Tour in Moto tra Grecia e Turchia
Come quasi sempre accade quando organizziamo un viaggio, lo spunto iniziale per l’itinerario lo abbiamo trovato leggendo la guida della Lonely Planet; di cui anche questa volta possiamo sinceramente dire di essere rimasti soddisfatti, condividendone scelte e valutazioni. L’affinamento del nostro programma, ed i principali consigli pratici, li abbiamo invece tratti dalle ricerche nella Rete. I siti, i racconti e le recensioni elaborati da volenterosi viaggiatori si sono rilevati una fonte davvero preziosa. Non meno confortanti sono state le indicazioni offerte da qualche generoso amico virtuale, all’interno dei forum di mototuristi ai quali siamo iscritti.
Inizialmente, per esigenze lavorative, abbiamo provato a contenere il viaggio in due settimane. Raggiungere la Turchia, qualunque percorso si scelga, tuttavia non richiede meno di tre giorni; inoltre, il tempo richiesto per spostarsi da e per la Cappadocia e la scarsa frequenza dei traghetti hanno da subito reso evidente che non saremmo riusciti a completare il viaggio in soli quindici giorni. L’alternativa è stata quindi fra rinunciare ad arrivare in Cappadocia o piuttosto allungare il viaggio. Abbiamo perciò scelto di viaggiare per 21 giorni, aggiungendo alla fine tre giornate di mare limpido, con una sosta a Chios.
Il viaggio si è quindi articolato così: Roma – Ancona Ancona – Igoumenitsa Igoumenitsa – Thessaloniki Thessaloniki – Istanbul Istanbul – Goreme Goreme – Antalya Antalya – Cirali Cirali – Kas Kas – Fethiye (Oludeniz) Fethiye – Selcuk (Efeso) Selcuk – Chios Chios – Atene Atene – Ancona Ancona – Roma.
PRIMA TAPPA: Roma – Igoumenitsa Poche parole per iniziare questo viaggio. Come poche sono sempre le parole che riusciamo a pronunciare la mattina presto. La moto era in parte già carica dalla notte prima, chiusa in garage, abbiamo quindi fatto solo gli ultimi allestimenti ed ho avviato il motore. Il rombo di Brunilde, nel silenzio della più lenta mattina di ferragosto, è stato il segnale che ha ufficialmente decretato l’avvio del nostro viaggio.
Il percorso verso Ancona è stato veloce e semplice. Le operazioni d’imbarco lo sono state altrettanto. In fila per essere accolti dal ventre del traghetto, abbiamo condiviso l’attesa e l’entusiasmo per la partenza con una coppia di ragazzi diretti a Lefkada, a bordo del loro scooter. Un inizio graduale e gioioso per il nostro lungo percorso.
SECONDA TAPPA: Igoumenitsa – Thessaloniki Ancora una sveglia al mattino presto al nostro arrivo sulle coste greche. Troppo presto, le 4.30, per chi come noi proprio non riesce a prendere confidenza con le levatacce alle prime luci dell’alba. Ci ha svegliato l’equipaggio bussando alla porta; una fortuna tenendo conto che avevo dimenticato di aggiornare l’orario nel cellulare per adeguarlo al fuso orario della Grecia… Siamo sbarcati circa un’ora dopo.
Il porto, a quell’ora, era pressoché deserto. Le poche macchine presenti erano quelle espulse un po’ frettolosamente dal traghetto. Abbiamo salutato quelli che erano stati fin lì i nostri compagni di viaggio, e ci siamo messi in marcia nella frizzante aria mattutina. I colori dell’alba, dritta di fronte a noi in quei primi chilometri, hanno amplificato l’emozione che sempre accompagna i primi passi.
Abbiamo seguito una strada larga, liscia e perfetta nella sua finitura, iniziando a salire dolcemente di quota. La strada, semplice e libera, ha favorito il nostro graduale risveglio. Dopo qualche chilometro, seguendo le indicazioni per Kelembaka, abbiamo abbandonato quella specie di autostrada per inoltrarci lungo un itinerario di montagna dalla salita più rapida e tortuosa. Il freddo si è iniziato a far sentire, rendendo del tutto inadatto il nostro abbigliamento estivo. Un provvidenziale e solitario rifugio di montagna, con il suo tepore ed il caffé caldo, ci ha però dato il sollievo necessario a proseguire, ed il tempo per aggiungere strati di caldo pile sotto i nostri giubbotti. Come spesso è accaduto anche in seguito, nelle brevi soste lungo la strada, è stata anche l’occasione per qualche breve incontro; giusto il tempo per scambiarsi informazioni, saluti ed entusiasmo per il viaggio, qualunque ne sia la meta. Questa volta, a fermarsi poco dopo di noi è stato un piccolo gruppo di motociclisti siciliani, diretti anche loro a visitare le Meteore, ed una giovane coppia diretta in Turchia a bordo di un fuoristrada. La strada ha continuato a salire, fino ad un valico oltre i 1300 metri, per poi scendere in dolci curve fino alla zona delle Meteore. Per chi non lo li avesse mai visitati, si tratta di sei monasteri cristiani di epoca medievale, costruiti in cima a delle rocce solitarie che dominano la vallata sottostante, rendendoli di fatto inaccessibili ai possibili nemici di una volta. Uno spettacolo molto suggestivo, carico di un forte senso storico. Ma anche un luogo in cui si sente forte la presenza del turista, che inevitabilmente sovrasta e cancella il sentimento religioso, rendendo il luogo un monumento ben conservato ai primi movimenti monastici, ma inevitabilmente privandolo di vitalità e attualità. Abbiamo scelto di visitare all’interno uno solo dei monasteri, il più grande, un po’ troppo infastiditi da quella che abbiamo percepito come una involontaria, ma forte, violazione della sacralità di quel luogo. Soddisfatti di non aver mancato anche questa volta, come era accaduto nel nostro primo viaggio in Grecia, all’appuntamento con le Meteore e con il loro spettacolo di sfida, in nome della fede, alla grandiosità della Natura, ci siamo però rimessi rapidamente in viaggio; prima del sopraggiungere di un ulteriore pullman di turisti… quanto visto ha comunque pienamente appagato il nostro interesse, lasciandoci la soddisfazione di esserci arrivati..
Il resto del percorso, una volta ripresa la larga strada statale, è proseguito rapidamente verso Thessaloniki (antica Salonicco). La strada assomiglia abbastanza, per finitura e comodità, alle nostre autostrade. Il paesaggio, “appeninico” e mediterraneo è scorso rapido e rassicurante fino a destinazione, tenendo vigile la nostra attenzione, che altrimenti si sarebbe persa fra mille pensieri, magari affogata nel rombo del motore, nel fischio del vento o nella monotonia di quella velocità fin troppo lineare.
La sosta a Salonicco, scelta in base a semplici calcoli chilometrici per dividere in due il lungo trasferimento verso il confine, si è rilevata più interessante del previsto. Si tratta di una città di mare piuttosto grande ma non confusionaria. Facile nell’accesso, grazie ad una struttura viaria piuttosto razionale e disposta più o meno parallelamente lungo la baia del porto. L’atmosfera l’abbiamo percepita immediatamente rilassata e accogliente, fatta di sorrisi accennati e attività rallentate. Per la notte ci siamo fermati all’hotel Nea Metropolis. Una sistemazione modesta ma onesta. Il personale ha confermato da subito la prima impressione ricevuta entrando in città: molto lento ed economico nelle sue azioni, è risultato alla fine cortese e ospitale negli atteggiamenti. Con fare rassicurante, si è anche prestato a “vigilare” sulla moto parcheggiata per la notte sul marciapiede antistante. Cena in centro, in un ristorantino tipico ma con qualche velleità ricercata, per via dell’arredamento completato da strumenti musicali appesi alle pareti e con qualche elemento da atmosfera “jazz”. Semplice ma molto confortevole. Dopo cena a letto presto; in vista della tappa successiva, forse più impegnativa; almeno in termini di chilometri e per il passaggio di frontiera.
TERZA TAPPA: Thessaloniki – Istanbul Una ulteriore partenza piuttosto presto, almeno per i nostri standard vacanzieri: alle 9.30 eravamo già in movimento. Uscire da Thessaloniki, come entrarci, non ci ha posto grandi problemi. Abbiamo ripreso immediatamente la strada rapida e confortevole del giorno prima, che ci ha accompagnati fino alla frontiera. A mutare sono stati tuttavia lo scenario e le curve che, iniziate quasi senza che ce ne accorgessimo, ci hanno presto preso per mano, interrompendo la monotonia del percorso e facendoci immergere in ampie vallate spaziose. Una striscia di asfalto che dondolava a perdita d’occhio, la dove le dolci alture color ocra declinando si univano. Ci ha sostenuto, compagno per tutta questa tappa, ed in alcune delle successive, un vento di traverso, che sembrava voler imprimere alla moto ed al nostro cammino un proprio ulteriore movimento. Lo scenario, cambiando dal verde montuoso all’ocra arido ed al blu profondo del mare in lontananza, è di quelli che danno un senso di spaziosità che allarga il cuore ed il respiro. Ci ha reso emozionante anche quel tratto del percorso, altrimenti privo di spunti emotivi.
Giunti alla frontiera, l’immagine della prima bandiera Turca, non sapendo ancora quante ne avremo viste ed incontrate nei giorni successivi, ci ha donato un senso di grande entusiasmo, misto ad un timore sospettoso per quello che ancora ci immaginavamo essere un paese culturalmente molto distante da noi.
Il passaggio della frontiera si è svolto senza intoppi, e le guardie turche, vedendo che eravamo italiani e non greci, hanno limitato i controlli. A sorprenderci, tuttavia, è stato il numero di posti di controllo, che si sono susseguiti a breve distanza ed apparentemente senza una giustificazione. Ogni volta che abbiamo pensato di aver finalmente varcato indenni il controllo documenti, poco più avanti siamo stati fermati nuovamente per una, apparentemente, identica verifica. Il tutto per quattro volte in poche centinaia di metri.
Superata anche l’ultima sbarra, siamo finalmente entrati in Turchia. Ad accoglierci, mettendo alla prova la nostra preconcetta diffidenza, sono stati un paio di bambini turchi che, con grande preoccupazione, si sono sforzati nell’affrontare le barriere linguistiche per segnalarci che avevamo i fari della moto inutilmente accesi… che frustrazione per me, adulto europeo occidentale, non riuscire a spiegare loro che, per una bizzarra norma comunitaria, sulle moto oramai non è più possibile spegnere la luce anabbagliante… vedendoci andare via, a fari ancora accesi, ci avranno presi quantomeno per degli stravaganti … una percezione alla quale nei giorni successivi abbiamo poi fatto l’abitudine.
