Nostra Signora Maria di Sion, in restauro, con il campanile a forma di stele, che a sua volta ha davanti la Chiesa Vecchia di Santa Maria di Sion, sorta in un punto indicato da Dio stesso (accesso consentito solo agli uomini), che è il centro nevralgico della cristianità etiope, ma che non conserva nulla della struttura originale, se non la sacralità della Cappella dell’Arca dell’Alleanza, proprio di fronte, che è oggetto di pellegrinaggio per gli etiopi, in quanto si pensa custodisca le tavole della Legge date da Dio a Mosè sul monte Sinai. Vediamo l’impolverato museo con le tiare dei vescovi, le croci donate, etc.
Aksum fu sicuramente per un migliaio di anni il crocevia tra Asia e Africa, un regno potente e forse fu anche la capitale del regno della regina di Saba nel X a.C., tanto che a circa 1 km si trova il palazzo Dungur, detto proprio della Regina di Saba, teoria supportata da un bassorilievo che ritrae una bellissima donna. Si dice, infatti, che fosse la più bella donna mai esistita, con gambe pelose e piede caprino che la rendevano a quanto pare particolarmente affascinante!
Un soppalco permette di vedere la struttura del palazzo dall’alto, scendendo invece si vedono i bagni privati, la cucina con il forno e la scala su cui ci si inchinava all’incoronazione del re.
Paghiamo la nostra brava guida, che ci permette però di gironzolare ancora un po’.
Lasciamo Aksum, protetta ora dall’Unesco, ma caduta dopo cinque secoli di dominio a causa degli arabi, o della carestia, o per la siccità o forse per tutte queste cause messe insieme; una città veramente enigmatica, nel senso che cela molti segreti e molte verità, che gli archeologi e gli storici stanno cercando di districare dalla leggenda.
Facciamo tappa ad Adua, dove nel 1896 pochi soldati italiani si trovarono ad affrontare l’esercito di Menelik II, dieci volte più grande del loro, con artiglieria pesante e fucili; la commemorazione di questa disfatta, è l’equivalente etiope dell’indipendenza americana, quindi non ci sottraiamo, quando il nostro autista si ferma davanti ad una croce in granito scritta in italiano, che celebra la nostra sconfitta nella guerra d’Abissinia. Gli Etiopi sono orgogliosi in quanto, a differenza del resto dell’Africa e nonostante il tentativo italiano, non sono mai stati colonizzati da nessun paese.
Raggiungiamo Yeha (250 birr per persona), dove sembra si sia sviluppata la civiltà etiope 3000 anni fa. Il tempio della Luna, in restauro, è costruito in arenaria, con blocchi anche di 3 m. Alle spalle, sorpassato un piccolo museo trascurabile, dove si vede qualche libro antico e poche iscrizioni su pietra, si trovano le rovine della Grat Be’al Gebri, un antico palazzo, dove vediamo degli archeologi all’opera. Anche qui non abbiamo potuto far a meno di prendere la guida, che si è presentata nel parcheggio prima di entrare ( 660 birr+mancia 100 birr). Dopo un’ora e mezza di tornanti, alberi di flamboyant con fiori rossi e un paesaggio spettacolare, arriviamo al Monastero di Dobre Damo (guida 420 birr+mancia 80 birr), dove hanno accesso solo gli uomini e gli animali di sesso maschile. Uno si chiede, ma se fossimo tutte donne, varrebbe la pena andarci? Io vi risponderei di sì, perché il panorama, i canyons che si attraversano, i terrazzamenti coltivati sono uno spettacolo.
In lontananza si vede il grande cilindro naturale che spunta dalla montagna su cui hanno costruito il monastero, al quale si accede scalando con l’aiuto di una corda una parete rocciosa di 15 metri, che non da molta fiducia. La leggenda vuole che la prima scalata fu fatta da Debre Damo, aggrappandosi alla coda di un serpente inviato da Dio.
Il nostro unico rappresentante maschile, prende la guida e si avvia verso la corda (900 birr per persona, tra entrata, costo corda, aiuto salita, etc). La guida però mi chiede la macchina fotografica, così anche noi donne potremo vedere cosa c’è lassù: genio assoluto. D’interesse è la chiesa di Abuna Aregawi, la più antica d’Etiopia e forse di tutta l’Africa. Al ritorno, dopo essersi calato con la corda, il commento della nostra quota azzurra, è stato: senza donne, c’era tanto silenzio lassù!
Arriviamo ad Adigrat, dove non avevo trovato hotel e mi sono fidata di Tafari che ci ha trovato da dormire al Geza Gerelase hotel (tel +251 334452500, 4000 birr, camere ampie e pulite, buona colazione).
Ceniamo al ristorante dell’hotel (1300 birr per 5 persone), un ambiente bellissimo, tutto in legno come se fosse una grande capanna, con tantissimi oggetti tradizionali appesi con gusto al muro. Buono anche il cibo.
30/10
Partiamo alle 8, in ritardo di mezz’ora per colpa nostra e Tafari ce lo ricorderà tutto il giorno, ma quando il bagno chiama… La nostra destinazione sono le chiese rupestri del Tigrai (IX-XV sec.), 120 chiese scavate nella roccia di queste montagne a volte inaccessibili, che spuntano in mezzo al niente, spennellate in orizzontale di vari colori.
