In Etiopia per visitare la Valle dell’Omo

Il mondo è un libro e l'Etiopia è il primo capitolo
Scritto da: laurasergio
in etiopia per visitare la valle dell'omo
Partenza il: 12/01/2017
Ritorno il: 22/01/2017
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €

12 GENNAIO 2017

Questo viaggio è nato un po’ per caso: dove possiamo andare per 10 giorni in gennaio? Tramite il sito skyscanner dei voli abbiamo indicato l’opzione “ovunque” come destinazione, fissando le date incastrate tra gli impegni di lavoro, festività natalizie, le lezioni e il fine mese in ufficio. E‘ saltata fuori una buona opportunità in Etiopia. Curiosi per questo paese già molto nominato dai siti e agenzie che organizzano viaggi, fissiamo il volo con Egyptair. C’era poi da decidere tra nord o sud Etiopia. Abbiamo optato per il sud, dato che a nord è tempo di Timkat, la festa cristiana simile alla nostra epifania, molto partecipata, che preferiamo evitare “religiosamente”. Ci brillano gli occhi a leggere dell’Omo River e delle sue tribù e anche dei possibili trek sui monti Bale, ma 10 giorni sono troppo pochi per le due zone: l’Omo River è quindi la nostra scelta finale.

Decolliamo purtroppo con un’ora di ritardo da Malpensa, a Il Cairo manchiamo la coincidenza e ci fissano il posto su Ethiopian Airlines. Arriveremo quindi piuttosto frastornati alle 7.20 del mattino anziché alle 3.15. Pazienza, ce la prendiamo comoda, siamo rilassati e vedremo cosa succederà.

13 GENNAIO 2017

Stamattina quindi siamo atterrati ad Addis Abeba alle ore 7.00. Volo impeccabile con Ethiopian airlines. Usciamo come sempre rapidamente grazie al nostro bagaglio superleggero, viaggiamo infatti con solo uno zaino in spalla con qualche maglietta in più da donare all’occasione. Grazie ad un addetto dell’aeroporto, ci mettiamo in contatto telefonico con Alex della SimienMountainTours e alle 7.30 arriva con una bella jeep Jonas, che sarà la nostra guida in questi 10 giorni. Un personaggio minuto con un grande cappello che raccoglie una evidente folta capigliatura. Ci ha subito portato a fare colazione e ad incontrare Alex, cui abbiamo pagato parte della quota concordata per il nostro giro, e poi siamo partiti verso sud, con sonno da svenimento, colpiti dalle vie super affollate, polvere e smog di camion euro sottozero, un sacco di belle donne dalle pettinature superelaborate. Oltre al fuso e al sonno anche gli orologi sembrano impazziti: qui non sono due ore avanti, ma il tempo si calcola dall’alba, e quindi alle 8 del mattino, che sono le 6 in Italia, qui sono le 2…! Anche il cellulare con Sim Ethio appena acquistata si adegua automaticamente a questa nuova logica.

Si macinano i primi chilometri, evitando pedoni, animali che se ne sbattono camminando pacificamente in mezzo alla strada: gentegentegente e studenti e persone che si arrabattono, campi secchi, plastica ovunque.

Un po’ di frutta e arriviamo al lago Ziway dove alcune donne stanno pulendo pesce appena pescato e in diretta lo friggono e vendono. Siamo circondati da cormorani e da enormi maribù in paziente attesa dei resti, come i bambini che fanno i pirana sui nostri resti, lasciando solo una lisca pulitissima: nulla va sprecato.

Riprendiamo il viaggio per arrivare ad Awasa, una città caotica. Non c’è prenotazione: i due lodge più noti sono pieni e ci infiliamo in un affollato hotel a 5 stelle in pieno centro, sulla piazza principale, con la luce che salta, ma con la doccia funzionante e una traballante connessione. Andiamo a fare un po’ di spesa, un riposino, un po’ di intimità, ci scrostiamo la polvere di dosso, mangiamo, scriviamo e andiamo a dormire, per poter ripartire in quarta domani.

14 GENNAIO 2017

Una strana giornata, un po’ noiosa ma con degli incontri particolari. Facciamo colazione nell’hotel di Awasa, dopo una bella dormita. L’offerta è abbondante ma poco allettante, rimaniamo frugali. Poi partiamo per il fish market di Awasa, sull’omonimo lago.

E’ un vero mercato a chilometro Zero: molte persone sono in attesa del ritorno delle barche con il frutto della nottata di pesca. Sono barche di legno, molto piccole, piatte che paiono affondare. Non è andata molto bene: una quantità di pesce pari ad un nostro sacchetto della spesa. Viene venduto alle donne che lo portano subito a cucinare e rivendere e guadagnarsi il “pesce” quotidiano.

Oltre agli adulti presenti e a qualche venditore di cianfrusaglie, vediamo bambini da soli che raccolgono l’acqua, pellicani e molti maribù; la luce del primo mattino è rasa, l’atmosfera suggestiva, i pochi stranieri pagano per entrare, 40 birr, circa 1,50 euro, una tassa che serve al boss di turno per guadagnarsi la propria pagnotta.

Riprendiamo la jeep, attraversiamo una città abbastanza pulita e frenetica al mattino presto. Siamo diretti ad Arba Minch: la strada è lunga, infinita, vi sono sempre persone e carretti trainati da asini e animali e i tipici bajaj, i tipici tricicli-taxi, che attraversano e incrociano continuamente la nostra traiettoria, condividendo con disinvoltura la strada con i camion-carretti-bus che avanzano senza riguardi; ed è uno slalom, come in una pista da sci affollatissima, dove devi stare attento a tutto e in ogni direzione.