Appena superato il confine lo scenario è cambiato repentinamente. Il vento trasversale ha continuato ad accompagnarci, forse addirittura rafforzandosi un po’, ma le strade si sono fatte meno curate, e meno trafficate. Il paesaggio è divenuto più polveroso e le costruzioni meno moderne. I mezzi incontrati erano talvolta più pittoreschi, ma evidentemente meno mantenuti.. Ci siamo fermati, un po’ per necessità ed un po’ per curiosità, a fare benzina al primo centro abitato lungo la strada. Un cittadina popolosa e movimentata, dalle numerose insegne colorate ed apparentemente concentrata attorno a poco più di un incrocio fra due strade statali. Fare rifornimento è stata la nostra prima esperienza enigmatica,. Dopo aver pronunciato un internazionalissimo “full” ed aver indicato la pompa erogante la benzina verde a 95 ottani (più economica), abbiamo assistito ad un rituale moderno il cui mistero ci è finora rimasto irrisolto: l’addetto ha infatti inserito il nostro numero di targa (???) in una tastiera, ha sbloccato la pompa con una chiave magnetica ed ha iniziato a riempire il serbatoio di Brunilde di un greggio per noi piuttosto costoso: circa 1,6 euro al litro… La mia mente ha immediatamente ripercorso il budget che avevo elaborato prima della partenza, sperando che il maggior costo del carburante non incidesse troppo, ma è stata soprattutto la tracciabilità dei nostri consumi e dei nostri spostamenti a colpire la mia sensibilità europea, sovraccaricata dal culto moderno della “privacy”. Accaldati, ma forse anche desiderosi di immergerci immediatamente in quell’incontro culturale, ci siamo fermati a prendere un caffé in quella stessa stazione di servizio. Il nostro primo caffé turco… con il suo sapore intenso ed amabile ma improvvisamente anch’esso polveroso come le strade: la posa! Me ne ero dimenticato, nonostante le avvertenze lette e ricevute. Il caffé turco ha l’aspetto esteriore di una tazzina di caffé lungo italiano, ma per metà è poltiglia fangosa di macinato che giace, e deve essere lasciata giacere, sul fondo. Il caffé turco va sorseggiato, non bevuto di slancio. Una avvertenza che, almeno, non abbiamo più dimenticato.
Rimessici in viaggio, il percorso verso Istanbul ci ha regalato poco dopo una seconda esperienza tra quelle che ci hanno poi accompagnato, in questo caso non senza una dose di apprensione, per l’intera durata del viaggio: un manto stradale in rifacimento. A differenza di quanto accade da noi, in Turchia durante i lavori di manutenzione alla sede stradale questa non viene chiusa al traffico. Per evitare complicazioni al traffico, le auto vengono cioè lasciate libere di circolare, schivando i mezzi pesanti e gli operai che stanno effettuando la lavorazione. Trovarsi faccia a faccia con una schiacciasassi sarebbe stata già di per se una esperienza innovativa, ma a complicare notevolmente le cose c’era il fatto che il fondo stradale si era improvvisamente trasformato in uno spesso strato di breccia non compattata. Non ritengo sia necessario aver guidato una moto di 250 kg a secco, carica di due passeggeri e quattro borse pesanti, per rendersi conto della sensazione di pericolosa instabilità che trasmette mentre ondeggia, apparentemente senza grande controllo, su un tappeto di sassi. In quel momento, ripetutosi poi altre volte durante il nostro viaggio, la mente si è abbandonata a catastrofiche immagini di rovinose cadute o di imbarazzanti richieste di aiuto. Eppure, sono convinto che agli autisti turchi che ci sfrecciavano rapidamente accanto o agli operai addetti alla manutenzione, quella strada sarà sembrata perfettamente affrontabile da un mezzo a due ruote come il nostro: probabilmente ingannati dal vedere sfrecciare i leggeri ciclomotori autoctoni, pesanti meno della metà di noi, non credo abbiano potuto immaginare lo sguardo terrorizzato che a malapena siamo riusciti a contenere all’interno dei nostri caschi.
Affrontando quel primo pericolo, per un attimo ho avuto il timore che quella strada rimanesse sterrata per chilometri, ed invece solo qualche centinaia di metri dopo è tornata ad essere asfaltata. Quella sensazione, tuttavia, non ci ha più abbandonato durante il resto del viaggio, instillandoci un protettivo stato di vigilanza ad ogni avvisaglia di cambiamento del fondo stradale. Anche perché, come poi abbiamo avuto modo di verificare, anche in assenza di cantieri aperti la ghiaia sul fondo stradale è piuttosto frequente ed improvvisa sulle strade della Turchia. Un pericolo imprevedibile che, alla guida di una moto, ti costringe a scrutare continuamente e con attenzione il nastro asfaltato che ti precede.
La vista dei primi palazzi con più di dieci piani, tutti simili tra loro ed estremamente ravvicinati, ci ha preannunciato, dopo un paio d’ore di viaggio, l’arrivo a Istanbul. O meglio: l’ingresso, dopo un economico pedaggio, nella tangenziale di Istanbul. Da lì arrivare a destinazione è stato tutt’altro che facile. Non so perché, forse solo per ingenuità, mi aspettavo di trovare una qualche indicazione per il centro della città, o almeno per il suo celeberrimo quartiere storico. Al contrario, “Sultanhani” non compare in alcun cartello, e le indicazioni fanno riferimento solo a luoghi periferici, dai quali è successivamente possibile, a patto di conoscere la città o possedere una chiara mappa, raggiungere il centro. Non avendo noi una mappa sufficientemente ampia della città (ma solo del suo centro) ed a causa di quella mia ingenua convinzione, ci siamo addirittura trovati costretti, dopo aver percorso la tangenziale in tutta la sua lunghezza, ad attraversare il ponte sul Bosforo, non potendo più invertire la marcia, e di conseguenza ad acquistare una tessera con credito a scalare per il pedaggio, dal costo di 15 euro (cosa che avremmo potuto tranquillamente risparmiarci se avessimo invece acquistato in città, una volta giunti a destinazione, una tessera per il singolo passaggio necessario a proseguire il viaggio). In pratica, siamo passati dall’Europa all’Asia (e ritorno) con un paio di giorni di anticipo sul previsto! A trarci finalmente d’impaccio è stata la grande disponibilità della popolazione locale. Sforzandosi di superare le immense barriere linguistiche attraverso il linguaggio universale dei gesti, al quale fortunatamente noi italiani siamo culturalmente ben predisposti, i tre o quattro turchi da noi interpellati ci hanno facilmente ricondotto sulla strada diretta verso il quartiere di Sultanhani ed il nostro hotel.
L’Hotel Taskonak, è un hotel di modeste dimensioni, come la maggior parte di quelli che gli si trovano intorno, ma rinnovato di recente e con uno staff cordiale e sempre disponibile a fornire indicazioni o supporto. Nel complesso trasmette una sensazione molto familiare ed accomodante. La posizione è per di più ottima. A pochi passi dalla Moschea Blu, tuttavia situato in una via secondaria poco trafficata, è l’ideale per riposare dopo aver passeggiato l’intera giornata tra i monumenti della città. Inoltre, fare colazione sul terrazzo con una ampia vista del Bosforo è stato l’inizio migliore che potessimo chiedere per le nostre prime giornate in Turchia.
QUARTA TAPPA: Istanbul Ad Istanbul ci siamo fermati tre giorni. O meglio, siamo ripartiti la mattina del terzo giorno. Se fossimo restati di meno avremmo certamente tralasciato qualcosa di importante; se avessimo potuto fermarci di più lo avremmo gradito, ma ci avrebbe sottratto troppo temo al resto del viaggio. In due giorni, certamente intensi, il Sultanhani di Istanbul si riesce a visitare, ma sinceramente non credo si riesca a fare di più. Noi, perlomeno, non ci siamo riusciti. Il rimpianto più grosso è di non aver visitato un Hammam (bagno turco), ma il tempo stretto e l’imbarazzo ci hanno fatto posporre la visita fino a quando non si è fatto troppo tardi. E poi, è sempre bene lasciare qualcosa di incompiuto in una città che ci è piaciuto visitare: sarà la scusa per tornarci! Il primo giorno, svegliati dalla chiamata dell’Immam e dopo una piacevole colazione con vista sulla sponda asiatica e sui tetti di Istanbul, abbiamo iniziato la giornata con la visita alla Moschea Blu. Un luogo di fede che si percepisce come viva, nonostante il gran numero di visitatori. Un meraviglioso gioco di colori e rifiniture, di forme architettoniche solidamente imperturbabili eppure slanciate in un canto elevato al cielo. Nonostante i timori iniziali, e forse qualche pregiudizio affrettato, con i quali ci siamo avvicinati, la percezione immediata è stata di una spontanea apertura alla comunione attraverso la preghiera. Un monumento alla fede mussulmana, ma in fondo a quella universale, davvero affascinante.
Usciti dalla Moschea Blu, ci siamo tuffati tra i colori del giardino fiorito, ordinato e ben curato, che la divide da Ayasofia. Un profondo respiro attraverso quel polmone naturale, ed il balzo indietro di qualche secolo è sembrato meno stridente.
Ayasofia, sebbene storicamente più rilevante e nonostante l’amalgama eccezionale e fluida tra gli elementi delle due principali religioni monoteistiche, ci ha tuttavia colpito meno. Forse perché maggiori erano le aspettative, forse perché più numerosi erano i gruppi di turisti, o forse solo per le imponenti impalcature interne che ostacolano lo spaziare libero dello sguardo, Ayasofia ci ha colpito ma non affascinato quanto la sua vicina. E’ indubbiamente un prezioso monumento, un testimone insostituibile dell’incontro primordiale fra Cristianesimo ed Islam, ma non ha conservato (o forse più semplicemente non ci ha trasmesso) il sentimento religioso che ha ospitato per secoli. Visitandola si è acceso in noi l’interesse storico, il piacere per i mosaici e per l’attraversare le elaborate strutture, ma uscendo ci è rimasta la sensazione di aver visitato un museo più che un luogo di passione religiosa e fede vivente; e questo un po’ ci è dispiaciuto.
Dopo un rapido pranzo all’ombra rigeneratrice di un locale poco distante, turistico ma non troppo, il pomeriggio lo abbiamo dedicato al Gran Bazaar ed allo shopping rituale. D’altronde, entrare in quel tradizionale tempio del commercio ed uscirne senza qualche busta piena di souvenir per parenti e conoscenti, o senza aver contrattato decine di volte per piccoli acquisti sfiziosi quanto superflui, sarebbe come entrare in un casinò e non lasciarsi trasportare dall’emozione di qualche piccola scommessa: una occasione persa. Per ore abbiamo vagato senza orientamento fra i numerosi corridoi interni, assecondando e respingendo gli approcci, comunque mai fastidiosi, dei venditori turchi. Ancora una volta ne siamo usciti con la convinzione di doverci ricredere rispetto agli evidenti pregiudizi con i quali ci eravamo avventurati: per quanto immenso, si tratta di un luogo organizzato, relativamente ordinato e pulito, che mai ci ha trasmesso sensazioni di timore o diffidenza, e che mai ci ha oppresso o innervosito. Eppure, tra acquirenti e venditori, di gente ne gira davvero molta… Gli oggetti in vendita sono davvero numerosi, ma per la maggior parte si tratta di souvenir o di riproduzioni neanche troppo accurate di accessori di marca. Ampio è lo spazio lasciato alla contrattazione individuale, ma anche per chi, come noi, è davvero negato nell’esercizio di questa nobile arte, i prezzi sono sempre piuttosto allettanti.
