USA in Libertà!

Stati Uniti 2008 Abbandoniamo in piena notte una Monza tutt’altro che deserta nonostante il calendario indichi un bel otto otto duemilaotto per dare inizio al Big One, il viaggio dei viaggi, lo start del sogno così a lungo cullato e finalmente concretizzatosi con la nostra materializzazione ai nastri di partenza del mega tour a stelle e...
Scritto da: anniepaul
usa in libertà!
Partenza il: 08/08/2008
Ritorno il: 30/08/2008
Viaggiatori: in gruppo
Stati Uniti 2008 Abbandoniamo in piena notte una Monza tutt’altro che deserta nonostante il calendario indichi un bel otto otto duemilaotto per dare inizio al Big One, il viaggio dei viaggi, lo start del sogno così a lungo cullato e finalmente concretizzatosi con la nostra materializzazione ai nastri di partenza del mega tour a stelle e strisce.

Gli ultimi dettagli sono stati analizzati, le ultime procedure burocratiche espletate, la mastodontica macchina organizzativa messa in moto da Annie scalda i propulsori per dare il via ad una cavalcata che ci vedra’ solcare oceani per incontrarci face to face, vis a vis con l’American Dream, al top della nostra lista di mete da toccare con mano, occhi ed obiettivo fotografico.

Mesi di preparativi si sono dimostrati all’altezza delle aspettative e l’ultimo colpo della tour leader, che ci permette, grazie all’invenzione tecnologica del check-in online di saltare a pie’ pari la scalpitante fila al box British, e’ la dimostrazione di come fatica, pianificazione, abnegazione e dedizione permettano la realizzazione di un viaggio al cui cospetto lo sbarco delle truppe alleate in Normandia possa essere considerato una spensierata scampagnata di due innocenti adolescenti.

Passiamo per Londra giusto il tempo di cambiare aereo e per confermare che la capitale del Regno Unito debba essere ricordata solo ed esclusivamente per l’orrido clima che anche in pieno agosto ci accoglie con un cielo grigio antracite o, per meglio dire, fumo di Londra, spendiamo quaranta minuti del nostro prezioso e contingentato tempo nel tanto strombazzato terminal 5, nulla di particolarmente avveniristico, e subito ci imbarchiamo su uno degli innumerevoli jumbo jet mollemente adagiati sulla pista di Heatrow, nonostante dovessero essere ritirati da decenni dalle rotte sopra le nostre teste.

Piccola nota del grande scrivano: i tanto temuti controlli di sicurezza sono stati del tutto inesistenti, le temutissime code chilometriche volatilizzate, niente al confronto di quanto siamo costretti a subire ogni domenica prima di poterci appropinquare, con sacra devozione, al sublime rettangolo erboso teatro delle formidabili gesta dell’amatissima compagine vincitrice indiscussa ed indiscutibile alla Scala del calcio.

Il paese piu’ evoluto dell’Occidente ci apre le sue porte con una accoglienza da Terzo Mondo arretrato con un imbottigliamento al controllo documenti degno della più arcaica burocrazia bizantina ma l’emozione ci permette di non soffermarci sui dettagli, acchiappiamo al volo un taxi giallo che più giallo non si può e dopo un tragitto a passo d’uomo all’indietro degno della Roma-Ostia a Ferragosto raggiungiamo il cuore pulsante di Manhattan che ci accoglie in una suite del Murray Hotel degna di entusiastici commenti che diventano inni alla gioia vedendo dall’altro lato della strada stagliarsi imponente, maestoso, quasi minaccioso il mitologico Empire State Building.

Spalanchiamo le fauci e diamo il primo consistente morso alla Grande Mela, rimanendo estasiati, allibiti, attoniti da tutto ciò che ci circonda: con il naso perennemente all’insù vaghiamo tra avenues spinti da un misto di curiosità, stupore, emozione.

