A piedi nudi in Birmania
Mai ordinare patate fritte in Birmania. Unico consiglio davvero importante per chi intende andare in questo angolo d’Oriente e non sforare il budget previsto dalla cassa comune, per il resto nessun problema. “Shoes on the bus”, tutti gli stupa e i luoghi sacri in generale, non solo le costruzioni, ma anche le aree d’accesso, le fughe infinite di scalini, vanno percorsi a piedi nudi, e si va.
Siamo in 17, anzi 16 più 1, come preferito scaramanticamente da MaoPao, che sarebbe Maurizio Pauli, il nostro capogruppo, così ribattezzato dal suo indirizzo di posta elettronica. Dopo il solito volo aereo “modello Avventure”, cioè con scali e numerose ore di sosta in diversi aeroporti – chessennò il viaggio rischia di durare troppo poco – arriviamo a Yangon, capitale della Birmania o Myanmar, come l’ha ribattezzata il regime militare che dura dal 1988.
Buia, nemmeno nella capitale le strade sono illuminate. Sui marciapiedi di una delle traverse che partono dalla Sule pagoda, i banchetti o i semplici rettangoli di stoffa poggiati in terra, su cui si vende frutta, cibo, biglietti della lotteria, sono illuminati da un’incerta candela, di quelle che noi utilizziamo sulle torte e che qui invece rischiarano gli ultimi affari della giornata. Procediamo a tentoni in questo primo approccio con la città con l’aiuto di una pila che ci segnala non solo le buche sul marciapiede e le pozzanghere, ma anche il passaggio frettoloso di un topo.
Facciamo conoscenza con il paese e anche fra noi, annusiamo l’aria carica d’umidità e ci annusiamo a vicenda, cercando di non far troppo caso allo strano mix di sudore e Autan, in fondo passeremo assieme due settimane e anche la convivenza forzata fa parte del viaggio.
A Yangon acquisiamo una balia, tale sarà in fondo Kai, la nostra guida che, con pazienza da orientale, scoverà in ogni dove angoli e pertugi per le pipì di Sara e Cristina, palma d’oro per l’incontinenza nel gruppo, soddisferà qualsiasi curiosità, paziente e disponibile al punto di seguirci anche nel primo dei nostri trekking, non dopo aver acquistato delle apposite calzature, apposite per lei, che a noi sono sembrate ciabattine infradito esattamente come le altre, quelle che noi usiamo in spiaggia e i birmani sempre.
Intanto scopriamo a nostre spese cosa vuol dire “stagione delle piogge”, vuol dire appunto che piove, sempre, incessantemente, a scrosci compatti che allagano le strade e ci tengono per quindici giorni quasi costantemente in umido.
Pioggia e nebbia ci impediscono di apprezzare appieno la Golden rock, appena intravista nella foschia. Un masso ricoperto d’oro in bilico su una montagna, tenuto su, si dice, da un capello di Buddha. Arrampicarci fin lassù ci permette in ogni caso di conoscere la bevanda che scandirà ogni momento della nostre giornate in Birmania, il portentoso coffee mix, di cui presto buona parte del gruppo cade schiavo. Una bustina contenente, con la formula del “tre in uno”, una mistura di caffè, crema e zucchero che, sciolta in acqua, dà un liquido in grado di indurre dipendenza e che reclameremo in ogni luogo della Birmania.
Stomaci accomodanti i nostri, anche capaci e famelici, in molti ristoranti e sala da tè dopo il nostro passaggio avranno l’impressione che sia sciamato un branco di cavallette, tanto siamo pronti a risucchiare qualsiasi cosa apparentemente commestibile. Mai nessuno che dica no. Il cassiere Valerio capisce che tenerci a freno e limitare le spese è battaglia perduta in una sala da tè indiana a Kalaw, dove ci avventiamo su un piatto di dolci confezionati all’epoca in cui l’India era ancora sotto la dominazione inglese, per di più decorati da formiche. Mani prensili si sono contese anche le briciole. Solo ha continuato fino alla fine a pregarci, sempre più flebilmente: le patatine fritte no, costano troppo. Ma anche in questo caso s’era ormai instaurata la dipendenza.