Terminato il giro interno, ci siamo avventurati alla ricerca del vicino Bazaar delle Spezie. L’atmosfera che vi abbiamo trovato era piuttosto differente. Senza che ce ne accorgessimo, i turisti erano diventati in minoranza, gli acquirenti che si aggiravano tra i corridoi erano però in numero complessivamente superiore, e le voci si erano fatte più rumorose. Il Bazaar delle Spezie, con i suoi coloratissimi cestelli di polveri, dolci e frutti, ha maggiormente l’aspetto di un mercato al coperto. Meno ordinato ma più caratteristico. Sono contento di averlo visitato, seppure per comprare solo una busta di te sfuso.
Ma la visita al Bazaar delle Spezie è stata soprattutto l’occasione per scoprire ed attraversare quel dedalo affascinante di strette viuzze e rumorosi banchi e negozi che lo separa dal Gran Bazaar. E’ lì che vanno a comprare i Turchi, Uno spettacolo fortemente simile al nostro mercato domenicale di Portaportese. La stessa quantità di gente e di oggetti in vendita, la stessa rumorosa socialità, la stessa affascinante varietà di oggetti; molti di uso comune ma non sempre facilmente reperibili, altri dalle finalità difficilmente comprensibili ma estremamente affascinanti. Uno spaccato di quotidianità locale in cui perdersi, lasciando che siano i sensi a guidare prima della ragione. Solo il sopraggiungere della fatica per tutto quel camminare ha permesso alla ragione di riprendere il controllo del nostro itinerario, portandoci fuori da quel labirinto per ricondurci infine all’hotel.
La sera abbiamo cenato da “Rumi”, con una romantica vista dal balcone sulla Moschea Blu. Si tratta di un ristorante di buon livello, il cui ambiente si caratterizza per l’esposizione dei quadri prodotti dallo stesso Rumi che gli ha dato origine e nome, oltre che per la vista senza dubbio affascinante sulla moschea. Naturalmente, tutto ciò ha un prezzo… specialmente se si vuole assaggiare il vino locale! Nei giorni a seguire, abbiamo preferito soluzioni più modeste e genuine, ma quella vista ci ha accolto nel migliore dei modi per la prima serata in Turchia.
Il secondo giorno ad Istanbul lo abbiamo dedicato pressoché interamente alla visita al palazzo Topkapi. Ci siamo fatti condurre dalla fantasia e dai ricordi dei racconti orientali; dalle favole notturne e dalle storie d’amore tra odalische e sultani. Tutto ha preso forma tra le stanze dell’Harem o i viali dei giardini. Il brillante tra i più grandi al mondo ed il pugnale ricoperto da gemme preziose sono diventati ai nostri occhi un bottino di guerra ed un pegno d’amore. In quel mondo onirico e leggendario ci siamo persi per oltre quattro ore. Le stanze sono numerose e molte ancora sontuosamente arredate. Per di più, con l’ausilio dell’audioguida ogni sosta è divenuta evocativa di immagini e storia vissuta, facendo assumere al percorso il ritmo lento ma fluido di un racconto.
Un’altra ora ce l’ha portata via la visita alle reliquie di Maometto e dei discendenti di Abramo. A questo punto il percorso ha assunto il ritmo ancora più lento di una processione. Ci siamo innestati in un lungo serpentone di visitatori per scorrere davanti, più preziose tra le reliquie, al bastone di Mosè, alla barba del Profeta ed al Mantello di Maometto. Oggetti di culto comune per tradizioni tra loro ancestralmente diverse, ma dalle origini comuni. Ci siamo lasciati guidare in un medesimo percorso, fianco a fianco, con numerosi visitatori dalle tradizioni differenti ma dalle radici profondamente intrecciate. Una forte emozione che nasce più dai geni che dalla mente.
Al termine della visita al palazzo eravamo esausti. Molto probabilmente, ciò ha determinato la rinuncia a visitare alcuni altri siti di Istanbul, limitando un po’ il nostro percorso. Tuttavia, non ci portiamo dietro alcun rimpianto: sottrarre tempo alla visita al palazzo Topkapi avrebbe tolto spazio alla fantasia. Meglio, allora, rimandare alla prossima visita ad Istanbul quanto ci è mancato di visitare e portarci con noi le numerose immagini delle stanze esplorate con minuziosa attenzione.
La sera, cena all’insegna del Kebab, in un ambiente ospitale e semplice ma dalla cucina gustosa e dal servizio al tempo stesso amichevole ma estremamente attento. A pochi passi dall’hotel e dalla Moschea Blu, cui siamo fermati all’Ayasofia Kebab House, tra i suoi tavolini sul marciapiede di una strada a quell’ora priva di traffico. Un locale che, per quanto non riportato dalla nostra guida Lonely Placet e non in elenco tra le raccomandazioni dell’hotel, ci siamo ripromessi di segnalare. Il menu non è vasto, come spesso accade in Turchia, ma i sapori sono intensi ed al tempo stesso familiari. Il servizio al di là delle aspettative, rispetto alla categoria del locale, ed improntato ad una grande cortesia e simpatia del proprietario. Un posticino economico e non troppo turistico, ma certamente meritevole di una sosta.
QUINTA TAPPA: Istanbul – Goreme E’ questa la tappa che ci preoccupava di più, ancor prima di partire; la nostra sfida da affrontare: 780km per recuperare un giorno di viaggio, evitando l’inutile sosta ad Ankara. Fin dalla preparazione dell’itinerario, grandi dubbi e preoccupazioni mi avevano assalito e sentivo forte la responsabilità di aver fatto questa scelta: 780km in moto sono tanti per i nostri standard, ma l’incognita delle strade turche e del loro fondo amplificava i timori. Ho passato giorni a ricercare e leggere gli itinerari pubblicati da viaggiatori che ci hanno preceduto, e la maggior parte aveva preferito spezzare questa tappa con una sosta ad Ankara. Tuttavia, c’era anche qualche “temerario” che aveva affrontato il lungo trasferimento giungendo a destinazione prima del tramonto (limite oltre il quale concordavano unanimemente nello sconsigliare la guida). E da questi ultimi, letti e riletti durante l’inverno, avevo tratto motivazione e coraggio. Avevo calcolato che ci potessero volere circa 12 ore tra viaggio e soste, e pertanto la mattina alle 9.00 eravamo già in moto. Il tempo perso e la strada fatta in più per entrare in Istanbul un paio di giorni prima, ci hanno almeno reso più semplice l’uscita dalla città, facendoci risparmiare del tempo prezioso. Inoltre, Istanbul è collegato ad Ankara attraverso un’ampia autostrada, grazie alla quale si corre veloci attraverso uno scenario altrimenti poco popolato e piuttosto incolto. Il verde delle sponde del Bosforo ha così lasciato gradualmente il posto a colori più terrosi e secchi. Ankara è arrivata in fretta. Prima di pranzo eravamo già lì. Ciò ha rafforzato la nostra convinzione circa la bontà della scelta di non sacrificarle un giorno ma di puntare dritti verso la Cappadocia. Tuttavia, avendo necessità di cercare un bancomat e fare benzina, o forse solo spinti da una inevitabile curiosità, ci siamo comunque addentrati verso il centro di Ankara. L’impressione che ne abbiamo ricevuta è quella di una città moderna, quasi più frenetica e operosa di Istanbul, un crogiolo di provenienze e stili di vita differenti, unificati dalla ricerca di un rifugio commerciale. In sintesi, ci ha trasmesso la sensazione di una Turchia diversa: più moderna e rapida ma meno attenta ed ospitale. Alleggerita del peso della Storia, sembrava sfilarci accanto come un treno in corsa attraverso una stazione di periferia; lasciando in noi una scia di disagio.
Nonostante la voglia di proseguire e non fermandoci neanche per pranzo, uscire dalla città è stato tutt’altro che facile. Ancora una volta, le diverse indicazioni stradali sembravano non guidarci verso alcun luogo noto o facilmente individuabile sulla carta. Per circa un’ora abbiamo girato intorno al centro, tentando diverse soluzioni ed alla ricerca di potenziali indizi. Poiché la pazienza è virtù, e proprio quando stavo per perderla, un ennesimo tentativo ci ha messo nella giusta direzione.
Dopo Ankara, la strada torna ad essere quel susseguirsi di statali poco trafficate, ma non brillantemente mantenute, che ci aveva accolto dopo la frontiera. Il ritmo del viaggio, pertanto, è sceso di conseguenza. In compenso, le indicazioni sono state sempre chiare e ben scandite. Il conteggio delle distanze ci ha tenuto compagnia, con le sue cadenze regolari, alimentando con continuità la convinzione di riuscire nel nostro intento di arrivare prima del calare della notte.
Approfittando di una delle soste per il rifornimento, ci siamo fermati per un leggero pranzo in un locale lungo la strada. Per la prima volta da quando eravamo arrivati, neanche l’inglese ci ha consentito di istaurare un rudimento di conversazione, demandando al linguaggio ancor più universale dei gesti la nostra semplice ordinazione e l’espressione della cordiale curiosità del gestore rispetto alla nostro percorso. Non sono riuscito a capire se a colpirlo fosse più la nostra origine straniera o le condizioni con le quali avevamo scelto di viaggiare, tuttavia mi ha lasciato la convinzione che non dovessimo essere per lui una visione comune.
A Goreme siamo giunti esattamente 12 ore dopo la partenza da Istanbul. In tempo per goderci uno splendido tramonto color oro sulla Cappadocia, e l’accendersi delle prime luci tra le rocce abitate della città. Le forme, al buio, si intuivano appena, ma nell’aria abbiamo percepito subito quel misto di quiete ed elettricità che ci ha accompagnato per i tre giorni seguenti.
Per la sistemazione avevamo scelto il Kelebek Cave Hotel. Sapevo che sarebbe stato di per sé una parte dell’esperienza in Cappadocia: dormire in una camera scavata in un pinnacolo di roccia non può non sollecitare i sensi e la fantasia… Ad andare oltre le aspettative è stata invece l’accoglienza da parte del proprietario e di tutto lo staff. Ci hanno regalato la sensazione di essere arrivati a casa di amici, di cenare o fare colazione nel loro salotto e di poter usufruire della piscina e della loro casa. La capacità di creare questa atmosfera rilassata e libera è certamente la caratteristica più preziosa e rigenerante dell’hotel. Una sensazione che abbiamo ricercato, senza pari successo, in occasione di tutte le successive soste del viaggio e che ci portiamo ancora dentro come un rilassante rifugio per la memoria. SESTA TAPPA: Goreme e la Cappadocia Non è facile descrivere la Cappadocia. Ho la convinzione che è necessario averla vista, almeno in qualche foto, per comprenderla. Quello che si ha intorno è un paesaggio surreale. Il paragone più frequente che ci è capitato di sentire è con il suolo lunare. Ma i colori, le coltivazioni, le case trasmettono altro; trasmettono vita ed antichità. Forse un po’ richiama il Canyon americano, per i suoi enormi spazi o per gli altipiani che affondano in profondi solchi scavati dal vento. Ma quei pinnacoli, che fioriscono dalla terra, apparentemente senza alcuna logica o simmetria, possono davvero richiamare solamente le fatate dimore di qualche creatura fantastica: i Camini delle Fate… Ma la Cappadocia non è solo il suo paesaggio, è anche la sua storia, che nasce agli inizi della civiltà e fiorisce con le origini del Cristianesimo, ma soprattutto è l’atmosfera con la quale ti avvolge. E’ il suo “Prana”, respiro energetico e vitale, che si percepisce arrivando e che nutre con dolcezza il corpo e la mente.
