Emozioni in Togo
Quando a gennaio ho detto a mio marito di voler andare in Togo a trovare uno zio missionario (che non vedevamo da circa due anni), la sua reazione non è stata delle migliori: vaccinazioni, profilassi per la malaria, non dormiremo di sicuro in un hotel ¾ stelle, non parliamo nessuna lingua oltre l’italiano, sono tantissime ore di aereo, il rischio di prendere qualche malattia, la mia fobia per i ragni, il mio non adattarmi al cibo ed altro ancora… ma la mia testardaggine ha fatto si che cercando informazioni ovunque, parlando con medici, e con lo zio in Togo, io sia riuscita a convincere mio marito ad andare in Africa.
In poco meno di una settimana dal suo “si” abbiamo prenotato i biglietti aerei con Ethiopian Airlines, abbiamo richiesto il visto al consolato e abbiamo stipulato un’assicurazione sanitaria (consigliatissima, in quanto qualsiasi cura in Togo si paga, e nel caso di problemi un po’ seri l’assicurazione consiglia l’ospedale più vicino e organizza il ricovero) visto che in un posto come il Togo non è così semplice trovare un ospedale o anche solo una farmacia dal momento che nemmeno esiste un ministero della sanità.
Evito di raccontarvi i commenti di amici e parenti nel momento in cui hanno saputo della nostra idea… addirittura qualcuno pensava fosse uno scherzo.
Finalmente la data della partenza si avvicina e noi decidiamo di chiedere aiuto a conoscenti per raccogliere abiti usati, giochi e tanto altro da portare alla missione, in modo tale che poi i missionari decidano di destinarli a chi ne ha più bisogno (successivamente mi renderò conto che chiunque ha bisogno di qualcosa); grazie alla generosità della gente riusciamo a preparare due valigie da circa 20kg ciascuna, prepariamo anche i nostri bagagli in cui infiliamo anche salami e formaggi sottovuoto e siamo pronti per partire.
25 maggio 2015: per paura di perdere l’aereo che deve decollare alle 21,45 da Malpensa, noi ci presentiamo in aeroporto alle 15,30 con le nostre 4 valigione e i nostri due zainetti in cui abbiamo un cambio di vestiti a testa, fazzoletti di carta, fotocamera e le scatole di farmaci che abbiamo iniziato ad assumere il giorno precedente come profilassi per la malaria.
Finalmente saliamo in aereo e con mia grande sorpresa siamo solo una ventina di passeggeri… facciamo scalo a Roma e a questo punto l’aereo si riempie..tra turbolenze, bambini urlanti, odore di cibo che viene servito dalle hostess, riusciamo ad appisolarci un paio d’ore e alle 7,00 (6,00 in Italia) siamo ad Addis Abeba.
Il nostro scalo dovrebbe durare 3 ore e noi ne approfittiamo per fare colazione: due spremute e due brioches dure da spaccare i denti per la modica cifra di 17 euro… aiutooooo! Nel frattempo si avvicina l’ora di ripartire, siamo seduti stanchissimi in sala d’attesa quando un ragazzo ci viene a chiedere se siamo diretti a Lomè (capitale del Togo), io rispondo di sì e lì iniziano i problemi… per farla mooooolto breve, sciopero dei controllori di terra a Lomè..dopo circa 5 ore finalmente ripartiamo per il Togo (scongiurato il pericolo di dover atterrare ad Accra in Ghana e doverci fare i restanti 200km fino a Lomè in autobus o taxi al buio e senza un visto per il Ghana).
Dopo altre 6 ore di volo arriviamo in Togo alle 18,30 (20,30 italiane): il caldo che ci travolge è indescrivibile, l’umidità credo sia intorno al 95%, ma siamo felici di essere finalmente arrivati. Siamo pronti a ritirare i nostri bagagli ma aimè sono andati persi, così come la nostra ora successiva a fare la denuncia di smarrimento e a sentirci dire di tornare due giorni dopo per ritirarli. Dopo un attimo di sconforto ci rechiamo fuori dall’aeroporto dove incontriamo lo zio Eugenio e il nostro autista/meccanico che subito diventa un amico: Romain, che guiderà per i prossimi 70km che ci separano da Tabligbo, la nostra meta.
