Uzbekistan, viaggio d’Oriente tra Samarcanda e il (fu) lago d’Aral

L'Uzbekistan da ovest a est, quasi tutto on the road
Scritto da: balzax
uzbekistan, viaggio d'oriente tra samarcanda e il (fu) lago d'aral

Le città di Tamerlano e il lago d’Aral. L’Uzbekistan da ovest a est, quasi tutto on the road

L’Uzbekistan è una meta che avevo in mente da tempo, a completamento di un precedente viaggio lungo la Via della Seta che da Pechino mi aveva portato fino al Kirghizistan. Poi è arrivato il COVID e tutti i piani sono saltati. Ma dall’inizio del 2022 si può cominciare a viaggiare quasi dovunque senza restrizioni eccessive e quindi l’istinto del viaggiatore ancora una volta prevale sulle abitudini poltroniere causate dalla quotidiana frequentazione di internet e social. Inoltre, l’Uzbekistan ha ridotto le formalità doganali e non c’è più bisogno del visto per entrare nel paese.

Volo Milano-Tashkent via Istanbul con Turkish Airlines. Per l’organizzazione del viaggio mi sono appoggiato a un’agenzia locale, Anur Tours di Tashkent. Hanno personale che parla italiano, come la gentilissima Fatima che mi teneva sempre aggiornato via Whatsapp sugli alberghi, sul percorso e sugli orari dei trasferimenti, come nel caso del biglietto del treno Samarcanda-Tashkent che fino all’ultimo è rimasto in sospeso.

Il programma che abbiamo costruito assieme prevede di raggiungere il lago Aral da Nukus (dopo volo interno Tashkent-Nukus), poi da lì ritornare in auto con autista fino a Samarcanda, quindi treno per l’ultimo tratto di rientro nella capitale. Guide locali nelle città, alberghi massimo 3 stelle su mia richiesta, per il mangiare spuntini a base di frutta e samsa lungo la strada e ristoranti locali alla sera.

Diario di viaggio

7 ottobre – Tashkent  

La capitale dell’Uzbekistan è un esteso agglomerato di quartieri che ospita 3 milioni di abitanti. Siamo in ottobre ma il tempo è stupendo: qui si vantano di avere più di 300 giorni di sole all’anno, e non c’è ragione di dubitarne vista la fascia climatica in cui si trova il paese. Lunghi vialoni a 6 corsie congiungono i vari quartieri che si estendono su un’area circolare di oltre 30 km di diametro. Sui viali si affacciano negozi e edifici commerciali, mentre nelle vie laterali, accuratamente evitate dal mio autista, si intravedono gli enormi palazzoni ad alveare di stampo sovietico che ospitano migliaia di famiglie.

Per noi turisti la zona più importante è la città vecchia: la piazza Khazret-Imam con cui si comincia a fare conoscenza delle strutture tipiche delle città storiche uzbeke. In particolare le madrase, cioè le scuole dove si studia la letteratura sacra dell’Islam con i loro caratteristici portali istoriati, le moschee, le torri e i minareti. Visitiamo la madrasa Kukeldash e la madrasa di Muy Muborak (la madrasa del capello scuro del profeta), che contiene l’antico Corano di Osman, scritto in dialetto Kuraish senza le vocali, conservato in un sarcofago speciale in vetro antiproiettile in una stanza dove luce e temperature sono controllate in modo da mantenere intatte le preziose pagine. Nella Moschea Jameh (o Moschea del Venerdi), ci sono fedeli raccolti in preghiera, che i poliziotti di guardia mi consentono di fotografare, cosa che non mi sarei aspettato.

La madrasa si trova vicino al Chorsu Bazar (il bazar dei 4 suk), che è il mercato principale di Tashkent. Qui si trova di tutto, ma colpisce soprattutto l’abbondanza di frutta, in particolare le cataste di meloni e melograni. Sui meloni bisognerebbe scrivere un capitolo a parte: ce ne sono circa 160 tipi, dolci e a volte profumati di vaniglia e gardenia (non fateveli mancare a colazione!), tanto che si dice che l’Uzbekistan sia il paese dei meloni. Le melonere si trovano dovunque anche lungo le strade. Da vedere anche il forno dove fanno il pane (che si chiama naan e si pronuncia non): i fornai schiaffano palle di pasta sul cielo di grandi forni a legna, le schiacciano con una spatola e le staccano quando sono cotte. Il risultato sono dei pani circolari molto consistenti che pesano mediamente 1 kg, o anche di più nelle regioni occidentali. Vicino al bazar c’è anche il Plov Centre, dove in enormi pentoloni da 2-3 quintali a botta i cuochi locali preparano il plov, cioè riso con carne e carote che è il piatto tipico nazionale e una vera e propria istituzione uzbeka.  Già appena entrati si vedono i cuochi in azione chini sui kazan, gli enormi pentoloni dove viene preparato il risotto. All’interno il locale sembra una grandissima mensa pubblica con un solo menu a base di plov e pane, per la stellare cifra di circa 3 euro a testa.