Dei 22 giorni trascorsi in viaggio, forse le sensazioni istintive, difficilmente verbalizzabili, che la Cappadocia ci ha lasciato addosso, sono quelle che più ci hanno appagato. Il leggero vento, addolcito dalle vallate profonde e dagli spazi immensi, la polvere sottile carica di storia e leggende, il ritmo rallentato del tempo, i sorrisi accoglienti della gente, il sommesso brusio di numerose lingue che osservano stupite, si amalgamano in un nettare che allevia le piaghe dell’anima.
Il primo giorno a Goreme lo abbiamo dedicato alla sua storia. La mattina abbiamo infatti visitato il museo a cielo aperto: un sito, patrimonio dell’umanità, tenuto abbastanza bene, anche se senza particolari interventi, ove è possibile visitare le abitazioni e le chiese scavate nella roccia dai primi cristiani in fuga. Una testimonianza di come, in nome di una forte fede, anche pochi e rudimentali attrezzi possano far emergere dalla fredda roccia forme architettoniche elaborate o raffigurazione sacre dai colori evocativi. E dove non ha potuto la tecnica, è arrivata la fantasia: quando non è stato possibile scavare forme elaborate, il solo inciderle o disegnarle sulla pietra ha creato negli occhi del fedele l’immagine di una sontuosa cattedrale.
Anche se i quasi duemila anni trascorsi hanno sbiadito o cancellato gran parte dei disegni e dei dipinti, quelle che rimangono sono delle strutture estremamente affascinanti ed elaborate. Si ha ancora la possibilità di visitare un monastero, con i suoi edifici sacri e quelli dedicati ai momenti di vita in comune. Eppure, nonostante la sua sacralità e l’austerità, ci è apparso come un luogo estremamente solare e vivace; un giardino in cui passeggiare con lento piacere, per ammirare non fiori ma disegni e testimonianze. Una divertente lezione di storia antica ed una meditazione camminata sulle nostre lontane radici cristiane. Nel pomeriggio di quella stessa giornata ci siamo spostati circa 80km più a sud, per visitare la città sotterranea di Derinkuyu. Ma la cosa che ricordo con più intensità di quella visita, è ancora una volta la genuina cordialità che ci ha accolto. Percorrendo la strada che da Goreme porta a Derinkuyu, i bambini ci sorridevano e ci salutavano con grandi gesti, interrompendo i loro giochi. Le donne, intente a lavorare nei campi, sollevavano lo sguardo e ci regalavano un sorriso. Poi, giunti pressoché a destinazione, mi sono distratto a guardare un gruppo di uomini seduti a sorseggiare un tè al fresco di una ”osteria” locale; un’immagine che mi ha fatto volare la fantasia ad anni della nostra storia che ho vissuto solo attraverso gli occhi dei miei genitori. Rapito dai miei pensieri, ho tirato dritto all’ultimo incrocio, saltando la svolta verso la città sotterranea. In quel momento, un poliziotto, affacciato a fumare da una finestra del palazzo all’angolo, si è sbracciato ed ha iniziato a chiamarci a gran voce, Stupito, confuso, immaginando di aver compiuto una qualche infrazione, ho istintivamente rallentato la moto. Solo in quel momento ho compreso che i suoi gesti calorosi erano per indicarci la giusta direzione. Divertiti e sorpresi, abbiamo ringraziato, girato la moto e preso la via indicata. Peccato che gesti così ci sembrino tanto poco familiari da insospettire! Giunti a destinazione, parcheggiata la moto ed acquistato il biglietto d’ingresso, ci si è avvicinato un vecchietto, forse settantenne e dall’aria istintivamente simpatica, che si è offerto di farci da guida per una tariffa di 15 euro. Parlava solamente inglese ma aveva una dizione ben scandita e scolastica, perciò abbiamo accettato di buon grado. Ci ha poi detto di essere un pensionato del Ministero dei Beni Culturali. Al di là della visita in se, è stato proprio l’incontro con la sua passione pedagogica, con il suo amore per quei luoghi ed i loro segreti, che ci ha affascinato, insieme alla cortesia ed all’eleganza nei gesti più semplici, che avevano il sapore forte di tempi andati e di una educazione all’antica. Non sappiamo se quanto ci ha raccontato sia corretto o esaustivo, ma poca importa: ci ha mostrato ciò che la nostra fantasia ed il nostro cuore desideravano vedere.
La città sotterranea è un dedalo di ambienti e soluzioni apparentemente semplici ma realmente ingegnose, elaborate da una civiltà antica all’inizio del proprio sviluppo culturale. Istintiva è stata per noi la similitudine con le nostre catacombe; ma gli ambienti sono più vasti e numerosi, uniti in un percorso tortuoso e stretto. Più che gli occhi, ha fatto per noi l’immaginazione, guidata dai racconti della nostra guida.
Salutato il nostro cicerone, e risaliti in moto, il tramonto ci ha accompagnato, con il suo intenso color oro, lungo la strada del ritorno verso l’hotel. La sera, stanchi ed appagati dall’immersione nella storia, siamo rimasti a cenare in albergo, con una romantica vista dall’alto del suo terrazzo sulle luci di Goreme, accese come lucciole indaffarate tra i pinnacoli di roccia.
Il giorno successivo è stato di quelli che non si dimenticano… Sveglia prima dell’alba: abbiamo aperto gli occhi alle 4.30, con il richiamo dell’Imam, anticipato per il mese del Ramadam, dalla vicina moschea. Alle 6.00 ci sono venuti a prender in hotel. Siamo saliti, silenziosi ed ancora assonnati, insieme a due coppie di turisti americani, su un pulmino dalle soffuse luci blu. Fuori era ancora buio e quelle luci blu contribuivano a creare un’atmosfera quasi surreale.
L’aria era pungente, e la stretta allo stomaco era forte; mentre il cielo dietro l’orizzonte ha iniziato a tingersi di rosa, di celeste, di blu, e di altri mille colori. Su una radura, tra le attenzioni meticolose di un gruppo di uomini indaffarati, ci attendeva la fonte della nostra emozione, e dell’esperienza indimenticabile che ne sarebbe seguita: una mongolfiera si stava gonfiando nell’aria leggera dell’alba, pronta a sollevarci sopra le valli fatate della Cappadocia.
Il volo in mongolfiera è stata un’esperienza emozionante, di una intensità tale da giustificare da sola il viaggio fatto fin li. Se viaggiare in moto per le sue strade ci ha calato e mimetizzato dentro il paesaggio, facendocelo respirare senza filtri, volare in mongolfiera sopra la Cappadocia ci ha dilatato e disperso in essa come polline al vento. In un solo sguardo, in un solo respiro, abbiamo abbracciato, posseduto ed amato intere vallate e la loro storia antica. Nel silenzio della quota, abbiamo affidato al vento il nostro ringraziamento per il viaggio fatto fin lì.
Il volo in mongolfiera è lento e silenzioso, affidato più al volere delle correnti che a quello dell’uomo. Analogamente, quiete, silenzio e determinazione sono le sensazioni istintive che la Cappadocia ci ha trasmesso da subito. Ecco perché ritengo, nella mia ignoranza, che non vi sia paesaggio più adatto ad essere sorvolato appesi al filo di un palloncino.
Il volo è durato circa un’ora e mezza, passando sopra Goreme, Uchisar, e la Valle Rosa. Visto dall’alto di circa 1000 metri, il paesaggio assume un aspetto ancora più misterioso. I solchi profondi nella roccia, i pinnacoli isolati e numerosi come funghi, sembrano ancor più incomprensibili. Scendendo lentamente, subito dopo, fra le pareti di una vallata, restringendo così il campo alla vista ma ingrandendone i particolari, i pinnacoli e le abitazioni ricavate in essi rafforzano quella percezione di trovarsi in un luogo fatato, dimora di creature fantastiche ed inimmaginabili. Questa alternanza di quote e spaziosità, lenta e ritmica come un respiro profondo, non poteva che accrescere in noi il fascino di un luogo che forse non ha eguali.
Scendendo dalla mongolfiera, sul nostro volto, letto attraverso quello del vicino, abbiamo visto stampato il sorriso ingenuo e puro di una felicità tutta infantile. Un’esperienza che siamo felici di aver fatto.
Piacevolmente storditi dal volo mattutino, con il cuore e gli occhi ancora colmi di una visione che non volevamo diluire o perdere, abbiamo deciso di fermarci a Goreme per il resto della giornata. Cullandoci in quella sensazione estatica, abbiamo passato le ore successive in completo relax. Per intensificare e consolidare il quale, mi sono finalmente concesso un massaggio nell’hamam dell’hotel. Un trattamento completo di sauna, bagno turco e delicato massaggio alla schiuma, in un ambiente di marmo riscaldato e lavorato sull’esempio dei bagni turchi più antichi. Superato il primo ingenuo imbarazzo, il corpo si è totalmente abbandonato, lasciando la mente libera di tornare in volo sulla mongolfiera della mattina. Terminato il trattamento, le ore successive le abbiamo trascorse a bordo piscina in compagnia di un buon libro. Prima giornata di inattività e profondo riposo.
La sera abbiamo cenato a Goreme, in città, per assaggiare un piatto tipico che ci avevano elogiato: carne e verdure cotte in un vaso di terracotta sigillato, il cui collo viene rotto con un sapiente colpo di sciabola prima di servirlo. Forse a colpire è più la fantasiosa modalità di servizio che la particolarità della ricetta, tuttavia la carne rimane estremamente morbida e saporita ed il piatto risulta pertanto gustoso ma piuttosto leggero. Peccato non essersi appuntati il nome… SETTIMA TAPPA: Goreme – Antalya Altra tappa di trasferimento. Abbiamo lasciato la Cappadocia per spostarci sulla costa. Per noi, la vacanza d’estate non può infatti prescindere dal mare. E’ un elemento per noi indispensabile. Anche se questa scelta ci ha costretto inevitabilmente a rinunciare alla visita ad altri luoghi, certamente affascinanti, della Turchia, primo fra tutti Pamukkale con le sue cascate di acqua sulfurea e calcarea. Non ce la siamo infatti sentita di sacrificare per esso qualche giornata lungo la costa. Il sole ed il mare sono la nostra fonte di ricarica, indispensabile per affrontare il lungo inverno lavorativo.
