Vietnam, il confine tra la terra e l’acqua
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La reazione del ragazzo alla mia risposta non è entusiasta, e mi pento delle mie parole. Ho già scoperto che i vietnamiti non amano parlare della “guerra americana”, forse avrei fatto meglio a dare una spiegazione più diplomatica. Eppure, con ogni probabilità è davvero questo il motivo che mi ha portato quaggiù dopo un volo di quasi dodici ore da Milano Malpensa a Hồchíminh via Parigi: per questa volta, un viaggio senza Avventure nel Mondo, solo Mariella e io.
Thành phố Hồ Chí Minh (“Città Hồchíminh”) è oggi la più grande città del paese con i suoi cinque milioni e mezzo di abitanti ufficiali, più centinaia di migliaia di sconosciuti all’anagrafe. L’impetuoso sviluppo economico a partire dagli anni Novanta ha portato all’inurbamento di milioni di persone, anche perché le opportunità e gli stipendi in questa metropoli del sud sono di parecchio superiori alla media. La capitale del Việtnam, Hànội, dista da qui quanto Berlino dista da Palermo: per questa ragione Tp.Hồchíminh è un mondo a parte, con i suoi ritmi di vita, la sua passione per gli affari, la sua vocazione internazionale, la sua avversione strisciante per il Nord.
Tp.Hồchíminh
“Città Hồchíminh” è il nome imposto a Sàigòn alla fine della guerra americana e la riunificazione delle due repubbliche artificiosamente separate negli anni Cinquanta; ma gli abitanti usano ancora il vecchio nome, e qualche volta “Sàigòn” compare persino sui documenti ufficiali destinati agli stranieri. La città è cresciuta così tanto da inglobare l’aeroporto all’interno dell’aerea metropolitana. Mi aspettavo il consueto traffico congestionato delle metropoli asiatiche: la guida anarchica, l’ingolfamento, i tubi di scappamento implacabili, il sottofondo persistente del clacson. Invece l’autista inviato da Madam Cùc, proprietaria dell’albergo prenotato dall’Italia via Internet, si limita a chiedere pacatamente la strada con i fari contro la schiena dei ciclomotori, fitti come un banco di moscerini. Migliaia di coppiette avvinghiate strette sui sellini ci circondano nella calda aria stagnante della sera: sembra che tutti i ragazzini della città si siano dati appuntamento per lo “struscio” in questa serata prefestiva. A quest’ora a giugno, in Italia settentrionale la luce diurna rimane anche oltre le 21, ma ci troviamo molto più vicino all’equatore, qui alle 18 è già buio completo. Assecondando il traffico denso ma ordinato, percorriamo viali urbani che seguono la curva di un corso d’acqua, poi di un canale; attraversiamo quartieri dove il traffico è quasi completamente costituito da taxi e ciclomotori. La precedenza agli incroci è lasciata al caso, chi arriva per primo passa, chi proviene dalle altre direzioni scarta all’ultimo momento. Il nostro autista si rivelerà un’eccezione: ma rimaniamo favorevolmente sorpresi dalla sua imperturbabilità al volante, e dal fatto che al contrario degli altri guidatori non ricorra una volta sola al clacson.
L’accoglienza all’Hotel 127, uno dei tre alberghi di Madam Cùc, è davvero calorosa. La ragazza alla reception ci offre un rinfresco, e per la prima volta nella nostra vita assaggiamo lo squisito caffè vietnamita, del quale ignoravamo l’esistenza. Una tazzina di acciaio con coperchio è posata sull’orlo di un semplice bicchiere di vetro, sul fondo del quale è già versato un denso strato di dolce latte condensato. In realtà la tazzina di metallo è un filtro: la miscela macinata viene pressata sul fondo bucherellato, poi si versa acqua bollente e il caffè stilla nel bicchiere goccia dopo goccia, uno strato nero sul bianco del latte. Il sapore è straordinario, sembra persino possedere un retrogusto di cocco. Non passerà giorno senza che beviamo più di un caffè vietnamita; saremo molto dispiaciuti nello scoprire che nelle città del nord il caffè in tazza ha sostituito questa piccola cerimonia, per assecondare i gusti dei turisti barbari.
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Un effetto quasi scontato durante i miei viaggi intercontinentali è la delusione della prima notte. Le distanze aeree sono enormi, di solito il volo atterra la sera o il tardo pomeriggio, così si ha tempo di un primo giro in città quando è già buio: ciò significa spesso passeggiare per strade sudice e semideserte, illuminate da una fievole luce elettrica oppure oscurate da puntuali black-out. La prima impressione di Tp.Hồchíminh invece è subito positiva. In confronto a altre metropoli asiatiche, americane o africane le strade sono relativamente pulite, ancora affollate da una enorme umanità che si affanna per concludere la giornata: una quantità di persone in cerca di sollievo al caldo, fiumi di ciclomotori, centinaia di bancarelle sui marciapiedi che forniscono una ristorazione spiccia e assurdamente economica a base di phở, la zuppa di tagliolini in brodo di carne e verdure punto di partenza dell’alimentazione vietnamita.
Contrariamente alle attese non vedo poliziotti né altre divise in genere. Invece di cercare un ristorante decidiamo di cenare da Madam Cùc. Rientriamo all’Hotel 127 e chiediamo il prezzo, ci rispondono che la cena incredibilmente è gratis: una serie di piccoli involtini primavera e un enorme, saporito phở, che gustiamo con birra Tiger gelata e ventilatori a tutta velocità nella schiena.
Fino quasi a mezzanotte, un altoparlante molto vicino alla finestra della camera da letto ripete un annuncio incomprensibile, che termina con un elenco di nomi vietnamiti. Non riesco a capire di cosa si tratti, immagino qualche attività di partito. Il giorno seguente, scesi in strada, ci accorgiamo invece che vicino all’hotel sorge un teatro, e che il proclama notturno è il programma dello spettacolo seguito dall’elenco di attori e personaggi.
Domenica mattina facciamo conoscenza con la città. Ci immergiamo nel mercato coperto di Bến Thành, che durante il periodo coloniale era noto come Les Halles centrales, un’enorme struttura a due piani di cemento armato (la cupola centrale è alta 28 metri) costruita nel 1914 intorno a cortili quadrati, dove sembra possibile trovare praticamente tutto. La consueta esperienza di colori, aromi e suoni ti investe appena metti piede sotto l’ombra del monumentale ingesso principale, che grazie alla quantità di fotografie è diventato uno dei simboli di Tp.Hồchíminh. Nel cortile centrale, fra le gallerie di bancarelle, qualche cliente prega davanti a un piccolo altare con bastoncini di incenso e offerte di riso e frutta.
Dal mercato Bến Thành si arriva con una breve passeggiata al centro amministrativo di Tp.Hồchíminh, nella città francese: viali dritti e trafficati con caseggiati in ottimo stato di conservazione. Il più bello degli edifici pubblici è il seducente palazzo del Comitato del popolo, ex Hôtel de Ville, che risale ai primi del Novecento; bianco e elegante, con una galleria a porticato che corre tutto intorno al piano terra, è l’edificio più comune sui dépliant pubblicitari del Việtnam.
Vie leggermente in salita, fiancheggiate da baniani centenari, portano al palazzo della Riunificazione, che durante la guerra americana era la residenza presidenziale del Việtnam del sud, la repubblica fantoccio sostenuta dagli Stati uniti per evitare che le due metà del paese si riunissero sotto un governo comunista. Un vasto giardino circonda gli edifici, appena al di là della strada sorge un enorme complesso sportivo con campi da tennis, piscine, prati e palestre.
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Pare che non si possa dire di conoscere Tp.Hồchíminh senza averla vista dallo scomodo sedile di un cyclo. Da questa posizione, più in basso del sellino di una bicicletta, ti senti davvero immerso nel traffico che ti sfreccia intorno, a destra e a sinistra, un moto che diventa quasi straordinario negli incroci per la precisione stocastica delle traiettorie. Il guidatore del cyclo pedala lentamente lungo il tracciato rettilineo degli interminabili viali, sorpassato in continuazione da ciclomotori e taxi; supera gli antichi alberi soffocati dall’ossido di carbonio, i venditori di compact disc pornografici seduti all’ombra, le cancellate degli edifici pubblici, le facciate dei palazzi aristocratici restaurati e curati. Occorre quasi un’ora di cyclo dal palazzo della Riunificazione alla periferia occidentale dell’immensa città cresciuta a dismisura. La nostra meta è la pagoda di Giác Lâm, la più antica di Tp.Hồchíminh. Un Buddha di pietra dell’altezza di alcuni metri decorato di giallo e azzurro accoglie pellegrini e visitatori; alla sua sinistra le tombe dei monaci più venerabili, ornate con croci gammate e colori vivaci. L’interno della pagoda è il regno dell’ombra e del silenzio, odore di lacca e polvere, fumo di incenso e deboli riflessi di luce nei vetri delle teche, sui candelabri, sulle foto degli antenati in giacca a cravatta appese alle pareti. Le calzature devono essere abbandonate al confine tra le ruvide mattonelle rosse e quelle bianche e nere, più ricercate. Ci sono donne inginocchiate sui tappeti davanti all’altare principale, stracolmo di quella abbondanza asiatica che disdegna l’ordine razionale e la simmetria. Statue dorate di dimensioni diverse, bandiere, steli di incenso, frutta e piattini si mischiano ai piedi di Adiđà e di Tich Ka, il Buddha del passato e il Buddha storico (Siddharta). Sulle pareti scure tutto intorno, i Bodhisattva tengono in mano rotoli di preghiera; i postulanti appendono biglietti con i nomi dei malati da guarire. Nelle sale fresche e buie affacciate sul riflesso luminoso dei cortili, lunghe tavole di legno imbandite con piatti e ciotole testimoniano un sentimento religioso molto differente da quello occidentale. Nel cortile sul retro monaci e religiose osservano con curiosità e benevolenza.