Colpo finale, ovviamente dopo il primo incontro ravvicinato con l’adorata catena MCD, con vertiginosa scalata, stile arrampicatore sociale senza scrupoli, dell’Empire che ci permette con uno straordinario overview a 360° di New York, con sguardo perso tra Brooklin ed il New Jersey, dal Fianncial District al Chrysler, dal Central Park al Madison Square Garden, il tutto fotografato definitivamente nelle nostre menti qualche istante prima del tramonto: il battito cardiaco si fa accellerato, la respirazione batte un pò in testa, incredibilmente contenti lasciamo dunque l’edificio facendo a gara con una famiglia di trichechi infreddoliti per lasciare al più presto locali con temperature glaciali.

Nicky e Tommy sono sprofondati nel sonno piu’ corroborante al punto che quando il sole accecante fa risplendere le sommità dei grattacieli che ci circondano sono vispi come grilli e scattanti come molle perfettamente tornite dal rinomatissimo Mollificio Scotti ed allora ci diamo tutti dentro alla grande con la colazione, misto tra tradizione europea e specialità del luogo, al punto da considerarci abbondantemente satolli ed ampiamente sfamati.

Con una pantomima tra il patetico ed il penoso, insceniamo una carrambata con i Niola, compagni di programmazione turistica dal lontano inverno, incontrati con sei minuti di anticipo rispetto a quanto previsto nel corso delle centosettantasette telefonate antecedenti al randez vous melodrammatico a Battery Park.

Veniamo pigiati come sardine e pungolati come vacche da macello su di un battello che ci permette di attraccare sull’isola della Statua della Libertà, sicuramente affascinante ma comunque ben poca cosa per chi ha la fortuna di possedere gioielli artistico-architettonici come quelli presenti in Italia, facciamo indi tappa ad Ellis Island, tristemente nota come centro di permanenza temporaneo per gli immigrati italiani del secolo scorso obbligati a trascorrere una tragica quarantena prima di poter cominciare a faticare sul continente americano.

Pomeriggio a zonzo per Manhattan, baciati dal sole e sospinti da un’energia praticamente inesauribile che ci porta a consumare le suole delle scarpe, a gonfiarci i polpacci e a ridurre le memorie disponibili sulle nostre digitali.

Utilizziamo la mitologica subway, scarpiniamo lungo la Fifth avenue gremita da ogni tipologia di turista del vecchio continente, con grandissima prevalenza italica, snobbiamo boutique altisonanti ma alquanto banali, ci stravacchiamo al Rockfeller Center, ammiriamo il luccichio della pacchiana Trump Tower e perdiamo due bimbi da Fao Schwartz, il negozio di giocattoli più grande del mondo.

Unica nota dolente, la grande commozione e lo struggente dolore che ci assale visitando le macerie di Ground Zero e la chiesetta che ricorda l’atroce sacrificio di più di duemila innocenti massacrati dalla follia senza logica di disumani assasini.

Accattiamo un taxi, guidato tanto per cambiare e come sempre da un figlio di Maometto. Per raggiungere il resto della banda al Greenwich Village, quartiere prefigurato come culla di giovani, di artisti, di pensatori in realtà un frullato di Calcutta, Macao e Marrakech in salsa molto piccante: la movida è indiscutibile, tutto il core target dei 25-40 anni newyorkesi è concentrato su queste strade caratterizzate da negozi estremamente trash, da boutique fatish, da bancarelle per tattoo e piercing con gran tripudio finale nel litigio tra due armadi a tre ante in mogano scuro a suon di rap di sottofondo.

Indispensabile tradizione dello slice di pizza tanto amato dal mitologico Zio Teo ( 5 pezzi e due minerali, solitamente più costose del Dom Perignon, 4 euro e 20 centesimi) e back to Time Square ove milioni di luci, di sfumature, di neon sfavillanti ci lasciano a bocca aperta nel bel mezzo della notte di una città che non dorme mai.