Piano piano la vegetazione diventa più verde, ci stiamo abbassando di altitudine e si moltiplicano banani, mango e alberi ad alto fusto. Accanto ai laghi della Rift Valley alcuni appezzamenti di terra sono coltivati; i villaggi di misere capanne si susseguono. Siamo un po’ stanchi di stare in auto, sogniamo i possibili trek delle Simien Mountains dove invece si potrebbe camminare parecchio.

Finalmente arriviamo a destinazione. Arba Minch: una città divisa in due grandi quartieri abbastanza distanti tra loro. Ci appare come una piccola tipica città africana, sporca, polverosa piena di gente che ci sembra molto povera ma dignitosa nelle scarpe rotte se le hanno e nei vestiti logori; una città con piccole capanne-casa-negozio insieme, polvere, case moderne in costruzione mai completate con impalcature da brivido e tante chiese di diversi orientamenti religiosi.

Sostiamo per pranzo in un bel giardino, non prima di essere sottoposti ad un controllo anti bombe (!), abbiamo mangiato un piatto di carne e un fish-goulash strepitoso. Un cordiale saluto coi complimenti alle numerose cuoche, felici della nostra visita nell’ampia cucina. Il prezzo di 400 birr modesto, ci è parso però spropositato, ma non conosciamo ancora i prezzi medi dei cibi locali in luoghi turistici.

Finalmente, prendiamo possesso della bel bungalow al bellissimo Paradise Lodge. Un luogo meraviglioso, in perfetto stile africano di lusso, con panorama sul National Park e sui laghi Abaya e Chamo, divisi dal monte God’s Bridge. L’acqua in bagno però non arriva, usiamo le docce esterne della piscina e verso le 5 usciamo sulla strada a curiosare.

Ci imbuchiamo in una chiesa-tendone da dove sentiamo provenire dei canti: stanno facendo le prove per la cerimonia di questa sera; veniamo ben accolti da persone molto gentili, riusciamo a fare amicizia, confrontandoci su temi cristiani.

Subito fuori dal portone, un locale in lamiera dove si gioca a dama, una tavola grezza con i riquadri colorati alla bell’e meglio e per pedine dei tappi di bottiglia. Le regole sono ovviamente etiopi: si può catturare anche indietro, la dama può mangiare il damone, ma il damone si muove come un alfiere degli scacchi.

Guardiamo e ci facciamo spiegare, infine mi propongono una sfida. Probabilmente mi fanno sfidare il più scrauso, perché riesco a vincere suscitando gli applausi di tutto il gruppo. La rivincita è invece una sonora sconfitta, ma è stato molto divertente, con regole così diverse e difficili. La dama è un vecchio tappo di bottiglia, il damone due tappi sovrapposti. Ci salutiamo cordialmente, un ciao, una stretta di mano e le spalle che si toccano, il loro modo di salutarsi.

Torniamo al lodge con il bajaj, il buio è calato improvvisamente, il cielo è nero, la città è scarsamente illuminata: una tazza di tè e poi in camera, sul baldacchino con zanzariera, fine serata con luna nascente che riflette i suoi raggi rossi sul Lago Abaya e Laura affettuosa.

15 GENNAIO 2017

Buona dormita al Paradise Lodge, tra luci esterne e rumori di fondo, in un bel lettino da una piazza e mezza difesa dalla rete anti zanzare. Ci alziamo ben riposati; buona colazione, preparativi e alle 7.45 siamo pronti, puntuali per partire con Jonas. Lui ci vorrebbe portare subito sul lago Chamo, al crocodile market, ma insistiamo per entrare nel Nechsar National Park e visitare 40 springs citate nei depliant del lodge.

All’ingresso del parco ci accoglie un soldato burbero con tanto di mitraglietta; viene con noi e lontano da sguardi indiscreti, si lascia andare e si diverte a dondolare sulle liane come un bambino, con il mitra penzoloni sulla spalla!

Il luogo delle 40springs, immerso nella foresta, benché frequentato da gente del luogo che si fa il bagno o lava i panni, non ci pare nulla di straordinario, ma ci piace essere lì: il bosco è pieno di alberi dai tronchi contorti, le liane sono gigantesche, i babbuini si intuiscono e si vedono alla fine.

Riusciamo a farci due passi scortati dal militare, mentre la nostra guida e un suo amico (che accampava un ruolo di guida, per spillarci soldi) ci seguono con la jeep. Riusciamo a percorrere piacevolmente meno di 2 km quando passano a prelevarci per uscire dal parco e per dirigersi verso il lago.

Per la barca, invece, occorre andare a prendere il boatman, che tiene il monopolio delle gite sul lago. Il lago Chamo è molto grande, senza emissario, di un color terra, poco invitante che sappiamo essere pieno di coccodrilli. Non esistono paesi, solo un piccolo molo con 4 o 5 barchette a motore di metallo, al massimo di 8 posti. Turisti, pochissimi; ci imbarchiamo e arriviamo dopo una buona mezz’ora di piacevole navigazione al sole caldo dell’Equatore al famoso crocodile market che non ha niente a che vedere con un mercato come quello del pesce di ieri, come pensavamo. Avvistiamo coccodrilli e ippopotami, placidamente nascosti e crogiolanti al sole, ai bordi di questo enorme lago. Tra canne e isolette, tra pellicani e imponenti aquile pescatrici, passiamo vicini, forse troppo, a coccodrilli giganteschi, alcuni con la feroce bocca completamente spalancata in attesa della pulizia dentale… Siamo ai primordi del turismo e gli animali non si fanno certo trovare facilmente.