In questi primi giorni si rivelano lentamente anche le predisposizioni di ognuno. A Delia l’unione commercianti birmana avrà dedicato un apposito stupa, vista la mole degli acquisti fatti. Non c’è stato luogo, anche il più sperduto, da cui sia tornata a mani vuote. All’inizio la crediamo anche esperta di lingua birmana, ci traduce la puntata di una telenovela, la trama fatta di una lei sfigurata ma non troppo, di cognate invidiose e di tutti gli altri ammennicoli del caso. Pura fantasia, decidiamo di tenerla alla larga da ogni altra tv che incontriamo.
Rimandiamo una visita più approfondita di Yangon al ritorno e voliamo a Bagan, più conosciuta come Pagan, prima che anche in questo caso il regime decidesse per un ribattezzo.
Unico luogo in cui la pioggia ci abbia risparmiati. Ce ne avevano parlato come uno dei momenti magici del viaggio in Birmania, ed è stato davvero così. Pagode e pagode, più di duemila, d’epoche, forme e materiali diverse ed anche se a qualcuno alla fine è sembrato di non poterne più, lo spettacolo, soprattutto dall’alto e al tramonto è davvero unico. Insomma, a voler dire la verità con il tramonto c’è andata male. Due giorni d’appostamenti sugli stupa più alti, due giorni di nuvoloni. Ma lo spettacolo è ugualmente magico, se si riesce a controllare le vertigini. Lo sguardo è conteso fra lo scintillio degli ultimi raggi di sole sulle acque dell’Ayeyarwady e le guglie ora d’oro, ora bianche, ora del rosso caldo del mattoni, che forano il verde degli alberi e del granturco, visto che l’area archeologica offre sostentamento non solo con il turismo ma anche come luogo di pascolo e terreno agricolo. Ci sarebbero anche i serpenti, che forse vorrebbero trarre sostentamento da noi, ma Kai ci avverte della loro presenza solo in conclusione di una visita notturna, per ammirare il bellissimo Ananda Patho illuminato. Per fortuna non facciamo brutti incontri, solo una civetta dalla sguardo seccato, piazzata al centro del sentiero, ed uno scorpione, quando siamo naturalmente a piedi nudi, ma impavidi facciamo finta di nulla.
C’è anche il villaggio. Il fiume che l’attraversa è straripato, invadendo la strada principale, così per attraversarlo bisogna oltrepassare una sorta di guado, che diventa, secondo i momenti della giornata, piscina comunale in cui i bambini sguazzano appesi ad un vecchio copertone, bagno pubblico, per lavare se stessi e i propri panni, autolavaggio per una ripassata alle poche auto del villaggio. Che a nessuno sia venuto in mente di cercare un rimedio, chessò un canale di scolo, con cui liberare dall’acqua strade, case ed anche un ristorante, ci stupisce non poco. Ma venendo dalle bizzarrie italiane non ce la sentiamo di criticare più di tanto quelle birmane.
Da Bagan a Mandalay, l’ultima capitale del Myanmar prima dell’avvento degli inglesi, che ci accoglie con le strade inondate dall’acqua del monsone. Alcuni villaggi nei dintorni devono essere abbandonati, si intravedono le parti più alte delle abitazioni che emergono da quello che ora appare come un lago. I birmani li hanno lasciati e si sono accampati sui bordi delle strade. Quattro pali e un telone per fare una casa, maiali e mucche legati agli alberi nello spartitraffico fra le corsie, panni stesi ad asciugare per terra, un accampamento che dura fino al ritorno della stagione secca Mandalay è circondata dalle altre antiche capitali, Amarapura, Ava, Sagain, di cui sono rimaste solo tracce.
Ad Amarapura arriviamo precisi alle 11 del mattino, per assistere alla lunga processione con cui i mille monaci del monastero Mahagandayone convergono verso la costruzione principale per la distribuzione del riso, unico loro pasto della giornata. Non siamo gli unici turisti, ce ne sono addirittura un paio che aiutano a dispensare il riso da enormi pentoloni d’alluminio. Spettacolo un po’ impudico, lo scattare delle macchine fotografiche viola l’intimità di un rito che non ci appartiene, che non riusciamo davvero a capire, noi che siamo un “gruppo cavallette” e non possiamo fare a meno dei nostri noodle annaffiati dal coffe mix.
I luoghi più belli sono i monasteri di tek, ne abbiamo visti anche sul lago Inle. Legno finemente intagliato, reso scuro dalle intemperie, un po’ cadente anche, su cui spiccano i colori degli abiti dei monaci, l’arancione dei novizi, il marrone dei più grandi. Nei monasteri, così come negli stupa si può entrare solo a piedi nudi, ma il rispetto per la spiritualità dei luoghi non ci fa ignorare che dentro si venda, souvenir di tutti i tipi che costano tutti “poco, poco”, che vi razzolino animali, che si mangi e cucini. In quello di Sagain c’è anche una scuola, una delle molte che visiteremo, per la gioia di Marco.