Come direbbe il miglior pasticciere di Genova, stupendo uomo, venghino Signore venghino a provare il prodotto, caghiamo fuori dal bulacco ( il vasino ndr) esagerando al punto di vivere l’emozione della Big Apple dall’alto: io e Tommy, esaltato all’inverosimile, decolliamo dalla Dodicesima avenue sorvolando in elicottero tutto quanto risulta memorabile in loco, passiamo sopra Miss Liberty, vediamo tetti, mansarde, solai ed abbaini oltre gli ottanta piani ed ammiriamo lo skyline della metropoli con ogni sua possibile prospettiva.

Torniamo con i piedi per terra e ci ascoltiamo una disquisizione politica del taxista razzista di origine ebraica che inveisce contro gay, diversi, immigrati clandestini, sbandati e vagabondi.

Ci facciamo lasciare oltre il Brooklin Bridge, per avere il piacere e l’emozione di riattraversare il mitico ponte del chewin-gum emblema di innumerevoli campagne pubblicitarie: l’esperienza è veramente gradita oltre che inaspettata, al punto che attraversare la parte bassa della penisola di Manhattan non ci crea alcun problema tanta è la carica psicologica accumulata: Tribeca e Chelsea non sono nulla di speciale anche se veder di persona non solo grattacieli ed edifici sberluccicanti non è male, mentre SoHo invece è veramente attraente, quanto mai glamour ( non il giornale che vendo in Condè Nast) con tutti i suoi eleganti ristorantini, le sue gallerie d’arte, le sue boutique di tendenza. Terminiamo la prima parte del pomeriggio assistendo ad un combattutissimo incontro di basket nel tipico play ground di strada con l’aggiunta del particolare di essere gli unici visi pallidi tra centinaia di super abbronzati amici di Obama, vestiti, abbigliati, agghindati o per meglio dire conciati come solo hanno il coraggio di fare.

Prima che su Nwe York scendano le ombre della sera ci lanciamo nel più sfrenato degli shopping, in primis per il gusto di farlo, poi perché il piacere di risparmiare più del 50% rispetto all’Italia non è certamente da sottovalutare ed allora eccoci svaligiare un negozio di scarpe “lumato” dai bimbi in maniera spasmodica, per poi passare da Macy’s per lo striscio della plastica fantastica nel negozio più vasto de mondo, per finire da Victoria’s Secret, oggetto dei desideri più inconfessabili ed inverecondi dei maschi di tutto il mondo, rivelatosi invece un magazzeno di intimo femminile adatto forse a qualche casalinga già pensionata del basso polesine. Piccola puntualizzazione circa il livello culturale dei locali: il tubo catodico non presenta altro che tele vendite, tele promozioni, tele imbonitori, tele predicatori, rivogliamo a tutti i costi il Grande Fratello !! .

Lasciamo NY con tanti rimpianti e con la segreta speranza di poterci tornare presto e volentieri ma alt. Fermi tutti, questa era la speranza per il momento abbandonata causa acquerugiola mattutina che ha messo in ginocchio uno degli scali più importanti del globo, costringendoci a metterci in fila dietro ad altri 35 aviogetti rombanti, accumulando sulla pista di decollo a cinture già allacciate ben tre ore di spasmodica attesa.

L’interno dell’aereo della Virgin Atlantic è futuristico e quasi futuribile, talmente nuovo che quasi quasi abbiamo paura a sederci su poltrone di pelle simil umana, ognuno di noi ha uno schermo, ovviamente a sfioramento tattile, che ci permette la creazione di playlist preferita tra centinaia di album musicali nonché lo sfizio di chattare con qualsiasi altro passeggero, ho quasi la sensazione che si stia esagerando con tutta questa tecnologia.

