Uttarakhand, la terra dei villaggi degli spiriti: questa è l’autentica India da scoprire in un viaggio di meditazione
Nei villaggi della bassa montagna himalayana, ho imparato che quando la nebbia, a contrasto con il verdefoglia della foresta, assume sfumature bluastre, significa che sta per piovere. È la stagione dei monsoni, la stagione delle piogge. E qui nell’Uttarakhand indiano, detto Dev Bhoomi, la “Terra degli dei”, quando piove cala un’atmosfera tribale. Sembra che tutta la foresta si prepari a un rito celebrativo e pare percepire la montagna invecchiare.
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I sari colorati delle donne che tornano dai campi appaiono come piccoli spettri silenziosi, il cui arrivo è annunciato dal tintinnio delle cavigliere. Si muovono lentamente, solenni, mantenendo in equilibrio sulla testa i massicci fasci di erba appena tagliata. Iniziano a cadere le prime gocce. Quell’istinto umano che prende meccanicamente il posto dei pensieri mi fa indietreggiare, nel tentativo di non bagnarmi. Istinto che funziona in maniera diversa nella ragazza vicino a me. Mentre mi riparo sotto la tettoia di muschio umido, guardo Sushma. La ragazza solleva la testa ed apre le braccia, accogliendo i primi scintillii di pioggia che iniziano a far brillare i suoi capelli. “Finalmente” sospira.
I pappagalli e i pigliamosche cantano ora più forte. Oltre a loro e al suono della pioggia, non si percepisce altro. Nessun rumore umano. Solo il tanto agognato silenzio.
Agognato perché a Delhi era tutt’altra storia. Ero lì pochi giorni prima. Appena arrivi nella capitale, ciò che ti colpisce è il caos.
Poco più di un anno fa, ad aprile 2023, l’India ha sorpassato la Cina, diventando oggi la nazione più popolosa al mondo. E a Delhi, questa crescita è evidente. La città sembra racchiudere l’intero fracasso del mondo. Le strade brulicano di gente, di macchine e di cani e si percepisce un pulsare incessante. Un’evoluzione frenetica. Rumori di clacson, gente che grida, bambini che piangono, donne che ridono e uomini che pregano. È l’umanità stessa che parla da ogni vicolo, crepa e bocca.
Lì l’aria umida impregna gli odori. Una miscela di spezie, benzina, incenso e piscio.
Ma qui, tra le montagne dell’Uttarakhand, l’atmosfera cambia drasticamente. Si avverte il profumo intenso del legno umido e della terra, sottolineato dal canto dei grilli e dal fruscio delle scimmie tra le foglie. In questo contesto, l’unica cosa a crescere sono gli alberi. Gli esseri umani, al contrario, se ne vanno altrove.
Lo Stato dell’Uttarakhand è stato istituito nel 2000, separandolo dallo Stato confinante dell’Uttar Pradesh, al fine di concentrare maggiormente l’attenzione sul suo sviluppo, data l’evidente disparità, soprattutto economica, tra le aree urbane e rurali della regione.
L’inquietante tendenza allo spopolamento dei villaggi nelle aree remote e di confine si è diffusa ampiamente, tanto da ridurre alcuni insediamenti a popolazioni a una sola cifra. Ciò è dovuto al fatto che lo sviluppo economico dell’Uttarakhand si concentra principalmente nei distretti pianeggianti, provocando inevitabilmente il trasferimento della popolazione. Il clima è un altro fattore che non va tralasciato. Il suo cambiamento porta ad aumenti delle temperature, nubifragi ed epidemie di dengue. Questi fenomeni, come il cambiamento dei modelli delle precipitazioni e l’aumento degli eventi meteorologici estremi, influenzano in modo significativo l’agricoltura montana dello stato.
Attualmente, sono almeno 550 i ‘villaggi fantasma’, le comunità dove le persone si contano sulle dita delle mani.
Shri Timli – Mamma India è qui
Per raggiungere l’isolato villaggio di Shri Timli, immerso nel cuore della regione, ho intrapreso il viaggio insieme a un giovane fotografo svizzero, partendo da Rishikesh, la principale città dello stato dopo la capitale. L’unico mezzo disponibile per affrontare le strette e accidentate strade che si inerpicano verso le montagne è un furgoncino che percorre quella tratta una volta al giorno. Il costo di quattro ore di viaggio si aggira intorno ai 5 euro, e ci tocca prendere posto nel retro, il meno confortevole dell’intero veicolo. Il tizio al volante incarna la rappresentazione del tipico autista indiano: la mano si muove freneticamente tra la sigaretta e il clacson mentre canta e guida con l’atteggiamento di chi sa che tanto il nostro destino è già segnato alla fine dei burroni che fiancheggiano la strada. Frena e svolta come se volesse prendere in giro noi, le divinità e la morte stessa.