Molto diverse sono le pagode della numerosa comunità cinese del quartiere di Chợlớn, dove finalmente i guidatori di cyclo accettano di portarci dopo molte insistenze. Tradizionalmente, la minoranza cinese è sempre stata molto attiva e economicamente determinante, in modo speciale nel Việtnam meridionale, fino agli anni Settanta. A partire dal 1978, a causa della rapida guerra contro la Cina e per timore di persecuzioni, migliaia di cinesi espatriarono clandestinamente su imbarcazioni di ogni tipo, facile preda dei pirati del mare; a distanza di decine di anni, oggi i cinesi che hanno fatto fortuna all’estero (Australia, Canada, Stati Uniti) fanno ritorno ai luoghi di insediamento tradizionale per acquistare immobili e avviare attività commerciali.
Nel quartiere di Chợlớn, la pagoda di Thiên Hậu, popolare dea di Hong Kong e Taiwan, è una festa della lacca e del rosso. Bastoncini carminio fumano nella sabbia di bracieri enormi; lunghe spirali coniche di incenso scarlatto appese al soffitto portano il cartellino con il nome del postulante; un modellino di nave in legno ricorda che Thiên Hậu è in grado di sorvolare gli oceani a bordo di un tappeto per salvare i naviganti in pericolo. La pagoda di Phước An Hội Quán è riccamente ornata con statuette di porcellana e intarsi di legno. Sul tetto ci sono decorazioni di ceramica con numerose figure umane e animali; all’interno, nella luce naturale che piove dai tetti, bracieri di pietra e ottone, incensi, statue buddiste e taoiste immerse in una fresca tranquillità che rigenera.
Delta del Mekong
Dopo due notti a Tp.Hồchíminh, acquistiamo per 16 euro a testa un’escursione di due giorni nel delta del Mekong. Il fiume Mekong, in vietnamita sông Cửu Long, nasce dall’Himalaya 4500 km più a monte; bagna Cina, Myanmar, Laos e Thailandia prima di arrivare in Cambogia, dove si frammenta in un vastissimo delta ramificato fino all’Oceano. La portata delle acque è tale che ogni anno 79 metri di sedimenti allungano il corso del Mekong nelle acque del mare. Le fertili terre chiuse tra i rami del Mekong sono il serbatoio di riso del paese: con i suoi due-tre raccolti l’anno, il Delta assicura una produzione superiore all’intero fabbisogno alimentare del paese, tanto che il Việtnam è diventato il secondo esportatore mondiale di riso dopo la Thailandia.
Nel Delta davvero ci si rende conto di quanto acqua e terra in Việtnam siano inseparabili; anche senza considerare la lunghissima linea costiera orientale — 3451 km di litorale affacciato sul Pacifico — dappertutto in Việtnam c’è acqua, come se non esistesse un confine definito tra il solido e il liquido: fiumi immensi, con una portata colossale, lo attraversano in diagonale dai rilievi occidentali fino alla costa orientale; le province meridionali e la regione di Hànội a nord sono tagliate da due ragnatele d’acqua, i delta del Mekong e del Fiume Rosso. Come se non bastasse, l’interna superficie coltivata è ricoperta più volte l’anno da un velo d’acqua, quando le risaie sono inondate nella prima fase di crescita della piantina di riso; e poi ancora, acqua dei laghi di montagna e delle lagune costiere, laghetti nell’area urbana di Hànội, piogge quasi quotidiane in alcuni mesi, e le nebbie sulla baia di Hạlong e nelle valli di montagna, l’acqua calcarea che stilla nelle innumerevoli grotte, le lacrime per i morti di oltre trenta anni di guerre.
Anche il Delta si visita dall’acqua. Dopo un rapido viaggio in corriera verso sud da Tp.Hồchíminh, ci imbarchiamo a Vĩnh Long su una piccola lancia a motore; siamo un gruppo di otto turisti di nazionalità diverse insieme a una guida della Delta Adventures, un giovane di nome Thình Thình. A Vĩnh Long lasciamo la strada dove la cattedrale cattolica si riflette sulle acque del canale, e prendiamo la via più naturale per viaggiare nel Delta: il Mekong.
Le due rive sono densamente popolate da un’umanità che vive il fiume come uno spazio in comune. Le baracche di legno o muratura sono costruite sul filo della riva, spesso anticipando la costruzione delle fondamenta con la piantumazione di un albero in modo che le radici compattino la banchina. Ogni casa ha un molo, una rimessa per un’imbarcazione, una stanza palafitta in modo da rifornirsi di acqua dolce con un secchio e una botola. Barconi a motore percorrono il fiume in entrambe le direzioni, con due occhi bianchi pitturati sulla prua rosso fuoco per spaventare i mostri fluviali. Chiatte stracolme di ghiaia fluitano a pelo d’acqua, ragazzini si tuffano da un molo di legno nell’acqua scura e profonda. Un vecchio fa le abluzioni immergendosi a riva, alcune donne che pescano con ceste di vimini emergono per salutarci con la mano. Sbarchiamo per pranzare in un piccolo complesso turistico che mette a disposizione mountain bike malandate. Pedaliamo lungo la strada asfaltata che corre parallela al fiume, scavalcando i numerosi canali con ponti a arco. Fa caldo, veramente caldo; Mariella torna al ristorante, io pedalo ancora per pochi chilometri attraverso i frutteti e i canali naturali, poi dobbiamo ripartire in barca con il gruppo.
Il cielo è grigio cupo, le nuvole si addensano. Ci fermiamo a visitare una manifattura di spaghetti a conduzione familiare: il riso viene fatto bollire in pentoloni sotto un capannone di legno, ridotto in pappa, omogeneizzato; raggiunta la giusta densità, viene spalmato con un mestolo su una piastra rovente, tipo quelle che si utilizzano per le crêpes. La sfoglia viene sollevata a mano con l’ausilio di un cilindro di bambù, adagiata su una stuoia rigida e asciugata all’aria aperta prima di essere ridotta in striscioline. All’improvviso la famiglia si allarma, tutti corrono all’aperto per trasportare le sfoglie rotonde sotto una tettoia: comincia a piovere. Anche noi fuggiamo sulla barca; lunghe protezioni intrecciate calano ai due lati dell’abitacolo, raggiungiamo sotto la pioggia battente un mulino per la pulatura del riso. Per me e Mariella l’odore di amido di riso è troppo consueto, ci ritiriamo nel piccolo caffè a conduzione familiare costruito a picco sulla riva. Ecco di nuovo l’armamentario di tazzine d’acciaio, l’acqua bollente, il caffè che gocciola lentamente sul latte condensato, il vetro appannato del bicchiere.
Le imbarcazioni navigano il fiume anche sotto la pioggia a rovesci. Appena l’intensità diminuisce, riprendiamo anche noi la via d’acqua e raggiungiamo Cầnthơ, la maggiore città del Delta con i suoi 330 mila abitanti. Poco prima dell’attracco al porto fluviale, il Mekong è tanto largo da faticare a vedere entrambe le rive. Thình Thình dice che i giapponesi stanno costruendo un ponte come saldo di debiti di guerra che risalgono all’occupazione del ’40-’45.
Cầnthơ è una simpatica città con un centro troppo piccolo, allungato in riva al fiume. Una gigantesca statua di Hồ Chí Minh di un improbabile color argento saluta i passanti con un braccio sfilato dalla manica della giacca. I lunghi giardini sono ordinati e curati, la sera c’è un’atmosfera rilassata e vacanziera. Sediamo su una panchina in riva al Mekong per guardare la passeggiata dei ragazzini che affollano il lungofiume. Un signore anziano in maniche di camicia, con capelli bianchi e un inglese fortemente accentato attacca discretamente bottone dalla panchina accanto: racconta di essere un ex capitano dell’esercito del Sud, ha scontato un anno e mezzo in campo di rieducazione negli anni Settanta. Con il suo inglese preciso, probabilmente imparato negli anni della maturità, critica a voce alta i comunisti al governo e la corruzione; secondo lui i giovani avrebbero voglia di cambiare, ma al potere sono gli anziani conservatori.
Il giorno seguente sveglia di buon’ora, il momento migliore per vedere i mercati galleggianti del Delta è il mattino presto. Ripartiamo con la nostra imbarcazione, seguiamo un canale fino al mercato di Cáirăng, in leggero ritardo rispetto all’ora di punta: come nei nostri mercati generali, l’attività ha inizio alle cinque del mattino. Con il motore al minimo ci addentriamo nell’arcipelago di barche di diverse dimensioni, fra gli acquirenti e i venditori. Campioni di frutta e verdura in vendita sono issati su alti pali dal ponte dei barconi, così che i compratori sappiano dove rivolgersi. Le contrattazioni e le transazioni avvengono così, sull’acqua, dove è più facile trasportare i prodotti dai ricchi frutteti delle isole fluviali. Su una barca accanto alla nostra, una signora sbuccia un ananas e lo libera dai semi con un taglio a elica intorno alla polpa. I pescatori ci guardano passare, forse non completamente abituati ai turisti. Bambini di pochi anni salutano con la manina dalla poppa di altre barche. Le nuvole sopra il Delta hanno una forma spettacolare che promette nuovi rovesci.
Facciamo ritorno a Cầnthơ, dove visitiamo la pagoda della congregazione cantonese, ricostruita di recente con le offerte dei cinesi espatriati oltre oceano. Pranziamo in un locale vicino, dove mi lascio tentare da un piatto di carne di serpente già notato la sera prima in altro ristorante: un gustoso misto di verdure saltate con sottili strisce di carne senza nessun sapore caratteristico. Qualcuno del nostro gruppo, dopo un brivido, chiede di assaggiare e allunga i bastoncini nel mio piatto. Il nostro tavolo è su una terrazza affacciata sopra la statua di Hồ Chí Minh che benedice il suo popolo.