Torniamo ad Arba Minch, dopo una pausa pranzo con altro fish goulash, molto molto gustoso.

È domenica: sulle strade e con ogni mezzo, ma principalmente a piedi, sciamano persone che si recano nelle varie chiese candidamente vestite, spesso mescolate tra i soliti milioni di animali che marciano alla ricerca di acqua o pascolo; le persone che si lavano o lavano i panni nelle rare pozze, migliaia di bambini apparentemente soli da quando camminano, tricicli-bajaj pazzi nel traffico, una umanità e animalità che si incrociano.

Ci dirigiamo finalmente verso il Dorze Village, la nostra prima visita ad una tribù locale. Si tratta di una antica tribù stanziale che vive sulle montagne lavorando in modo esperto e proficuo il cotone.

I Dorze hanno le case a forma di testa elefante, in ricordo degli animali che vivevano in quest’area. Un lato della casa è destinato agli animali che ci vivono dentro per assicurare il calore alla casa.

Producono il loro pane dalla raschiatura delle foglie di finto banano, che finisce sotto terra a fermentare per almeno tre mesi e viene poi cotto su una piastra sul fuoco vivo, schiacciato come una pizza all’interno di due foglie di banano.

I Dorze si vestono normalmente, hanno i cellulari e sono ben organizzati. Nel villaggio hanno anche creato, dalle capanne più vecchie un modesto ma originale ed autentico eco-lodge . Insomma si stanno civilizzando, sta arrivando l’elettricità e pare non abbiano molti problemi, sempre che non vengano contagiati dal modello consumistico occidentale di avere-avere-avere. L’autobus arriva fin quassù, le banane e gli abbondanti manghi cadono dagli alberi, le case più nuove e moderne cominciano ad intravedersi.

Alla fine, le donne cercano di vendere i loro manufatti; tra i bei tessuti coloratissimi e le varie paccottiglie la scelta è difficile: ci facciamo convincere per un piatto decorato e cotto al sole, poi sotto terra, imballato con le immancabili foglie di banano.

Torniamo in città, ci riposiamo al lodge e al tramonto ci dirigiamo a piedi verso la città, guardati ogni tanto con curiosità dalla gente del posto: siamo noi gli strani e stranieri. Una folla sta guardando la partita di calcio. Ci fermiamo in un bel bar moderno per un cremoso succo di avocado e una sprite, attorniati da persone che non sfigurerebbero a Milano, per la cura dell’abbigliamento e delle acconciature.

Rientriamo al lodge con il taxi-triciclo-bajaj, molto comodo e utile, e soprattutto economico. Terminiamo la bella giornata leggeri, guardando il cielo nero.

16 GENNAIO 2017

Oggi lasciamo Arba Minch e partiamo per la valle dell’Omo. La notte è stata burrascosa, ma non per colpa dei letti, comodissimi e neppure per il rumore, silenzio assoluto, ma semplicemente perché abbiamo avuto visite durante la notte! Avevamo ancora un pezzetto di parmigiano portato da casa. Prima mi sveglio io, sento un rumorino di plastica, ma può essere il vento notturno, ho dei dubbi e chiudo le borse, sollevo il cibo e mi riaddormento. Laura però si allerta e dopo circa un’oretta sente distintamente gli stessi rumori, così ci svegliamo e scopriamo il nostro visitatore, un topino che scappa impaurito per la stanza. Il formaggio che lo ha attirato finisce nel frigo spento, chiudiamo bene tutto, avvisiamo la reception, che non può fare molto… e torniamo a letto.

La mattina puntuali partiamo per Konso. Viaggiamo insieme ad un’altra auto, con un giovane turista argentino di 24 anni di nome Franco. La nostra guida ci spiega che per “sicurezza” è consigliabile viaggiare in gruppo per evitare possibili rapine, talvolta sfociate in omicidi. Io credo che l’abbia detto per avere la semplice compagnia del suo amico, ma riesce ad intimorire Laura.

La strada è a tratti in asfalto alternata da terra piena di buche e ancor di più di persone e mandrie vaganti, in un tutt’uno compatto, soprattutto in corrispondenza dei piccoli villaggi, crocevia di umanità.

Sulla strada si incontrano sempre più spesso giovani con i machete, in un paesaggio di piante tropicali, come banani , manghi e papaye, oltre agli immancabili alberi ad ombrello.

Lungo la strada sterrata, ci fermiamo ad un grande mercato, luogo privilegiato di incontri e scambi di ogni tipo: noi siamo inseguiti da bambini incuriositi che toccano i capelli lisci di Laura o il suo foulard, chiedendo matite o aiuto economico. Non si possono accontentare tutti: un sorriso, un saluto nella loro lingua che suscita ilarità e via.

Continuiamo con l’auto, entrando nella regione di Konso, calda e verde e lavorata: il territorio, anche fuori dai paesi, è completamente terrazzato e perciò ha ottenuto il riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Proseguiamo per uno dei villaggi dove ci aspetta una guida locale.

I konso sono molto laboriosi, il villaggio, è costruito in collina, su terrazze delimitate da robusti muretti di rocce. Molto caratteristico.

Le varie piazzette dispongono di pietre di varie misure, appoggiate a terra, con cui i giovani si si allenano in modo da poter gettare dietro la propria testa la pietra più pesante: tale prova, se superata, implica il riconoscimento sociale del passaggio all’età adulta. All’ombra di un albero, un uomo sta tessendo ad un rudimentale telaio. Un nutrito gruppo di bimbi ha dei libri in mano e sta studiando in un angolo in ombra.