Dopo un paio d’ore arriviamo a Megab, dove in un ufficetto si paga l’entrata alla zona (2100 birr con guida) e si carica la guida (mancia obbligatoria 100 birr per persona), la nostra è Tewelde Salassié nominato anche nella Lonely Planet, che non mi sento di consigliare, dato che ci ha messo in pericolo. Chiaramente non possiamo vederle tutte, quindi ci concentriamo su tre del gruppo di Gheralta: Maryam Korkor, Daniel Korkor (entrambe 2000 birr+200 a ogni prete di mancia) e Abuna Yemata Guh (2100 birr). Oltre a Maryam Korkor, io avrei voluto vedere Abuna Abraham e Abraha We Atsbeh, ma mi dicono che una è in restauro e l’altra irraggiungibile, perché stanno rifacendo la strada… va a capire se è la verità o se Tafari si è messo d’accordo con la guida per inventare una scusa, dato che sono più lontane. Purtroppo non conoscendo la lingua spesso mi sorge questo dubbio. Arriviamo in pochi minuti alla base della montagna, che dovremo scalare con un trekking che definiscono semplice, ma che lo è solo per persone allenate e in buona salute. Ci sono delle persone, che si offrono di portare i nostri zaini (mancia per le due salite rispettivamente 2000 e 1200 birr) e qualcuno di noi, ne farà uso. Vi consiglio scarpe comode, con buon grip e una torcia per illuminare l’interno delle chiese. Dopo aver attraversato stretti canyon, esserci aggrappati con piedi e mani a pareti di roccia multicolore, e goduto di paesaggi da urlo, arriviamo a Maryam Korkor. Fuori non sollecita la nostra curiosità, mentre all’interno la pianta a croce, i pilastri con la stessa forma e gli affreschi del XVII sec che ricoprono la cupola e gli archi, sono sicuramente degni di nota, ma richiederebbero un gran bel restauro. Proseguiamo raggiungendo Daniel Korkor, in una posizione ben più panoramica della precedente, su di un precipizio, più semplice, ma con affreschi meglio conservati. Scendiamo dalle stesse pareti percorse all’andata e nonostante il panorama ci distragga, la discesa risulta più impegnativa della salita.
Una volta arrivati al pulmino intorno alle 12.30, il gruppo si spacca. La guida ci porterà ad Abuna Yemata Guh, ma vuole sapere se abbiamo bisogno di corde e imbragature. Chiaramente noi chiediamo consiglio a lui che ci dice che è meglio portarle per sicurezza. Ci assicura che la salita è meno impegnativa di quella appena fatta. Nel gruppo abbiamo già la seconda vittima di un malessere che porterà dissenteria a tre di noi, che non se la sente di fare un’altra salita, con lei rimarrà il fidanzato a far compagnia e un’altra amica un po’ pigra. Proseguiamo quindi in quattro, una con problemi di labirintite, una che soffre di vertigini e crisi di panico, la prima vittima del malessere ed io, che seppur spericolata e in buona forma, non mi sono sentita al sicuro per niente. Dunque, la salita ad Abuna Yemata Guh, è sicuramente più breve, ma più ripida. Inizia con una lunga scalinata, prosegue con tratti di arrampicata come nella precedente, ma a un certo punto c’è un solo modo per andare avanti, farsi issare, imbragati. Una volta superata questa parete, si arriva su un pianoro di due metri per due da cui parte una ”passerella” naturale, larga non più di mezzo metro con la montagna sulla destra e il nulla a sinistra. Vi assicuro che non avere protezioni all’altezza di 200 m, non è per niente rassicurante, infatti l’ultimo pezzo riusciremo a percorrerlo solo in tre. Una volta arrivate all’interno della chiesa, ne valeva proprio la pena, credo che sia la più bella vista in tutto il viaggio, o forse è solo perché ce la siamo sudata di più? Credo però che la guida sia stata molto più attratta dai nostri soldi che dalla nostra sicurezza, non esponendo, nonostante le mie domande, ciò che avremmo affrontato e non preoccupandosi del nostro stato di salute, dicendo solamente che era più semplice della prima: certo però che la necessità di imbragatura avrebbe dovuto insospettirmi!
Nota dolente di queste visite è stata l’insistenza dei preti nel chiedere l’elemosina, specie nell’ultima, tanto che anche la guida a un certo punto, alzando la voce, ha chiesto al prete di smetterla, dato che già avevamo dato 200 birr.
Scendiamo alle 16.30, dopo un paio d’ore, ma è troppo tardi per fermarci a Wukro Cherkos, ma non mi spiace, dato che secondo i miei appunti, non era comunque all’altezza di quelle precedentemente viste.
Ripartiamo diretti alla città universitaria di Makelé (o Macallé), dove passeremo la notte. E’ la perfetta tappa intermedia sia per Lalibela, sia per la Dancalia.
Arriviamo dopo un paio d’ore, con il buio all’hotel, Hotel Mekelle, Kebele 18, Hadnet (130,43 USD/4840 birr, stanze ampie con salottino e cucina, pulite), dove ceniamo con goulash di pesce e pesce fritto piccante, forse la migliore cena del viaggio (1185 birr).
La cameriera nota che lo smalto delle mie unghie riproduce la bandiera etiope e mi fa un sacco di complimenti.
31/10
Sveglia presto dobbiamo fare colazione alle 6, scesi al ristorante, ci dicono che sarà pronta dalle 6.30 e mi arrabbio, perché avevo chiesto espressamente se era possibile e mi avevano detto di sì. Chiamano a casa il cuoco e una cameriera, che tutti assonnati arrivano in hotel per prepararci la colazione: ne è valsa la pena, sarà la migliore colazione con frutta, pancake e frittata. Uscendo da Mekellé vediamo una fabbrica italiana di Calzedonia. Anche oggi sarà una giornata di trasferimento, per questo Tafari si era tanto raccomandato di partire presto. Anche oggi vedremo panorami da togliere il fiato, terrazzamenti e coltivazioni di orzo, grano e sorgo ovunque.
Dopo tutte le capre, gli asini e le mucche in giro liberi, vediamo anche il primo maiale e ne rimaniamo sorpresi, ma non quanto dopo un paio d’ore, quando vediamo carovane di decine di cammelli tutti ben in fila davanti a noi, infatti questa è la strada che porta in Djibouti. Ci troviamo in alto, quindi decidiamo di scendere dal pulmino e goderci lo spettacolo, ma veniamo assaliti dai bambini della zona (eppure ci sembrava di essere in mezzo al nulla!), che ci chiedono penne, caramelle, matite etc.