Dopo pranzo si torna a Vĩnh Long in barca, attraverso altri canali che tagliano l’intricata geografia di acque e risaie del Delta trasformandolo in un mosaico liquido. Torniamo in automezzo a Tp.Hồchíminh.
Nhatrang
Abbiamo deciso di continuare verso nord con il famoso Espresso della Riunificazione, il treno che parte sei volte al giorno da Tp.Hồchíminh e raggiunge Hànội dopo un viaggio che dura da un minimo di 30 a un massimo di 41 ore. Le Đường sắt Việt Nam, le ferrovie statali, hanno di recente sperimentato con successo un percorso completo in 24 ore. Il treno S2 parte alle 23 circa da Tp.Hồchíminh e arriva a Nhatrang (la nostra prossima tappa) alle 5 del mattino. Vorremmo due posti in cuccetta, ma bisogna prenotare i biglietti con un certo anticipo: quando ci muoviamo noi, due giorni prima della partenza, sono rimasti solo posti di sedile morbido in carrozza con aria condizionata.
Nella nostra carrozza siamo solo sei occidentali: noi due e quattro giovani donne probabilmente irlandesi. Il viaggio è tutto sommato abbastanza comodo, i sedili reclinabili, e anche se i vicini dietro chiacchierano fino a notte inoltrata riusciamo a dormire senza troppa fatica. La luce ci sveglia all’alba attraverso i finestrini. Stiamo attraversando un paesaggio piuttosto diverso dal Delta: risaie asciutte, saline, un terreno collinare di colore rossiccio, vegetazione verde cupo e rocce nude. Poco prima dell’arrivo (con 45 minuti di ritardo) i due schermi a cristalli liquidi posizionati a metà carrozza trasmettono un filmato in vietnamita sulla vita di Hồ Chí Minh, con immagini d’epoca e vedettes nazionali che si impegnano in canzoni elegiache.
Alle sei dei mattino Nhatrang è già in piena attività. L’hotel Phuquy, prenotato per telefono da Madame Cùc, invia un taxi alla stazione ferroviaria: c’è una camera già preparata a nostra disposizione senza supplemento. L’aria in città è luminosa, pulita, dal mare soffia una brezza deliziosa dopo l’atmosfera immobile del sud. Nhatrang possiede le più belle spiagge del Việtnam, un lungo arco di sabbia che congiunge due promontori rocciosi a nord e a sud, con isole che chiudono l’orizzonte della baia. Dopo qualche ora di riposo in camera, raggiungiamo a piedi la spiaggia quasi deserta, a un paio di isolati di distanza dall’hotel. Il cielo è rappreso in grosse nuvole che sembrano provenire dall’interno. Una cintura di giardini curati separa la strada dalla spiaggia vasta e bellissima. Qualche famiglia isolata passeggia sulla battigia, i bagnanti nuotano vicino riva. I pochi ombrelloni degli stabilimenti balneari proteggono scarsi villeggianti da un sole che non c’è, in cielo volteggiano aquiloni e deltaplani. Raggiungiamo a piedi La Louisiane, un delizioso caffè sulla linea di confine tra i giardini e la spiaggia consigliato da Lonely Planet. Ci sono ombrelloni di foglia di palma, lettini con materasso, un ristorante con pochi tavoli, un caffè e una pasticceria con le pareti azzurre costruiti intorno a una piscina che i clienti possono utilizzare gratuitamente. Dopo un piatto di spaghetti di riso e un birra fredda, qualche goccia di pioggia ci spinge sotto la tettoia del café: siamo costretti dall’inattività a provare le deliziose tortine della pasticceria (cocco e mango con cioccolata). L’atmosfera è informale e rilassante, quasi decadente a causa della bassa stagione. Il sistema di amplificazione audio suona per tutto il tempo musica inglese e americana degli anni Sessanta e Settanta, mi rimane ficcata in mente per giorni e giorni, almeno fino alla fine del viaggio, “Donna Donna” cantata da una voce che non conosco: io possiedo registrazioni di Joan Baez e di Donovan. “Donna Donna” si identifica ancora per me con La Louisiane, il vento fresco tra i tavolini, le colonne di legno azzurro, l’ombra sotto le foglie intrecciate, il profumo amaro del caffè.
I due giorni passati a Nhatrang sono un intermezzo di riposo; la prima sera ceniamo nel ristorante migliore dell’intervo viaggio, il Dừa Xanh, che fatichiamo a trovare perché si è trasferito di qualche isolato verso nord. Gli ingredienti vincenti di questo locale (il cui nome significa “pappagallo verde”) sono un eccellente menu a base di pesce, un giardinetto protetto da separé di stuoie e investito dai ventilatori, un simpatico proprietario che parla inglese e francese, e ha una certa padronanza di spagnolo e italiano.
Il mattino seguente Mariella rimane spiaggiata su un lettino a La Louisiane, io affitto una bicicletta in hotel e pedalo oltre il centro città e il ponte sul fiume Cái per raggiungere il sito archeologico di Ponagar. Le torri Cham sorgono su una collina in riva al fiume, immerse nell’ombra dei flamboyant, in posizione panoramica per ammirare il porto e il gigantesco Buddha seduto sulla collina di Longsơn.
Le cinque torri in pietra e mattoni di Ponagar risalgono ai secoli VII-XII: furono erette in onore della dea venerata nel regno Cham meridionale. L’entrata del complesso monumentale avveniva attraverso un mandapa o sala di meditazione, di cui rimangono solo le basi delle dieci colonne per un’altezza di poco più di un metro ciascuna. Le torri di mattoni, conservate molto bene, sono ancora luogo di culto: alla camera interna si accede attraverso una bassa entrata senza porta. Mi affaccio nella torre nord, la più grande; l’interno reca ancora tracce dell’origine hindu (i champa non erano buddisti), l’aria è talmente satura dal fumo di incenso che non è possibile distinguere la volta annerita. L’atmosfera è accattivante, a parte il caldo insopportabile.
Riattraverso in bicicletta il ponte sul Cái per tornare verso il centro città, e raggiungo la splendida pagoda di Longsơn. Subito mi si incolla addosso una giovane ospite dell’annesso monastero, che cerca di vendermi a un prezzo esorbitante una collezione di cartoline. I tetti della pagoda e le colonne dell’entrata principale sono decorati con minacciosi draghi attorcigliati e stupendi mosaici a tessere di vetro e ceramica, tra i quali una svastica. Passati oltre l’ingresso del monastero si raggiunge un serafico Buddha di cemento sdraiato sul fianco destro; riesco a riconquistare la libertà con l’acquisto di una confezione di cartoline, e dopo 152 scalini raggiungo la sommità della collina con il maestoso Buddha bianco, seduto su un fiore di loto, visibile da ogni punto della città grazie ai 14 metri di altezza.
Hộian
Il Việtnam centrale è la zona geograficamente più sottile del paese: quasi una striscia di terra tra il Laos e l’oceano. Storicamente la regione tra Hộian e Huế ha fatto parte della repubblica del Việtnam del Sud, anzi queste province di confine immediatamente a contatto della DMZ (demilitarized zone, la zona smilitarizzata tra i due paesi fratelli ma nemici) hanno visto alcuni fra gli scontri più cruenti della guerra, come l’occupazione e la riconquista di Huế. Nel mese di giugno, questa è la parte del Việtnam più calda in assoluto, con temperature aggravate dell’umidità che, pur senza raggiungere le percentuali da nuoto della costa settentrionale, contribuisce a rendere l’aria soffocante come in una pentola a vapore.
La ferrovia purtroppo non tocca Hộian, quindi dobbiamo rinunciare a una nuova tappa sull’Espresso della Riunificazione. Optiamo per il servizio di autobus a biglietto aperto, un lungo tragitto a tappe tra Hànội e Tp.Hồchíminh che permette soste lungo il percorso nelle località di interesse turistico: Đàlạt sugli altopiani centrali, Nhatrang, Hộian e Huế. Dai finestrini degli autobus e dei treni è facile vedere, sparpagliate quasi ovunque nella campagna, gruppi di tombe in muratura. Il Việtnam sembra interamente costellato di tombe sparse e cimiteri di guerra. I contadini preferiscono tenere vicini gli antenati, che seppelliscono nei campi e tra le risaie poco distante dalle abitazioni: le tombe, simili alle nostre lapidi interrate, oppure prefabbricate, di gesso o cemento, a forma di pagoda, riportano la foto e il nome del defunto. È raro trovare un tumulo in cattive condizioni di manutenzione, più facile che siano estremamente curati, verniciati di fresco, spolverati. Anche i cimiteri di guerra sono un triste spettacolo consueto, e non è difficile da immaginare visto l’altissimo tributo di sangue pagato per la riunificazione, e il valore fondante della guerra americana per il Việtnam attuale. Circondati da inferriate, con un monumento centrale e una ordinata immensità di lapidi o croci raggruppata intorno, i cimiteri di guerra sorgono ai lati della strada principale, uno in ogni villaggio. Stelle rosse in cima ai monumenti ricordano a chi passa l’importanza dell’elemento ideologico nella lotta di liberazione.
Al nostro arrivo a Hộian intorno alle 17 riusciamo a evitare l’insistenza con cui la compagnia di trasporti cerca di farci scendere in un albergo convenzionato, e raggiungiamo il nostro hotel Thanh Binh 1 prenotato via e-mail. Abbiamo già notato spesso che più alberghi hanno lo stesso nome e numerazioni progressive: scopriamo che appartengono alla stessa proprietà, la quale per confermare lo standard qualitativo ai clienti mantiene la precedente denominazione quando si espande in una nuova attività.