L’arrivo in California, nonostante il ritardo accumulato, è salutato con grande entusiasmo dai quattro componenti della banda Caprotti, il clima è fantastico, l’euforia dilagante, l’impressione è di trovarci in un paese mediterraneo, con la calma e la svogliatezza nella consegna del macchinone a confermare il tutto…

Il mio sorriso tende a fuoriuscire dai lati del viso, pompo pesantemente il volume della radio di bordo e ritorno indietro di ventidue anni ai tempi della precedente grande avventura sulle strade della California; impieghiamo qualche istante ad orientarci intorno all’aeroporto di LAX dopo di che il navigatore mentale Annie Annie da il meglio di sé azzeccando ogni tipo di rampa e di indecifrabile uscita lungo le autostrade ovviamente almeno a cinque corsie. Il Best Western di Santa Monica è più che accogliente, spazioso, ben curato e dopo il bagno di rito nell’idromassaggio e nella piscina attigua, decidiamo di goderci il tramonto sul molo waterfront all’Oceano Pacifico, con effetti mentali e psicologici di indubbio godimento.

Continental breakfast incluso nel pacchetto e velocissimo slancio verso il centro, se così si può definire, della più vasta ed irrazionale città mai visitata: il fatto che le vie riportino numeri fino al 9300 fa ben capire il concetto di spazio e di distanza, comunque non ci scoraggiamo e visitiamo Beverly Hills, con tappa d’obbligo a Rodeo Drive quanto mai elegante ed in grandissimo spolvero, Central Los Angeles con l’ovvia risalita ai cilindrici ascensori panoramici del Bonaventura Hotel con vista sui pochi ma assai caratteristici grattacieli di Downtown, passaggio e fuga dal Wilshire e dal Sunset Boulevard per poi andarci a godere spiagge e sole sulla costa.

Santa Monica è decisamente bella, le vie adiacenti al lungomare eleganti, attraenti, molto piacevoli, la distesa di sabbia enorme, sconfinata, quasi selvaggia in quanto la parola stabilimento balneare è totalmente sconosciuta mentre molto in voga quella relativa all’assai costoso biglietto del parcheggio che pur non arrivando al salasso paranormale di New York, anche qui non si fa dimenticare.

Venice invece è una grandissima delusione, un’accozzaglia di tossici e sbandati mal ridotti che bivaccano in spiaggia nel vano tentativo di attirare l’attenzione di turisti che passano, non sostano e vanno al punto da far praticamente rimpiangere i nostri colorati vu cumprà …

Marina del Rey, qualche chilometro più a Sud, sembra invece un paesino da inserire nei plastici dei trenini. Con casette tutte uguali, ognuna affacciata ad un braccio di mare che crea artificialmente il riparo ideale per tutta una serie di pontili ove migliaia di barche di ogni tipo e stazza attendono qualcuno si degni di andare ad utilizzarle.

Discover LA si intitola la nostra giornata che si apre con uno zigo zago tra le varie arterie stradali che irrorano movimento e vitalità dl cuore pulsante della metropoli: torniamo al Civic Center, ammiriamo il Disney Theatre, straordinario scatolone di acciaio dalle forme più inverosimili creato da Frank O’Gery creatore di altri capolavori sparsi nel mondo intero, da buoni turisti non possiamo esimerci dal passare ad Hollywood ove sulla Walk of Fame centinaia di lastre di marmo a forma di stella raggiungono il Kodak Theatre ove annualmente vengono distribuiti gli Oscar, il tutto per far capire una volta in più come non avendo tradizioni, cultura, arte e storia gli americani debbano attaccarsi a tutto per potersi far notare e soprattutto fare business.

Prendiamo d’assalto un centro commerciale segnalato addirittura sulla cartina stradale, rimanendo sbalorditi dall’incredibile convenienza del cambio euro-dollaro che ci permette acquisti di Ralph Lauren e Calvin Klein ( ribattezzato dai bimbi Clown, Kleenex e Clacson) per pochi spiccioli.