Riprendiamo il nostro viaggio e notiamo usanze tipiche di qui, ad esempio, le macchine quando si fermano, non mettono il triangolo, ma delle pietre tutte intorno al mezzo; oppure che i bambini ci chiedono le bottiglie di plastica, perché poi le utilizzano a mo’ di schiscetta.
L’autista si ferma per una pausa alle 10.30 e noi ne approfittiamo per addentare una fetta di anguria acquistata per strada.
Ci rimettiamo in strada, ma verso le 12.30 Tafari ci avverte che finisce la strada buona. Siamo arrivati a 1700 m, ma dobbiamo fare il passo a 3000 m. Dopo averlo superato, arriviamo in una valle, dove scorre il Tekeze, quello che avevamo attraversato sul ponte di ferro.
Facciamo un’altra pausa verso le 14.30 in un punto che definirlo panoramico, non gli rende giustizia e dove delle ragazzine ci venderanno semi, ceci e fagioli arrostiti che sgranocchieremo per il resto del viaggio (50 birr).
Devo fare qui un inciso, dato che prima di partire c’era giunta notizia che c’erano stati dei tafferugli in diverse zone dell’Etiopia; sul sito della Farnesina, però le zone da noi visitate non sembravano interessate, ma Sami, il proprietario della Emanuel Guest House, mi aveva scritto di non andare a Lalibela, perché era pericoloso, chiaramente nel corso del viaggio ero rimasta in contatto con lui e con l’agenzia Greenland per capire se effettivamente saremmo stati in pericolo, ma per Greenland non c’era nulla da preoccuparsi, quindi capirete bene che arrivati a Lalibela e vedendo che era tranquillo, ho tirato un sospiro di sollievo, anche perché era la visita a cui personalmente tenevo di più.
Facciamo un po’ fatica a trovare la Emanuel Guest House, lal hotel stret (121,91 USD/4173,72 birr, stanze basic, pulite, bagno piccolo, ottima colazione), ma quando finalmente la troviamo, siamo accolti dal sorriso di Sami e di sua sorella, che ci invitano a bere un caffè con loro e ci presentano i servizi che offrono, oltre a quello della guest house.
Nel mentre avevo dato la mancia da parte del gruppo a Tafari (60 USD, in genere si danno 10 euro a testa, ma visto il suo comportamento finale, gli avrei dato anche meno), che ci lasciava, ma mi aspettavo che attendesse di salutare il resto del gruppo che nel mentre era andato a portare le valigie nelle stanze, ma forse c’era rimasto male, perché non avevamo voluto la sua guida per Lalibela. Non posso dire che Tafari non sia stato professionale, che abbia guidato male o altro, ma mi ha sempre dato l’impressione che guardasse più al proprio tornaconto, parlando anche male del proprietario della Greenland. Tutto di un’altra pasta invece Sami, un ragazzo giovanissimo, ma molto propositivo: sarà una presenza fissa per tre giorni, coccolandoci, ma senza mai essere invadente. Avevo concordato con lui una guida in inglese, dato che non ce n’erano ddisponibili in italiano, per il giorno seguente e, dopo averne parlato con gli amici, un pulmino per Yemrehanna Kristos il secondo giorno e un pulmino per l’aeroporto il terzo giorno. La sua prima proposta, sarà di consigliarci il ristorante del nonno, cioè il Kana Restaurant (1593 birr), vicino alla Primary School, sicuramente troppo turistico per i nostri gusti, ma dove abbiamo mangiato molto bene.
1/11
La notte è stata molto difficile, ringrazio di aver sempre voluto il bagno in camera, in quanto la terza vittima della dissenteria sarò io. Dopo una ricca colazione cucinata sotto i nostri occhi dalla sorella di Sami, che non riuscirò per ovvi motivi a toccare, quest’ultimo ci accompagnerà nella piazza principale, dove ci aspetta la nostra guida in inglese (4500 birr per tutto il giorno), che ci accompagnerà all’ingresso della zona archeologica, dove pagheremo il biglietto valido per 5 giorni (50 USD per persona, ma accettano anche birr 10300,50 birr per 7 persone).
Le chiese risalgono al regno di re Lalibel (1181-1221) e furono costruite in soli 23 anni per intervento divino, che secondo la leggenda proseguiva di notte la costruzione, con lo scopo di ricreare qui una replica di Gerusalemme. Lo stile è quello aksumita, lo si può vedere nel taglio delle porte e nelle finestre, ma non solo. Anche qui è consigliabile portare una torcia, perché essendo costruite nella roccia nel sottosuolo, sono un po’ buie ed è proprio questa la loro caratteristica principale, che bisogna scendere per vederle.
Attraversiamo un minuscolo canyon, con in fondo un rigagnolo che dovrebbe essere il Giordano e Iniziamo la nostra visita dal gruppo nord occidentale, che comprende: Bet Medhane Alem, imponente, tanto che potrebbe essere la più grande chiesa rupestre al mondo, circondata da 34 pilastri e con all’interno una volta a botte; Bet Maryam, collegata alla precedente da un tunnel, con all’esterno un porticato e all’interno antichissimi affreschi e una colonna sacra coperta da un drappo che nasconde iscrizioni in ge’ez; Bet Meskel, nello stesso cortile di Bet Maryam, dove si trovano anche Bet Golgothae, il cui accesso è permesso solo agli uomini, e Bet Mikael, gli unici con colonne cruciformi; oltre la presunta tomba di Adamo, troviamo Bet Danaghel e la grezza Bet Uraiel.
Per tutto il percorso ci seguirà una ragazza che in cambio di una mancia (200 birr), ci curerà le scarpe, che a quanto pare qui “spariscono”, se non prendi chi te le cura.
Il complesso chiude dalle 12 alle 14, quindi ci diamo appuntamento con la guida nel pomeriggio per visitare il gruppo sud-orientale, che risulta più finemente scolpito all’esterno e comprende Bet Giyorgis la più isolata e più rappresentativa, tanto che è la più fotografata: è un capolavoro alto 15m, a forma di croce; la doppia chiesa di Bet Gabriele e Rafael, con imponente facciata, che si raggiunge all’alto con una passerella sopra di un fossato; completamente staccata dalla roccia e finemente scolpita è Bet Emanuel, mentre la piccola Bet Abba Libanos è unita alla roccia solo con il tetto e il pavimento.