La nostra sistemazione è calda, umida e economica (8 euro per notte per camera), e in più abbiamo degli ospiti non esattamente graditi: un grosso ragno peloso la prima sera, freddato con una ciabattata, e uno scarafaggio agonizzante sotto la porta del bagno la seconda sera. Per fortuna la nostra permanenza è allietata dalla presenza discontinua di Jackie Geco, lucertolozzo un po’ schivo che gironzola intorno allo specchio del bagno. Almeno si cibasse di ragni…
Ci fermiamo per tre notti consecutive, perché Hộian è una tappa chiave di ogni viaggio in Việtnam, una deliziosa città di 75 mila abitanti distesa sulla sponda nord del fiume Thu Bồn, fondata come scalo commerciale sulle rotte del sudest asiatico. In occidente era conosciuta con il nome di Faifo, frequentata contemporaneamente ai porti di Macao e di Malacca da navi olandesi e portoghesi, cinesi e giapponesi. Oggi il centro storico, passato miracolosamente indenne attraverso le distruzioni della guerra, è giustamente salvaguardato dall’Unesco: un’ellisse di isolati attraversati da strade non proprio diritte, con edifici protetti da severi vincoli urbanistici e restaurati continuamente grazie ai proventi dell’ingresso a pagamento per i turisti stranieri. Passeggiare per le strade di Hộian, all’ombra dritta e incerta dei tetti di tegole, significa fare un salto nel passato di alcuni secoli. Le vie del centro storico sono fortunatamente chiuse al traffico in certi giorni e certe fasce orarie, e il divieto viene fatto rispettare. In questo modo l’inquinamento che affligge le altre città del Việtnam non intacca gli antichi edifici classificati in base a tipologie ben definita: case, pozzi, cappelle di famiglia, pagode, templi vietnamiti, templi cinesi, ponti, tombe, sale di riunione delle congregazioni cinesi.
La nostra permanenza a Hộian è un piacere fisico e intellettuale; se non fosse per il caldo sfiancante, sarebbe un ottimo punto per una permanenza più lunga del consueto. Cosa c’è di meglio che camminare per le strade della città vecchia, tra le case basse dai tetti di tegole grigie su cui spuntano ciuffi d’erba selvatica, o concedersi una birra fredda in uno dei deliziosi caffè a gestione familiare, come il Bo Bo o lo Hương Lan, o misurare un áodài fatto su misura e cucito in una notte dai numerosi sarti che rendono Hộian famosa in tutto il Việtnam? Il caffè del signor Hương Lan è una nostra scoperta: un giardino assurdamente piccolo accanto al mercato centrale, con due soli tavolini accanto a un modernissimo frigorifero di vetro per le birre e le bibite. una fontana di pietra consumata e porte spalancate sul piano terra dell’abitazione, si sente la voce della tv e si vede un altare. La cucina è subito di fianco, appena nascosta. La prima sera che mettiamo un piede dentro il cancello il gentilissimo proprietario si alza dal divano dove è ipnotizzato davanti alla tv, volta il ventilatore verso di noi e ci serve due ottimi caffè. Non capisce bene l’inglese: la volta successiva, mentre siamo di nuovo in cerca di conforto al calore spaventoso del pomeriggio, Mariella chiede due caffè vietnamiti e lui ci ha porta due tè al gelsomino. L’ultima sera prima della partenza esultiamo quando poco dopo di noi entra un’altra coppia di stranieri, ma fanno appena in tempo a domandare al proprietario qualcosa poi escono senza sedersi. Peccato, non sapranno cosa si sono persi…
Molti edifici storici di Hộian sono restaurati di recente: la casa in legno che ospita il museo delle ceramiche commerciali e le case-museo private in đường Trần Phú; le sale delle riunioni delle congregazioni cinesi, attive dal XVII secolo quando gli armatori si fermavano nella città portuale per alcuni mesi in attesa dei venti propizi verso nord o verso sud; il ponte giapponese coperto, la cui costruzione sarebbe stata intrapresa per colpire il tallone d’Achille del formidabile drago Cu, talmente lungo che la testa era in India e la coda in Giappone. Hộian ha tutte le potenzialità per diventare uno dei tanti gioielli all’aria aperta, purtroppo totalmente sacrificati al turismo, ma forse per questo destinati a salvarsi dall’incuria e dall’azione del tempo. Le numerose, ottime sartorie con i modelli esposti sulla strada offrono un servizio rapido e preciso: Mariella acquista un áodài di taglio moderno in seta vietnamita (eufemismo per indicare un materiale sintetico), la proprietaria si offre di farne confezionare uno identico nel corso della notte per consegnarlo il mattino presto al nostro albergo. In un altro negozietto sulla strada, Mariella vuole acquistare una collana di madreperla; un’anziana signora esce da un cortile interno, chiede in francese da dove veniamo, e constata: l’Italia è vicino alla Francia! Sì, la rassicuro, sono confinanti, da dove abitiamo noi alla frontiera c’è solo un’ora di automobile. Ci mostra la casa, divisa in parte con un’altra famiglia che abita il retro; è una magra signora simpatica, probabilmente sui settant’anni, educata in una scuola francese ai tempi del colonialismo; si lamenta che i turisti parlino solo inglese. Ci congediamo divertiti, piacevolmente sorpresi da questo incontro.
Mỹsơn
Il grosso sito archeologico di Mỹsơn, che si raggiunge risalendo il fiume Thu Bồn a un’ora circa da Hộian, comprende le reliquie del grande complesso di luoghi sacri che per secoli rappresentò la terrasanta dei champa. Una vasta impresa internazionale di scavi che comprende anche il Politecnico di Milano continua a lavorare nell’area del complesso. Oggi le imponenti rovine, o meglio ciò che ne resta dopo che i marines americani hanno fatto saltare con l’esplosivo la torre più grande che serviva da rifugio alla guerriglia, rappresenta il maggior sito archeologico del Việtnam. L’area è divisa in dieci gruppi di scavi classificati con lettere da A a K; i meglio conservati sono il complesso dei gruppi B-C-D e la coppia A-A’ poco distante, ancora oggetto di scavi. La civiltà champa nacque nei dintorni di Đànẵng, prosperò e si sviluppò per milletrecento anni a partire dal II secolo d.C. raggiungendo a sud l’attuale Nhatrang; compressi tra i vicini khmer e vietnamiti, i champa si dedicarono intensivamente alla pirateria, fino a che nel XV secolo furono sopraffatti e incorporati nel nascente stato nazionale del Việtnam.
Oggi gli scavi di Mỹsơn sono sparpagliati tra colline e piantagioni di caffè, in una vasta area tra le montagne e il fiume; gli automezzi devono fermarsi all’ingresso, accanto al centro di documentazione, da dove si prosegue a bordo di fuoristrada condotti dalle guide. Le agenzie turistiche e i caffè di Hộian organizzano escursioni di mezza giornata a prezzi imbattibili, si può anche scegliere di ritornare in città per via fluviale.
Le splendide torri dei gruppi B e C sono in ottimo stato di conservazione; una piccola mostra di sculture è stata trasportata all’interno di uno dei monumenti per preservarle dagli agenti atmosferici. La fitta vegetazione circonda su ogni lato i gruppi, collegati da stretti sentieri nascosti nel verde. L’unica via pavimentata è il magnifico sentiero lastricato che dai gruppi G e F conduce agli edifici per gli spettacoli all’aperto, un nastro diritto affiancato da alti alberi tra i cui fusti si distinguono le cime delle montagne e le nuvole che passano a distanza sempre troppo ravvicinata.
Huế
Ho notato a volte, in certi viaggi e in certi paesi, che una particolare città conquista rapidamente nel mio immaginario un posto speciale. Ancora non sono riuscito a definire le caratteristiche di questi territori dell’intelletto: cosa hanno in comune Córdoba in Spagna, Cambridge in Inghilterra, Trinidad a Cuba, Bhakhtapur in Nepal, Jaisalmer in India e Fés in Marocco? Le uniche caratteristiche che mi vengono in mente sono una stratificazione storica percettibile e un relativo isolamento dal cuore economico del paese. Tuttavia, se fosse così semplice, a Hộian avrei provato la medesima sensazione di straniamento e familiarità insieme. Forse; e forse Hộian sarebbe una di queste città dell’anima, se non avessi visto successivamente Huế.
Non c’è dubbio che Huế sia una città molto, molto differente da Hộian con i suoi 280 mila abitanti e la vasta zona moderna a sud del Fiume dei Profumi, ricostruita dopo le immani devastazioni della guerra; eppure spettri di incenso e fumo infestano la riva settentrionale, tra la Città Purpurea Proibita e la pagoda di Thiên Mụ, si aggirano tra le tombe monumentali degli antichi imperatori disseminate lungo i meandri del Fiume dei Profumi, sotto il sole a picco e sopra le esalazioni torride della pietra.
Il viaggio da Hộian a Huế è relativamente breve, anche considerando la condizione delle strade vietnamite: se non fosse che tra le due città si estende la metropoli di Đànẵng con oltre un milione di abitanti, sarebbe un tragitto ancora più rapido. Decidiamo di prendere il minibus, indistinguibile del resto rispetto al servizio a biglietto aperto, e raggiungiamo Huế nel primo pomeriggio. Anche questa volta abbiamo prenotato in anticipo, via telefono perché per un intero giorno Hộian è rimasta scollegata dalla rete Internet: in questo modo evitiamo di nuovo il rito degli hotel convenzionati e raggiungiamo il Mimosa Guesthouse, che i tassisti vietnamiti pronunciano Mi-Mù-Sà. Lo standard è piuttosto spartano, come il prezzo: poco più di 5 euro la camera doppia. Scopriamo con qualche ora di ritardo che la proprietà è cambiata, e che il signor Trần Văn Hoàng consigliato da Lonely Planet ha acquistato un altro hotel. Il nuovo proprietario è un giovane alto e impassibile, con un paio di occhiali e un blocchetto di ricevute sulle quali annota tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Can you book a taxi to the airport for tomorrow, please? — Yes, Sir. 6 dollari americani, paghiamo in contante e lui ci rilascia una ricevuta. We would like to buy a boat trip on the Perfume River, leaving tomorrow, please. — Yes, Sir. 3 dollari, ecco la ricevuta. Immaginiamo di chiedergli Can you find an atomic bomb for us, please? Tirerebbe fuori imperturbabile il suo blocchetto di ricevute, pronto a accontentarci. Yes, Sir.