Da qui in avanti ci appare sempre più evidente la nota legge primordiale dell’umanità, quella della selezione della specie: trovi persone che stanno bene, con moto auto ma anche bambini alla fame, con la pancia grossa che devono imparare ad arrangiarsi appena camminano, bambine che trasportano sulle spalle infardellati, fratellini più piccoli o gli immancabili secchi di plastica gialla più grandi di loro ma indispensabili per il trasporto dell’acqua verso casa, la terra o le bestie.

Ora si scende di altitudine e la temperatura si fa rovente. Ci fermiamo per mangiare insieme all’argentino; ormai è chiara la manovra da parte delle due guide-autisti-amici di concordare il conto del ristorante in modo da ricaricare su di noi il loro pasto. Non sono cifre importanti, ma la cosa fatta sottobanco non ci pare simpatica.

Proseguiamo addentrandoci nel bush, verde ma secco, siamo nella terra degli Hamer, che ci accolgono con controlli, sono gentili e sorridenti ma con tante armi in giro, non si sa se funzionanti. E’ meglio non indagare. La strada è polverosa e ci dirigiamo a Turmi, l’ultimo avamposto prima del Kenya. Il paese è ampio, le donne vestite di pelli animali sono tutte ricoperte di ocra, come le donne himba della Namibia, i capelli a treccine impastate di chissà cosa. C’è un mix di persone di diverse tribù. E’ pomeriggio, ma il mercato sta finendo: andiamo a visitarlo accompagnati dalla guida Karl. Sono tutti per terra, se possibile all’ombra, a vendere le loro cose, anche per gli eventuali scarsi turisti.

Abbiamo addosso due chili di polvere e terra e quando rientriamo al lodge ci sembra un paradiso, c’è acqua e doccia e wifi; ci ripuliamo e colleghiamo. Cena insieme ad un gruppo di lituani rumorosi e qualche altro turista.

Bella giornata, il mondo è sottosopra, siamo dei privilegiati e tocchiamo con mano cosa significa l’acqua per il 90% degli uomini.

17 GENNAIO 2017

Bella dormita stanotte: siamo solo a 500 slm. e quindi zanzare a gogo, letto con zanzariera, autan e buio completo alle 22.00; l’acqua è disponibile solo in certe fasce orarie e proviene da una piccola cisterna al centro del lodge.

Partiamo alle 7.30 per raggiungere l’OmoRiver, a circa 50 km da Turmi. Pare strano vedere un fiume in questa regione, eppure e così, ed è anche molto grande, scuro e penso inquinato come pochi. I campi visti lungo la strada, vicino al fiume sono coltivati a cotone… strano, non si mangia il cotone, ma dopo scopriremo il perché.

Controllo documenti e solita tassa per ogni straniero che arrivi a visitare i villaggi; attraversiamo il fiume con piroghe strette barcollanti profonde, con qualche buco rattoppato con il fango, ricavate dal tronco degli alberi. L’Omo River è molto mosso per i forti venti provenienti da sud, si balla alquanto ed è probabile che in caso di ribaltamento, potremmo morire infettati più che affogati.

Passato il fiume, accompagnati dalla solita guida locale, fra bambini soli, piccolissimi e nudi e da un esercito di ragazzine disponibili allo scatto in cambio dei birr, facciamo 500 metri a piedi e arriviamo ad un miserrimo villaggio della tribù Daasenach.

Siamo in piena polvere, con vento turbinoso, capanne di legno e lamiere, steccati di legno, tutto di legno e polvere. Ci sono donne, vecchi e bambini, tantissimi bambini, gli uomini probabilmente sono a spasso con capre e mucche. Siamo proprio al limite, facciamo un giro, paghiamo per qualche foto, regaliamo due magliette, ci facciamo guidare da uno di loro che parla l’inglese, vestito come noi, che è riuscito ad affrancarsi da questa estrema situazione ed è rimasto ad aiutare la sua tribù. Tutti cercano di farsi fotografare, non possiamo che tenerci in equilibrio tra l’aiuto e la visita, cercando di conoscere i loro usi e costumi. Anche qui i bambini pare diventino autonomi appena riescono a camminare.

Torniamo da dove siamo venuti, riattraversando il fiume e riprendendo l’auto per ritornare a Turmi, ci sentiamo come all’interno di un documentario.

A Turmi, durante un frugale pasto sotto un’incerta ma provvidenziale tettoia facciamo conoscenza di un signore tedesco che, da medico, aiuta la popolazione locale. Ha messo in piedi tre ospedali nella regione; qui a Turmi sta impiantando un’incubatrice, facendo formazione per l’anestesia a persone che non hanno alcun background medico! Mentre ci facciamo raccontare, arriva anche un’auto delle Nazioni Unite. La curiosità è tanta, ma soprattutto è interessante ascoltare il medico che parla con il funzionario dell’Onu, intervenuta per organizzare la distribuzione di cibo necessario per la sopravvivenza di animali e uomini, in una stagione particolarmente arida, in attesa della stagione delle piogge a maggio. In effetti le mandrie sono sempre sulle strade alla ricerca di acqua e pascoli e sono già un po’ smagrite. Il medico invece è più interessato ai problemi medici: negli ospedali manca l’acqua, prosciugata dalle coltivazioni del cotone, utili al governo e alle multinazionali, ma non alle popolazioni! Insomma, i problemi ci sovrastano, ascoltiamo e rimaniamo nel nostro piccolo, impotenti e contenti di avere portato qualche soldo in questa parte sperduta del mondo.