Dal Chorsu Bazar si scende nella scenografica metropolitana di Tashkent, che ricorda per bellezza architettonica quella di Mosca. Qui le stazioni sono caratterizzate da strutture a colonna, spesso ricoperte di fregi e mosaici. Ho visto le stazioni Gafur Gulom (poeta uzbeko), Mustaqilik Maydoni (piazza dell’integrità), Pakhtakor (coltivatori di cotone), Kosmonavtlar (cosmonauti, dedicata a Yuri Gagarin e Valentina Tereshkova, primo uomo e prima donna a orbitare nello spazio), Alisher Navoiy (scrittore musulmano chagatay). Non perdete una visita a queste, o ad altre che la guida vi indicherà: il biglietto costa solo 1400 sum, cioè 0,13 Euro (!!!). A proposito, le stazioni della metropolitana sono anche i posti dove è più probabile trovare un bancomat che funziona. Essendo il cambio 1 Euro = 11.000 sum, ho cambiato 200 Euro e mi hanno dato un pacco di sum uzbeki.

La città moderna è meno interessante, piena com’è di palazzi inutili e semivuoti, ammassi di calcestruzzo retaggio del brutalismo e dell’elefantiasi dell’edilizia post-sovietica. L’hotel Uzbekistan, un immenso alveare di gabbie di cemento di 17 piani domina la grande piazza Timur Square, con un imponente monumento equestre di Tamerlano. Vediamo anche il Museo delle Arti Applicate (Amalyi San’at Muzeyi), dove c’è sempre qualche interessante esposizione di artigianato locale.

Cena al ristorante Caravan con plov speciale arricchito di ceci e uvetta e gli immancabili samsa (tortelloni di pasta ripieni di carne trita) per un conto di 13 Euro circa, e pernottamento all’hotel Milan (ma va!).

8-9 ottobre – Il Karakalpakstan e il disastro ecologico del lago d’Aral   

Volo interno Tashkent-Nukus con Uzbekistan Airways che ha aerei moderni avendo abbandonato da tempo i Tupolev e gli Yak di produzione sovietica.

Nukus è la capitale della regione occidentale dell’Uzbekistan, o meglio del Karakalpakstan, che qui scrivono spesso con la Q e occupa circa 1/3 del paese. La prima cosa che ci dice la guida è ‘benvenuti nella Repubblica Autonoma del Qaraqalpaqstan’, mettendo subito in chiaro che qui non sono uzbeki (ciò spiega l’insegna ‘Nukus International Airport’ notata all’arrivo). In effetti parlano una loro propria lingua, hanno la propria bandiera e non nascondono rigurgiti di secessione che a volte sfociano in manifestazioni violente contro il regime. A luglio a Nukus durante una manifestazione antigovernativa la polizia uzbeka ha sparato ad altezza d’uomo e sono morte 18 persone tra civili e poliziotti. Durante la visita comunque nessun problema di sicurezza, anzi gente cordialissima e sorridente, qui come praticamente dovunque in Uzbekistan.

Da Nukus al lago d’Aral ci sono circa 300 km che bisogna fare con la jeep perché la strada asfaltata arriva solo a Moynaq, poco oltre la metà del percorso. Moynaq una volta era il centro peschiero più importante del lago d’Aral, mentre oggi dista ben 150 km da quel poco che ne rimane. Dalla rocca dove prima c’era il molo dei pescherecci, quello che si vede adesso è solo un deserto macchiato di arbusti e sterpaglia. Sotto, adagiati su quello che un tempo era un fondale profondo 60 metri, giacciono decine di relitti di pescherecci, un cimitero di ferraglia arrugginita che mette i brividi. La tragedia del lago d’Aral qui ce l’hai proprio davanti agli occhi. A partire dagli anni ’60 il corso dei fiumi Amu Darya e Syr Darya, che erano gli affluenti del lago, fu deviato azzerando l’afflusso d’acqua al bacino, riducendone progressivamente e inesorabilmente il volume (oggi il 5% circa rispetto agli anni ’60). La spiegazione ufficiale è che l’acqua dei fiumi serviva per irrigare i campi di cotone, che nel periodo sovietico Mosca richiedeva in grande quantità per le divise dell’Armata Rossa. La guida Aybek, che non nasconde il suo patriottismo karakalpako, ci dice invece che la ragione vera è che i russi avevano scoperto grandi giacimenti di gas sul fondo del lago, e quindi ne provocarono intenzionalmente il prosciugamento per poterlo estrarre a basso costo, senza dovere installare piattaforme di perforazione.