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La costruzione della cittadella di Huế fu iniziata nel 1804 su un progetto di ispirazione geomantica, in un’area circondata da un fossato della lunghezza di dieci chilometri. Decine di migliaia di operai lavorarono agli enormi bastioni ispirati all’architettura militare di Vauban: le mura della cittadella hanno resistito ai secoli, ma la maggior parte delle costruzioni all’interno è stata rasa al suolo durante la feroce battaglia di Huế nel 1968. Poco oltre la porta Ngọmôn (“di mezzogiorno”), c’è un laghetto di fiori di loto. I passaggi laterali erano accessibili ai membri della corte, il ponte centrale riservato all’imperatore. La Tử Cấm Thành, la Città Purpurea Proibita che sorge oltre le sale dove i mandarini si cambiavano d’abito per comparire alla presenza dell’imperatore, era chiusa a chi non fosse membro della famiglia regnante o un eunuco di corte. Oggi la Città Proibita è ridotta a una serie di orti che circondano la sala di lettura dell’imperatore: tutto il resto è stato demolito dall’artiglieria americana e dall’aviazione di Sàigòn. Qui nella Città Proibita, tutti i luoghi hanno nomi dal sapore antico: il Palazzo dell’Armonia Suprema, con il suo tetto di travi di legno sorrette da 80 colonne laccate; le Nove Urne Dinastiche dedicate agli imperatori Nguyễn; la residenza della regina madre, i templi e i laghetti. La giornata è calda, caldissima, il sole implacabile. Si fatica a trovare un fazzoletto d’ombra tra gli orti e le magnifiche vestigia bombardate. Nel 1968 due abitanti di Huế su tre vivevano all’interno delle mura della cittadella, a ridosso della zona imperiale. Durante la sanguinosissima offensiva del Tết che investì quasi tutte le città del Sud e rese palese al mondo intero che una vittoria americana era impossibile, una divisione nordvietnamita e formazioni vietcong aggirarono la roccaforte USA di Khesanh e occuparono l’ex capitale imperiale. La tennero per oltre tre settimane: ci vollero dieci giorni perché americani e sudvietnamiti riuscissero a riprendere la zona moderna di Huế a sud del Fiume dei Profumi, ridotta a un cumulo di macerie dai combattimenti strada per strada. I bombardamenti senza tregua e la resistenza casa per casa continuarono all’interno della cittadella. Si calcola che nella battaglia persero la vita diecimila persone, per la maggior parte civili.
Davanti alla cittadella il Fiume dei Profumi è largo e piatto, e separa Huế in due metà molto distanti. Chi risale con un’imbarcazione i larghi meandri d’acqua penetra in un favoloso scenario di colline verdi e montagne coperte di neve, nuvole bianche e acque grigie. La pagoda di Thiên Mụ, la cui favolosa torre ottagonale a sette piani si rispecchia direttamente nelle acque del Fiume dei Profumi, si erge sulla riva settentrionale a meno di quattro chilometri dalle porte della cittadella; al nostro arrivo è in corso una funzione religiosa, con i monaci inginocchiati davanti all’altare dei tre Buddha — del passato, del futuro e della storia. Una stele di pietra è posata sulla schiena di una tartaruga di marmo, simbolo di longevità. Candelotti di incenso rosso si consumano nei bracieri, nastri di fumo azzurro strisciano nell’aria immobile. Un gong batte il tempo. Un anziano monaco sorride a Mariella quando deposita l’offerta di una banconota nell’urna.
Risalire il Fiume dei Profumi da questo punto è un viaggio nella storia, nel tempo, nell’immaginario dell’Asia. Il modo più semplice e efficace per visitare le tombe degli imperatori Nguyễn è navigare il Fiume dei Profumi. Gli alberghi di Huế vendono gite di una giornata a prezzi irrilevanti, poco più di 1 euro a testa, su imbarcazioni a conduzione familiare. La sistemazione a bordo è piuttosto spartana e le bibite sono a parte, ma se ci si accontenta del pranzo standard non si spende nulla di più.
La tomba monumentale dell’imperatore Tự Đức, morto nel 1883, è circondata da mura massicce nascoste sotto l’ombra di alberi altissimi. Oltre l’ingresso del mausoleo funebre, un sentiero lastricato di pietra passa accanto a un laghetto immobile, nelle acque verdi in mezzo alle foglie di loto si riflette il padiglione dove l’imperatore recitava poesie alle sue concubine. Una scala calcinata dal sole conduce a un tempio di ombra, il tetto sorretto da colonne di lacca nera. Nel cortile sul retro i raggi solari non lasciano tregua. Più oltre sorge l’irreale cortile d’onore dell’imperatore, con la sua guardia di mandarini di pietra, elefanti e cavalli. La stele di Tự Đức è in cima a una scalinata, ci vollero quattro anni per trascinare qui le sue venti tonnellate. Il sole batte insopportabile sulle geometrie sovrumane del cortile, sulle effigi degli antici dignitari corrose da chiazze verde scuro a causa del terrificante livello di umidità, sulle lastre della pavimentazione separate da strisce di muschio. Sembra di trovarsi in un giardino pietrificato da qualche antico incantesimo. La tomba vera e propria sorge poco oltre, ma Tự Đức non è veramente sepolto qui: duecento servitori incaricati di tumulare l’imperatore furono decapitati per timore di furti a danno del ricchissimo corredo funerario, il risultato è che a tutt’oggi non si sa dove sia effettivamente il sepolcro.
Qualche chilometro più a monte, a poche decine di metri dalla riva del Fiume dei Profumi sorge il complesso funerario più maestoso, quello dell’imperatore Minh Mạng, morto nel 1841. A sedici chilometri da Huế i visitatori sono rari; il mausoleo è una incredibile successione di cortili, padiglioni, templi di legno laccato, altari sacrificali, scalinate di granito, ponticelli di pietra, laghetti immersi nel ritmo della vita e della morte. Il ciclo annuale della natura disfa il tempo della tomba imperiale in una sequenza di equinozi di muschio e solstizi di pietra, un tappeto di foglie morte spazzate da mulinelli di vento in riva a specchi d’acqua immobili. Se lo spettro di Minh Mạng si aggirasse ancora tra queste geometrie di legno laccato e bandiere di rame, piangerebbe di solitudine e struggimento sotto i raggi della luna e del sole. Il lago della Chiarezza Perfetta — che non è detto l’imperatore abbia raggiunto prima della morte — è il centro tranquillo di questa composizione funebre. Più oltre, passati il Padiglione Ad Angolo e il Padiglione Dell’Aria, si incontra il lago della Luna Nuova, dal quale una scalinata conduce al tumulo tombale. Un silenzio fiabesco, favorito da un caldo quasi assoluto, circonda come una bolla il mausoleo di Minh Mạng. L’impressione è che nemmeno i nostri passi abbiano il diritto di risuonare tra il granito e gli alberi.
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Il taxi per l’aeroporto percorre senza fretta i lunghi viali rettilinei che dai ponti sul Fiume dei Profumi conducono verso sudest, attraverso quartieri dall’aspetto quasi europeo dove tutti gli edifici sembrano restaurati di fresco. Abbiamo deciso di prendere un volo per Hànội invece che viaggiare in superficie perché la distanza è davvero elevata (diverse centinaia di km), perché il prezzo di Việtnam Airlines è piuttosto contenuto (40 euro circa) e perché in questo modo risparmiamo diverse ore. Il tempo comincia a scarseggiare in questo viaggio: così tanti posti da visitare, così pochi giorni prima di rientrare.
Attraversiamo in volo la vecchia linea di confine tra Sud e Nord e per la prima volta mettiamo piede nel nord invincibile di Hồchíminh, che non si è piegato di fronte ai giapponesi, ai francesi, agli americani e ai cinesi. Nulla al primo impatto visivo rimanda ai paesi d’oltrecortina: lungo l’autostrada dall’aeroporto Nộibài alla capitale, enormi cartelloni pubblicitari testimoniano la forza della globalizzazione. Le case sono alte e strette, con una superficie minima affacciata sulla strada e uno sviluppo in verticale e in profondità: in passato si pagava un’imposta sulla porzione di via pubblica occupata, e comunque oggi i terreni hanno un prezzo molto più elevato dei materiali da costruzione. La facciata degli edifici offre un’architettura perfetta: colonne neoclassiche, timpani, serramenti nuovi, colori tenui come l’acquamarina, il rosa, il nocciola, l’azzurro; le facciate laterali sembrano invece pareti di una scatola, cemento liscio senza finestre né intonaco da terra fino al tetto. Anche i tetti sono una sorpresa qui al nord: appuntiti e spioventi, ricoperti di una lamiera metallica ondulata che imita le tegole per forma e colore, innervati da anacronistiche guglie appuntite simili a quelle delle nostre chiese.
Mentre numerose località interessanti del sud si trovano a notevole distanza da Tp.Hồchíminh, Hànội ha una posizione quasi centrale nella pianura del Fiume Rosso rispetto ai siti di escursione nel nord; per questa ragione durante la seconda metà del viaggio faremo continuamente una sosta notturna nella capitale al termine di un breve viaggio e prima dell’escursione successiva.
Hạlong
Una descrizione e una foto della baia di Hạlong, nella seconda metà degli anni Ottanta, sono stati il motore del primo desiderio di un viaggio in Việtnam. Tremila isole rocciose, poco più grosse di scogli a picco sull’acqua verde e ricoperti da fitte boscaglie, sono sparpagliate al largo della costa, nel golfo internazionalmente noto come Tonchino. Secondo gli antichi abitanti della valle del Fiume Rosso la sorprendente geografia della baia è stata creata dal Tarasco, gigantesco drago che si è inabissato da queste parti, così grosso che l’acqua del mare è salita a riempire le cicatrici create dalla sua coda sulla superficie terrestre.