A luglio, nella feroce stagione dei monsoni, il verde esplode in un’intensità senza eguali. Lo scorgo oltre i vetri sporchi, punteggiato qua e là solo dalle macchiette bianche dei piccoli templi Hindu. Dalla radiolina esce ad intermittenza una canzone di Kumar Sanu.
«Laado (sorella minore) è bello vero?» mi chiede il ragazzo con gli occhi stanchi seduto accanto a me. Parla un misto di Inglese e Hindi, lingua principale della regione. «Il paesaggio è davvero incredibile, me ne stupisco ogni volta. Però non aspettatevi nulla dalla gente che abita nella bassa Himalaya. Siamo persone semplici, incollati a sta montagna. La vita qui è dura, ma bella. Mia moglie, mia madre e le sorelle, lavorano tutte nei campi, raccogliendo le verze da vendere. Solo che il mercato in città è così lontano dal nostro villaggio, e quindi tutto sto sudore non ci aiuta ad ottenere molto profitto».
Bhoma Ram fa il venditore ambulante di momos (piatto tipico tibetano) a Dehradun, la capitale. «Non mi piace vivere lì, quella città ti succhia l’anima. Ho una cameretta piccola, ci dormiamo in 5. Posso guadagnare qualche rupia per la mia famiglia ma non sono felice. Quando torno in appartamento, dopo lavoro, chiudo gli occhi e vedo questo verde qui, sai? Penso sempre a casa mia, tutto il tempo».
Ci fermiamo in un piccolo insediamento di qualche casa; l’autista deve fare il suo. Respiro a pieni polmoni l’aria fredda delle montagne, che ha sostituito quella appiccicosa di Nuova Delhi. Intorno a noi, delle ragazzine in divisa scolastica ci guardano incuriosite, ridendo tra loro e arrossendo quando le saluto. Hanno tutte la stessa acconciatura composta da due trecce ripiegate su di loro. Bhoma Ram compra due bicchieri di chai e me ne porge uno, insieme a un bidi, un tipo di sigaretta riempita di tabacco arrotolato. «Vorrei tornare più spesso, ma i soldi sono pochi e raggiungere il mio villaggio è un’impresa. Specialmente in questi tempi, durante la stagione delle piogge. Mi sforzo quanto posso per farcela almeno una volta al mese. Oggi è quella volta, quindi si festeggia». Conclude con un grosso sorriso.
Mi racconta della popolazione che diminuisce con un ritmo troppo rapido, lasciando la regione in preda a un progressivo abbandono. Oltre due terzi di questi villaggi giacciono in rovina, le terre agricole, un tempo fertili, ora sono avvolte da una crescita selvaggia. Gli abitanti, abbandonata l’agricoltura, si sono riversati in altre attività, poiché i raccolti sono scemati nel corso degli anni, accompagnati da un calo nei trasporti. Con un gesto ampio della mano, indica il furgoncino colorato che ci ospita, sottolineando la mancanza di connessione ai mercati, un’ulteriore spinta a erodere i loro già esili profitti.
«Mamma India è qui» dice, indicandosi il cuore, «ma a volte ho l’impressione che si sia un po’ dimenticata di noi».
Quando lo salutiamo, ci regala dei Bal Mithai, un biscotto al cioccolato, fatto con khoya tostato e ricoperto di palline di zucchero bianco. Ci chiede di andarlo a trovare un giorno. Anche il suo villaggio, come quello in cui ci stiamo dirigendo noi, si trova nella divisione del Garhwal. Lo stato è diviso in due ulteriori regioni: quella occidentale, Garhwal, che rappresenta la parte femminile dell’Uttarakhand, e Kumaon, a est, la parte maschile, in quanto il paesaggio è impervio, plasmato dallo scorrere dei quattro grandi fiumi che sgorgano dai ghiacciai dell’Himalaya (tra cui il fiume Gange) che nei secoli hanno creato creste e canyon dai contorni aspri.