Il Regional History and Aral Sea Museum di Moynaq (da non perdere) con fotografie e un filmato mostra come ferveva la vita lungo le sponde, come era florida l’economia locale basata sulla pesca e sull’industria della lavorazione del pesce. Moynaq era considerata la città più ricca dell’Asia Centrale. Il lago era uno dei bacini più pescosi del mondo, a causa della presenza nel fondale di minerali e nutrienti, magnesio, fosforo, potassio e altri sali che favorivano il metabolismo algale e la produzione di plancton. L’abbondanza di questa risorsa costituiva una inesauribile fonte di nutrimento per i pesci, dal luccio allo storione a varie specie di trota, alcune esclusive di queste acque. Senza contare gli uccelli, le volpi, le lontre, gli anfibi che proliferavano tra i canneti e lungo le coste. La foto che più mi ha colpito è quella che mostra le decine e decine di diverse scatolette di conserve di pesce colorate che venivano prodotte dagli stabilimenti di Moynaq e poi inviate al mercato russo.

Da Moynaq si prosegue lungo una pista che corre esattamente sul fondo di quello che era il lago. Fa impressione pensare che sopra le nostre teste anni fa c’erano 50-60 metri d’acqua. Ormai lo chiamano Aral Kum, cioè il deserto dell’Aral, avendo cancellato per sempre dalle mappe e dalla memoria i nomi come Aral Sea, o Aral Dengiz in lingua locale, che si usavano prima.  Le torri di estrazione e gli stabilimenti per la concentrazione del gas si susseguono una dietro l’altra ai lati della pista, con i caratteristici pennacchi di fuoco del gas incendiato che si elevano al cielo. Arriviamo al campo tendato di Barsakelmes, montato due anni fa sulla riva ma ormai distante 300 metri dalla pozzanghera ex-lago che si sta sempre più ritirando. Oggi l’acqua occupa solamente il 5% dell’antico volume, con una salinità altissima che tra un po’ non consentirà più nemmeno al crostaceo artemia salina di sopravvivere, così scompariranno anche i fenicotteri che vengono qui in primavera. Si stima che entro 8-10 anni della porzione uzbeka del lago non rimarrà più nulla.

Si dorme in yurta, in gruppi di 4. Fa un freddo cane, siamo almeno 3-4 gradi sottozero, ma la dovizia di coperte è notevole. Il tramonto, la salita della luna nel cielo e l’alba sono spettacolari. Rischiando il congelamento, abbiamo dormito poco e siamo stati tutti quasi sempre fuori ad ammirare i colori offerti dalla natura.

Il giorno dopo si torna a Nukus, lungo un percorso più a est che attraversa gli splendidi panorami desertici dell’Ustyurt Plateau, toccando il lago Sudochie, che è un bacino artificiale di acqua dolce, e i distretti di Khojeli e Kungrad dove vivono i lavoratori degli impianti di estrazione del gas. Gente che per un po’ di sum in più nello stipendio accetta di lavorare per qualche anno in queste lande torride d’estate e gelide d’inverno.

Sulla via del ritorno ci fermiamo alla necropoli di Mizdakhan, al confine con il Turkmenistan, un antico cimitero zoroastriano situato accanto ai resti della fortezza di Gyaur-Kala, uno dei luoghi di pellegrinaggio più antichi e visitati del Karakalpakstan. La fortezza ha ricevuto il suo nome durante la conquista araba e significa ‘bastione di miscredenti’, perché gli arabi consideravano tali gli abitanti zoroastriani.

A Nukus visitiamo il Museo Savitsky, o Museo Statale delle Arti del Karakalpakstan, un vero e proprio ‘Louvre delle steppe’. Qui sono esposte opere di pittori russi non allineati, uzbeki e kazaki che Igor Vitalievich Savitsky, un artista appassionato di tesori perduti, ha raccolto e portato qui in mezzo al deserto.

10 ottobre – Khiva, il museo a cielo aperto 

A Nukus mi aspetta l’autista che mi accompagnerà fino a Samarcanda. Si chiama Murad Kadyrov e parla un buon inglese. Il cognome al momento mi mette un po’ in apprensione, poi il ragazzo, che si rivelerà bravissimo e disponibilissimo, mi rassicura dicendo di non avere nessuna parentela con il boia ceceno.

Da Nukus a Khiva sono 180 km che si fanno in 3 ore circa ma non ci si annoia. La strada corre attraverso sterminati campi di cotone, con le operaie che sorridono e salutano quando mi fermo per fotografarle, montagne di meloni accatastate qua e là, e le donne che preparano il forno tandir per cuocere i samsa (equivalente degli indiani tandoori e samosa). Ci sono anche molte risaie, come era prevedibile visto che il plov a base di riso è il piatto nazionale, malgrado la penuria d’acqua visto che siamo in una zona desertica.