Ripartiamo: si è sparsa la notizia che in mezzo al bush ci sia l’imperdibile festa del salto del toro. Imperdibile! Il tragitto è sconnesso, difficile, la tribù degli hamer che festeggia è lontana da tutto, tra polvere, piante, buche e rami secchi. Insieme a noi ci sono una ventina di altri turisti. La tribù si sta preparando: i balli frenetici delle donne, le richieste delle ragazze di essere frustate a sangue come sacrificio per il giovane festeggiato, la colorazione del corpo, l’abbigliamento, i fucili, i sorrisi, il tè e la birra offerti a tutti nelle scarse zucche tagliate, i neonati attaccati al seno che non fiatano per tutto il tempo. Col passare del pomeriggio arrivano altri ospiti da lontano, tribù imparentate: saluti rituali, discussioni, baci in bocca fra le donne, un uomo cieco dolcemente accompagnato da un fanciullo. Noi turisti siamo giustamente ignorati, anche se purtroppo qualche turista coreano risulta fastidioso, invadente e scortese.

Col calare del sole, una marea di persone di tutte le età, delle diverse famiglie: si capisce bene che non è un evento organizzato per i turisti, ma è vissuta realmente. Un bellissimo pomeriggio terminato con il famoso salto dei tori da parte del giovane che sta diventando adulto. I tori vengono faticosamente messi uno di fianco all’altro, qualcuno scappa rischiando di travolgere, gli hamer si dispongono in un grande cerchio, le donne continuano a cantare e ballare, sono tutti in fibrillazione, gli anziani alzano i loro bastoni in orizzontale sopra le loro teste, come dei giudici preposti a confermare la correttezza della cerimonia, il sole sta calando infuocando il cielo. Infine il giovane completamente nudo si mette a saltare sopra i tori, avanti e indietro, come un grillo, non sembra per nulla facile, urla e grida di incoraggiamento lo accompagnano. Dopo ben otto volte, è finita. Il sole è quasi calato, noi turisti ce ne andiamo ma la festa continua: continueranno per tutta la notte a festeggiare.

Tornando con il buio, ci fa impressione vedere quanti hamer appaiano all’improvviso e camminino in mezzo al bush… tutto sembra deserto, ma invece loro controllano tutto il territorio molto bene. Torniamo distrutti ma contenti, è stata una festa vera, e abbiamo percepito la loro connessione con la loro terra, il loro mondo così lontano dal nostro, ma reale, non religioso, animista e tutt’uno con la natura che li circonda. Doccia e nanna, questa giornata è valsa tutto il viaggio.

18 GENNAIO 2017

Oggi giornata tranquilla, ci dedichiamo a festeggiarci e poi partiamo per ricominciare il ritorno verso nord. Dalla velocità e rilassatezza della nostra guida-autista capiamo che non ci sono programmi particolari. Va piano, si ferma per donare bottiglie quasi vuote, ma super richieste per raccogliere e trasportare l’acqua. Ci fermiamo ad un incontro tra capi della tribù dei Banni, che stanno incontrando un emissario governativo impegnato a censire uomini, donne, bambini e animali, per la prossima distribuzione di viveri. Salutiamo l’amico argentino e la sua guida, superiamo il villaggio di Key Afar, dove il giovedì/domani si tiene il mercato. Ci dirigiamo verso Jenka, la città più grande della bassavalle dell’Omo. Siamo qui a mezzogiorno e non c’è nulla di particolare in programma. Facciamo il check-in in un lodge (Jinka Resort) cadente, senza acqua: scopriamo che già da due giorni manca in tutta la città. Intanto ci riposiamo un po’ e approfittiamo per vedere la città: oggi si celebra in tutto il paese la festa cristiana del Timkat, la loro epifania. Fa molto caldo anche se siamo a 1500 m., la polvere come al solito a mille, le polverose vie del corteo sono innaffiate da tir, che avranno contribuito ad esaurire le scarse scorte idriche! Dobbiamo anche cercare una banca perché abbiamo finito i nostri 3000 birr (circa 120e.).

Alla processione sono tutti vestiti di bianco, soprattutto le donne, e si dirigono verso una chiesa/baldacchino all’aperto, c’è molta gente che canta e segue il corteo.

Ci dissetiamo con una sprite, prima di tornare al lodge , manca sempre l’acqua e chiediamo a Jonas di risolverci la situazione. Non possiamo pensare di fare le gite di domani nel parco Mago e tornare al lodge senza acqua neppure per i propri bisogni. Recuperiamo un secchio per le emergenze, ma chiediamo a Jonas di trovarci un’altra soluzione. E così ci sistema in un hotel proprio di fronte, ma anche lì, la decantata autonomia idrica è un falso. La camera sa di vernice, sul comodino ci sono dei condom, pare più un posto di appuntamenti… Decidiamo che domani sera torneremo ad Arba Minch. Impossibile ed inutile stare qui due notti.

Incontriamo una guida etiope-italiana che ci consiglia di cenare al Beshi: tavoli su terra battuta sormontati da capannine in paglia! Fra il via vai generale, entrano anche carretti con taniche d’acqua…

19 GENNAIO 2017

Dopo una nottata tranquilla, malgrado l’odore di vernice nella stanza e i rumori della città, usciamo alle 6.30 per fare colazione con Jonas nello stesso locale di ieri sera. La città di Jinka si sta svegliando: ragazzini raccolgono con cura da terra lunghi fili di erba caduti dai carretti, da vendere in piccole fascine in occasione della festa, moto-tassisti all’opera, incerti carretti di legno che trasportano bidoncini di acqua o cassette di birra, ampi cesti coperti, in equilibrio sulle teste, presumibilmente con pagnotte di pane. La gente comincia ad attivarsi: ogni giorno, inizia a correre, come la nota gazzella africana.