La baia di Hạlong è un’esperienza da vivere sul mare; ci si può imbarcare da Haiphong, terza città del Việtnam in ordine di grandezza e grosso centro industriale della costa, oppure dal porto di Bãicháy nella città di Hạlong, più a oriente: qui arriviamo dopo un viaggio via terra di oltre un’ora da Hànội. Abbiamo acquistato un’escursione Sinh Café con un gruppo misto di norvegesi, vietnamiti, canadesi e diversi anglofoni.
Una piccola flotta di barconi a motore aspetta sul molo i passeggeri, le bandiere al vento. Le imbarcazioni di legno da 40-50 posti salpano tutte insieme, dirette verso l’orizzonte dove le isole più vicine allungano dita di roccia per squarciare il ventre delle nuvole in agguato. Il vento piega le bandiere, comincia a piovere mentre le barche fanno a gara in velocità; poi quando raggiungiamo le prime isole dell’arcipelago, la flotta si disperde lungo vie d’acqua diverse e ci ritroviamo soli. Salgo sul ponte superiore, all’aperto. Passiamo sotto un’enorme roccia a picco, in cima allo scoglio si vede il tetto a pagoda di un tempio costruito sul punto più elevato. L’orizzonte marino è una costa frattale di speroni dipinti di tonalità di grigio. Avanziamo tra le isole, rasente i faraglioni. Scogliere altissime sorreggono foreste vergini fitte come un milione di anni fa. Strati e nervature nella roccia raccontano la storia fossile della baia. Le basi erose e assottigliate degli scogli testimoniano la guerriglia delle onde.
Raggiungiamo l’insenatura ad anello dove c’è il molo della Hang Đầugỗ, la “caverna dei pali di legno”, scavata dall’erosione all’interno roccioso di un’isola. Secondo la leggenda nel XIII secolo l’eroe nazionale Trần Hưng Đạo vi nascose i pali di bambù con i quali distrusse la flotta d’invasione mongola di Kublai Khan. I colonizzatori francesi la chiamavano grotte des merveilles perché in fondo ai suoi 90 gradini, nell’umidità preistorica si aprono tre spettacolari sale di una bellezza mozzafiato, valorizzate da una sapiente illuminazione.
Riprendiamo il largo. Smette di piovere, la barca attracca al molo di una spiaggia a mezzaluna, la sabbia ha il colore dell’oro macinato. Ho dimenticato il costume da bagno in albergo a Hànội; mentre Mariella, le norvegesi e i canadesi francofoni fanno il bagno o si aggirano in canoa intorno allo scoglio, io salgo la scalinata di cemento che porta a una sella quasi a picco sulla riva. Bisognerebbe avere un mezzo aereo per aggirarsi a volo basso tra le isole e abbracciare con un solo sguardo la superficie butterata del mare, un eczema di rocce nere sul verde chiaro dell’acqua. Dopo la sosta e il bagno, ripartiamo in ritardo perché i canadesi se ne impippano dell’appuntamento. Il cielo è cupo, occorre un’altra ora di cabotaggio tra gli scogli per aggirare la grande isola di Cátbà e la baia della città omonima; è quasi buio quando la barca rallenta nella rada piena di case galleggianti di legno, dove vivono intere famiglie di pescatori che allevano pesci in vasche quadrate.
La barca attracca vicino riva; in otto scendiamo a Cátbà per alloggiare all’hotel Sunflower One, alcuni invece si fermano a dormire a bordo, nelle cabine del ponte inferiore. La notte stentiamo a dormire: io non riesco a prendere sonno in parte per colpa del Lariam che sto assumendo come profilassi antimalarica, in parte per la tremenda umidità che non mi lascia respirare.
Il mattino seguente la barca torna a prenderci con coloro che hanno pernottato a bordo: perdiamo alcuni che si fermano un altro giorno nella baia, acquistiamo altri che sono arrivati prima di noi, e riprendiamo la splendida crociera di ritorno tra gli scogli selvaggi.
Difficile capire quanto la nuova rotta sia distante dalla precedente. In certi punti le isole sembrano identiche a ieri, in altri si ha l’impressione di trovarsi in un luogo completamente diverso.
La crociera dura di nuovo alcune ore. A metà mattina smette di piovere, ma il cielo è cupo. Rimango solo sul ponte, nel vento leggero macchiato d’acqua, a guardare scorrere le isole di rocce. Alcune ricordano Die Toteninsel, l’isola dei morti di Arnold Böcklin: da un momento all’altro sembra che la barca con l’anima in piedi di spalle, avvolta nel sudario, debba attraccare nell’anfiteatro di ghiaia e cipressi dove le tombe scavate nella roccia aspettano immobili nella sera. Sono sicuro che i controluce violenti della baia di Hạlong, le prospettive aeree delle isole che si inseguono sulla superficie piatta, la pioggia sottile che cancella in confine tra acqua e aria, la lenta crociera della barca rimarranno a lungo nel mio ricordo.
Le minoranze etniche
Il viaggio di tre giorni e quattro notti fra le montagne a nordovest di Hànội è l’unica escursione prenotata già dall’Italia: una breve visita ai mercati delle minoranze etniche che si tengono settimanalmente nei centri rurali al confine con il Laos e la Cina. Quasi il dieci per cento dei 70 milioni di vietnamiti sono classificati come “minoranze etniche”; di questi una parte vivono sugli altipiani centrali, al confine con la Cambogia, ma la maggioranza abita la zona nord-occidentale.
Abbiamo deciso di fare questa esperienza con l’agenzia Handspan Adventure Travel, anche se un pacchetto turistico simile è proposto dalla rete statale Sinh Café, per la semplice ragione che preferiamo spostarci da Hànội con il treno notturno che parte verso le 23 e arriva alle 5 del mattino: un tranquillo trasferimento in vagone letto invece di un lungo viaggio diurno in automezzo lungo la strada che sale parallela al Fiume Rosso. Il costo del viaggio va da un massimo di 160 euro (nel caso di due soli partecipanti) a un minimo di 120 (se si raggiunge il numero di sei iscritti, e il massimo comunque è otto partecipanti). Il gruppo con il quale coabiteremo per questi quattro giorni è composto da due universitarie danesi, una ragazza brasiliana, una viticoltrice neozelandese e una coppia anglofona, britannico lui e australiana lei, oltre ai due ragazzi vietnamiti che ci fanno da guida. Sul treno notturno da Hànội a Làocai facciamo conoscenza con Maia-Lisa e Lea, le nostre giovani compagne di viaggio danesi che parlano italiano. Làocai è una grossa città al confine con la Cina, devastata dalla guerra-lampo del 1978; un automezzo ci aspetta alla ferrovia per portarci alla stazione montana di Sapa, 1650 m di altitudine, e poi ancora più su nella foschia del mattino fino al passo di Trạm Tôn, a nord del Fanxipăng, la vetta più elevata del Việtnam. Passato il valico scendiamo nella vegetazione di un verde intenso e verso le otto di mattina arriviamo a Bình Lư, grosso villaggio dove si tiene uno dei mercati delle minoranze etniche.
Tra i diversi popoli di origine cinese e tailandese che abitano le montagne, migrati da oltre mille anni o da pochi secoli, vi sono alcuni gruppi etnici molto consistenti, con oltre un milione di individui: in questa zona i più numerosi sono gli H’mông e i Dao, entrambi con circa 500 mila individui, frazionati in diverse tribù con abitudini e abbigliamento estremamente differenti. A Bình Lư incontriamo soprattutto Dao Neri, che usano la scrittura e la medicina tradizionale cinesi. Gli uomini hanno adottato l’abbigliamento standard vietnamita — calzoni e camicia — mentre le donne usano ancora i costumi tradizionali: le Dao adornano i vestiti con perline e monete argentate sul copricapo e sul corsetto, a volte anche sulla gonna. Scendono al mercato di Bình Lư, che si tiene in un’area sterrata poco discosta dalla strada principale, con bambini e gerle sulla schiena. Quelle che già hanno avuto contatti frequenti con i turisti sanno che vendere qualche manufatto può essere molto più redditizio delle contrattazioni spicciole al mercato tradizionale, per cui aspettano sulla strada gli automezzi in arrivo da Làocai.
Il mercato di Bình Lư è molto bello, ricorda per qualche verso i piccoli bazar arabi e africani e certi nostri mercatini di paese di 30 o 40 anni fa. Ancora una volta notiamo una delle innumerevoli piccole differenze tra le due metà del Việtnam: mentre sotto il 17° parallelo, la vecchia linea di confine, gli uomini indossano normalissimi copricapo di tela di fattura anonima, qua al nord è diffusissimo il casco verde bottiglia usato dai guerriglieri Vietcong e dall’esercito di Hànội, un incrocio fra un elmetto inglese della prima guerra mondiale e un casco coloniale. Ovviamente oggi non è di metallo ma di plastica rigida.
A metà mattinata l’animazione nel mercato è molto diminuita, noi ripartiamo verso Tam Đường a nordovest; lasciamo i bagagli nello spartano hotel affacciato sulla valle invasa dalle risaie e ripartiamo per un breve trekking che tocca villaggi Dao e Lu. Il tempo si rasserena, la passeggiata attraverso le risaie è meravigliosa. I contadini sono al lavoro nei campi, l’acqua fluisce di terrazza in terrazza, attraverso stretti varchi di deflusso aperti negli argini perché non ristagni. Attraverso tutte le zone climatiche del Việtnam abbiamo visto l’intero ciclo stagionale del riso: aratura, raccolta, terreno asciutto, allagamento. Qui sotto il Fanxipăng i contadini trapiantano le piantine nelle risaie già allagate. Alcuni chiedono di non essere fotografati, altri ci mostrano con orgoglio l’interno delle abitazioni di legno perché siamo accompagnati da un membro della comunità locale, che ci guida usando un ombrello chiuso come bastone. Dati tetti salgono al cielo le antenne televisive, il pavimento è di terra battuta ma sulle pareti sono inchiodati poster di vedettes della canzone o dello spettacolo, che stanno conquistando anche i giovani delle minoranze (si tratta comunque di celebrità vietnamite, taiwanesi, cinesi).