La città interna di Khiva, circondata da possenti mura con torrioni, si chiama Ichan Kala, ed è una specie di museo a cielo aperto che si scopre passo dopo passo camminando tra i tortuosi vicoli che attraversano i quartieri. Per visitare molti dei monumenti bisogna acquistare un biglietto cumulativo nell’ufficio turistico subito fuori dalla Porta Occidentale. Il momento migliore per la visita è il tramonto, quando dalla Porta Settentrionale, salendo sulle mura si ha una stupenda visione della città al crepuscolo. Una coppia di sposini in bellissimi abiti tradizionali sta facendo il servizio fotografico per il matrimonio, e ovviamente non ci si può esimere dall’immortalarli. Gli edifici da vedere sono tanti. Il più famoso è il Minareto Kalta Minor, quello rivestito di piastrelle azzurre che appare su tutti i dépliant delle agenzie turistiche.  E’ alto solo 27 metri, essendosi fermata a questo punto la costruzione originale che prevedeva dovesse arrivare a 90 metri. E’ rimasto incompiuto a causa della morte improvvisa del suo committente, Mohammed Amin Khan, ma pare che i calcoli ingegneristici non fossero troppo azzeccati e che a 90 metri non ci sarebbe mai potuto arrivare. La fortezza Kuhna Ark circonda l’Ichan Kala. Fu costruita nel XII e per secoli è stata la dimora dei sovrani di Khiva. All’interno ci sono diversi edifici di interesse (scuderie, prigione, harem, zecca) ma il vero punto forte è la vista stupenda che si gode dall’alto delle sue mura. Vediamo anche la Moschea Juma, con le sue 218 colonne di legno, il minareto della madrasa di Islom Hoja, che con i suoi 57 metri è il più alto dell’Uzbekistan, il Palazzo Tosh-Hovli e il Mausoleo di Pahlavon Mahmud, poeta, filosofo e lottatore dalla forza straordinaria, che divenne nel XIV secolo il patrono di Khiva.

11-12 ottobre – Bukhara e il deserto rosso   

Da Khiva a Bukhara ci sono 450 km di strada, 7-8 ore attraverso il Kyzyl Kum, il deserto rosso, dove non c’è praticamente niente: una steppa sconfinata puntellata di arbusti alti mezzo metro, e poi non è neanche rosso come dice il nome. Rarissime anche le stazioni di servizio: praticamente ce n’è una sola a metà strada dove convergono tutti i viaggiatori. Per fortuna l’autista Murad conosce un ristorantino a conduzione familiare dove servono il pesce dell’Amu Darja, che si raggiunge con una deviazione segnalata qualche kilometro più a sud della strada nel deserto, nascosto da uno sperone di roccia. Il ristoratore ci mostra anche qualche esemplare degli ultimi pellicani dell’Amu Darja, che se ne guardano bene dal tornare al fiume visto che nel cortile raccolgono a sbafo gli avanzi di pesce gettati dai clienti. Anche questi uccelli sono in via di estinzione come il fiume, la cui portata si riduce di anno in anno.

L’unica variante che rompe la monotonia del deserto è un enorme impianto di concentrazione del gas costruito un’ottantina di km prima di Bukhara, che ha dato il nome anche al villaggio sorto per ospitare i lavoratori (Gazli).

Finalmente alla sera arriviamo a Bukhara, dove dopo tante cene a base di riso con carote riusciamo a trovare un posto dove fanno le bistecche. Con grande fantasia l’hanno chiamato Ristorante Steakhouse, ma la carne è davvero buona e i prezzi come sempre sono contenutissimi (non si arriva mai a 20 Euro). Tra l’altro, nelle città turistiche si può pagare anche con la carta di credito e se ti serve contante i bancomat funzionano.

La visita della città è in programma il giorno dopo. Ci guida la gentile Nilufar, che mi invita subito a chiamarla Lili evitandomi così l’imbarazzo di pronunciare male il nome. Parla inglese, russo, uzbeko e tagiko, ma purtroppo non l’italiano, sigh. A Bukhara le cose da vedere sono tantissime, e non tutte localizzate nel centro storico per cui bisogna prevedere degli spostamenti col taxi. Ci ha pensato Lili, che ha anche pagato di persona le corse.

All’ingresso del centro storico ci sono tre cupole con bazar coperto, che espongono una quantità incredibile di merci. Questi bazar di Bukhara sono probabilmente il posto migliore dove comprare i souvenir da portare a casa o regalare agli amici. In mezzo alla onnipresente paccottiglia per turisti si possono trovare delle cose interessanti. Ho puntato subito l’occhio sulla bottega del fabbro, dove forgiano i chust, caratteristici coltelli uzbeki con la lama più larga dell’impugnatura, in osso o legno. Quelli più belli sono i coltelli con intarsi damascati (pichok), per i quali però i prezzi partono da 250 € e si fa fatica a scendere sotto i 200 malgrado la contrattazione. Un chust non intarsiato, comunque bello, si riesce a portarlo via per 50-60 euro. Altre idee-regalo: le sciarpe in seta, gli zucchetti da odalisca o da uomo, i copricapi di feltro o cammello o pelliccia in stile turkmeno, le ceramiche, i manufatti in legno intagliato. Ovviamente ci sono anche i tappeti, ma i migliori non sono in vendita qui nel bazar e si trovano nei laboratori di tessitura specializzati. Invece dei tappeti, meglio puntare su ikat e suzani, tessuti ricamati di cotone e seta tipici dell’Asia Centrale, che si trovano in tutti i bazar e costano molto meno. Una cosa curiosa che ho comprato per me (oltre a un coltello non damascato e naturalmente a una consistente scorta di magneti da frigo): un ciuccio di bronzo smaltato con catenella (sì, proprio come quelli che si mettono in bocca ai bebè per farli stare buoni). Come sempre nei mercati bisogna contrattare, ma si vede che qui hanno sgamato i turisti, e difficilmente si riesce a abbassare il prezzo oltre il 20-25%.