Nel momento stesso in cui ci immergiamo nel traffico capisco che per guidare in Togo serve una patente speciale, oppure non bisogna averla… nel frattempo il buio scende e noi percorriamo questa strada-pista piena di buche, motorini carichi di taniche di benzina e con due o più passeggeri che ci tagliano la strada, camion da superare e suoni di clacson per segnalare la propria presenza, odore di gomma bruciata e persone che dai campi sbucano sulla strada. Romain è già diventato il mio mito: non ha investito nessuno!
Dopo 2 ore di purgatorio (come definiscono la strada i missionari, in Togo per fare 30 km ci si può impiegare anche 1ora e oltre) arriviamo finalmente a Tabligbo, il villaggio illuminato da lampade a olio, vicino a bombole del gas, accanto magari a una pompa di benzina sono abbastanza inquietanti per una come me che solitamente evita i mercati anche in Italia per paura delle bombole di gas.
Svoltiamo l’angolo e la missione è finalmente lì davanti a noi, che stanchi e senza valigie siamo felici di fare la conoscenza degli altri due padri che ci hanno aspettato per la cena.
Ci fanno vedere la nostra stanza e con mia grande sorpresa abbiamo anche un piccolo bagno privato, il letto non è comodissimo ma siamo talmente stanchi che come appoggiamo la testa sul cuscino crolliamo addormentati… alle 4,30 sentiamo i canti che provengono dalla moschea vicina e successivamente alle 5,30 ci alziamo svegliati dalle campane della chiesa e dalle persone che vengono a messa nella missione.
Facciamo doccia e colazione e con la luce del giorno ci rendiamo conto di quanto sia bello, spettacolare e inaspettato ciò che ci circonda: palme da cocco altissime, campi di mais, enormi alberi di mango e papaia, lucertoloni colorati.
Andiamo a visitare il mercato di Tabligbo insieme a un missionario che oltre a parlare francese (lingua ufficiale del Togo conosciuta solo da chi ha frequentato la scuola) parla anche una delle oltre 50 lingue di ewe (una lingua tonale presente in Ghana e Togo); con noi c’è anche Claire, simpaticissima e gentilissima ragazza togolese, la quale dopo aver capito che abbiamo perso i bagagli va a comprarci dei vestiti, spazzolini da denti (che meno di 24 ore dopo saranno invasi dalle formiche – così come il pane della colazione, che siccome abbiamo fame puliamo alla bell’e meglio e mangiamo), dentifricio e tutto ciò che ci serve.
Superato un piccolo problema con una signora che vende oggetti vodù (chiarito velocemente dal missionario, il quale mi invita a mettere la fotocamera nello zaino perché gli animisti non vogliono farsi scattare fotografie) proseguiamo il nostro giro tra profumi di spezie, colori, donne vestite con abiti stupendi e bambini che ci circondano chiamandoci “iowo”, noi salutiamo e sorridiamo e i bambini ci seguono, ci salutano con la mano. Sono fantastici! Torniamo verso la nostra auto e ritroviamo la signora che vende oggetti del vodù che ora mi sorride e mi saluta.
Quando ci avviamo verso la missione vediamo alcuni cimiteri a bordo strada e delle distese di rifiuti inceneriti in cui razzolano galline e mangiucchiano caprette, capiamo che il concetto di norme igieniche è ben lontano dai nostri standard e questo ci viene confermato nel momento in cui ci dicono che non esistono fognature.
Conosciamo poi Martin, il nostro cuoco nella missione, i suoi piatti a base di riso, fagioli, piselli, mango e ananas sono davvero appetibili; lui è gentile e ci chiede in continuazione se ciò che ci prepara ci piace, alla fine del nostro viaggio gli prometto che gli spedirò delle ricette ( e magari anche un frullatore).
Nel nostro viaggio abbiamo la possibilità di vedere il dispensario-maternità intitolato a Graziano Bortolotti a Godjeme, piccolo villaggio di capanne di fango, disperso tra campi e palme: qui una coppia di infermieri e un ragazzo che sta facendo tirocinio si occupano di future mamme, parti, bambini, vaccinazioni e aiutano davvero molte persone che qui possono trovare farmaci veri (nelle farmacie dei villaggi vengono venduti solo farmaci a base di erbe o miscugli vari che spesso provocano gravi danni al paziente).