Il viaggio verso la costa ci ha offerto una varietà maggiore di paesaggi rispetto quanto avessimo immaginato. Lasciato Goreme, ci siamo diretti verso la nostra prima tappa intermedia: il caravanserraglio di Sultanhani. Si tratta del principale e più grande caravanserraglio della regione. Un luogo dove le carovane di commercianti, cariche di merci e aspettative, si fermavano per riposarsi e concludere qualche primo scambio prima di avvicinarsi alla destinazione finale. Quello che ne rimane oggi è una imponente fortificazione, con all’interno vasti ambienti che ospitarono viandanti e animali. Tuttavia, ad onor del vero, si tratta di una costruzione ben conservata ma piuttosto anonima. Non è facile comprendere o immaginare la confusionaria vivacità di quei luoghi, la loro rilevanza, o la felicità che la loro visione avrà risvegliato nei cuori di coloro che erano in viaggio da giorni senza riposo. Quel che ne rimane oggi, infatti, è solo un insieme di spazi architettonici ampi e silenziosi, per lo più vuoti. Scattata qualche foto, forse anche con la speranza che, rivedendole con maggiore attenzione, avrebbe preso vita qualcosa che ci era sfuggito, ci siamo rimessi in viaggio.
Attraversando paesi dall’aria tranquilla, e preoccupanti cantieri stradali, la strada prosegue rapida e lineare fino a Konya. Nella città dei dervisci rotanti, oggi piuttosto moderna ed anonima, ci siamo fermati, complice anche il caldo del sole allo zenit, per un tè ed un rapido pranzo. Della mistica sufi sono rimasti solo diversi gadget e souvenir, oltre a qualche poster per i turisti; non vi è molto di più sospeso nell’aria. Anche in questo caso mi sono rallegrato di non aver scelto di spezzare il cammino con una sosta per la notte in città: piuttosto ci siamo ripromessi di tornare a vedere una cerimonia con il ballo rotante dervisci… anche questo, la prossima volta.
Dopo Konya, la strada ha iniziato a salire; svolgendosi, rapida e tortuosa, in un’alternarsi di ripide curve e ampi tornanti. La continua salita ci ha portato fino ad oltre 1700 metri di altitudine. Poco dopo il passo, in una piazzola al lato della strada ma con l’immancabile e temuto fondo in ghiaia, ci siamo fermati presso un pittoresco chiosco che offriva tè e bevande fresche ai sudati viaggiatori. Una struttura davvero rara per i nostri occhi; ottenuta prolungando i tre lati di un piccolo prefabbricato con una copertura di fortuna, sotto la quale offrivano ombra alcuni tavoli e sedie, immancabilmente tutte scompagnate, con una varietà che a cercarla sarebbe complicato mettere insieme. Di fronte ai tavoli, al bordo della strada, un fornello a legna scaldava continuamente dell’acqua, cosicché il vapore dell’ebollizione ed il fumo della legna fossero il più chiaro segnale, per gli occupanti dei veicoli che vi passavano accanto, dell’accoglienza che quella struttura avrebbe potuto offrire loro. A noi, stranieri e strambi viaggiatori, l’anziano gestore e la sua famiglia ha insistito per offrire il posto d’onore: un divano e due poltrone spaiate e lise, che in passato avevano certamente arredato uno o più soggiorni ma che ora, attentamente posizionate attorno ad un basso tavolino in una piazzola di sosta ai bordi della strada, faticavano a trasmettere quell’aria di naturale familiarità per i quali erano stati acquistati in origine. Eppure, superato l’imbarazzo iniziale grazie all’insistenza del nostro oste, quell’accoglienza inaspettata e alla prima apparenza eccessiva, ci ha messo immediatamente a nostro agio, offrendoci in pochi minuti un profondo ristoro. Mi stupisce sempre quanto la genuinità delle intenzioni possa essere molto più efficace dell’adeguatezza dei mezzi. Nel rispetto dell’armonia della situazione, il nostro ospite non parlava o comprendeva neanche le più elementari parole di qualsiasi lingua straniera. I gesti e gli sguardi, tuttavia, hanno ancora una volta reso superfluo il linguaggio verbale, affidando ad altri registri una conversazione soddisfacente e ben riuscita.
Ripartiti tra grandi saluti, e qualche brivido freddo inflittoci dal fondo sconnesso, abbiamo iniziato a scendere il dorso delle montagne, fin giù al livello del mare. Qualche chilometro ancora e siamo giunti ad Antalya. Ad accoglierci, per la prima volta da quando siamo partiti, un caldo soffocante che rendeva fastidiosa anche l’aria ingerita dai polmoni. Il termometro, nonostante il sole avesse iniziato la sua discesa, segnava ancora 37 gradi.
La strada che ci ha condotto per gli ultimi 50km verso Antalya, era dritta e larga ma profondamente anonima; un vialone a due carreggiate separate da un aiuola e qualche palma, il cui scorrimento è reso singhiozzante dal rapido susseguirsi dei semafori. Intorno solamente serre e capannoni, a disegnare una ampia pianura che separava i monti dal mare. La combinazione di caldo e monotonia ci ha spossato ben più dei chilometri fatti; a salvarci da quella noia è stata solo la musica accesa per la prima volta nel casco. Il canto libero a squarciagola, protetti dall’isolamento del casco e dal rumore possente del motore, hanno fatto da colonna sonora a quell’ultimo tratto, trasformandolo in un gioioso volo verso il mare.
Se di questo viaggio potessi cambiare qualcosa, con il senno del poi eviterei la sosta per la notte ad Antalya. Siamo arrivati in hotel piuttosto presto, quando la luce del giorno ed il fisico ci avrebbero permesso di fare senza fatica anche i chilometri aggiuntivi che ci separavano dalla tappa successiva. L’hotel era di buon livello, ma ben lontano dall’accoglienza calorosa alla quale ci eravamo abituati. Un approccio professionale e curato, ma tristemente freddo ed anonimo. Come gli interni delle stanze. Niente ci ha fornito un appiglio per dare espressione alla nostra insoddisfazione, essendo ogni particolare all’altezza della categoria e delle caratteristiche della struttura, e forse questo ci ha frustrato anche di più. Non eravamo soddisfatti, nel confronto e nelle aspettative, ma in fondo non avevamo alcuna ragione di lamentarci… Antalya è una grande città, di circa un milione di abitanti, dinamica e chiassosa, fino a notte fonda; vivace e giovane. Al contrario, la cittadella antica, racchiusa dalle mura arcaiche e nel suo dipanarsi in stretti vicoli ben curati, rimane isolata dal traffico e offre un parziale rifugio dalla rumorosa frenesia. Sarà stato anche per il contrasto troppo forte ed immediato tra la quiete della Cappadocia e la vitalità della costa, ma l’impatto con la dinamicità cittadina ci ha un po’ disorientato e, dapprima, fatto istintivamente ritrarre. Antalya, per di più, ci è apparsa tutto sommato anonima. Troppo simile a numerose altre cittadine costiere, che si possono trovare in tante altre parti del mondo, che fanno dello svago e del divertimento colorato e luminoso la loro fonte principale di identità ed attrattiva. Anche se Antalya, per le dimensioni da capoluogo di provincia e la continuità nell’attività anche fuori stagione, non è solo questo; è anche una grande città commerciale ed un importante centro di sviluppo del terziario. Ma quest’ultimo aspetto, a chi come noi si ferma una notte nel suo cammino libero alla ricerca della poesia dei luoghi e dei loro racconti, regala ben poco.
OTTAVA TAPPA: Cirali La mattina abbiamo deciso di lasciare Antalya immediatamente dopo colazione, per dirigerci verso Cirali e ricercare di nuovo l’abbraccio familiare della storia ed il sussurro della natura. Cirali si trova a pochi chilometri da Antalya, ma l’unica strada sconnessa e secondaria che ne garantisce l’accesso la isola completamente dagli itinerari più battuti dai turisti e dalla vitalità costiera. Semi-nascosti dai cespugli fioriti e dagli alberi, ai lati di quella unica strada si susseguono alcuni hotel e campeggi. Piccoli villaggi dove i turisti, prevalentemente inglesi o greci, possono godere di un angolo di natura e tranquillità, con qualche limitato ma genuino contatto con l’ospitalità turca.
L’Hotel Canada, gestito da una disponibile e solare canadese che ha trovato in quell’angolo della Turchia la propria dimora e realizzazione, è un luogo semplice, ma che offre tutti i comfort e la serenità che in genere si ricerca in vacanza. Una piscina ed un giardino, condiviso con alcune galline ruspanti, nonché le amache sotto gli alberi ed i giochi per bambini, fanno di quell’appartata struttura una intuizione ben realizzata, un rifugio nella natura a due passi da un mare di un incantevole colore turchese. Un destinazione raccomandabile, soprattutto per portare la famiglia a dimenticare le fredde nebbie anglosassoni.
Appena arrivati, parcheggiata la moto e dimenticato per un po’ il suo rombo emozionante, ci siamo abbandonati ad una lenta passeggiata verso il mare. Un mare dai colori luminosi, dove ci siamo rilassati su un lettino, offerto gratuitamente dal vicino ristorante, per una tranquilla giornata all’insegna del sole e del riposo. Cirali forse non è il tratto più bello della costa di Antalya, ed in effetti non si distingue per i panorami mozzafiato, ma è certamente uno scenario naturale e bello a vedersi, con i monti che degradano rapidamente, quasi a lambire il mare, e con la sua acqua pulita e dai riflessi sfumati tra il turchese e l’azzurro. Cirali ci ha trasmesso anch’esso un senso di pace e serenità, intimamente familiare. Un’onda lunga e quieta che ci ha accompagnato fino all’aperitivo di fronte alla spiaggia, alla luce del tramonto.
Prima di cena, ci siamo avventurati alla scoperta dei fuochi mitologici delle Yanartas: i fuochi delle Chimere che hanno ispirato la fantasia ed i racconti degli antichi greci. Percorrendo circa un paio di chilometri a piedi, lungo un sentiero illuminato, dopo il tramonto, solo dalla luce delle nostre torce, siamo giunto al cospetto di una decina di fiamme libere che sbuffavano misteriosamente da fessure nella roccia. Una visione suggestiva ed affascinante, se ci si sofferma a pensare alle ipotesi ed ai racconti che hanno alimentato nel corso dei secoli; una visione romantica se si sceglie di sedervici accanto, sorseggiando un bicchiere di vino (acquistato da un intraprendente venditore turco) o una tazza di te messa a scaldare (dallo stesso) sfruttando quella fonte ancestrale di fuoco e calore. Quando poi abbiamo alzato gli occhi al cielo, in quella notte di luna nuova, lo spettacolo offerto si è completato di un’incalcolabile numero di stelle e della luminescenza della Via Lattea. Un altro dono di profonda emozione, offertoci da quelle terra antica ma ancora pulsante di mistero e forza naturale.