Essendo una riproduzione di Gerusalemme non sorprende che il monte a ridosso, dal quale si possono vedere tutte le chiese dall’alto, sia stato chiamato Tabor.
Ci congediamo dalla nostra guida, preparata e disponibile e torniamo alla guest house. Una volta lì, Sami ci propone di andare a vedere il tramonto e berci una birra, che gentilmente ci offrirà.
Ci propone inoltre diversi ristoranti per la sera, ma io avevo letto del Ben Abeba Restaurant, Sekota Road, un ristorante gestito da scozzesi ed etiopi, con una struttura architettonica particolare su di un’altura e, in effetti, è un gioco di passerelle, ferro, mattoni e legno intrecciati. Il cibo mi hanno detto che era buono, io ancora debilitata, non mi azzardo, ma mi sono gustata il paesaggio dalla terrazza.
Per andare e tornare Sami ci ha procurato e pagato i tuk tuk e una volta tornati in città ci ha proposto di proseguire la serata al Torpedo, un locale con danze tipiche, simili a quelle di Aksum, dove servono l’idromele (Tej bet, honey wine, 1331 birr per 6 persone), tutti vengono presi dai ballerini per danzare con loro; Sami fa un gesto al ballerino che mi lasci tranquilla, perché non sto bene.
2/11
Alle 8.30 ci viene a prendere il pulmino (3000 birr). Sami non ha niente da fare e ci chiede se lo vogliamo come guida e noi di buon grado accettiamo. A 45 km da Lalibela si trova la chiesa di Yemrehanna Kristos (6174 birr/30 USD), che si raggiunge con una passeggiata di 20 minuti in mezzo ai ginepri. L’entrata è molto cara, ma noi siamo stati contenti di vederla. Fuori c’è una cascatella e un omino che si offre di curare le scarpe (mancia 20 birr), dato che si entra scalzi. Nella linea temporale questa chiesa precede di 80 anni la costruzione di quelle di Lalibela, ma la cosa straordinaria è che la struttura appoggia su travi di legno di ulivo, come una palafitta sopra un acquitrino. Portatevi una torcia e girate intorno alla chiesa, perché in fondo alla grotta ci sono dei corpi mummificati.
Verso le 13 siamo di ritorno a Lalibela, Sami ci cambia euro a un tasso migliore rispetto alla banca e ci buttiamo nello shopping, qui infatti ci sono molti negozi di souvenir. Percorriamo più volte in lungo e in largo la cittadina per poi tornare alla guest house a farci una doccia prima di andare al Seven Olives Restaurant, City Center, raccomandato su Trip Advisor. Prima di uscire, Sami ci dice di aspettarlo poi al ristorante, perché ci accompagnerà a vedere una processione in occasione di una festività. Purtroppo a causa del ritardo nell’arrivo di altri ospiti alla guest house, ci avvertirà di non poter venire subito, ma ci darà le istruzioni su come raggiungere il luogo esatto della processione.
La processione era di soli preti che ballavano, cantavano e suonavano quegli strumenti che avevamo visto nelle chiese sul lago Tana… suggestivo veramente. Sami poi ci ha raggiunto e riaccompagnato alla guest house, anche perché le strade erano completamente buie ed era anche una notte con solo uno spicchio di luna.
3/11
Lasciamo a malincuore Lalibela, dove siamo stati veramente bene e con il pulmino (1000 birr) andiamo all’aeroporto che dista una decina di km. Sami vuole assolutamente una foto con noi alla partenza e non possiamo dire di no. La ritroverò poi su Trip Advisor come pubblicità alla sua Guest House: sappiate che organizza anche tour in tutta l’Etiopia e mi sento di consigliarlo vivamente.
Il nostro volo per Addis Abeba parte alle 10.10 in perfetto orario, dura un’oretta con cambio per Arba Minch alle 12 e arrivo un’ora dopo (135 euro).
Purtroppo il cambio è troppo ravvicinato per le tempistiche etiopi e i nostri bagagli rimangono tutti ad Addis Abeba.
Tutti sono preoccupati, perché il prossimo volo utile è il giorno seguente, ma noi saremo a Jinka, intanto che parlo con l’addetto dell’aeroporto che è mortificato, una delle amiche va a cercare gli autisti che ci accompagneranno nella seconda parte del viaggio, ma Zamesha, il capo dei due, vuole parlare direttamente con me, perché sono io che ho fatto tutto con Greenland. Il grande Zamesha mi darà subito un’ottima dritta, chiedere all’addetto di far arrivare le valigie all’aeroporto di Jinka, invece che ad Arba Minch. Chiedo all’addetto se questo è possibile e lui è felicissimo, perché è una soluzione “facile” anche per loro. In realtà, in un secondo tempo, Zamesha mi spiegherà che se non fosse stato possibile, avrebbe caricato lui tutti noi in auto e avrebbe mandato indietro Mahari a riprendere le valigie ad Arba Minch, ma era uno spreco di tempo e carburante.
Quello che ci preoccupa è che ogni sera saremo in un posto diverso e sempre più lontano e abbiamo solo un cambio nello zaino.