Le cupole azzurre dei mausolei segnano le cose da vedere a Bukhara, che sono tante. Il complesso Lyab-i-Hauz (la vasca vicino al laghetto) ce l’ho proprio davanti all’hotel Divan Beghi: è un khanqa, o foresteria per sufi itineranti, costruita dal visir Nadir Divan-Beghi con annessa sinagoga. Davanti c’è uno stagno che è una delle ultime vasche di pietra per l’approvvigionamento idrico pubblico rimaste, prima che i bolscevichi le svuotassero creando un sistema idrico più moderno, perché l’acqua stagnante delle vasche era ricettacolo di zanzare e veicolo di malattie. Sulla piazza Lyab-I-Hauz si affaccia la madrasa di Nadir Divan Beghi, la cui facciata non è straordinaria solamente per le piastrelle multicolori, ma anche perché ci sono raffigurati due pavoni che reggono due agnelli ai lati di un sole dal volto umano (come noto la religione islamica vieta di rappresentare creature viventi, siano esseri umani o animali, per cui questa madrasa è davvero un esemplare raro). Proseguendo la visita del centro storico, tra un bazar e l’altro si incontrano il bellissimo minareto Kalyan, con la relativa moschea Kalyan, che può   ospitare fino a 10.000 fedeli, poi la madrasa di Ulugbek che colpisce per la bellezza delle splendide muqarnas, le decorazioni ad alveoli tipiche dell’architettura islamica, e lì vicino la madrasa di Abdul Aziz Khan. La fortezza di Ark, del V secolo, sta all’estremità ovest delle possenti mura del centro storico, infatti la guida Lili mi fa fare il percorso esterno proprio per potermi mostrare i bastioni. Dentro, c’è pronto un facsimile del trono di Gengis Khan, su cui vi potete sedere per una immancabile foto con in mano lo spadone dei guerrieri tartari. Fatela, è un bel ricordo!

L’ultimo edificio importante del centro storico, dove comunque conviene ritornare in momenti di calma come al tramonto o all’alba, è la moschea di Bolo Hauz, o moschea delle 40 colonne, che sarebbero in realtà venti ma i furbi uzbeki conteggiano anche la loro immagine riflessa nello stagno (hauz) che sta davanti, raddoppiando così il numero.

Fuori dal centro storico, immerso in un parco, c’è il piccolo Mausoleo di Ismail Samani, che si raggiunge dopo una camminata su un vialetto che non finisce mai (si suda adesso in ottobre con 28 gradi, chissà come deve essere in estate con 40°C !). La facciata, in mattoni cotti e senza piastrelle colorate, è coperta da muratura finemente decorata, che presenta motivi circolari che ricordano il sole: un’immagine comune nell’arte zoroastriana della regione che voleva ricordare il dio Ahura Mazdā, in genere rappresentato da fuoco e luce. La forma dell’edificio è cuboide, e ricorda la Kaaba a La Mecca. Il sito è unico per il suo stile architettonico che combina motivi zoroastriani della dinastia sasanide con motivi islamici introdotti dall’Arabia e dalla Persia. Lo stile sincretistico del santuario riflette il IX e X secolo, un momento in cui in questa regione vivevano ancora grandi popolazioni  zoroastriane che avevano cominciato a convertirsi all’Islam in quel periodo. In sostanza, agli zoroastriani veniva prospettata la scelta tra convertirsi all’Islam o venire decapitati.

Per raggiungere l’ultimo edificio di interesse turistico bisogna prendere il taxi. Il Char Minar vorrebbe dire ‘quattro minareti’, ma in realtà sono torri sormontati da cupole ricoperte da piastrelle di ceramica celeste.  Proprio di fronte c’è un piccolo bazar dove vendono medaglie e uniformi dell’epoca sovietica a prezzi altissimi.

La giornata è stata intensa, abbiamo visto tante cose e camminato parecchio. Serata di relax con spettacolo di danze e sfilata di moda nel cortile della madrasa di Nadir Divan Beghi, con pranzo incluso, e chi ti trovo? Un collega di lavoro con la gentile signora! E’ proprio vero che noi italiani siamo dovunque, e non sarà l’unica coincidenza di questo viaggio :)).

13 ottobre – Shahrisabz, la città natale di Tamerlano    

Partenza di buon mattino verso Shahrisabz, 270 km costeggiando campi di cotone e montagne di meloni e melograni ai lati della strada. L’autista mi compra un melone giallo-verde dolcissimo da 5 kg, per 10.000 sum (90 centesimi di euro). I meloni più grossi arrivano a i 10 kg.