Partiamo per vedere la tribù dei Mursi, preleviamo la solita sedicente guida locale che pare indispensabile, sig. Kuku della tribù degli Ari; ne potevamo fare a meno benissimo, ma per lo meno chiediamo di insegnarci qualche parola per salutare o ringraziare. Percorriamo circa 50 km su una strada sconnessa e sterrata, infestata da tir e camion, provenienti dal Kenya e diretti ad uno stabilimento o ai campi estesi di canna da zucchero sull’Omo river.

Tutta un’altra cosa rispetto alle altre tribù. La tribù dei Mursi è famosa per il piattello labiale e per i larghi buchi alle orecchie; gli uomini si decorano il corpo di bianco, gruppi di bambini così dipinti presidiano la strada in attesa di qualche obolo in cambio di foto. Ci fermiamo in un villaggio Mursi vicino alla strada, poverissimo, come possiamo immaginare quanta povertà sia possibile… di più. Vivono di sorgo e erba mantinga, che hanno condiviso con noi! C’è qualche animale, sono semi-nomadi ma chiaramente questo villaggio è fermo per intercettare i turisti. La terra è secchissima, le pance dei bimbi gonfie, gli occhietti puri gonfi, purulenti e pieni di mosche… le scarificazioni, le labbra senza forma, la magrezza, la fierezza delle persone ma l’estrema povertà. Io gioco con i bimbi senza neppure portarmi qualcosa per fotografare, Laura si sofferma con una giovane che desidera disegnare e forse non ha mai visto una matita. Si guarda e si parla coi gesti, chiediamo i nomi. Restiamo lì almeno un’ora o forse più, salutiamo con qualche foto, lasciando delle magliette, fogli di carta e matite.

L’impressione generale è che siano trattati proprio come un fenomeno da baraccone dalle tribù ari o dalle altre, per raccogliere soldi per se stessi. Una pletora di persone vive su questo: guide, accessi alla strada, promesse e altro, ma a loro non arriveranno che le briciole. I Mursi sono speciali ma poverissimi e la loro sopravvivenza pare dipendere solo da questo.

Veniamo via e torniamo indietro, non ci piace la guida Ari che ci chiede di comprare le medicine per i Mursi, ma quando gli diciamo che le compriamo, per portarle in ospedale, si dilegua. Nonostante la tariffa incassata, si è trattenuto la migliore maglietta che avremmo voluto donare al villaggio. Insomma, ci sentiamo fuori posto e degli strumenti, quanto i Mursi, per spillare denaro sulla povera gente.

Ripartiamo, ci fermiamo al mercato settimanale di Key Afer. Sono presenti tantissimi Hamer, insieme ai Banna, Ari e altre tribù. Si compra e vende di tutto, anche abbigliamento moderno, sandali di plastica di ogni colore, polverine, tè ricavato dalle foglie del caffè, perline colorate. In angolo pieno di donne accucciate a terra, si beve birra… Moltissima gente e tante cose, spesso per terra tra la polvere, ma tanta bella gente con il suo orgoglio e fierezza. Ripartiamo e ci fermiamo per pranzo a Konso in un bel lodge, dove abbiamo una discussione con la nostra guida sul programma dei prossimi giorni, per la spesa del cambio hotel a Jinka e per come gestire l’ultima notte di venerdì. Qualcosa non torna e si incrina il rapporto di fiducia, perché è chiaro che la cresta sua o di Simien Mountains esiste ma che non bisogna esagerare. Insomma ripartiamo un po’ ammusoniti. Desideriamo ritornare ad Arba Minch, inutile tornare indietro a Jinka per dormire in un postaccio!

Al Paradise Lodge ci rinfreschiamo, ci laviamo e ci togliamo i chili di polvere che abbiamo addosso. Quando è buio, con un bajaj ci rechiamo in città a bere qualcosa per immergersi nel clima cittadino mescolandoci tra la gente normale del luogo. Tornati al lodge, facciamo la conoscenza di una coppia Canada/Laos che viaggia per tre mesi ogni anno. Un buon piatto di pesce, le stelle, il cielo nero. Si conclude anche questa intensa giornata africana.

20 GENNAIO 2017

Riusciamo a concordare con l’autista una tappa intermedia per la nostra ultima notte. Da ArbaMinch desideriamo fermarci a Shashemene anziché restare qui fermi o dirigerci ad Addis!

Lasciamo l’isola felice del Paradise Lodge dopo una bella e sostanziosa colazione guardando l’alba sul God’s Bridge e i placidi laghi della Rift Valley. Partiamo con il nostro autista silenzioso come una tomba, un po’ permaloso: non gradisce il nostro cambio di programma. L’auto si tuffa nel mare di persone-carretti-animali-bajaj-camion in movimento lungo la strada, supera villaggi di fango-paglia-lamiera, le solite taniche di plastica gialla per l’acqua vuote o piene di birra o di acqua trovata chissà dove; migliaia e migliaia di capre-mucche-bambini da soli e indifferenti al caos, in cammino per non si sa dove, i campi di banane, il formaggio/pasta per il pane ricavato dai falsi banani in vendita, gli oromi di Shashemene infine, una città indaffarata, compulsiva, sporca e polverosa.