Giungiamo alla spiaggia di Malibù, grandissima delusione se raffrontata alle aspettative di surfisti tutti muscoli, casette sull’oceano e clima stile “Un mercoledì da leoni” in quanto tutto è recintato e delimitato dal potere assoluto dei riccastri che ne hanno preso possesso in quasi tutta la sua estensione.

Facciamo una mega gara di biglie sulla sabbia dovendo in più occasioni spiegare agli attoniti presenti la complicatissima regola del lancio di piccole sfere di plastica all’interno di una pista creata dal deretano di un fanciullo: Asterix ed Obelix dicevano sono pazzi questi romani ma il quoziente di intelligenza degli indigeni è praticamente sfiorante lo zero.

Lasciamo la capitale economica, del divertimento, del business, della fantasia, del teorico vizio, visto che non abbiamo adocchiato un soggetto di ambo i sessi degno di asterisco alla faccia delle leggendarie copertine dei vari magazines da sogno, rimanendo tutt’altro che convinti del loro credo “ La spiaggia è vita, la vita è spiaggia “…

Le highway sono caotiche ma scorrevoli fin di prima mattina, prendiamo la 10 East, attraversiamo il centro direzionale, prendiamo la 15 lungo la San Bernardino Valley e cominciamo il vero e proprio tour che per iniziare bene viene inaugurato con l’ennesimo appropriamento di marchi di tendenza modaiola, per una volta nella vita in formato small rispetto ai similari italici tipo Serravalle Outlet.

Molto dubbiosi su ciò che si possa fare nel bel mezzo del nulla come fanno gli abitanti del deserto di Mohave, ci chiediamo perplessi qualcosa circa i folli che passano la giornata aspettando il tramonto del sole in luoghi dimenticati anche da Dio come Trona ed arriviamo prima del tramonto all’imbocco della Death Valley, molto più impressionante se tradotta come Valle della Morte, in cui miglia di asciugacapelli ci attendono elevando la temperatura agli attuali 48°.

Premio del pisquano del mese a coppia di anzianotti italici, presenti a mazzi ovunque, che cercano di fare i furbi sorpassandoci alla reception per venire rimbalzati causa mancanza di prenotazione ed ora raminghi verso il prossimo resort a non meno di cento miglia di distanza.

Il ranch che ci ospita è il tipico saloon per il cambio della diligenza nel vecchio West, il clima è torrido e la tensione per l’escursione comincia a crescere al punto che la notte passata a Panamint Springs non è certamente tra le più sonnacchiose: vediamo l’alba e ci accorgiamo di essere stati raggiunti dal resto della combriccola che ha fatto una divagazione artistica, paesaggistica e turistica a San Francisco con toccata e fuga anche allo Yosemite mentre noi vivacchiavamo a L.A. Rabbocco dei radiatori, controllo della batteria e dei freni e via verso Las Vegas attraverso una delle depressioni più brulle, tetre ed inospitali che il buon Dio abbia voluto creare: alle sei della magnana tocchiamo già i 40°, non osiamo neanche abbassare il finestrino per uno scatto fotografico ma non possiamo assolutamente evitare la scarpinata a Zebriskie point, belvedere che darebbe l’orgasmo a qualsiasi geologo in presenza delle più variopinte ed affascinanti stratificazioni del terreno che degrada poi nella pianura delle Bad Waters, tramutatesi in saline dal bianco accecante che noi dominiamo dal Dante’s view, dopo il quarto dislivello di più di duemila metri coperto nell’arco di tre ore.

Ed ora miei adorati lettori devo chiedervi un aiutino in quanto proprio non riesco a trovare le parole, i sostantivi, gli aggettivi, i sinonimi giusti per definire Las Vegas: a me piace da morire vedere a che punto i soldi e la follia umana possano arrivare, tutto è artificiale, inventato, copiato perfino in maniera dissacrante ed irrispettosa di capolavori come Venezia, Parigi o le piramidi egiziane ma per degli obesi mangiatori di burro di arachidi tutto questo è arte, divertimento, svago fino al momento in cui capiranno di aver delapidato completamente i risparmi di una vita.