Ritorniamo all’hotel soddisfatti della giornata. Dopo il tramonto un acquazzone improvviso ci sorprende sulla via di ritorno dal ristorante, non ci bagneremo mai più così durante l’intero viaggio. Finalmente stanotte si dorme senza aria condizionata e senza il caldo opprimente delle pianure.
Il secondo giorno torniamo indietro lungo la strada del valico di Trạm Tôn fino a Sapa, città di 35 mila abitanti già nota come stazione montana dei francesi. L’hotel è forse il più bello dell’intero viaggio: le camere, collegate da un balcone di legno, si affacciano da una parte sulla valle e dall’altra su una parete rocciosa verticale distante tre metri, contro la quale crescono muschio, erba e tronchi contorti. Mariella e io pranziamo due volte al ristorante Gerbera, che vanta un superbo menu di carni e pesci alla piastra e una piccola veranda con pochi tavoli.
Lo stesso pomeriggio partiamo in jeep per un secondo breve trekking attraverso la valle: raggiungiamo il villaggio rurale di Làocháy, abitato da H’mông Neri, e poi attraverso la valle e le risaie fino al villaggio Dao di Tảvan. Donne e bambine H’mông, più abituate dei loro vicini al turismo, ci seguono per tutta la camminata; è sorprendente come queste ragazzine imparino la lingua inglese dal solo contatto con gli escursionisti. Le terre Dao invece sono più curate perché le donne pensano meno a mungere i viaggiatori stranieri e aiutano gli uomini nei lavori agricoli.
Il giorno successivo si torna in automezzo a Làocai e poi sul versante opposto delle montagne, una risalita di ore. Soltanto le strette acque di un fiume ci separano dalla Cina. La nostra destinazione è il lontano mercato settimanale di Cốcly, frequentato da H’mông fioriti. La strada è terribile, impervia, in parte sterrata, ma il mercato si rivela il più autentico fra quelli visitati. Un breve ponte attraversa un ruscello dove pascolano cavalli, poi entriamo sotto l’ombra casuale delle tende tese sopra le bancarelle e sotto gli alberi. La minoranza H’mông si fraziona in diversi sottogruppi conosciuti come Neri, Bianchi, Rossi, Verdi e Fioriti. Anche qui ci sono bancarelle dedicate ai turisti, ma la maggior parte della merce è per il consumo locale. Qui si fanno gli acquisti più tradizionali, Mariella trova una borsetta di stoffa quadrata tinta e ricamata con diversi colori vivaci: rosso, giallo fosforescente, arancione, verde brillante. Le contrattazioni avvengono in mezzo al fango della recente pioggia. Ci sono matasse di tabacco, tessuti di ogni tipo, utensili di alluminio anodizzato. Qualcuno si porta a casa un capretto o un maialino dentro un sacco di iuta.
Torniamo a Làocai per via fluviale, e dopo una rapida visita al tempio di Thương con il suo baniano di 500 anni, ci affacciamo sulla Cina. Sì, perché la città cinese di Hekou è appena al di là del ponte: la porta della Cina è un arco di metallo sullo sfondo di scintillanti palazzi di vetro che sembrano testimoniare l’impetuoso ritmo di sviluppo economico dell’ingombrante vicino. Così vicino che nel 1979 in questa striscia di confine i due paesi combatterono una guerra-lampo. Irritato dal fatto che l’esercito vietnamita avesse invaso la Cambogia, distruggendo i Khmer Rossi e mettendo fine al sanguinario governo di Pol Pot, il gruppo dirigente cinese decise una spedizione punitiva: un selvaggio bombardamento sulle città di confine e un’invasione in grande stile. Ma l’esercito cinese fu costretto a ripiegare dopo solo 17 giorni a causa della feroce resistenza opposta dai vietnamiti, induriti da trent’anni di guerra. Ancora una volta Hànội aveva vinto.
Torniamo a Hànội con il treno notturno, che arriva alla stazione ferroviaria della capitale verso le cinque del mattino; dai finestrini del taxi che ci riporta all’albergo, dove ci aspetta una camera già prenotata dal mattino, facciamo in tempo a vedere un gruppo di anziane signore che praticano ginnastica in uno spazio pubblico all’aperto, con calzoni e bluse di tela nera e bandierine rosse in entrambe le mani.
Tam Cốc
Per visitare la famosa e bellissima Tam Cốc acquistiamo un’escursione Sinh Café di un giorno. In un’ora circa l’autobus turistico raggiunge la cittadina di Ninhbình e la vicina millenaria cittadella di Hoalư.
Per circa cinquanta anni a cavallo dell’anno Mille, Hoalư fu la capitale del regno vietnamita dei Le anteriori, per la posizione strategica, facilmente difendibile grazie alle barriere naturali che la circondano: infatti l’intera zona è costellata da formazioni rocciose assolutamente simili a quelle della baia di Hạlong, che affiorano dalle risaie. Della cittadella rimane oggi solo qualche vestigia: due templi immersi nel verde, localizzati ai piedi di ripide colline e sullo sfondo di un monte. Vivaci bandiere cinesi di forma quadrata penzolano nell’aria immobile dei cortili, tra stagni invasi dal loto e muri minati dall’umidità e dal calore.
Un breve spostamento in automezzo ci conduce a Tam Cốc (“tre grotte”), precisamente al porticciolo sul sottile fiume Ngô Đồng che serpeggia fra rocce e canneti. L’escursione avviene a bordo di barchette condotte da due rematori; spesso quello sistemato a poppa si sdraia di schiena e impugna il manico dei remi con le dita dei piedi.
L’escursione è tranquilla e sarebbe anche rilassante, se non fosse per i venditori di bibite che affiancano in barca per convincervi a acquistare una lattina per i rematori, i quali le lasciano da parte per rivenderle a fine giornata. Il ritmo dell’esplorazione è estremamente lento, l’imbarcazione si muove esclusivamente a forza umana. La striscia d’acqua, che sembra immobile, sfila sotto alte pareti di roccia o in mezzo a folti canneti selvatici; uno stormo di anatre attraversa a nuoto, un pescatore ci osserva da riva. Il fiume penetra successivamente nelle tre grotte, i rematori non smettono di vogare. Davanti e dietro di noi le barche proseguono il percorso, incrociamo anche imbarcazioni che tornano indietro e molti abitanti che usano il corso d’acqua come mezzo di spostamento. Le rocce, il fiume, le canne, il cielo, la solita commistione di acqua e terra che caratterizza il Việtnam rendono magico il paesaggio di Tam Cốc, e ci consolano dalla rinuncia a visitare la Pagoda dei Profumi a sud di Hànội per mancanza di tempo.
Hànội
Per gli antimperialisti di tutto il mondo Hànội è stata durante gli anni Sessanta e Settanta la bandiera del movimento internazionale di liberazione che si opponeva al neocolonialismo imperialista degli Stati Uniti. A distanza di anni, rimane il fatto che il piccolo e arretrato Việtnam si è opposto militarmente, nel volgere di poco più di trenta anni, al Giappone, alla Francia, agli Stati uniti, alla Cina e alla Cambogia, senza contare una guerra civile durata oltre dieci anni: e non ha perduto neppure una di queste guerre. Ciò significa che la classe dirigente di Hànội ha avuto a lungo il sostegno di larghissimi strati della popolazione, che la volontà di riunificate il nord e il sud era condivisa da tutti, e che nessuno sforzo è stato risparmiato per non piegarsi agli stranieri. Durante questo lungo braccio di ferro tra Hànội e Washington, il partito comunista del Việtnam (Đảng Cộng sản Việt Nam) non ha mai accettato l’aiuto di volontari del blocco socialista, guardando anzi con sospetto i tecnici militari sovietici che rimasero per tutto il tempo della guerra americana.
Dall’inizio degli anni Quaranta fino a oggi, Hànội è rimasta l’epicentro di questa inflessibilità terzomondista, orgogliosa al punto da diventare fanaticamente nazionalista; l’immaginario del Sessantotto in Europa si è nutrito anche di questa resistenza quasi mitica in condizioni militari, sociali e economiche estremamente difficili.
Per questo arrivare a Hànội significava per me vedere con i miei propri occhi l’austera capitale di quel lontano, misterioso mondo che ogni giorno durante la mia adolescenza imponeva la propria esistenza dal telegiornale. Nel mio ricordo di oggi, lo stillicidio di notizie di morte dal Việtnam occupa lo stesso spazio dell’Iraq dei nostri giorni: l’impressione era quella di una lenta, inesorabile marcia dei Vietcong su Sàigòn, un fiume di formiche soldato che scendevano da nord, uscivano dalle foreste e sbucavano dal sottosuolo, oppure filtravano dal sentiero di Hồ Chí Minh per colpire alle spalle le basi americane. La guerra del Việtnam è uno dei miti più stabili della mia infanzia.
Hànội è una città decisamente più piacevole e attraente di Tp.Hồchíminh, la vecchia rivale Sàigòn. L’aeroporto Nộibài è a una certa distanza dalla città, collegato da una lunga autostrada diritta che si immette in una sopraelevata a più corsie, così che quasi ogni punto del centro storico è raggiungibile con relativa facilità. Il cuore della capitale è il lago della Spada Restituita, un piccolo specchio d’acqua piatto circondato da un anello di giardini dove gli abitanti passeggiano alla ricerca del fresco, e gli anziani arrivano in tuta o in maniche di camicia per il tai chi della sera o del mattino.