Troviamo il Zion Train Lodge della comunità rastafariana che abbiamo scelto leggendo le nostre guide, Jonas non lo conosceva. Un’oasi di pace e tranquillità con capanne rotonde e tetto di paglia dotate di bagno interno; in fondo un edificio con cucina e alcune camere più spartane. E’ gestito da una originale coppia che ha lasciato un mestiere e la Francia (Parigi e Nizza) per rifugiarsi qui e vivere come seguaci del loro Messia. A Shashemene il Ras Tafari, poi diventato l’imperatore Haile Selassié, ha donato alla comunità rasta molte terre, poi ridotte al lumicino dai comunisti di Menghitsu. Questa è la terra promessa, la terra dove i neri possono tornare a riprendersi la terra, come dice la bibbia, dopo il ritorno del loro messia, Hailé Selassié.

Dopo una rilassante pausa pranzo, l’autista ci accompagna a visitare un bar di rasta, dal nome Bolt House, bello con persone simpatiche, e una scuola fondata da un rastaman, oggi chiusa per il ponte del Timkat. Prendiamo contatti con Albert, l’anziano rasta e guardiano della scuola, simpatico e senza denti, rientrato nella sua terra dopo le scuole in America e Londra che cerca di allestire una specie di mensa in un locale con il soffitto sfondato per evitare che i bambini arrivino tardi alle lezioni del pomeriggio dopo la pausa pranzo a casa, che di solito è molto lontano. Nel cortile della scuola pascolano tranquillamente capre e pecore. Il piccolo edificio per i bagni è dono di Rita Marley, la moglie di Bob Marley che ha contribuito alla diffusione del messaggio rasta.

Torniamo al lodge, sono solo le 4 del pomeriggio, c’è la visita del console francese che tiene i contatti con i cittadini francesi (siamo sotto elezioni) e quando se ne va, riusciamo a parlare con loro di tutta la storia rasta, ci facciamo spiegare bene e ci facciamo un’idea di massima di tutta la loro storia e quella del loro Messia! Sono in fondo cristiani ortodossi, dipendono anche loro dalle parole della bibbia, non si tagliano i capelli, non perché non si vogliano integrare ma perché è scritto nella bibbia! Insomma li facciamo parlare per scoprire bene la loro fede, ci paiono un po’ invasati ma pacifici, molto molto interessante e istruttivo.

Cena sul tavolino alla luce di una piccola lampada solare e a letto prestissimo: ci sentiamo un po’ strani forse a causa di tutte le foglie di chat masticate dai presenti che creano un po’ di euforia , tanto che a letto veniamo presi da una ridarolla incontrollata e euforica, con battute salaci sui seguaci.

21 GENNAIO 2017

Sveglia, colazione tra i rasta, con i capelli della proprietaria francese che arrivano quasi a terra, e poi via con Jonas, la nostra guida, oggi di nuovo ciarliero; anche lui rasta, e siamo noi che gli abbiamo fatto scoprire un nuovo posto! Partiamo, ma va lentamente: ormai abbiamo capito che la velocità di guida dipende dal programma che ha in testa lui, non dalle nostre esigenze o prospettive. Take your time, ci dice. Sul tragitto per tornare ad Addis Abeba troviamo una bella sorpresa: in un paese ci imbattiamo in una processione della festa del Timkat, molto partecipata e cantata. Così scendiamo e partecipiamo anche noi, la festa è cristiano ortodossa, tutti vestiti di bianco o con abiti della festa; gli addetti che rapidamente spostano i tappeti rossi dal fondo all’inizio della processione, fendono la folla, una fila chilometrica di camion e tir in fondo alla processione è in paziente attesa.

Non ci sono stranieri e molti ci guardano sorridendo: chi mai si ferma in questo paese di passaggio? e chi partecipa alla loro festa?

Vorremmo andare in aeroporto per verificare gli orari, ma Jonas ci conduce agli uffici cittadini, immergendosi nel traffico caotico, evitando di prendere l’autostrada percorsa all’andata e arrivando giusto pochi minuti dopo la chiusura delle 2. Siamo un po’ sconcertati, non sappiamo ancora come è organizzata la serata, ma sappiamo che ci potrebbe essere la classica serata per stranieri con balli e canti mentre cercano di spillarti altri soldi (fonte Lonely Planet). Noi facciamo un giro a piedi intorno alla Piazza di Addis, dove ci sono gli edifici fatti costruire da Mussolini, poi andiamo a mangiare in un locale due piatti di buone lasagne. Siamo stanchi: 6 ore per 250 chilometri! Gli chiediamo di portarci in aeroporto senza altre scuse! Vogliamo verificare gli orari. Siamo un po’ stanchi, non fisicamente, ma psicologicamente da questa continua contrattazione sui tempi e sui luoghi, senza sapere esattamente ancora cosa ci propone la serata. Allora decidiamo noi di chiudere il programma, facendoci portare ad un piccolo hotel vicino all’aeroporto, con poca spesa, per preparare gli zaini, lavarci un po’, e sganciarci definitivamente dalla presunta organizzazione. Per tutti i 10 giorni ci è sempre parso di essere portati in posti giusti, ma comunque dove quanto pagato veniva condiviso dalla Simien Mountain. La nostra guida Jonas, davvero ottimo guidatore sempre schivante persone e animali, ma anche lui partecipante di questo gioco, un po’ di sua iniziativa ma molto portato dal suo capo Alex. Crediamo che sia un mantra di tutto il paese, ma comunque siamo stanchi, soprattutto perché siamo abituati ad arrangiarci da soli, ed in Etiopia è davvero impossibile. Ci dobbiamo svegliare alle 1.30 di notte, il volo sarà alle 4.15, e quindi cerchiamo di dormire.