Tornati alle luci della civiltà, ci siamo fermati per cena in un locale a gestione davvero familiare: con i bambini che giocavano e guardavano la televisione, mentre i genitori cucinavano e servivano la cena. Per scegliere i piatti, oltre al sintetico menu, mi hanno introdotto in cucina ed aperto le pentole sui fornelli… Una semplicità immediata che ci ha nutrito ancor più dei sapori genuini del buon cibo.
NONA TAPPA: Kas Dopo aver fatto la colazione, una nuova partenza per qualche chilometro ancora. Ci siamo diretti verso Kas. L’unica strada segue la costa, e la vista emozionante del mare ci ha accompagnato praticamente fino al nuovo hotel.
L’Hotel Hideaway è una palazzina di quattro piano, con non più di quattro stanze per piano, situata a circa cento metri dal mare. Per arredamento e disposizione, oltre che per la cordialità immediata di tutto lo staff, la percezione è stata, come a Goreme, quella di essere ospiti in una casa di conoscenti. Il salotto familiare con il televisore e gli scaffali pieni di romanzi in inglese, la sala da pranzo con la chitarra a disposizione ed il frigo con le bevande ad accesso libero, hanno rafforzato in noi questa immagine. Una sensazione piacevole nella quale ci siamo cullati per i brevi periodi in cui vi siamo rimasti prima di uscire. Il primo giorno, smontati i bagagli dalla moto, siamo andati a visitare la spiaggia di Patara. La strada che da Kas porta a Patara è davvero meravigliosa. Una strada ideale da percorrere in moto. Di quelle che danno un senso autentico e tattile al viaggio su due ruote. Un susseguirsi ininterrotto di curve emozionanti e fisiche che corrono rapide, costeggiando da una parte il mare dalle infinite sfumature tra il turchese ed il blu profondo, e dall’altra parte la roccia color ocra che si sgretola degradando. La moto, liberata dai bagagli, danzava tra quelle curve, pronta a mostrarci un nuovo scorcio da immortalare, una nuova visione per la quale trattenere il fiato. Ad ogni curva cambiava la nostra inclinazione, portandoci a sfiorare l’asfalto ora a destra e poi a sinistra, ritmicamente, e cambiava il modo in cui la roccia si buttava in acqua; mentre l’orizzonte blu, reso brillante dal sole, vigilava imperturbabile su di noi. Una di quelle strade, come ce ne sono poche, che potresti fare centinaia di volte senza stancarti, senza smettere di emozionarti, scoprendo ritmi e sensazioni nuove ogni volta. Anche Brunilde ne era felice e appagata; lo percepivo dal suo ondeggiare fluido, che oramai ho imparato a decifrare come un linguaggio. Capisco dal suo modo di reagire se una strada le piace o meno; la sua è una risposta fisica ed inequivocabile. Ci crediate o meno, anche lei ha i suoi gusti. E quella fra Kas e Patara era una strada che le piaceva.
Le guide ed i siti consultati prima di partire indicavano Patara come la migliore spiaggia della Turchia, una destinazione pertanto irrinunciabile. Le aspettative in noi erano, di conseguenza, elevate. Purtroppo, quella giornata era però ventosa ed il mare, di conseguenza, un po’ mosso. Non so, e forse non sapremo mai, quanto quelle condizioni meteorologiche abbiano influenzato il nostro giudizio, ma lo spettacolo offerto dalla spiaggia di Patara non è stato affatto all’altezza delle nostre aspettative, probabilmente già troppo nutrite. La spiaggia è sabbiosa e ampia, come non ne abbiamo viste altre in Turchia, ma è di una sabbia comune, come se ne trovano anche lungo le nostre coste. Il fatto di essere pulita e spaziosa, tanto da non risultare mai affollata, non ci è infatti sembrato sufficiente a renderla uno spettacolo pari alla sua fama. Il mare, se non fosse stato per le onde generate dal vento e dalla risacca, sarebbe stato turchese e generoso di sfumature colorate, ma come lo è in altre spiagge lungo quel tratto di costa. Con un pizzico di delusione nel cuore, a fine giornata abbiamo lasciato Patara e, nei giorni successivi, l’abbiamo rapidamente archiviata assegnandole l’etichetta di una fama secondo noi immeritata. Sarà stata solo sfortuna? Rientrati a Kas, a cena siamo andati da Bi Lokma; un ristorante tra quelli consigliati dalla guida Lonely Planet. La sera successiva, ci siamo tornati. Si tratta, infatti, di un ambiente piacevole con i tavoli all’aperto, sotto alcuni alberi, che danno una bella vista sul porto di Kas e sulle sue luci. Piacevolmente isolato rispetto ai numerosi altri locali ammucchiati sul lungomare, a frequentarlo sono tanto gli stessi turchi quanto i turisti stranieri. La cucina è tradizionale, con alcune specialità della zona molto curate e dall’ottimo sapore. Da provare senza esitazione sono i ravioli in salsa di yogurt che abbiamo preso la prima sera e le “meze” del giorno, fresche e pregevoli. Lo staff, anche se non tutti parlano inglese, è alla mano ed estremamente cordiale. Un ristorante al tempo stesso di buona qualità e con un ambiente piacevole ed appassionato.
Il giorno dopo, anche solo per poter rifare lo stesso tratto di strada del giorno precedente, ci siamo diretti nuovamente verso Patara. Ma questa volta ci siamo fermati prima; in una cala accessibile lungo la strada. La spiaggia in quel punto non era di sabbia ma di piccoli ciottoli; più piccola ma comunque mai affollata. Il mare era di un affascinante colore turchese con sfumature quasi color smeraldo. Una di quelle immagini che si vedono nella cartoline o nelle riviste patinate che alimentano i nostri sogni invernali. Una vera soddisfazione per la vista. Un luogo davvero bello. L’acqua però, come quasi sempre è accaduto in Turchia, era stranamente opaca. Non che non fosse pulita, tuttavia non permetteva di vedere oltre un paio di metri. Immergendosi, tutto assumeva un color turchese chiaro, come in una piscina con troppo cloro, ma era impenetrabile allo sguardo. Solo scendendo di qualche metro, la visibilità tornava normale e lo sguardo era finalmente libero di spaziare. La sensazione che ne derivava era davvero particolare: nuotavamo in un mare dai colori che si vedono in cartolina, quasi caraibici, eppure risultava denso alla vista. Comunque quella sensazione non ci ha infastidito; è un prezzo che abbiamo pagato volentieri per quella visione affascinante.
La sera, di nuova cena da Bi Lokma e poi un rapido giro per qualche ultimo souvenir. Kas è un piccolo centro e tutto si concentra in pochi vicoli intorno al porto. Tutto è piacevolmente facile da raggiunger con pochi passi.
Il giorno dopo, ripartendo, abbiamo sentito che un pezzo di cuore lo stavamo lasciando a Kas, ed alla strada che costeggia il mare andando verso Fethiye.
DECIMA TAPPA: Oludeniz Se Patara è oggi considerata la spiaggia più bella, questo primato lo ha sottratto nel tempo ad Oludeniz, che tuttavia rimane la più nota ed ancora la più fotografata. A scalzare Oludeniz dal suo primato sembrerebbe sia stato lo sfruttamento intensivo del turismo, che ha portato alla costruzione di un concentrato eccessivo di alberghi e locali. Da oasi incontaminata ed isolata, Oludeniz si è oggi trasformata in un centro del turismo di massa.
A noi Oludeniz ha però insegnato una preziosa lezione: quanto le nostre sensazioni e la nostra soddisfazione siano in realtà influenzate dalla nostra mente, con i suoi filtri di pregiudizi ed aspettative. Fin dalla preparazione del viaggio, Oludeniz (come anche Pamukkale) è stata per noi una tappa incerta; proprio a causa delle scoraggianti recensioni che continuavo a leggere sfogliando le guide o i racconti di viaggio. Fino a qualche giorno prima di arrivarci, sebbene oramai in cammino, abbiamo continuato a porci il dubbio se non convenisse prolungare la sosta a Kas e saltare questa tappa. Forza distruttiva dei pregiudizi. Dopo aver visto la spiaggia di Patara, la delusione provata aveva per di più iniziato a lavorare inconsciamente nelle mie valutazioni, rafforzando la convinzione di non voler sacrificare una potenziale giornata in qualche baia isolata vicino Kas per ritrovarmi invece nella confusione di una spiaggia vociante e trascurata. Solo la linearità del percorso che ci avrebbe comunque portati a passarci senza dover allungare il tragitto, ed un calcolo stechiometrico delle ore di viaggio, in base alle quali una sosta ad Oludeniz ci concedeva un ritmo più rilassato, uniti alla riaffiorante curiosità di vedere come quel paradiso che si vede nelle foto potesse essere stato radicalmente stravolto, ci hanno fatto alla fine confermare la sosta ad Oludeniz. E questa volta, le costruzioni della mente ci hanno piacevolmente ripagati.
Se durante il sonno mi avessero messo, a mia insaputa, a bordo di un aereo e mi avessero risvegliato la mattina dopo ad Oludeniz, molto probabilmente avrei faticato non poco a capire che mi trovavo in Turchia e non in una mediterranea colonia inglese. Articolata in due piccoli centri abitati, uno a bordo del mare, l’altro qualche chilometro più in alto, la località di Oluideniz è in pratica un immenso villaggio turistico. Tutto ha lo scopo di far sentire a casa propria e compiacere i turisti, che per la maggior parte erano inglesi. Anche i locali, i ristoranti, i ritmi della vita, avevano un aspetto ed un ordine che non si doveva allontanare troppo da quello familiare per il popolo di Sua Maestà. I ristoranti sono stati costruiti su due piani con la facciata sul mare, che pertanto è assediato da un lungo boulevard di vita notturna. Alle loro spalle, incastrati sapientemente per sfruttare ogni spazio disponibile, ci sono decine di piccoli e grandi hotel. Non a caso, appena giunti di forte alla spiaggia, ad indicarci di aver raggiunto la nostra destinazione è stato un casotto adibito alle informazioni alberghiere (districarsi tra l’infinito numero di insegne, altrimenti, avrebbe richiesto alcune ore). Lungo le strade, gli adolescenti saturavano l’aria del loro inconfondibile accento, sovrastando le poche parole pronunciate in turco. Il mare ed il cielo ci sono apparsi come un ampio terreno di esercitazione per ogni sorta di attività sportiva o semplicemente ludica. Motoscafi che trainavano adolescenti in estasi adrenalinica si erano impossessati del mare, mentre una folla di vele punteggiavano a vista d’occhio il cielo sopra di noi. Caicchi e barche dei diving locali riempivano l’orizzonte.
In questo scenario, enormemente distante da quanto avevamo vissuto e visto fino a quel momento, avremmo dovuto provare repulsione o amarezza. Ed invece, avendo già elaborato in precedenza la prevista delusione, la mente oramai soddisfatta ci ha concesso di cogliere gli aspetti piacevoli che pur rimanevano, godendo di quel contesto naturale indubbiamente ancora molto bello e degli angoli meno confusionari o più divertenti che quell’organizzazione poteva offrire.