Anche se preoccupati, non intendiamo farci rovinare la giornata, quindi iniziamo il nostro viaggio alla scoperta delle etnie da un villaggio Dorze a Chencha (200 birr + guida 300 birr). Gli abitanti sono vestiti come noi e sono famosi per le capanne ad alveare e i tessuti di cotone; ci presentano le loro attività quotidiane, come la preparazione del distillato locale e del kocho, una specie di pane azzimo, ricavato dalla farina di falso banano (enset), che viene avvolto nelle foglie dell’albero stesso e messo sotto terra a fermentare per oltre sei mesi, quindi viene bollito e cucinato. La focaccia di kocho, dal sapore aspro e pungente, è il cibo base dei Dorze. Quello che ci colpisce di più di questo popolo, sono le capanne alte fino a 12 metri, che assomigliano a teste di elefante, perché l’anticamera ha la forma di proboscide; le capanne sono fatte con i rami e il tronco del falso banano e i tetti con le foglie; l’ensete viene utilizzato anche per nutrire gli animali, per confezionare cesti e cappelli, con le fibre si ottengono corde e con le radici si preparano medicamenti. All’interno delle capanne, una zona è per il bestiame, il cui calore aiuta a sopportare il freddo di queste zone, e una zona, la più esterna è per eventuali ospiti; all’interno si sfrutta il fumo del focolare per tenere lontane le termiti, che si adoperano ad abbassare man mano le capanne, rosicchiandole dal basso.
Ci faranno poi provare il kocho e il loro distillato e faranno abbigliare il nostro unico rappresentante maschile con il vestito tradizionale con tanto di scudo e lancia, mentre le donzelle acquisteranno i loro coloratissimi tessuti.
All’interno del villaggio c’è anche una chiesa e una costruzione in cemento con all’interno i telai, supportata da una ONLUS irlandese, Vita.
Il villaggio dista un’ora da Arba Minch (che significa 40 sorgenti), che è vicina al Lago Chamo, uno dei laghi della Rift Valley; se avete tempo, organizzano escursioni in barca per vedere i numerosi coccodrilli, di cui esiste un allevamento non lontano dall’aeroporto.
Dormiremo al lussuoso Emerald Resort, Off shecha road di Arba Minch (Tel: +251 468811895, stanze ricercate, grandi e pulite, bel bagno, buona colazione a buffet) prenotato tramite Greenland (25 euro a testa), dove ceneremo a buffet (Swayne Restaurant, 1623 birr), anche perché il Resort è in una zona un po’ isolata.
4/11
Ci svegliamo di buonora e facciamo colazione sulla terrazza che da sul lago Chamo. Alcune scimmie, saltano fuori dalla foresta che si estende per km sotto i nostri occhi, e rubano la colazione dal buffet. I camerieri abituati, le fanno scappare.
Per strada vediamo avvoltoi che consumano il proprio pasto, motorini che trasportano quattro persone alla volta, arnie tubolari dove viene raccolto il miele di acacia, banane accatastate in attesa che passi il camion per portarle al mercato, vediamo persino un cucciolo di pitone africano delle rocce, che è considerato una reincarnazione degli antenati, schiacciato da un auto. Scopriamo che Mahari è molto preparato su flora e fauna ed è persino dotato di un libro sulla fauna etiope, che ci mostrerà ogni qualvolta vedrà un animale, per farcene conoscere le caratteristiche. Scopriremo anche che Mahari è un amante della musica leggera di tutto il mondo e ci metterà persino De André. Mi chiederà una lista di cantanti “romantici” italiani e non e Zamesha lo prenderà in giro per questo lato sensibile.
Siamo diretti nella bassa valle dell’Omo, a Gamole, dove visitiamo un villaggio Konso (200 birr +guida 260 birr), con le sue mura in pietra e i terreni coltivati a terrazze, che mi ricordano tanto il Perù. Nelle piccole piazze, ci sono i così detti pali delle generazioni, perché ne viene piantato uno ogni 18 anni; qui e là qualche waga, cioè i totem scolpiti nel legno che raffigurano gli antenati e gli eroi defunti, che sembra favoriscano la fertilità dei terreni.
Le capanne hanno in alto un vaso che impedisce l’entrata della pioggia e gli anziani si riuniscono in capanne aperte per discutere delle questioni che riguardano il villaggio.
Avremmo voluto visitare anche Gesergio, detta anche New York per l’altezza delle rocce e delle capanne, ma non c’era tempo sufficiente, visto che non avevamo trovato il volo per il 02.11.
Sulla strada verso Jinka, attraversando vallate verdissime, poco prima di attraversare il fiume Weto, Mahari ferma bruscamente l’auto per farci vedere, in mezzo alla strada, un scarafaggio stercorario, che fa rotolare la pallina a cui è tanto affezionato.
Situata nel parco nazionale del Mago, Jinka, la cittadina più grande dell’area, è anche la tappa da cui partono le visite per i villaggi Ari (200 birr +guida 500 birr). Gli Ari sono la tribù più numerosa e producono miele, di cui abbiamo visto le arnie appese agli alberi e coltivano sorgo e caffè. Nel villaggio una delle nostre amiche viene vestita con gli abiti locali ed io vengo messa a cucinare la enjera, con tanto di complimenti della cuoca, perché in genere gli stranieri lasciano i buchi.
Vediamo anche la lavorazione dell’argilla, del distillato locale e come si fanno le treccine l’una con l’altra. Per tutta la visita siamo seguiti da una pletora di bambini, alcuni giocano al gioco del cerchio mettendo una bottiglia tagliata su di un bastone.
Lasciamo il villaggio, diretti all’aeroporto, dove speriamo di trovare le valigie. Al cancello d’ingresso, due militari chiedono il tesserino di trasporto turistico a Zamesha e Mahari. Entriamo quindi e parcheggiamo. Bussiamo alla porta di vetro dell’aeroporto, un omino gira la chiave e ci apre. Entriamo, passiamo sotto a un metal detector spento e vediamo in un angolo le nostre valigie, d’istinto ognuno va verso la propria e fa per andarsene, ma l’omino ci blocca e chiede di vedere i tagliandi, per essere sicuro che siano veramente i nostri bagagli, controllandoli uno a uno. Saluto l’omino che sembra felice che tutto sia andato bene e lo vedo chiudere dietro di sé la porta e salire su un’auto e venire via. I nostri autisti recuperano il tesserino lasciato in ostaggio e pensiamo nuovamente al serpente che sembra continuare a portarci sfiga.