Abbiamo la possibilità di cenare con gli infermieri nel dispensario, loro sono gentilissimi, hanno preparato molte cose per noi tra cui uno spezzatino un tantino piccante, ma qui è impossibile rifiutare. I miei propositi di bere solo acqua imbottigliata hanno la peggio: fa caldo, loro mi offrono acqua e io non posso offenderli dicendo di no, scaccio le varie idee di malattie e bevo. Quando gli infermieri scoprono che ci fermeremo in Togo solo pochi giorni ci invitano a ritornare e fermarci più tempo, e il giorno precedente alla nostra partenza verranno a salutarci facendo oltre 1 ora di viaggio.
Nei giorni seguenti andiamo a conoscere le suore che gestiscono un ospedale a Kouve (villaggio a 40 minuti a nord di Tabligbo), loro ci insegnano come pulire bene l’ananas per evitare di prendere l’ameba, ci raccontano aneddoti, storie del posto, ci fanno vedere l’albero del viaggiatore che è proprio al centro del cortile dell’ospedale e alla fine ci regalano ananas e papaia.
Andiamo a vedere l’asilo-scuola nel piccolo villaggio di Ahepe, dove alcune suore gestiscono questa struttura in cui ci sono circa 300 bambini e 50 ragazze che qui imparano a cucire e fare i batik (che ovviamente compriamo). Regaliamo delle caramelle ai bambini e facciamo ritorno alla nostra missione. Anche qui c’è una scuola in cui alcune ragazze imparano a cucire, le conosciamo, si presentano una per una, sono gentilissime e vogliono fare delle fotografie con noi.
La missione è aperta tutto il giorno e molti bimbi e ragazzi vanno e vengono per chiedere aiuti vari ai missionari, conosciamo davvero tantissime persone, di qualcuno conosciamo le storie e continuo a credere di essere una persona molto fortunata: molti di loro vivono con meno dell’equivalente di un euro al giorno, non hanno la possibilità di curarsi, spesso alcuni bambini vivono con zii e nonni perché sono rimasti orfani.
Veniamo a conoscenza della storia di un ragazzino affetto da epilessia che vive solo, in una baracca insieme a maiali e capre, dopo essere rimasto orfano. Spesso si ferisce e i missionari lo portano all’ospedale gestito dalle suore per curarlo.
Durante una festa in cui ogni villaggio della zona si esibisce nelle danze tipiche, veniamo invitati su questo palco improvvisato. I ragazzi ci fanno ballare con loro (noi siamo tronchi mentre loro sono snodati), ci chiedono i nostri nomi e da quel momento ogni volta che passiamo nella missione non veniamo più chiamati iowo (cane bianco) ma con i nostri nomi: Mara e Claudio… a ripensarci mi viene la pelle d’oca!
Una sera alle 19, qui è già buio pesto, noi insieme ad un missionario andiamo a visitare una sorta di cucina improvvisata: ci sono alcuni pentoloni in cui viene cotto il fufu (piatto tipico, una sorta di polenta di manioca). Per tornare alla missione passiamo in un prato in cui l’erba ci arriva al ginocchio, di corsa arriva un bambino che ci prende per mano e ci porta velocemente fuori dall’erba dicendo qualcosa in ewe, scopriamo poi che il bimbo ci ha tolti dall’erba in quanto è buio e c’è il rischio di venire morsi da serpenti, tra cui il mamba nero. Vorremmo ringraziare il bimbo ma se n’è già andato.
Nei giorni successivi il mio francese mooolto insufficiente migliora un pochino… giusto quel che basta per capire che una persona, durante una cerimonia di “uscita dalla capanna” (il bimbo, a una settimana di vita, viene fatto uscire per la prima volta dalla capanna mentre si canta e si prega per lui) ha chiesto di pregare anche per noi. Sono cose che spesso noi sottovalutiamo, mi sono venute le lacrime agli occhi in quel momento.
Nel frattempo siamo anche andati a ritirare i nostri bagagli a Lomè, quel giorno abbiamo pranzato sulla spiaggia in compagnia del nostro amico Romain (che era più felice di noi quando ha visto le nostre valigie) e di Padre Donato, qui alcuni bambini sono venuti a chiederci gli avanzi del nostro cibo. Mi si è gelato il sangue, mi hanno detto che è normale, ma ancora questa cosa io non riesco a farmela entrare in testa e quando la racconto la gente mi guarda a bocca aperta…è proprio vero: noi abbiamo tanto, troppo, il superfluo eppure non ci basta mai!