A Shahrisabz, città natale di Tamerlano, la cosa più interessante sono i ruderi del Palazzo Ak-Saray (Palazzo bianco). Fu costruito da Tamerlano alla fine del XIV secolo. Era imponente, ma sfortunatamente sono sopravvissute solo tracce delle sue due torri, alte 65 metri e coperte di mosaici in ceramica, blu, bianco e oro. Sopra l’entrata si legge ancora una scritta a caratteri cubitali che recita: «Se metti in dubbio la nostra potenza, guarda i nostri edifici». Una grande statua di Tamerlano in piedi sorveglia il sito storico e la vicina moschea di Kok-Gumbaz. Ci sarebbe anche la tomba di Tamerlano, ma in realtà il condottiero fu sepolto a Samarcanda, e non qui nella città natale. Misteriosamente, la camera sotterranea della tomba, dentro sarcofagi con scritte che dichiarano la presenza della salma del re, conteneva due corpi che non sono mai stati identificati.

Nel pomeriggio trasferimento a Samarcanda (90 km). La strada sale sui 1700 metri del Kitab Pass, che superando le ultime propaggini della catena del Tien Shan collega la regione di Kashkadarya a quella di Samarcanda, tra paesaggi bellissimi e finalmente un po’ di piante, perché nelle zone desertiche ovviamente non è che abbondassero. Sul passo i contadini hanno allestito un mercatino con i loro prodotti: frutta per metà a me ignota, formaggini di latte condensato (un po’ troppo salati, in verità), frutta secca locale, noci e nocciole, minuscole mele mignon che ne puoi tenere una manciata in una mano, giuggiole, azzeruoli (o lazzarini come li chiamiamo qui da noi, ma ormai non si trovano più), vari semi da sgranocchiare. Grazie all’aiuto dell’autista Murad azzardo i nomi in uzbeko di due tipi di frutta secca buonissima che ho comprato qui e che mi sono portato a casa come souvenir: nakhut, palline gialle friabili, e yeryongoq, una specie di arachide ricoperta di uno strato zuccherino.

Arriviamo alla sera a Samarcanda, dove c’è un po’ di fresco e persino qualche nuvola, e chiaramente da buon italiano cosa ti vado a cercare? Una pizzeria. Proprio vicino all’hotel Shahdil dove alloggio c’è Bellissimo Pizzeria. Il nome italiano attira: la pizza è buona! E il conto come al solito non raggiunge i 15 euro, tra l’altro pagabili con carta di credito.

14-15 ottobre – Samarcanda, il cuore della Via della Seta     

Samarcanda è piena di fiori. Dopo tanto deserto si rimane quasi stupiti a vedere giardini pieni di surfinie, petunie e campanule colorate. È anche quella col traffico più caotico, stante la scarsità di mezzi pubblici e per il fatto che oggi con la crescita economica e un certo benessere il 60% delle famiglie uzbeke possiede due auto (quasi sempre Chevrolet bianche prodotte nei 3 stabilimenti UZ Automotors di Asaka, Pitnak e Tashkent).

Samarcanda è la più antica delle ‘città di Tamerlano’. Fu costruita 2750 anni fa ed è stata testimone di molti sconvolgimenti storici che hanno contribuito a creare un incredibile mix di culture: turca, persiana, indiana, mongola, occidentale e orientale. Tamerlano volle che Samarcanda divenisse la città più bella del mondo e decise di farne la capitale del suo impero, che nella massima espansione andava dai territori a occidente del Volga e dal Caucaso fino ai confini con la Cina, e dal lago d’Aral all’Oceano indiano fino alla vallata del Gange in India. In tutto l’Uzbekistan c’è il culto dell’emiro Timur (perché questo è in effetti il suo nome, dato che la desinenza lan cioè zoppo fu aggiunta dai persiani a sottolinearne la zoppia dovuta a una gamba più corta dell’altra). Tutta la città è impregnata del ricordo di questo condottiero potente e sanguinario, che faceva costruire muraglie utilizzando le teste dei nemici come mattoni, a cominciare dalla grande statua che lo ritrae incoronato e sul trono, che si trova all’inizio del boulevard dell’Università. Con questa, si chiude il trittico delle statue di Tamerlano: a cavallo a Tashkent, in piedi a Shahrisabz, sul trono a Samarcanda.

La città è spaccata in due: da una parte la nuova città ex-sovietica, piena di vialoni alberati, palazzoni e negozi di dubbio gusto, spesso con nomi italiani, dall’altra la città vecchia che cerca di mantenere intatta la magia di un tempo. Per noi turisti, ovviamente, la visita di Samarcanda si svolge quasi completamente nella città vecchia. Come a Bukhara, le cupole a bulbo azzurre, turchese, pervinca, indaco, persino viola, sono l’aspetto più appariscente degli edifici storici. Le piastrelle che adornano madrase, moschee, cupole, minareti, sacrari, tombe reali e quant’altro sono l’attrazione immediata di questa città e un po’ di tutto l’Uzbekistan.