Con booking e altri motori di ricerca non avevo trovato nulla, dove dormire qui, così mi sono affidata a Zamesha, che ha contattato l’Orit Hotel di Jinka (3130 birr, stanze piccolissime, non pulitissime, colazione basic), il peggiore di tutto il viaggio, che avevo letto su trip Advisor essere comunque uno dei migliori di Jinka. Abbiamo deciso poi di fermarci anche a cena (920 birr) e oltre ai piatti locali, abbiamo provato anche la loro pizza, discreta.
5/11
Partiamo sempre intorno alle 8, questa volta diretti a un villaggio Mursi (200 birr + guida 800 birr+ foto 200 birr ) nel Mago Park (entrata al parco 260 birr + 54 birr per ogni auto). Per strada carichiamo una guardia armata (200 birr), ma, nonostante questo, siamo molto elettrizzati, perché quest’etnia è particolarmente famosa, perché le donne portano incastrati nel labbro inferiore dei piattelli che possono raggiungere i 12 cm. Il taglio nel labbro viene fatto intorno ai 15 anni e viene indossato solo nelle grandi situazioni. Per posizionarlo meglio, vengono anche tolti i 4 incisivi inferiori. Le donne girano con il labbro pendulo tagliato nel mezzo, sono poche quelle che indossano il piattello, alcune ne portano anche alle orecchie, e lo fanno principalmente per le foto. Arriviamo verso le 10 e ci rimarremo per quasi un’ora. Ogni etnia pretende il pagamento di una quota per le fotografie. Questa tribù è famosa anche per la scarificazione, una pratica di forte attrattiva sessuale, che le donne si procurano, incidendo la pelle con pietre e coltelli, quindi cospargendosi di cenere per favorire l’infezione che porta all’ispessimento della pelle, tanto apprezzato. E’ una tribù nomade, i cui uomini praticano il combattimento con bastoni, che è ora vietato quando lo scopo è solo turistico. Passeggiamo fra le loro capanne, ammiriamo la semplicità e i colori delle stoffe che li coprono. Ci soffermiamo qua e là a fotografare le donne che portano i propri bambini sulle spalle o sul davanti, allattando mentre camminano, ma nello stesso tempo non apprezzeremo certi loro modi di fare, ad esempio una donna cerca di sfilarmi gli orecchini, un’altra apre la borsa a una amica e un’altra ancora sfila dalle mani di un’altra di noi i 100 birr che le servivano per pagare un braccialetto. Braccialetti e piattelli sono souvenirs che ossessivamente cercheranno di vendervi.
Me ne vado un po’ con l’amaro in bocca, anche qui, come in altri viaggio, ho avuto la prova che il turismo corrompe e snatura.
Per la strada, veniamo fermati da bambini, credo dell’etnia Surmi, completamente nudi e dipinti con strisce bianche. Per noi è una foto spettacolare (35 birr), ma sono bambini che dovrebbero andare a scuola, ci dice Zamesha e come dargli torto.
Qua e là qualche dik dik, una sorta di piccola antilope, ci attraversa la strada spaventato.
Verso mezzogiorno una di quelle cose che per me vale un viaggio: l’autolavaggio indigeno (50 birr)! Entriamo in un fiume con le due auto e alcuni ragazzi dotati di secchi con acqua saponata e spugna ci lavano l’auto, è che con la stessa spugna, si lavano fra di loro. Altro che spazzole antigraffio! Alcuni sono nudi e appena scendiamo noi ragazze per fare le foto alla seconda macchina, si rivestono velocemente con la schiuma che ancora non hanno sciacquato.
Ritorniamo a Jinka per visitare il mercato (guida 600 birr), che è particolarmente bello al martedì e al sabato. In questa occasione vedremo anche dei Banna, che assomigliano molto agli Hammer, ma hanno collane di perline blu.
Assistiamo alle contrattazioni, scopriamo che i piccoli seggiolini di legno, si chiamano borkota e servono agli hammer da cuscino di notte e da sedia di giorno, che il burro è venduto in vasi che sembrano di pittura da muro, che i bracciali a seconda della fantasia sono di una specifica etnia e che in un angolo ci sono anche dei banchetti di souvenir per noi turisti.
La nostra giornata termina all’Emerald Lodge di Turmi (Tel +251 46 884 0739, stanze ricercate, grandi e pulite, bel bagno, buona colazione a buffet), dove alloggeremo per tre notti (25 euro a persona per notte), e mangeremo a buffet al ristorante interno (250 birr a testa, ) .
6/11
Partiamo sempre intorno alle 8.30. Oggi vogliamo visitare come prima cosa un villaggio Karo (300 birr + foto 200 birr+guida 300 birr). Quest’etnia di agricoltori è nota perché si dipinge il corpo con gesso bianco e colorato. Le donne e i bambini si dipingono solo il viso, mentre gli uomini anche il resto del corpo. Ho l’impressioni che le donne qui siano molto alte e belle, ma forse è anche la suggestione di tutte le collane, coroncine e stoffe colorate con cui si adornano a renderle così affascinanti, gli uomini invece sembrano tutti arrabbiati, con quel broncio. Le capanne sono di legno e alcune sono vicine a un laghetto o dovrei dire una grande pozzanghera, dove giocano dei bambini. Arrivando non mi ero accorta in che posizione spettacolare si trovasse il villaggio. Infatti, è su di un’altura in mezzo alla foresta, con un grande fiume, il Mago, che crea un’ansa proprio sotto i nostri occhi. Presto, ci dicono, che ci sarà una nuova strada per raggiungere la zona dei Karo.
Torniamo per pranzo al resort a Turmi, che è una cittadina in territorio hammer, e per strada vediamo moltissimi uccelli con becchi e colori veramente strani. Anche i termitai attirano la nostra attenzione, perché svettano altissimi e rossi nel blu del cielo di queste giornate africane.
Visitiamo il mercato, finalmente senza guida, entrando in contatto con la gente.