L’hotel Celay, anzitutto. Si trova in una zona appartata, immerso tra qualche albero e sufficientemente lontano dalla confusione notturna. Le stanze erano confortevoli e con una vista rilassante sulla piscina e, più in lontananza, sul mare ed il tramonto; circondate da coloratissimi cespugli in fiore. Lo staff, molto giovane, suppliva con tanta disponibilità e grandi sorrisi all’inesperienza che talvolta lo rendeva meno attento o tempestivo.
La spiaggia della riserva naturale, che si trova solo a qualche centinaio di metri dalla confusione dei ristoranti ma protetta da un accesso limitato ed a pagamento, ci è sembrata già un luogo diverso da quello che ci aveva accolto al nostro arrivo. Anche lì non mancavano i motoscafi con le loro attività o le lunghe file di ombrelloni, ma prevaleva un rispetto maggiore per il contesto circostante. Tutto era ben delimitato ed organizzato, compresi i corridoi di accesso per i motoscafi, e non aveva ancora prevalso la volontà di sfruttare a pieno lo spazio disponibile, garantendo così un parziale isolamento delle diverse esigenze. I contrasti ed i colori che si determinavano dall’incontro fra il mare turchese, la spiaggia bianca di ciottoli ed il verde rigoglioso della natura all’ingresso della laguna, ci hanno invece mostrato la bellezza che ha reso famosa Oludeniz. Una bellezza che, se osservata liberi da pregiudizi e senza farsi rapire dal vortice di rumorose distrazioni, rimaneva ancora viva e prorompente. E la possibilità di cogliere questa essenza, questa spontanea bellezza, è stato il regalo che la mente, abbandonati i pregiudizi, ci ha fatto; la lezione che ci voluto fare Oludeniz.
Andando via dalla spiaggia poco prima del tramonto, un giovane bagnino ci ha voluto salutare e intrattenere con noi un’incerta conversazione, resa complicata dalle barriere linguistiche. Suo fratello è un motociclista che ama viaggiare e che gestisce una community on-line, con la quale sta organizzando una trasferta in Italia. Incontrare due italiani che condividono questa passione era evidentemente un omaggio che quel bagnino voleva portare al fratello. Un piccolo assaggio indiretto di passione comune, che travalica i confini e le culture. La stessa condivisione che ci porta sempre a salutare i motociclisti che incontriamo lungo il nostro percorso o a fermarci se ne vediamo uno in difficoltà. E’ il riconoscimento dell’amore, della determinazione e della irrazionalità che determina la scelta di quel mezzo scomodo, ma fisico e passionale, per viaggiare.
La sera, per la prima volta da quando eravamo partiti, siamo tornati ad immergerci in un ambiente di musica, luci, cocktail e internazionalità. Un pausa piacevole e divertente dalla quiete e dalla storia, che altrimenti ci ha accompagnato lungo tutto questo percorso di viaggio e scoperta personale.
UNDICESIMA TAPPA: Selcuk (Efeso) Pur avendo accuratamente evitato di prendere l’autostrada, siamo giunti a Selcuk, una cittadina a pochi chilometri da Efeso, nel primo pomeriggio. Giusto in tempo per qualche ora di sole ed un pressoché solitario tramonto sulla vicina spiaggia: un luogo senza pretese, frequentato prevalentemente da famiglie turche, e dove pochi parlavano inglese. Tuttavia, un altro piacevole e sincero scorcio di mare limpido.
Alle luci della sera, Selcuk ci è apparsa come una tranquilla cittadina, frequentata prevalentemente da villeggianti turchi o da anziani in cerca di un po’ di fresco e serate in compagnia, magari giocando al backgamon di fronte ad un bicchiere di tè. I numerosi pullman di turisti che durante il giorno affollano Efeso, evidentemente non si fermano a Selcuk. Ad attrarci immediatamente, durante la nostra prima passeggiata in città, è stato il suo acquedotto bizantino, abilmente illuminato, che ci ha guidato attraverso il piccolo centro. Nel seguirne il profilo, ad un tratto ci siamo trovati ad alzare istintivamente gli occhi, verso una delle arcate; a raccogliere il nostro sguardo è stata immediatamente una visione rara, e per questo emozionante: sulla cima dell’antico acquedotto nidificano ancora le cicogne! Un’incontro oramai dimenticato in Italia… la vista rassicurante di una realtà non ancora del tutto estinta.
La mattinata seguente l’abbiamo dedicata interamente alla visita al sito archeologico di Efeso. All’interno del sito sono ancora conservate, peraltro in ottime condizioni, le vestigia di numerose costruzioni di epoca romana. Le sensazioni che trasmette attraversarne i viali e varcare le porte ancora intatte sono immediatamente penetranti, nonostante il numero elevato di turisti che ogni giorno distrattamente vagano per le rovine. La fantasia del visitatore attento facilmente vaga, ricostruendo ipotetiche scene di vita o creando da pochi indizi verosimili realtà. A suscitare in noi le emozioni più forti sono state la celeberrima biblioteca, incredibilmente conservata, e la basilica di Maria, teatro di decisioni determinanti per lo sviluppo della cristianità, insieme al teatro in cui Giovanni pronunciò alcune tra le parole che avrebbero ispirato la fede cristiana per i secoli a seguire. Efeso ci ha richiesto una visita impegnativa sul piano fisico, per il caldo e la durata, ma ci ha ripagato con immagini e ricostruzioni che hanno accresciuto la nostra comprensione delle radici della cristianità. Una esperienza che senza dubbio ha lasciato un segno, anzitutto nella nostra fede, dando uno scenario reale ed una dimensione tangibile ai racconti ed alle parole con le quali siamo cresciuti; completando quel quadro che la conoscenza quotidiana dei luoghi dell’antica Roma aveva già iniziato a definire.
Il pomeriggio, lasciate le rovine di Efeso, abbiamo visitato la casa di Giovanni e Maria e la basilica di S. Giovanni a Selcuk. Della seconda purtroppo non resta molto, e quel poco è decisamente male organizzato, mancando di indicazioni o riferimenti adeguati. Quella trascuratezza ci ha stupito e forse un po’ ferito, dal momento che in quel luogo si trova la tomba di S. Giovanni l’Evangelista. Abituati come siamo alla sontuosa glorificazione delle tombe di santi ben meno rilevanti per l’evoluzione della cristianità, quella trascuratezza e quell’apparente disinteresse ci sono sembrati davvero incomprensibili. Neanche la consapevolezza di trovarci in un paese mussulmano ci è sembrata poter giustificare quell’indifferenza. Non è forse vero che altrove coloro che si sono fatti carico di tutelare la storia della Chiesa hanno saputo dimostrare una presenza più concreta? Al contrario, la casa che fu di Giovanni l’Evangelista e Maria la madre di Gesù è molto ben tenuta e curata. Dichiarato luogo di culto e visitato dagli ultimi pontefici cattolici, è tuttavia un centro di pellegrinaggio anche per i mussulmani. Questa vicinanza, oltre a favorire un maggior rispetto per la sacralità del luogo, regala un’esperienza toccante e di profonda comunione, tra culture e tradizioni che, al contrario, in altre parti del pianeta si fronteggiano aspramente. Da questa compresenza in quel luogo di fede si sprigiona spontaneamente un’atmosfera di pace che non può lasciare imperturbato anche il più scettico degli animi. In noi, la vista di devoti tanto diversi nelle loro espressioni che tuttavia insieme si avvicinavano, con un sentimento di timore e preghiera, all’altare posto all’interno della casa, o che si bagnavano silenziosamente alla fonte che ha servito la Madonna, ha alimentato una fiammella di speranza per una reale possibilità di convivenza pacifica. Lo stesso muro nel quale i devoti mussulmani affidano le loro richieste di intercessione a dei fiocchi di tessuto bianco è, ad esempio, estremamente prossimo, sebbene esteriormente differente, alle pareti coperte di ex-voto o di richieste di grazia, alle quali siamo abituati nelle nostre chiese. Lontananza ed unione, forse è questa la sintesi migliore delle sensazioni che l’intero viaggio in Turchia ci ha intimamente trasmesso.
Nelle due serate che abbiamo trascorso a Selcuk, siamo andati a cenare presso la Gaziantep Kebab House. Un modesto ristorante escluso dalle indicazioni delle guide turistiche, eppure ben posizionato in una delle stradine centrali. A differenza dei due o tre indirizzi consigliati, in questo non abbiamo trovato stranieri; forse anche per le evidenti difficoltà ad esprimersi in inglese da parte del cameriere e del proprietario. Eppure, il cibo era di ottimo livello, dai sapori intensi e genuini e spesso preparato all’istante. Affidandoci ai consigli del gestore, abbiamo inoltre potuto assaggiare dell’ottima carne ed alcune loro specialità, tra le quali uno squisito Baklava appena sfornato con del gelato alla crema; nonché la frutta e le verdure più saporite che ci siano capitate! E laddove faticavamo nei dialoghi, i grandi sorrisi e la sincera ospitalità erano comunque in grado di compensare ampiamente la nostra soddisfazione.
DODICESIMA TAPPA: Selcuk – Chios Da Seluck a Izmir siamo riusciti ancora una volta ad evitare di prendere l’autostrada, preferendole la parallela strada statale; meno lineare e più trafficata di umanità. La preoccupazione di perderci dentro la vasta Izmir, seconda per dimensioni solo ad Istanbul, ci ha però spinto ad evitare di attraversarla. Abbiamo così finito per farci comunque risucchiare dalla sua tangenziale e da un ultimo pezzo di autostrada, che ci ha sparati fino a Cesme. Unica forma di tenue resistenza da parte nostra è stata la sosta in un’area di servizio, per pranzare in un ristorante evidentemente ben poco frequentato da stranieri: nel faticoso tentativo di ordinare solo una semplice insalata, senza poter ricorrere ad un idioma condiviso, ci siamo infatti ritrovati in tavola anche un toast e due tè… certo, poteva andarci decisamente peggio! O forse ci siamo solo fatti superare in astuzia? Al porto di Cesme siamo giunti con quattro ore di anticipo rispetto alla partenza del traghetto per Chios; quando per le operazioni di check-in se ne consigliano al massimo due. Un chiosco difronte al mare ed un’ultima birra “Efes” hanno però reso più piacevole e breve l’attesa, rinviando ancora per un po’ l’inevitabile quanto malinconico saluto alla Turchia.
Le operazioni preliminari all’imbarco ci hanno invece riservato qualche ultimo momento di ansia. Terminato il check-in e passato a piedi il controllo passaporti alla frontiera, l’addetto della agenzia di navigazione si è impossessato del mio passaporto e del libretto di circolazione della moto e, dopo avermi dato appuntamento al cafè collocato di fronte alla darsena, è rapidamente sparito, senza aggiungere spiegazioni convincenti… Passati i primi dieci minuti, senza ricever ulteriori notizie, abbiamo realmente temuto che ci avessero sottratto i documenti. In quel momento, l’idea di ritrovarci in un ufficio di polizia turco, a tentare invano di spiegare in inglese quanto accaduto, ci è apparso come un incubo tanto possibile quanto angosciante. A frenare la rabbia e la paura che stavano crescendo in noi è stato solo il fortunato incontro con una coppia di motociclisti di Perugia, che pure attendevano il ritorno dei loro documenti. Come spesso accade, per il retaggio di un impulso ancestrale, la condivisione della paura con i propri simili dona istintivamente un maggior coraggio. Così, quando dopo oltre venti minuti ci hanno riportato i documenti, ci stavamo ancora scambiando serenamente i nostri racconti di viaggio.