Il Registan. Una delle più belle piazze del mondo. Con questo nome si indica un complesso che include tre madrase e l’immensa piazza su cui si affacciano. Il biglietto per accedere a quest’area dura tutta la giornata, dando così la possibilità di tornare anche la sera per vedere la piazza illuminata (direi una visita obbligatoria) oppure per assistere allo spettacolo ‘son et lumière’ delle 10, che però potete tralasciare perché la proiezione di fasci laser rossi e verdi su monumenti molto più belli con l’illuminazione normale, fa solo un effetto kitsch.

Il primo edificio a sinistra è la Madrasa Ulugbek, la prima delle tre ad essere costruita nel 1420: le stelle che si intravedono sulla facciata sono un omaggio all’amore per l’astronomia di Ulugbek, astronomo nipote di Tamerlano. All’interno, non mancate di visitare il negozio di ceramiche: oltre ad avere vassoi e ciotole incredibili, i proprietari vi racconteranno volentieri i 12 stili di ceramiche uzbeke (ognuna delle quali produce un suono diverso, provare per credere).

Di fronte c’è la madrasa Madrasa Sher-Dor, costruita due secoli dopo. La facciata di questa madrasa ricorda la madrasa di Nadir Divan-Beghi di Bukhara: vi sono infatti raffigurati due cervi inseguiti da una coppia di leoni, sormontati da soli con volto umano, di nuovo in aperta contraddizione al divieto islamico di raffigurare esseri viventi. Potrete notare la differenza rispetto alla madrasa di Ulugbek: qui le decorazioni sono a mosaico, mentre nella prima erano in maiolica. Nella piazza, poco prima dell’ingresso, noterete una tomba: è quella di un macellaio dell’epoca che fece da sponsor alla costruzione della madrasa fornendo carne da mangiare a tutti gli operai per ben 17 anni (tanto ci volle per costruire questa meraviglia), a patto di potere essere seppellito qui in eterno.

Ultima delle tre la spettacolare Madrasa Tilya-Kori, quella centrale. Il soffitto decorato in lamina d’oro è favoloso. Il motivo concentrico che vedete raffigurato è il cerchio della vita (la nascita al centro e a dipanarsi le varie fasi della vita) ed è lo stesso che poi trovate ripreso sulle ceramiche. All’interno c’è anche un’esposizione di fotografie d’epoca: molto interessanti per fare un confronto su come era Samarcanda meno di un secolo fa.

Moschea di Bibi-Khanym: la leggenda vuole che sia stata la moglie cinese di Tamerlano a ordinare la costruzione di questa moschea, sfruttando il ricco bottino che il marito aveva raccolto saccheggiando l’India. Nel centro del giardino, potete vedere un colossale leggio in marmo per il Corano: secondo la tradizione popolare, le donne che strisciano a carponi sotto i suoi archi avranno molti figli. Vicino alla moschea c’è Il Bazar Siyob, il più grande bazar di Samarcanda. Tutte le provviste quotidiane, come ad esempio il pane naan, la frutta e i formaggi, sono vendute qui.

Shah-I-Zinda (= il re è vivo). Insieme al Registan, il complesso Shah-i-Zinda è ciò che contribuisce a rendere Samarcanda un luogo leggendario. Questo viale che si trova nella parte nord-est della città è un trionfo di blu e turchese, un susseguirsi di mausolei e madrase con le pareti istoriate da versetti tratti dalle Sure del Corano. Tra i vari edifici ci sono laboratori e negozietti. Uno è frequentatissimo: quello dove fanno a mano i magneti da frigo, molto belli e neanche eccessivamente costosi (30-40.000 sum l’uno). Durante la visita delle madrase, come è capitato a me, vi potrà capitare di trovarvi per errore nel mezzo di una preghiera islamica: beh, tutto sommato di questi tempi anche un’invocazione a Allah può venire buona.

Mausoleo di Tamerlano: il grande emiro in realtà non doveva essere sepolto qui, ma nel Mausoleo fatto costruire apposta a Shahrisabsz. Peccato che il condottiero fu colto dalla peste mentre era in Kazakistan e i valichi di montagna che conducevano a Shahrisabsz fossero impercorribili: da qui la scelta di seppellirlo a Samarcanda.  L’interno è davvero spettacolare: tutto intorno al soffitto vi sono nicchie decorate a stalattite con le muqarnas, che fanno da cornice a diverse tombe. Quella di Tamerlano è posta in centro e la riconoscerete facilmente perché è in giada verde. Uscendo dal retro, non perdete anche il Mausoleo di Ak Saray: il soffitto dorato all’interno vi lascerà a bocca aperta.