La strada non porta fino al villaggio, bisogna scendere a piedi per un sentiero verso la gola della valle, per circa 15 minuti. Shri Timli è più piccolo di quanto pensassi. Cinque case di cui una abbandonata. Le abitazioni sono prevalentemente edificate utilizzando pietre locali unite con fango usato come malta. I tetti, di solito, sono composti da tegole di ardesia o da lamiere ondulate. I letti sono tavoli di legno, con una coperta sopra.
Devikhet – L’educazione che non si arrende
Alle 7, dei colpi riecheggiano contro il legno della nostra porta, la quale produce un suono ovattato intriso dall’umidità. «Wake up! School!» Sivoham, è uno dei ragazzini del villaggio. Ha una cicatrice sulla fronte, proprio in mezzo agli occhi. Ritengo importante menzionare la cicatrice poiché si è offeso profondamente quando, il primo giorno, non gli abbiamo chiesto come l’avesse ottenuta. «Me lo chiedono sempre tutti, l’avete notata vero?» La sua padronanza dell’inglese è sorprendente, così avanzata, a differenza mia, che non ho mai potuto cogliere la ragione di quella ferita. Dice che diventerà un calciatore fortissimo.
La scuola si trova nel villaggio principale, Devikhet (150 abitanti), dove vi sono anche le botteghe. Sono tutte identiche, stracolme di cibo, caramelle, tabacco. L’unica cosa diversa è il viso del venditore che spunta tra gli ammassi di articoli. Solitamente ci dirigevamo al villaggio a bordo di un furgoncino da otto posti, ma sovrappopolato da almeno 20 personcine irrequiete stipate le une sulle altre.
Alcuni giorni gli studenti erano troppi e quindi dovevamo percorrere il tragitto da e per la scuola a piedi. I primi giorni osservando le donne piene di gioielli e di legna sopra la testa, pensavo che non sarebbe stato difficile. Dopo la prima mattina a piedi avevo già cambiato idea. Usavamo una scorciatoia per evitare la strada altrimenti troppo lunga, ma era un sentiero scosceso con le mucche che spesso bloccano la via. E poi c’era il problema dei sassi degli spiriti.
Sivoham ci teneva tantissimo. «Non ci calpestate sopra» ci implorava con sguardo supplichevole, indicando una particolare varietà di roccia che, grazie ai minerali presenti all’interno, sotto il sole, assumeva tonalità azzurre brillanti. Mi guardava negli occhi serissimo e allora io cercavo di fare del mio meglio per evitarle. Lui saltellava per tutto il sentiero tra le pietre normali e quelle spiritate borbottando. «Stai attenta, davvero, che poi da quelle escono i fantasmi e la notte ci vengono a cercare». Io lo prendevo in giro ma Sivoham mi rispondeva che avrebbe vinto la coppa dei campioni (questo lo diceva particolarmente spesso) e dovevo rispettarlo e che i fantasmi li aveva visti. Erano bianchissimi, quasi quanto me.
Nella scuola, dopo aver fallito come insegnante di inglese, mi fu chiesto di dipingere alcune pareti dell’istituto con dei murales.
Ashish Dabral ne è il fondatore. «Sono nato a Shri Timli. L’intero villaggio è sempre stato per me come una famiglia. Le persone vivevano, lavoravano e condividevano la vita e tutto ciò che aveva da offrire! Ma questa vita a Timli, proprio come in tanti villaggi di questa regione, non è cambiata molto negli ultimi 50 anni. Sono sempre più alle prese con i bisogni fondamentali della vita, come l’istruzione, il lavoro e le opportunità economiche. Se ne vanno in tanti. Io stesso sono uno di quei migranti economici. Ma Timli ha qualcosa di speciale che ha arricchito la mia vita fin da quando ero ragazzo e che mi riporta regolarmente a casa, nel luogo a cui appartengo veramente: la scuola».
La scuola di Shri Timli Vidyapeeth, fondata nel lontano 1882 dal bisnonno di Ashish e altri audaci pionieri, è sorta con l’ambizione di far rivivere gli antichi insegnamenti vedici indiani (I Veda costituiscono i fondamentali testi sacri dell’antica saggezza induista) intrecciandoli con un approccio educativo più moderno. L’insegnamento, che era originariamente focalizzato sul sanscrito, ha poi accolto l’inglese come seconda lingua per rispondere alle crescenti esigenze degli studenti.