Verso le 16 riprendiamo la nostra visita con un villaggio Hammer (200 birr per persona +foto 100 birr+guida 400 birr). Quest’etnia coltiva cotone e alleva capre, produce miele ed è soprattutto famosa per le acconciature delle donne fatte di treccine (gosha), tenute insieme da un impasto di ocra, acqua e resina. Le donne sono tutte a petto nudo con un semplice gonnellino in stoffa. Al collo delle donne sposate grosse collane di metallo, ben più pesanti delle piume di struzzo che adornano i guerrieri. Tutte decorano i propri corpi con bracciali, più ne hanno e più è indicativo della ricchezza del marito.
Torniamo a piedi verso il resort con la guida che cerca di farci andare più velocemente per non attraversare il nulla nel buio. Così vediamo anche il tramonto incrociando gli hammer, che tornano dal mercato.
Intanto Zamesha ha contattato i suoi conoscenti per cambiarci valuta e per sapere se c’è un Bull Jumping in questi due giorni e viene a sapere che ci sarà due giorni dopo, così alla sera a cena propongo questa rivoluzione del giro prefissato, fermandoci un giorno in più a Turmi. Il gruppo ci tiene a vederlo e quindi, chiedo un preventivo per la notte in più, tratto, ma riesco ad ottenere solo uno sconto sulla cena.
7/11
Colazione a buffet e via verso Omorate, che dista 72 km da Turmi, dove in un ufficio dovremo presentare tutti i nostri passaporti e visti, dato che siamo al confine con il Kenya.
Qui vediamo tante auto di diverse agenzie, che non conosco, ma Vi segnalo nel caso vogliate farvi fare dei preventivi: Lalo Tours Ethiopia lalotoursethiopia.com; High and far Ethiopia highandfarethiopiatours.com; Maner manertour.com; Pathfinder pathfindertour.com.et; Adimasu Tours adimasu-tours.com; Koreb Tour & Travel korebethiopiatours.com.
Omorate si trova sul fiume Omo ed è una cittadina molto calda, punto di partenza per la visita dei Villaggi Daasanach (150 birr per persona + guida 400 birr+foto 200 birr), che sono tra i più poveri. Quest’etnia alleva bovini, ma ha iniziato anche a coltivare mais e sorgo; bevono sangue caldo di animale al mattino per darsi energia.
Affittiamo due barchette (ognuna porta 4 persone, 150 birr per persona) scavate in tronchi d’albero e attraversiamo il fiume con un “gondoliere” indigeno.
Le capanne sono tonde e ricoperte di lamiera, per proteggersi dalle piogge. Le donne indossano collane di perline di plastica e vengono sottoposte a infibulazione, la guida cercherà di convincerci in tutti i modi che è un bene, ma sta parlando con sei donne europee, emancipate, indipendenti e disgustate,
Qui ci è sembrato di vedere l’Africa vera, anche se poi hanno dovuto organizzare lo spettacolino per noi turisti, una danza dove muovevano più la parte sotto la cintola che le spalle a differenza che al nord.
Qui sì che abbiamo avuto modo di toccare la vera povertà e ci siamo chiesti se i soldi dati al capo villaggio andassero a beneficio di tutti, perché non pareva proprio così.
Torniamo a Turmi, ci riposiamo un pochino in attesa che venga a prenderci la guida (altri 400 birr) del giorno prima per portarci al Bull Jumping (25 euro o 800 bir per persona ).
Il Bull Jumping consiste in frustate, urla, canti, suoni di corno, danze e salti; è un rito di passaggio all’età adulta dei banna e degli hammer, durante il quale 7 o 8 tori vengono messi in fila e il prescelto, completamente nudo, deve saltare sulle loro groppe, andata e ritorno, senza cadere. Le giovani parenti del prescelto, prima del salto, pregano i ragazzi celibi, ma che hanno già superato questa prova, di frustarle, quindi vengono lanciati dei rami e loro letteralmente si buttano per accaparrarsene uno con il quale possano essere frustate. Le cicatrici, possibilmente molte e profonde, che ne deriveranno, sono motivo di orgoglio e sono la dimostrazione dell’amore per il giovane parente.
Dopo essere state frustate, le donne hanno ancora voglia di ballare e saltare e si spingono per scherzo fra di loro.
Intanto il miglior amico del ragazzo lo ripara dagli sguardi indiscreti e gli da coraggio, ma è veramente spaventato, direi quasi pallido, se il colore permettesse di esprimermi in questo modo.
Chiediamo alla guida se anche lui ha superato questa prova e ci risponde come se fosse una cosa ovvia, poi gli chiediamo se la moglie partecipa alla fase delle frustate e lui ci risponde quasi come se avessimo offeso la consorte. Lo tempestiamo di domande perché per noi è veramente difficile comprendere queste pratiche e alla fine non possiamo non chiedergli perché gli mancano tutti gli incisivi inferiori e lui risponde che è per bellezza. Se penso a cosa avrebbe dato mia nonna per averli ancora! Ceniamo al resort.
8/11
Oggi visiteremo il nostro ultimo villaggio e relativa etnia: gli Arboré (200 birr per persona +foto 200 birr+guida 400 birr). Per raggiungerli però dovremo attraversare il letto del fiume Kascade, perché il ponte è caduto per le piogge. Ci fermeremo a Karat, dove ci eravamo già fermati andando a vedere i Konso, in un lodge con stupende buganville multicolor, per fare pipì e bere un caffè. Arriviamo dagli Arborè e ci rendiamo conto che è vero quello che dice la Lonely Planet, che a volte si ha l’impressione di fare un safari umano. Qui sembrano meno poveri, le capanne hanno la forma di grossi panettoni di paglia, che ci permettono di vedere all’interno. Sono molto spaziose e hanno addirittura due camini, dove cucinare.
Le donne sono rasate e si adornano di lunghe collane di perline e alluminio. Dicono che questo sia il regno delle zanzare, ma francamente non ce ne siamo accorti.
Passiamo da Soddo e ci rendiamo conto che non eravamo più abituati al traffico. Qui ci sono tantissime chiese tonde e colorate e spesso sono vicine a moschee tutte verdi.