Questa è la prima e ci stringe il cuore. Entra poca luce dalle finestre intagliate nel tek, fa caldo, i bambini, una ventina di diverse età, sono seduti per terra e appoggiano su assicelle che fanno da banco chi un quaderno, chi una lavagnetta su cui traccia cerchietti e asticciole. Il monaco che fa da maestro continua a cantilenare la sua preghiera, il nostro arrivo non distrae i bambini dalla loro attività, nessuno ci sorride.
Ma di bambini che sorridono ne abbiamo visto del resto pochi. Neanche in risposta ai nostri tentativi d’approccio, neppure dopo le nostre distribuzioni di caramelle e pupazzetti di calciatori portati per loro dall’Italia.
Di Mandalay città, a parte il monsone che allaga tutto, non vediamo molto, giusto la cerchia di mura che è ciò che rimane dell’antica reggia. Non trascuriamo però il tramonto sulla Mandalay Hill, e questa volta nessun nuvolone ci rovina lo spettacolo. Per arrivarci pensiamo di doverci arrampicare, dopo aver lasciato come al solito le “shoes on the bus”, per le rampe di scalini. Scopriamo inorriditi che per incentivare il turismo, convinti che gli stranieri siano dei debosciati, i birmani hanno fatto costruire una scala mobile che sbuca direttamente nel cortile dello stupa sulla cima della collina, quanto di più pacchiano ci possa essere. Così ci tocca anche l’esperienza delle scale mobili a piedi nudi. Gli occhi a 360 gradi spaziano fra il verde delle risaie che diventa lucente là dove il monsone ha allagato i campi e fatto straripare il fiume e l’oro delle cento pagode di cui i fianchi della collina sono disseminati. Silenzio, a parte il cicaleccio di altri due gruppi di Avventure e di Massimo che non si ferma nemmeno un attimo nel suo corteggiamento di chiunque anche solo gli appaia appartenere al genere femminile.
Da Mandalay si vola a Heho e di lì, sempre sotto la pioggia, alle Pindaya caves, per i pugliesi come me, una sorta di grotte di Castellana disseminate da ottomila statue di Buddha. Anche qui l’avvicinamento non è proprio poetico, un ascensore ha sostituito i gradini della lenta ascensione e, pur occidentali pigri e materialisti, ci sembra sciupi la spiritualità del luogo.
Prossima sosta Kalaw dove, diciamolo pure, non c’è nulla da vedere, ma se avessimo saltato questa tappa non avremmo conosciuto padre Paolo. Fino a lì 16 più 1 partecipanti e 18 valige. Quella in più appartiene a Marilena che, contando sulla generosità di alcuni medici, l’ha riempita di medicinali da portare alla missione cattolica che funziona anche come orfanotrofio.
Ci sentiamo piccoli piccoli nella nostra condizione di turisti mente padre Paolo racconta. Ha raccolto il testimone di padre Angelo, fondatore e anima della missione, sessant’anni in Birmania, morto da anni. Ci sembra troppo fragile e vecchio per governare una quarantina di bambini e fare da guida alla comunità cristiana sparsa nei villaggi sulle montagne circostanti. Anche per combattere con il regime, che ha requisito al scuola fatta costruire dai missionari e ne tollera appena la presenza, censurando la posta e bloccando gli aiuti, che sono ora fondamentalmente quelli portati dai viaggiatori che capitano lì. Lasciamo medicine, sperando che non siano requisite dai medici dell’ospedale governativo, consolandoci al pensiero che comunque qualcuno cureranno, i peluche portati da Sandra per i bambini e il nostro denaro, ma non serve a tacitare le coscienze.