Nei giorni seguenti partecipiamo a una messa bellissima, molto movimentata e un po’ lunghetta (quasi 4 ore) ad Afagnan, dove vi è anche l’ospedale Fatebenefratelli gestito da suore italiane che conosciamo. E proprio ad Afagnan il mio incubo peggiore si manifesta..ragni..nella cucina della missione in cui siamo stati invitati a pranzo. Credo di non averne mai visti di così grossi a pochi passi da me, mi sto sentendo male ma fortunatamente qualcuno mi salva. Sempre qui capisco che Martin, il nostro cuoco, è davvero bravo, infatti durante questa domenica in cui mangiamo fuori, il pranzo è a dir poco inquietante e a parte un uovo sodo e due cucchiai di riso bianco non mangiamo altro.
Abbiamo anche la possibilità di visitare Aklakou, villaggio in cui lo zio era stato in missione anni fa. Qui conosciamo Clement e i suoi due figli più piccoli, con loro andiamo a mangiare in un ristorante in fase di costruzione dove ci danno degli spaghetti piccantissimi con della carne, veramente buono, ma la cosa migliore è vedere i due bimbi sorridere e mangiare di gusto (credo fosse la prima volta che vedevano dei bianchi e di sicuro era la prima volta al ristorante).
Durante questa giornata c’è una pioggia che trasforma le piste, già in pessime condizioni, in veri e propri fiumi; così accompagniamo Clement e i suoi due figli a casa, dove conosciamo anche la moglie, altre due figlie e il nipotino. Clement ci fa vedere la sua casa, costruita tutta con fango, non c’è elettricità e nemmeno acqua corrente, non c’è nulla a parte galline, capre e piante di mango e papaia, ma lui è orgoglioso di ciò che ha..piange mentre ci abbraccia e ci ringrazia di essere andati a vedere la sua casa, dice che gli abbiamo fatto il regalo più bello della sua vita. In questo momento penso che sia lui che l’abbia fatto a me, mi emoziono anche ora, mentre lo scrivo..
Passiamo in alcuni villaggi accanto al fiume Mono (il confine naturale che nella regione marittima divide il Togo dal Benin), tra case di fango, tra palme e foresta, con la gente del posto che ci porta a vedere il fiume da vicino… questo è forse il primo momento in cui ho paura che possa succedere qualcosa, sarà perché l’ospedale più vicino è a circa due ore di pista da qui e penso a tutti gli animali che possono essere nascosti tra la vegetazione rigogliosa.
Quando risaliamo in auto mi rendo conto che dopo poche ore dobbiamo prendere l’aereo per tornare in Italia…
Ci vorrebbero ore per raccontare ciò che abbiamo visto, per parlare della gente fantastica che abbiamo conosciuto, di sicuro però posso dire che abbiamo imparato che nella vita si può essere felici con poco… ce l’hanno insegnato Clement, Romain, Martin, Claire, la splendida Cristine che mi ha chiesto se potevamo diventare amiche, i bambini che facevano a gara per farsi portare in braccio e per farsi fotografare… li ho sempre visti sorridere, non hanno nulla ma sorridono! Ho promesso a loro che prima o poi tornerò, ma più che altro l’ho promesso a me.
La mattina della partenza, quando salutiamo padre Donato, Padre Alfonso, zio Eugenio e tutti gli altri cerco di trattenere malinconia e lacrime, durante le due ore che separano Tabligbo da Lomè ripenso a questi 8 giorni, così intensi, così belli e felici..non sono ancora partita e ho già voglia di tornare.
Mi mancano i profumi, i colori, gli odori, i sorrisi, l’allegria della gente, so che non mi dimenticherò di loro. Ricordo il primo sms che ho mandato dal Togo, diceva: qui è strano, bello, e assolutamente diverso da come me lo immaginavo… qualsiasi foto, documentario non ti prepara a ciò che vedi e provi qui, devi proprio venirci.
Saliamo in aereo e dopo 18 ore siamo a Malpensa… dopo 3 mesi i ricordi sono ancora vivi, ogni giorno di più! Prima o poi tornerò.