A nord del lago c’è il quartiere delle Trentasei Strade, ognuna delle quali prende il nome da una delle corporazioni che nel Duecento occuparono la zona, dividendosi le vie commerciali. Ancora oggi, queste animatissime vie portano i suggestivi nomi delle attività originarie: via dei Graticci di bambù, via degli Argentieri, via del Rame, via della Carta Votiva, via dei Tamburi, via dell’Allume, via delle Erbe Medicinali e così via. L’aspetto più singolare è che molte delle attività che si tengono nelle Trentasei Strade sono ancora le stesse di novecento anni fa. Anche gli hotel economici della città vecchia (compreso il nostro Prince Hotel 1) sono dispersi nel quartiere delle Trentasei Strade, fra una miriade di agenzie turistiche, ristorantini, negozi di artigianato, bancarelle di ristorazione rapida e via così.
Hànội significa “Costruita sull’ansa del fiume”. La città ha assunto questo nome nel 1831, sotto l’imperatore Tự Đức, ma il luogo era abitato fino dal Neolitico. Il nome precedente era Dong Kinh (“Capitale dell’est”), da cui il toponimo “Tonchino” con cui il Việtnam settentrionale era conosciuto in Europa. Il movimento rivoluzionario Việtminh la proclamò capitale dell’intero paese nel 1945, ma solo dopo la resa dell’esercito francese a Điệnbiênphủ per opera del giovanissimo generale Võ Nguyễn Giáp fu riconosciuta capitale dalle diplomazie occidentali; subito dopo il paese fu spaccato in due, perché americani e francesi favorirono la secessione del Sud, nel timore che le elezioni a suffragio universale portassero al potere il partito comunista di Hồ Chí Minh.
Oggi Hànội è una città vasta e ordinata di tre milioni e mezzo di abitanti, con un grosso centro storico, ampi viali di impronta francese, quartieri novecenteschi di case restaurate, un centro storico vivacizzato da laghi urbani, parchi enormi, da un’esplosione economica paragonabile a quella della Cina anche se gli stipendi e il livello di vita non hanno ancora raggiunto gli standard di Tp.Hồchíminh. Il lago della Spada Restituita è il grande valore aggiunto della città: le sue rive ombreggiate da alberi antichi, gli eleganti caffè su lato settentrionale, le due isolette con il tempio di Ngọc Sơn e la Torre della Tartaruga rimangono a lungo nella memoria del viaggiatore. Seduti sulle panchine di pietra si può aspettare di veder passare l’intera città: ragazzini che passeggiano mano nella mano, anziani con vestiti di cotone che verso il tramonto eseguono i loro esercizi di tai chi su stuoie di bambù, qualche invalido che chiede elemosina (comunque molti meno che in qualsiasi metropoli occidentale), venditrici di ananas, bambini che cercano di spacciare cartoline agli stranieri, gente in cerca di ombra.
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Al caffè Thuỷ Tạ, sulla sponda settentrionale del lago, si possono consumare caffè, tè e pasticceria francese, oppure un pasto completo. Ci sediamo una sera nei tavolini affacciati direttamente sull’acqua; dalla balaustra di pietra, un ingegnoso sistema di raffreddamento cerca di alleviare l’arsura degli avventori: un impianto idraulico a cannule di rame puntate verso il cielo vaporizza a minuti alterni lungo la balaustra una nebbiolina d’acqua, immediatamente piegata dal vento fresco. La birra si scalda subito nei bicchieri di vetro ricoperti di condensa, i piatti faticano a raffreddare sui tavoli, ma nell’aria si sparge una nuvola di vapore acqueo: è proprio vero che in Việtnam l’acqua è ovunque.
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Il moderno complesso monumentale di Hànội, che comprende il mausoleo funebre di Hồ Chí Minh, è stato edificato a ovest della città vecchia, intorno al luogo dove sorgeva la casa su palafitta che il leader comunista abitò discontinuamente durante il periodo della guerra americana. Ancora oggi, ogni giorno una grande quantità di visitatori lascia borse e macchine fotografiche all’ingresso e si mette in coda in fila per due sotto le lunghe pensiline che proteggono dal sole, vigilati da militari in uniforme bianca. All’interno del mausoleo di marmo e pietra, in una temperatura micidialmente bassa, è vietato parlare. Occorre tenere un certo contegno. La doppia fila scorre lentamente ma senza fermarsi davanti alla grossa teca di vetro dove giace in bella vista il corpo imbalsamato di Hồ Chí Minh, morto nel 1969, nel momento in cui la guerra americana infuriava più cruenta. Sembra che ancora oggi le folle di vietnamiti che si mettono in coda per rendere tributo abbiano un profondo rispetto verso il padre della patria.
Hồ Chí Minh è senza dubbio uno dei grandi protagonisti del XX secolo, punto di riferimento non solo per i movimenti di liberazione di tutto il terzo mondo, ma anche per quanti nell’occidente cominciarono negli anni Sessanta a contestare lo status quo. Hồ Chí Minh, “colui che porta la luce”, è solo l’ultimo di una serie di pseudonimi assunti da Nguyễn Sinh Cung; figlio di un mandarino autodidatta, dopo il liceo si imbarcò come marinaio e visse in tutto il mondo: Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Unione Sovietica, Thailandia, Cina. Ricercato, incarcerato, evaso, condannato a morte, ricoverato in ospedale, ritornò in patria nel 1941 per fondare il movimento Việtminh, la lega per l’indipendenza che prese le armi contro gli imperialisti giapponesi che avevano occupato l’Indocina, poi di nuovo contro i francesi al termine della guerra mondiale. Fino all’anno della morte, Hồ Chí Minh rimase la guida spirituale del Việtnam durante la terribile prova della guerra americana.
Nel complesso del mausoleo funebre è inclusa anche la Pagoda Con Una Sola Colonna, costruzione in legno dell’XI secolo a forma di fiore di loto, sostenuta da un pilastro di cemento al centro di un piccolo specchio d’acqua. La colonna è stata ricostruita perché la pagoda fu fatta saltare in aria dai francesi per rappresaglia nel 1954, quando furono costretti a abbandonare la città dopo il disastro militare di Điệnbiênphủ.
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Sempre a ovest della città vecchia sorge il bellissimo Tempio della Letteratura (Văn Miếu), l’antica università che per sette secoli — dal 1076 al 1778 — fu il centro della vita culturale di Hànội. Un lungo quadrilatero di mura racchiude cinque cortili successivi, separati da mura; come di consueto, la via centrale con le sue porte a arco era riservata ai re e agli imperatori, le vie laterali lungo i muri destinate ai mandarini, ai quali era dedicata l’istruzione superiore. Una visita al Tempio della Letteratura significa isolarsi dal ritmo frenetico della città. Nei suoi vialetti si possono incontrare turisti, studenti in cerca di un posto tranquillo per studiare, coppie di sposi con fotografo per il servizio nuziale. La storia sembra fotocopiata nei colori sbiaditi dei muri, all’ombra di alberi antichi, nell’enorme campana di metallo custodita sotto una tettoia di tegole, nei padiglioni di legno e muratura, nelle curve a iperbole dei tetti. Il fresco si annida all’ombra dei templi, dove ristagna il fumo di incenso. Una fenice di metallo dalle lunghe zampe si regge sulla schiena di una tartaruga di pietra; i fiori e i bonsai vegetano nei grossi vasi di coccio che quasi non lasciano ombra sotto il sole a picco. Mandarini di pietra sorvegliano l’ingresso all’ultimo cortile, ignorati dalle studentesse che si proteggono dai raggi solari con un ombrello. Sui due lati del terzo cortile, di fianco a una vasca d’acqua rettangolare, sotto tettoie aperte sono collocate 82 grandi tartarughe di pietra, ognuna delle quali porta sulla schiena una lapide scolpita: a partire dal XV secolo, vi furono incisi i nomi dei candidati, il luogo di nascita e i risultati degli esami ai concorsi triennali di dottorato. Dei 116 concorsi tenuti fino al momento in cui l’università fu trasferita nella nuova capitale Huế, 34 lapidi sono andate perdute: le rimanenti osservano il cielo grazie agli occhi ciechi delle tartarughe allineate in file di quattro una a fianco dell’altra.
Proprio di fianco al Văn Miếu ha sede il KOTO (Know one, Teach one) caffè creato per dare lavoro ai ragazzi di strada, con il suo delizioso menu di piatti originali in un’ambientazione accattivante affacciata sulle mura del tempio. Qualche metro più in là c’è la sede di Craftlink, organizzazione del commercio equo e solidale che si impegna a pagare il giusto prezzo agli artigiani che confezionano i suoi prodotti. Riusciamo a spendere quasi 200 euro in due per una serie di regali e prodotti tessili impossibile da stipare negli zaini; siccome Mariella lavora come volontaria in una cooperativa fair trade italiana, che importa anche i prodotti Craftlink, le commesse del negozio ci fanno anche conoscere Trần Tuyết Lan, la loro responsabile appena rientrata dall’Italia.
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Il Thăng Long, il teatro delle marionette d’acqua, è una delle istituzioni più caratteristiche di Hànội. Chiediamo al tassista che ci riporta in centro dal Tempio della Letteratura di lasciarci all’entrata del teatro, proprio sulle sponde del lago della Spada restituita. Durante le periodiche inondazioni nel delta del Fiume Rosso, i contadini inventarono questo spettacolo di burattini di legno mosse da funi sottili che passano dentro canne di bambù sotto il pelo dell’acqua. Oggi, il programma nel teatro esclusivamente dedicato comprende musica suonata dal vivo con strumenti tradizionali e una sequenza di brevi scene, con marionette doppiate rigorosamente in vietnamita: una deliziosa sarabanda di mandarini, draghi, contadini, anatre, bufali in una cornice di fuochi pirotecnici che fioriscono nell’acqua. Da non mancare.