Un altro momento così lo vivremo a Kyaiang Tong, villaggio nello stato dello Shan, provincia che rivendica maggiore autonomia dal governo centrale. Capitiamo abbastanza casualmente nella missione cattolica e conosciamo suor Lucia. L’orfanotrofio, circa 150 bambini, molti handicappati, sopravvive grazie all’occasionale aiuto di alcuni benefattori e al denaro di adozioni a distanza fatte in Italia. Eppure sorride e dice che non ha paura, di contare sull’aiuto del Signore e per una volta, una volta nella vita, queste parole sembrano avere un senso. Fa chiamare Charlie e ce racconta la storia. Il bambino, uno dei pochi che abbiamo visto sorridere senza timore, ha due anni, è cinese, sua madre è morta di parto e il padre, non potendo accudirlo e mantenerlo, lo ha affidato a qualcuno perché lo uccidesse, questi, impietosito, lo ha portato all’orfanotrofio. Una storia così finora credevamo fosse solo quella di Biancaneve ed invece. Ci fa visitare la struttura. Anche qui ripeschiamo le immagini di certa letteratura ottocentesca, i lettini fatti di tavole e sacconi pieni di foglie di granturco allineati lungo le pareti, coperti dalle zanzariere, siamo in una zona malarica. E’ tardo pomeriggio, c’è poca luce, ma i più piccoli fanno ancora i compiti. Lasciamo del denaro, ma abbiamo ricevuto in cambio qualcosa di più, nonostante Pino, perso momentaneamente il suo buonumore e la sua eterna chiacchiera, dica: “mi sento una merda”.
Anche del lago Inle avevamo letto come di una meraviglia della Birmania, a ragione. Ci passiamo un giorno intero e ci sembra poco. Ne solchiamo le acque a bordo di lance, costeggiamo le strane isolette formate da terra e giacinti d’acqua su cui sono coltivati pomodori ed altre verdure, occhieggiamo nelle palafitte su cui vivono gli abitanti, visitiamo stupa e monasteri, anche quello in cui assistiamo, fra il deluso e l’arrabbiato, allo spettacolo dei gatti che saltano nel cerchio. Con le pance piene per l’ennesimo piatto di patatine fritte strappato al dissenso del cassiere Valerio, pensiamo: “che s’ha da fa per campà”. La decadenza del monastero non ci fa nutrire dubbi sul fatto che questi monaci abbiano solo trovato un originale modo per sbarcare il lunario.
In Birmania la povertà, la lotta quotidiana per la sopravvivenza si tocca con mano, anche se è vissuta con dignità. Il turismo offre qualche possibilità e tutte le masturbazioni cerebrali sui danni che può portare cadono davanti alla pazienza con cui i venditori di paccottiglia varia stazionano fino a tarda sera alla luce tremula delle loro candele nella speranza di vendere qualcosa – per fortuna che c’è Delia ad alzare le entrate – o davanti all’ansia con cui una ragazzina in una lancia aggrappata alla mia mi propone lo scambio fra una scatola di paglia e una maglietta: Vorrei darle quella che ho indosso e ancora mi pento che il pudore mi abbia impedito di farlo. Mi chiede almeno un rossetto, posso darle solo il mio burrocacao, che pure so inutile a soddisfare al sua innocente vanità Ci ubriachiamo di vento, di pioggia e di sole che ogni tanto sbuca e lascia il segno, soprattutto sulla pelle di Augusto, ormai a chiazze. Piante dei piedi marroncine a forza di camminare scalzo, caviglie bianche per quando ha portato i calzini, ginocchia e cosce a righe di rosso diverso a seconda della lunghezza dei pantaloncini e delle porzioni di pelle che ha esposto nelle diverse giornate. Stessa cosa per il collo e i bicipiti. Offriamo cifre consistenti per vederlo nudo ed apprezzare nell’insieme le sfumature, ma ritroso si rifiuta, dice che Barbara, via di mezzo fra fidanzata e bambola gonfiabile, non vorrebbe.
Abbandonato il lago Inle voliamo verso lo Shan. In linea d’aria saranno meno di duecento chilometri, al primo atterraggio ci disponiamo a scendere per scoprire inorriditi che ci sono altre tre “fermate” prima di Kyaing Tong. Siamo su di un raro esempio di autobus dell’aria, in tutto quattro atterraggi e decolli prima di arrivare a destinazione, con grande gioia di orecchi e stomaci.
Siamo nel “triangolo d’oro”, luogo di coltivazione dell’oppio. La nostra unica dipendenza acclarata è quella dal coffe mix e ci andiamo solo perché, stufi di stupa, gli sportivi del gruppo vogliono far trekking sulle colline circostanti, costellate di villaggi Akka, Palaung e Ann. Pare loro trascurabile che, come ci dice la guida con una sfumatura di derisione, solo spagnoli e italiani scelgano la stagione delle piogge. Capiremo nei due giorni successivi che non si trattava solo di una sfumatura, ma di un intero stupa di derisione.