In passato, questa istituzione godeva di grande popolarità, con oltre cento studenti, lodata per l’eccellenza dell’istruzione dispensata.
Nel corso degli anni, però, la migrazione economica e la mancanza di investimenti da parte del governo hanno avuto il loro peso e nel 2013 sono rimasti solo 3 studenti.
«Questa è una storia triste che affligge molte scuole dei villaggi rurali dell’Himalaya. Ma credo che non debba essere così. Credo nella nostra gente. Siamo la gente delle montagne. Abbiamo a disposizione incredibili risorse che spesso non vengono riconosciute e non vengono sfruttate. Molte persone hanno perso la volontà e la capacità di gestire la propria vita e la terra in modo produttivo. Gli antichi insegnamenti sanscriti dei nostri antenati hanno ancora molto valore per farci da faro in questo mondo moderno. La visione del mio bisnonno è viva nel mio cuore ed è ancora attuale tanto quanto lo era oltre 130 anni fa. Siamo un’opportunità di vita per le prossime generazioni. E tutto ciò ci permette di rimanere qua, in mezzo alla natura, dove vogliamo essere».
Kebernath – Storia di un albero di mango
La mia consacrazione alla femminilità indiana è stata opera di Sushma. Parla un inglese così denso che sembra mischiato con il miele e indossa sempre un foulard colorato tra i capelli. Dopo due giorni dal mio arrivo nel villaggio mi ha comprato il bindi. «Ti servirà per concentrarti, trattiene l’energia». La zona in mezzo alle sopracciglia viene infatti considerata il sesto chakra, sede della “saggezza nascosta”. Dopo una settimana, è stato il turno del piercing da naso dorato a forma di fiore, che a mia insaputa avrebbe poi assunto colori verdognoli dopo qualche mese. E infine una collana che ha preso nel tempio di Kebernath, nell’Uttarkhand settentrionale. Mi ha spiegato di inserire nel pendaglio apribile delle spezie, servono da protezione.
Sushma Kunwar effettua volontariato con me presso Shri Timli, le serve per fare esperienza. Tuttavia, il suo coinvolgimento non può essere categorizzato esattamente come volontariato, poiché, diversamente da me, lavorava quasi tutti i giorni nei campi. Oltre a beneficiare di vitto e alloggio, riceve anche uno stipendio minimo. La sua esperienza è notevolmente più ampia, avendo lavorato nei campi del suo villaggio, Kuran Goan, nel distretto di Tehri, per quasi tutta la vita.
Quando entrambe tornavamo a casa, la sera, sgattaiolavamo sul tetto lastrato per fumare erba e guardare meglio le stelle, che da lì sembravano più grandi. Era sempre felice, quando tornava dai campi, nonostante il viso tirato dalla stanchezza.
Mi confidava che a lavoro, a raccogliere verze, si trovava bene. Ascoltava i racconti delle contadine più anziane, scherzava con loro. E si sentiva a casa. Amava l’intimità che aveva con loro. Aveva un debole per la vecchiaia, ne parlava con la gentilezza di chi non vede nelle rughe decrepitudine ma grandezza.
Io, dal canto mio, le rivelai che la paura di invecchiare mi aveva sempre consumata. La paura di imbruttire, di rinsecchire. Mi ascoltava e rideva.
«Ma loro sono gran donne, hanno tanti anni, una vita vissuta e sono ancora curve a raccogliere verze con più forza delle ventenni. Non tutti ci riescono, è un privilegio e un premio riservato a pochi, quello di invecchiare.»
Le donne costituiscono la spina dorsale dell’economia nei villaggi, contribuendo alla femminilizzazione del sistema agricolo di montagna. Nonostante la natura altamente instabile della loro identità personale che viene costantemente definita e ridefinita a causa di pressioni esterne come la migrazione, le donne sono considerate le custodi culturali della società.
Allo stesso tempo, sono le più trascurate. Vengono spesso forzate a sposarsi ancora molto giovani, hanno le maggiori responsabilità della casa e della famiglia. Nella maggior parte dei casi sono scoraggiate a proseguire gli studi.
«Lo vedi come mi guardano? (le persone del villaggio) Mi fanno domande, lo so che mi giudicano. Non essere sposate a 25 anni è una cosa difficile da capire, ma io non voglio ascoltare quell’obbligo che mi è stato timbrato sin da piccola sulla schiena». Desiderava essere felice, e anche se lo si sente spesso – ma, come ben si sa, è più complesso comprendere le cose senza viverle direttamente – è difficile raggiungere la felicità senza godere di libertà.