Domenica 22 GENNAIO 2017

Volo in orario e regolare, sosta al Cairo con 5 ore di attesa. E’ stato un viaggio bello e difficile, non fisicamente ma interiormente. In Etiopia pare di essere in una savana, dove uomini e animali appena sorge il sole devono iniziare a correre per arrivare interi e nutriti a fine giornata. Delle tribù della bassa valle dell’Omo possiamo dire che c’è di tutto! Da quelli sfruttati e malnutriti, decisamente alla fame, a quelli belli, fieri e autonomi, a quelli civilizzati, anche se la parola civilizzato qui non ha senso, con ancora tante donne incinte, tantissimi bambini costretti all’autonomia appena si reggono in piedi, come se fossero delle caprette appena nate. Posti dove ti ignorano e altri dove ti assillano, donne bellissime, luoghi puliti e luoghi sporchi, ma anche luoghi puliti solo perché si riutilizza tutto, comprese le bottiglie di plastica vuote per raccogliere l’acqua dalle pozze di acqua, e i tappi delle bottiglie per giocare a dama. I ragazzi che giocano al calcio con palle sempre sgonfie, vanno a scuola, sono sorridenti, ma all’alba raccolgono da terra le foglie per rivenderle, vendono banane e manghi al bordo delle strade, ballano appena vedono un turista per conquistarsi qualche soldo. Ombrelli tenuti all’incontrario per raccogliere dalle poche auto soldi per costruire chiese. Animisti, protestanti, ortodossi, islamici e rastafani che sembrano accettare anche il credo e le feste degli altri, con i canti dei muezzin che si intrecciano di prima mattina con i canti dei cristiani, con la loro lingua amari e la loro scrittura speciale, diversa da tutte le altre. Gli orologi impazziti, gli animali indifferenti, magri e con il passo stanco, sempre alla ricerca di erba tendente al verde, di pozze di acqua dove tutti insieme si beve ci si lava e già che ci sono, si lavano anche le auto e si riempiono i bidoni gialli di acqua sporca che serve per fare la birra. La birra! Con poco malto, ma lo stesso birra, bevuta insieme agli Hamer per condividere, con una patina spessa di nonsoche da farti chiudere gli occhi, e poi il pane fatto con l’interno delle foglie dei falsi banani, tenuto per 3 mesi sotto terra ed altro ancora, ma non finirei più, eppure così poco rispetto a quello che è veramente, perché qui è inutile sembrare dei viaggiatori o dei viandanti o dei trekker o altro, e neppure dei turisti come siamo, qui siamo i ricchi e basta. Scappiamo dall’Etiopia, ma forse ci torneremo, chissà, indimenticabile davvero.

THE DAY AFTER, 23 gennaio 2017

La prima notte a casa è affollata da immagini e pensieri. Cosa fanno le tribù dei loro morti? Come ho fatto a non chiedere! Più siamo andati a sud, verso la bassa valle dell’Omo river, più sparivano le nostre chiese cristiane e musulmane e meno vedevamo i cimiteri. Vicino a Konso, gli ultimi cimiteri vicino alla strada, singoli e blindati, quasi si difendessero dai ladri o dagli animali. Ma gli Hamer dove mettono i loro morti? Cosa è arrivato a loro? I kalashnikov sicuramente! Ne sono pieni per difendersi dalle altre tribù, da quelle del Sudan che scappano dalla guerra, come si sente dai notiziari, e forse gli sono state fornite anni fa dal potere di Menghitsu, il comunista, per difendersi dai kenyoti, più filo occidentali. I pneumatici squartati, usati per farne ciabatte, che si trovano a migliaia nei mercati. Le moto orientali, che qualcuno riesce a comprarsi, vivendo più a contatto con gli altipiani.

Gli aiuti umanitari statali, in caso di siccità, fatti di cibo per il loro bestiame, ma anche purtroppo le coltivazioni di cotone e canna da zucchero, ordinate dal potere centrale per pagare ai cinesi la modernizzazione e lo sviluppo, coltivazioni che non servono certo per mangiare.

Qualche maglietta e pantaloni, per non scandalizzarci e la plastica, in formato di bidoni per raccogliere l’acqua e bottiglie vuote di plastica. Ma da dove e da chi sono arrivati tutti questi bidoni, quasi sempre gialli, di plastica dura?

Perché non sono rimasto, dopo il pomeriggio alla festa del salto dei tori, quando tutta la ventina dei turisti se ne è andata, contenta di avere visto qualcosa di unico, ma stanca di polvere e di fotografie e affamata di cibo cosiddetto sicuro e assetata di acqua in bottiglia.

Chissà come è continuata la festa! Davvero continuavano a ballare, si amavano liberamente? cosa si saranno detti? di cosa si parleranno le tribù vicine? da quanto non si vedevano? E poi quanto vicine? E cosa faceva tutta quella gente che ritornando vedevamo camminare al buio, e dove erano gli animali? Li raccolgono in stalle o vagano nel bush controllati a distanza?

Li abbiamo visti, guardati, fotografati ma non sappiamo nulla della loro vita, per quanti anni vivono, la loro felicita e infelicità, se mai se lo chiedono poi.

Ma noi siamo più moderni davvero? Più avanzati tecnicamente, certo, ma siamo l’evoluzione della specie? Della loro specie?

E quelli veramente più poveri poi? I daasenech, i Mursi, con i piattelli sulle labbra delle donne! Ma abbiamo visto solo la fotografia che si aspettano gli stranieri oppure, nascosti, perché sono davvero nascosti, c’è altro?

Troppo veloci siamo stati e troppo difficile capire e adeguarsi e immedesimarsi. Meglio non pensarci troppo e ritornare al nostro quotidiano, ora.

Polvere, sempre polvere.



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