Ci arrampichiamo per le colline e si scatena il diluvio, secchiate d’acqua ci si rovesciano addosso eppure andiamo impavidi mentre ci infracidiamo e i sentieri si trasformano in cascatelle, fino a quando troviamo rifugio in una chiesa. Siamo tutti battezzati e ci chiediamo se non sia un po’ sacrilego appendere le mantelle grondanti ai lati dell’altare, assi di legno ornate con stagnola colorata blu e rossa, mentre Augusto si cambia la prima delle sue magliette bagnate e si chiede se basteranno le tre che ha portato con sé per concludere la giornata più o meno all’asciutto. Piove e noi andiamo imperterriti, estraendo a fatica gli scarponi dal fango, guadando torrenti o passando su tronchi che fanno da ponte, badando a non scivolare. Il primo che cade paga il rum per tutti e l’onore spetta a Claudia, su cui Pino ha scommesso, sicuro di vincere.
Marciamo e per uno strano slittamento del tempo, sconfiniamo nel Medioevo o addirittura nella preistoria. I villaggi Akka, Palaung e ancor più quello Ann, con i loro denti neri, ci sconvolgono. Vorremmo dirci che si tratta di messa in scena per turisti, che le donne Akka indossano i loro copricapo ornati di monete d’argento solo a nostro beneficio e la stessa cosa per i costumi neri delle Ann, ma le capanne nelle quali irrompiamo senza troppi complimenti alla ricerca di riparo non sono fatte a Disneyland.
Palafitte sospese sul fango, tetti di paglia, nessuna suppellettile, non letti, non sedie, non mobili, solo un fuoco al centro del locale per cuocere il cibo. Maiali e polli che razzolano dappertutto. Archi ornati da strane figure che ci è proibito di toccare, servono a tenere lontani gli spiriti cattivi. A guardarsi intorno non pare funzionino abbastanza. Sono reali le pance gonfie dei bambini, quelli appena più grandi portano legati con una sciarpa sulle loro spalle i più piccoli, nessuno piange e nessuno sorride, neanche quando distribuiamo i nostri piccoli doni. Sono vivi, comunque, ad altri è andata meno bene, per la maggior parte queste tribù sono animiste, uccidono i neonati con difetti fisici e addirittura i gemelli, convinti che siano segno della presenza di spiriti maligni. Per allontanarli i bambini debbono morire, in modo atroce, straziati dal fuoco di sigari che gli sono spenti addosso. La famiglia è scacciata dal villaggio e costretta ad un periodo di esilio nella foresta prima di essere riammessa nella comunità. Almeno così ci racconta la guida e ce ne andiamo con la speranza che ci abbia preso per turisti babbioni, mai come in questa occasione saremmo contenti che ci raggirasse.
La natura è bellissima, soprattutto là dove il verde più chiaro delle risaie a terrazza si alterna al verde più scuro degli alberi, ogni tanto scintilla anche l’oro di uno stupa, colori che galleggiano nel silenzio e che consolano appena.
Altre scuole, sembriamo una comitiva di ispettori. Molti bambini, anche di età diversa per classe, libri rudimentali, nessun altro supporto didattico. Aver portato almeno un atlante o un mappamondo! Lasciamo i quaderni portati dall’Italia, quelli acquistati lì, anche del denaro, ci rilasciano la ricevuta e propongono addirittura di mettere il nostro nome su di un banco. Ci culliamo per un momento all’idea di lasciare una traccia, tipo una scritta: “Tuttoburma, gruppo MaoPao”. Fuggiamo via, dopo aver ascoltato i canti di ringraziamento dei bambini e ricambiato con un “Fra Martino campanaro”.
E, non si sa come, i quindici giorni si sono quasi consumati. Si ritorna a Yangon, giusto il tempo per una mattina di spese folli al mercato, dove si gareggia nel tentativo di superare in acquisti l’imbattibile Delia, e di visitare, of corse sotto la pioggia, sguazzando e scivolando sul marmo, la Shwedagon pagoda. Per cui litighiamo, che ad alcuni pare il clou della pacchianeria ed altri apprezzano.
Mentre discutiamo e confrontiamo acquisti è già ora di tornare. Troppo presto, troppo in anticipo per il tempo che vorremmo trascorrere in questa Birmania misteriosa di cui ci sembra di aver solo sfiorato l’anima. Magari torneremo, ma non con gli spagnoli, nella stagione delle piogge.