Ho motivo di credere che determinati segnali del linguaggio femminile siano reciprocamente evocati. Infatti, è nei momenti in cui Sushma, con pazienza, decorava le mie mani con l’hennè che ci trovavamo spinte a parlare dei nostri sogni. Mi accorsi che i miei erano difficili da spiegare. Desideravo diventare una grande giornalista, avere una grande carriera e pubblicare un libro che facesse un grande successo. Lei desiderava una casa con un grande giardino e un grande albero di mango, vicino a una grande montagna.
«Io la amo tantissimo la vita in montagna e la gente che ci abita». Mi spiegava «La nostra routine quotidiana cambia in base al tempo, dipendiamo dalle stagioni. Ma ogni giorno dobbiamo tagliare l’erba per il bestiame, lavorare nei campi, oltre a cucinare e pulire. Coltiviamo il nostro cibo come comunità e vivere in montagna presenta le sue sfide. Non è per nulla semplice. La difficoltà maggiore secondo me è il governo. Lo Stato è più concentrato sullo sfruttamento delle risorse mediante un rapido incremento del turismo piuttosto che sullo sviluppo della comunità. I villaggi sono privati di centri educativi, centri medicinali e soprattutto di posti di lavoro, creando la causa della migrazione dalle montagne alle città. Io non voglio essere obbligata ad andarmene».
Ci siamo promesse che se fossi diventata una grande scrittrice l’avrei raggiunta nella sua casa in cima alla montagna e avremmo mangiato i manghi del suo grande albero.
Rishikesh – Direzione sbagliata
Nei villaggi della bassa montagna Himalayana la parola “noia” ha i bordi soffusi e nebbiosi, mentre il suo significato sembra essere stato dimenticato, sciolto, come il latte nel chai. La noia è solo per coloro che non sanno inventarsi storie da raccontare o che non riescono ad ascoltare il respiro della montagna. Basta una foglia di felce che con la sua polvere biancastra sul dietro, se premuta sul dorso della mano, lascia il segno come un tatuaggio, per far trascorrere il tempo. Me l’hanno insegnato i bambini del villaggio e quando ho provato a sorprendere Muzz con lo stesso trucco mi ha guardata come se gli stessi spiegando che il cielo è sopra di noi.
Vive a Rishikesh, una delle città principali dell’Uttarakhand, dove ci siamo conosciuti in un caffè sulle rive del Gange, dove entrambi siamo scappati per evitare i soliti acquazzoni. Diceva di avere 21 anni come me, io credo ne avesse al massimo 17.
«A me la pioggia non piace un granché». Mi confida mentre distende i piedi scalzi sotto il getto dell’acqua che scorre dalla tettoia.
«In Italia quanto dura la stagione delle piogge?». «Non abbiamo la stagione delle piogge, abbiamo estate, primavera, autunno e inverno». Mi guarda con aria smarrita. «E quando piove?» «Tutto l’anno alternativamente, non esiste un periodo preciso». Il suo sguardo è sempre meno convinto «Ma è grazie ai monsoni che ci si ripulisce lo spirito da tutta la miseria e da tutti i peccati».
Nelle montagne le risposte sembravano arrivare nelle ossa esatte, sicure come le battute di un metronomo, spogliate da tutto il superfluo, fino all’essenziale. Ma adesso mi ritrovo incapace di qualsiasi replica. Forse la verità è che noi i nostri peccati, non li abbiamo mai ripuliti fino in fondo.
Credo di capire il motivo per il quale il sentimento che affligge la maggior parte delle persone che migrano dalle montagne sia quello della costrizione. Non comprendo come queste forme di esistenza non siano oggetto di stimolo, bensì di un’oppressione insidiosa. In questo movimento migratorio, percepisco una direzione sbagliata non solo per coloro che abbandonano le montagne per abbracciare la frenesia urbana, ma per l’intera umanità.
Viola Andreolli
Desidero precisare che la maggior parte delle fotografie che accompagnano questo articolo sono state scattate da Constantin, il giovane svizzero che ha condiviso con me l’avventura partendo da Rishikesh. Constantin mi ha concesso il permesso di utilizzare le sue immagini. Per coloro interessati, è possibile seguire il suo lavoro su Instagram al profilo @constantindra.