La navigazione da Cesme a Chios è durata non più di 45 minuti. Ad accoglierci dopo lo sbarco, tuttavia, c’era un mondo già radicalmente diverso: la Grecia, con la sua familiare confusione.
TREDICESIMA TAPPA: Chios Emporios Bay, dove avevamo l’albergo, è una piccola baia nella parte meridionale di Chios. Per arrivarci, una volta sbarcati, abbiamo dovuto attraversare l’interno dell’isola. Il paesaggio che ci ha accolto era montuoso, con una tipica macchia mediterranea, e le strade, a parte un po’ di brecciolino in qualche punto, erano piacevoli da lasciar scorrere rapidamente sotto le ruote della moto, con le loro sequenze di curve abbastanza delicate. La mancanza di traffico, che inevitabilmente rafforza un po’ la sicurezza nella guida, ha contribuito a rendere quella traversata, e le successive, un momento divertente e rilassante. Per di più, quando la strada si avvicinava alla costa il panorama acquistava un fascino che, in alcuni momenti, ha fatto trattenere il fiato. Al di sotto del crinale si scorgevano delle insenature, spesso raggiungibili solo per mezzo di strade sterrate ma ben tenute, con delle spiagge deserte ed un mare dalle meravigliose sfumature dell’azzurro.
Avendo come punto di partenza Emporios bay, nei giorni successivi ci siamo mossi alla ricerca delle spiagge considerate tra le più belle dell’isola. Piuttosto simili nei loro elementi, anche se ognuna con una sua peculiarità, abbiamo trovato numerose piccole calette con spiagge di ciottoli. Per la gran parte del tempo, queste calette erano del tutto deserte; ed anche quando nel pomeriggio venivamo raggiunti da altri turisti, le distanze reciproche erano sempre tali da lasciare intatta quella sensazione di isolamento ed il conseguente silenzio, interrotto solo dal dolce ritmo delle onde che si infrangevano sui sassi della riva. Una esclusività che ci ha donato una pace ed una intimità con il mare che mai avremmo immaginato di poter ottenere. Pochi giorni in quell’isolamento incontaminato ci hanno così consentito il pieno recupero di tutte le energie spese per il viaggio, ed in un anno di lavoro, ed hanno rafforzato il nostro istintivo e profondo amore per il mare.
L’acqua era ovunque estremamente fredda, per essere i primi giorni di settembre, ma di una trasparenza emozionante. La visibilità era quasi sempre di almeno 20 metri (non essendoci spinti sopra fondali di maggiore profondità è questa la misura massima di cui sono certo) ed il fondo era spesso reso più interessante da qualche franata fra i piccoli banchi di Posidonia o da qualche pesce di medie dimensioni. Ci è addirittura capitato di vedere, aggirarsi fra i massi in dieci metri di profondità, una piccola murena fuori dalla tana. Tutto sommato, per essere un ambiente marino mediterraneo ed a poche decine di metri dalla costa, ci siamo concessi dei contesti quasi da immersione… Non avendo dietro l’attrezzatura e con troppo poco tempo per noleggiarla, senza dover in cambio rinunciare al poco relax rigenerante che ci rimaneva, non credo proprio potessimo chiedere di più! L’entroterra di Chios è anch’esso ancora scarsamente abitato, se si fa eccezione per il capoluogo. Di turisti, complice la fine della stagione, ne abbiamo per di più trovati davvero pochi. Il ritmo della vita, invece, è molto rilassato, forse anche per l’età media piuttosto elevata della popolazione, e segue quelle modalità e abitudini che in Italia ancora si conservano solo nei piccoli paesi antichi della nostra provincia; fatte di una forte socialità vissuta su una sedia nei vicoli tra le case o, per gli uomini, all’osteria nella piazza centrale. I volti ed i corpi che si incrociano, passeggiando per quei vicoli, sono quelli di persone evidentemente provate dalla fatica e dal lavoro di un terreno roccioso e arido. Vivere quei giorni a Chios ci ha fatto fare un viaggio indietro nel tempo e nella cultura di una società non molto lontana da quella dei nostri nonni, alcuni dei quali, per di più, in Grecia hanno anche combattuto. I giovani, per la gran parte emigrati, tornano a Chios solo per il periodo estivo. Ci hanno detto sia questo il motivo per il quale la popolazione preferisce non incentivare il turismo; lasciando che quel luogo rimanga vicino alle aspettative ed ai ricordi di chi ha dovuto abbandonarlo per necessità.
A rendere nota Chios, anche se non ai più, sono due sue peculiarità. La principale è la produzione di “mastica”, per la quale l’isola era famosa già ai tempi della Repubblica Veneziana. Si tratta di una resina commestibile prodotta da una pianta locale che ancora oggi trova numerosi impieghi come elemento base di dolciumi e cosmetici; in passato, probabilmente, gli impieghi di tale resina erano ben più numerosi. Gli oggetti che oggi vengono venduti sull’isola, prodotti dalla mastica, sono davvero i più disparati: dai dentifrici alla caramelle; dalle creme ai liquori… Non siamo, invece, riusciti a comprenderne gli impieghi industriali, che pure ci hanno detto determinare una massiccia esportazione di questo prodotto dall’odore inconfondibile; un odore che mi sono portato dietro per giorni (forse per la scorta di caramelle che avevo fatto).
I saluti sono sempre difficili, ma per la nostra ultima sera Chios ci ha riservato un coloratissimo tramonto sopra la baia di Emporios, con le sue barche ormeggiate, e subito dopo una corsa in moto verso il capoluogo, lungo le sue curve dolci illuminate dalla Luna Piena di settembre. A risvegliarci da quel sogno è stata solo la confusione e la solita disorganizzazione dell’imbarco per il porto del Pireo.
QUATTORDICESIMA TAPPA: Chios – Atene – Patrasso Il viaggio verso Patrasso si è svolto interamente di notte, a bordo di un traghetto dove forse eravamo gli unici stranieri. Stanchi dalla giornata di mare, la traversata ci è passata in fretta. Al nostro risveglio, l’alba ci attendeva ad Atene.
Abbiamo ritrovato Atene esattamente come l’avevamo lasciata, senza troppi rimpianti, qualche anno prima: caotica, piena di traffico, confusionaria ed in alcuni quartieri evidentemente sporca. Avevamo sei ore per arrivare a Patrasso, mentre la strada non ne richiedeva più di tre. Abbiamo pertanto deciso di fare colazione in centro e visitare l’Acropoli. Quando ci eravamo andati per la prima volta, quattro anni prima, avevamo infatti trovato il Partenone parzialmente coperto dalle impalcature metalliche necessarie al restauro; la speranza era di poterlo finalmente vedere nella totalità del suo splendore archeologico. Purtroppo, o forse no, ad Atene dovremo tornare nuovamente, perché il Partenone era ancora parzialmente coperto; esattamente come l’ultima volta.
Uscire da Atene, invece, è stato più complicato e lento di quanto avessimo programmato. Forse anche a causa della giornata pienamente lavorativa, del traffico di mezzi pesanti e delle scarse indicazioni, per uscire da Atene ed immetterci in direzione di Patrasso ci abbiamo messo oltre un’ora.
Lasciata Atene alle spalle, il resto del viaggio, fino al porto di Patrasso, si è invece svolto con semplicità e rapidità, al punto di risultarci quasi noioso.
QUINDICESIMA TAPPA: Patrasso – Roma Il viaggio di rientro sarebbe stato senza motivo di nota, semplice e lineare, caratterizzato da una grigia atmosfera di conclusione, se non fosse per la sosta ad Arcevia. Oramai per noi è quasi un classico dell’estate: una sosta nei pressi delle Grotte di Frasassi per una tradizionale crescia con il ciauscolo ed un bicchiere di Vernaccia. Arcevia in più ci ha regalato uno spettacolare panorama sulla valle del Velino e una splendida strada tortuosa per raggiungerla. Quella sosta in un piccolo gioiello incastonato tra le più belle colline marchigiane ha aggiunto, in extremis. Una tappa meritevole al nostro viaggio.
Il resto è stato l’arrivo a casa. Dopo 4.900 km abbiamo spento la moto, concludendo il viaggio, Pronti ad iniziare immediatamente il prossimo; perlomeno con la fantasia.
LE STRADE Delle strade turche avevo sentito parlare molto male. Sono partito, pertanto, con una comprensibile preoccupazione ed un istintiva tensione che rischiavano di rovinarmi un po’ il viaggio. Già le strade greche non sono propriamente raccomandabili quanto a grip e manutenzione, ma da quelle turche mi ero abituato all’idea di aspettarmi di peggio.
Pur avendo oramai imparato, con l’esperienza, che le percezioni sono sempre fortemente soggettive, eppure ogni volta non posso fare a meno di stupirmi della diversità nelle nostre valutazioni. Con questo non voglio dire che le strade turche non possano essere talvolta pericolose e più frequentemente un po’ troppo viscide, per effetto del calore e della manutenzione economica, ma in effetti per la gran parte del tempo abbiamo percorso strade piuttosto ampie e lisce, analoghe a quelle greche. Rispetto a quelle italiane, la maggior parte delle strade turche ci sono sembrate più ampie e abbastanza piacevoli nell’andamento curvilineo, sebbene il fondo sia spesso meno compatto offra un grip minore. La loro asfalto, rispetto a quella italiana, è infatti composta da sassi di diametro decisamente maggiore che, con il caldo, finisce per far colare il bitume in profondità, lasciando le ruote prevalentemente a contatto con la sola componente sassosa, inevitabilmente di minor attrito. Tuttavia, a questa situazione si fa presto l’abitudine, adattando di conseguenza velocità e modalità di guida. Ciò a cui non si fa l’abitudine sono invece i cantieri, fortunatamente non troppo frequenti, lungo le strade. A differenza di ciò a cui siamo abituati, in caso di lavori le strade, o parte di esse, non vengono chiuse al traffico. Passare in moto, a pieno carico, tra uno schiacciasassi in movimento ed una camion in manovra non è certo entusiasmante; soprattutto se sotto le ruote c’è ancora un instabile e spesso strato di sassi, in attesa di essere compattati e uniti dal bitume liquido. Sotto il vigile controllo della paura e della tensione, in quei casi ci rassegnavamo a ridurre al minimo la velocità, lasciandoci sfilare accanto, fin troppo vicine, le più stabili autovetture; mentre i sensi erano tesi nella speranza di riuscire quantomeno ad anticipare i primi segnali di un eventuale perdita di equilibrio. Per nostra fortuna, si è trattato sempre di tratti di strada piuttosto brevi…