Ci sono molte altre cose da vedere, come l’Osservatorio Astronomico di Ulugbek, il Quartiere Ebraico, il sito archeologico Afrosyiab, la tomba del profeta Daniele, la moschea di Hazrat-Hizr e chiaramente i bazar, anche se mediamente sono meno forniti di quelli di Bukhara. Magari conviene puntare sul bazar delle spezie, che invece qui è fornitissimo.  Il mio programma del secondo giorno a Samarcanda, oltre che Shah-I-Zinda, ha compreso la visita al Samarkand Bukhara Carpet Centre, un famoso laboratorio artigianale di tappeti. Qui ci sono le tessitrici che lavorano ai telai e sono esposti meravigliosi tappeti in seta e seta/lana, opere meravigliose dai prezzi a volte esorbitanti (oltre 10.000 Euro per un tappeto di seta medio-grande). Meglio non provare nemmeno la contrattazione: il venditore sa già che non farete l’acquisto e vi orienterà presto verso i tappeti cinesi che qui disprezzano come sottoprodotti di scarto.

Sarà perché è stata la capitale di un impero, sarà per le cupole turchese a costoni coperte di fregi, sarà perché Roberto Vecchioni le ha dedicato una bellissima canzone, o sarà forse per il clima da Mille e Una Notte che si respira tra le viuzze della città storica, ma Samarcanda è una città che ti rimane impressa, in un certo senso il simbolo di questo viaggio. Dedicatele almeno 2 giorni.

Conclusione e informazioni utili   

Si torna a Tashkent con il treno veloce Afrosiyob, di costruzione spagnola come i Talgo. Saluto l’autista Murad che mi ha scarrozzato assecondandomi in ogni richiesta. Il treno prende il nome da Afrasiab, la parte più antica dell’odierna Samarcanda. Prendo il treno n. 761 delle 17.32, che in 2 ore e un quarto raggiunge Tashkent alla velocità media di 200 all’ora. Biglietto 200.000 sum (18 euro). Mentre aspetto sulla banchina sento parlare in italiano: niente di strano, gli italiani vanno dappertutto. Ma un momento: le voci le riconosco! Ebbene sì, dopo l’incontro casuale a Bukhara, qui scopro che con me sta aspettando il treno un gruppo di viaggiatori tra cui ci sono alcuni amici con cui ho viaggiato, chi in Brasile, chi in Myanmar, chi alle Falkland. Ci ritroviamo nello stesso paese straniero, stesso giorno, stessa città, persino stesso treno e stressa ora: coincidenza incredibile! Baci e abbracci, ma siamo almeno su due carrozze diverse: si torna tutti a casa.

Il clima: settembre-ottobre sono mesi perfetti per un viaggio nell’Asia Centrale. Fa ancora caldo, ma non si superano i 30 °C e c’è sempre il sole.

Per colazione: gli hotel offrono la classica colazione continentale, persino con uova e bacon e i croissant se li chiedete. Ma provate a fare colazione con melone, anguria, formaggini di montagna, le decine di varietà di frutta secca (che magari potete anche sgraffignare per sgranocchiarla durante il viaggio)

Ristoranti: a Tashkent il ristorante Caravan, specialità plov con uvetta e ceci. A Samarcanda Restaurant Samarkand, anche questo ottimo per il plov, la zuppa lagman e gli spiedini shashlyk. Quando il riso con le carote vi ha stufato: Ristorante Steakhouse a Bukhara, Pizzeria Bellissimo a Samarcanda. Prezzi attorno ai 15 €.

La frutta: sia fresca che secca, si trova dappertutto. Settembre-ottobre sono i mesi dei meloni e del melograno. In tutti i bazar c’è almeno una pressa per spremere i melograni e produrre un succo fresco e dissetante.

I souvenir: oltre ai soliti, considerate questi: tessuti ricamati suzani, sciarpe di seta, calze di lana invernali, coltelli chust damascati o semplici, zucchetti da uomo e da donna di lana o meglio in pelle di cammello, oggetti intagliati in legno, ceramiche. Per i magneti, cercate i laboratori dove li dipingono a mano. Per i tappeti ci sono le tessiture artigianali, ma come ho scritto nel racconto i prezzi possono essere altissimi.

Bancomat e carte di credito: nelle città turistiche i bancomat funzionano, a Tashkent invece bisogna provare nelle stazioni della metropolitana. La banconota di taglio maggiore è da 100.000 sum (9 euro), ma non la danno sempre. Quindi aspettatevi un pacco di banconote da 10.000 e 50.000 sum. Alberghi e ristoranti accettano le carte di credito. Nei bazar prendono senza problemi euro e dollari.

Gli alberghi: generalmente tutti buoni e puliti. Costo medio di una doppia: 60 €.

Internet: Wi-Fi perfettamente funzionante in tutti gli alberghi, nei bar e nei ristoranti. Ovviamente non c’è copertura nel deserto e nella regione del lago d’Aral.

Simbolo del viaggio: le piastrelle turchese che ricoprono cupole e minareti

Gli uzbeki: non sono un ceppo etnico definito. Sono in parte europei, russi, persiani, indiani, arabi, mongoli. Ma hanno una caratteristica comune: sono gentilissimi. I ragazzi ti fermano per la strada cercando di dialogare con l’inglese che hanno imparato a scuola. Le donne sorridono e si fanno fotografare senza tanti problemi, malgrado la fede islamica.

Grazie per essere arrivati fin qui.

Luigi

luigi.balzarini@studio-ellebi.com

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