Ci rimettiamo in macchina, diretti verso Awasa, tappa intermedia per raggiungere Addis Abeba. Attraversiamo lunghe distese verdi e al pomeriggio, ci ritroviamo a costeggiare il lago Abaya; ci fermiamo perché ci vogliono far vedere la mancinella, una pianta che da frutti molto simili alla mela, che pare sia la più velenosa al mondo. Continuiamo e qua e là attraversiamo piccoli paesi ed è chiaro che ci stiamo riavvicinando alla così detta civiltà.
Awasa è una cittadina moderna e l’Heron Hotel, Amora Gedel, Awasa (102,60 USD/4132 birr, camere non grandissime, con salottino, bel bagno alcuni con idromassaggio, peccato la penuria d’acqua) ci ospiterà per la notte. Dal corridoio si accede a una terrazza, con splendida vista sul lago. Mangeremo molto bene al ristorante interno (1270 birr). Fuori c’è un ristorante italiano, poco più avanti sulla via principale parallela, ci sono diversi localini, ma non ci ispiravano molto.
9/11
Iniziamo la nostra ultima giornata con un’ottima colazione e alle 7.30 siamo già in viaggio verso Addis Abeba, ma vogliamo fare prima una tappa al mercato del pesce di Awasa (50 birr per persona +guida 500 birr). Ci viene incontro la nostra prima e unica guida donna, che intanto che ci spiega, ci porta in riva al lago per indicarci le numerose razze di uccelli qui presenti, come i marabù e i pellicani, che sono attirati dagli scarti della lavorazione del pesce eviscerato. Vediamo la preparazione di una sorta di sashimi, della riparazione e organizzazione delle reti per la pesca del giorno, infatti, le barche escono nel pomeriggio e rientrano al mattino seguente con il proprio carico di tilapie, pesci gatto e persici. Dopo la lavorazione del pesce, passiamo attraverso un’area con diversi ristorantini, ci offrono cibo, ma al mattino non ce la possiamo fare. Chissà però cosa bolle in quei pentoloni.
Prima di risalire in auto, ci facciamo distrarre dalle scimmie che popolano il parco vicino, che abbiamo deciso di non visitare, perché vogliamo passare più tempo possibile ad Addis Abeba.
Lungo la strada prendo in giro Zamesha, imitando la sua aspirazione tipo spavento, che per gli etiopi significa “sì” e pretendendo di insegnargli le poche parole di etiope imparate, es. eshi vuol dire “ok?”, wadegna significa amico e Odalo ti amo, imparato perché i due autisti si erano innamorati di una delle nostre amiche e continuavano a dirglielo! Chiedo come si comportano i turisti delle altre nazioni e sembra che tedeschi siano muti, i giapponesi dormano sempre, spagnoli e italiani i loro preferiti, tranne che per le mance, per quelle vincono gli statunitensi, i cinesi invece li fanno fermare sempre per fumare e a loro da un po’ fastidio, dato che è un paese dove raramente vedrete fumare.
Attraversiamo la Rift Valley, una spaccatura di 4000 km, larga in media 50 km, disseminata da laghi, che arriva fino in Dancalia. Dopo aver costeggiato il lago Awasa, costeggeremo il lago Shala, il lago Abiata e il lago Langano, di colore bruno, che è uno dei pochi laghi balneabili, perché libero dalla bilharziosi, un’infezione data da parassiti. Passiamo anche vicino al lago Zway, il più grande di questa zona, che con il Langano si contende lo scettro per il birdwatching (860 specie in tutta l’Etiopia). Campi infiniti di piante di mango, ma non è ancora stagione e serre a non finire di fragole e rose. Ci fermeremo in una sorta di autogrill per provare il frappé di fragole (65 birr a testa) che fanno qui… buono!
Verso le 13, prenderemo la nostra prima autostrada etiope, a tre corsie, assolutamente in ottime condizioni, arrivando ad Addis Abeba verso le 14.30. Zamesha e Mahari ci devono però lasciare, perché il giorno dopo devono partire con un nuovo gruppo, ma Greenland ci ha mandato un altro autista con un pulmino, per terminare il giro della città e portarci all’aeroporto. Mi sono proprio affezionata ai due autisti, sono stati meravigliosi con noi (mancia 10 euro a testa).
La prima tappa è il Museo Nazionale (10 birr per persona), che ci tenevamo tanto a vedere. La sezione meglio organizzata è sicuramente quella paleontologica, dove sono custoditi i resti di Lucy, fossile di ominide ritrovato nel 1974, la cui scoperta diede nuova linfa agli studi sull’origine dell’uomo. Qui si trovano anche resti di altri ominidi più recenti (parliamo di milioni di anni fa) e di animali ormai estinti, come la tigre dai denti a sciabola. Gli altri piani sono dedicati a manufatti antichi e arte, anche moderna.
Seconda tappa è la Cattedrale Santissima Trinità, dove giacciono le spoglie di Hailé Salassié; dopo aver visto tante chiese decidiamo di non entrare, anche perché l’entrata costa 200 birr per persona e non abbiamo più molti contanti.
Terza tappa il mercato turistico di Addis Abeba, acquistiamo gli ultimi souvenir e ci dilunghiamo un po’ per arrivare all’ora di cena, che faremo da Mama’s Kitchen, locale molto in, consigliato da Zamesha. Insomma per l’ultima cena ci siamo trattati bene, ma con il gerente ho contrattato dicendogli chiaramente che avevamo tot soldi e non volevamo cambiare nulla.
10/11
Il nostro volo della Ethiopians partirà alle 00.05 per arrivare a Malpensa alle 6:55, con scalo a Roma alle 4:30 (352 euro). In aeroporto non ho visto punti, dove cambiare la moneta locale. I controlli sono un po’ lunghi e le code per il check in assolutamente disorganizzate, quindi arrivate per tempo.
Ce ne torniamo in Italia, con impressa negli occhi e nel cuore la vastità dei paesaggi etiopi e non mi sorprende più che proprio qui si allenò Abebe Bikila, il primo africano a vincere l’oro olimpico, correndo tutta una maratona scalzo.