Dopo aver esagerato in questa prima settimana americana con il junk food, la spazzatura alimentare che ci veniva propinata dalle varie catene di cui siamo diventati praticamente azionisti, senza neanche pensarci troppo insieme ad una simpaticissima famigliola romana estremamente cosmopolita mettiamo le gambe sotto il tavolo di un favoloso ristorante del Paris, sicuramente uno dei più atroci e kitsch invenzioni logistiche di questo posto di pazzi per gente pazza.

In mattinata concludiamo il tour dei vari casinò, talmente tanti, strani, folli, inimmaginabili per il gusto europeo a questo punto estremamente razionale, lasciamo 20 dollari nelle tasche dei malavitosi che hanno ricreato Manhattan ai 45° del deserto del Nevada e leviamo le tende, alla fin fine un po’ esausti da tutto questo sfarzo irreale, irrazionale, virtuale e cominciamo il vero e proprio giro dei parchi naturali lasciandoci alle spalle metropoli come New York, Los Angeles e Las Vegas per arrivare in Utah nel paesino di St. George, dopo una tempesta durata dieci minuti con sabbia ben presto tramutatasi in un inferno di grandine, che ha scavalcato alla stragrande il mitico Pahrump dalla leadership di paese più banale, inutile, qualunque nella sua composizione di fast food, pompe di benzina, lavanderie, mini supermercati sempre aperti. Il Motel 6, nostra tana serale, è veramente il tipico insieme di camerette in legno lungo la main street del paese, assai grazioso, estremamente pulito e funzionale, tenendo presente anche l’esorbitante costo di 46 dollari ( 27 euro al cambio pre partenza) per quattro persona a notte, inclusa alla reception di ragazza mostro tutta ciccia ed antipatia. Il compleanno del vecchio Max viene festeggiato nel locale più tipico di tutto il West, con straordinaria bisteccona e gigantesca patata al forno, classici coretti da stadio per l’addio agli anta, psicologicamente già da lui dimenticati da decenni.

Il mattino lasciamo il campo base per ogni tipo di escursione nello stato dei mormoni spaventapasseri con una colazione che grida vendetta da Dennys, dosi mostruose di grassi, lipidi, calorie e vagonate di colesterolo tra toast, pancake, sciroppo di acero, panna, uova, bacon e salsicce al cui cospetto il piccolo grande Tommy desidera ordinare un sacchetto per vomitare.

Giungiamo allo Zion, acquistiamo il mitico pass per poter girare tutti i parchi e ci trasformiamo in ordinati scolaretti che si mettono in fila per prendere la navetta, ovviamente gratuita, per avvinarci ai piedi delle pareti verticali che ci circondano, dando al tutto una splendida sensazione di natura selvaggia.

Facciamo del vero e proprio trekking, zaino in spalla e parolaccia a fatica trattenuta dai bimbi recalcitranti, il più piccolo dei quali, lo scrivente, decide anche di sguazzare tra le cristalline acque del Vergin Creek, torrente di montagna ove volano i falchi.

Altre cinquanta miglia abbondanti ed ingresso al Bryce Canyon in un contesto di alpi bernesi, tutto abeti e prati verdissimi, prima di aprirsi in uno spettacolare anfiteatro di rocce, pinnacoli, torri, speroni di roccia che assumono tonalità a dir poco mozzafiato.

Lo giriamo tutto, passiamo da Raimbow, Black birch, Ponderosa, Agua, Natural bridge, Swamp canyon per il grandissimo finale all’Inspiration point ove ci godiamo un tramonto da cartolina immortalato in ogni possibile prospettiva.

Prima del calare delle tenebre tagliamo il traguardo dell’odierna tappa, giungendo ad Escalante, nel nulla più assoluto, al punto che il libro dedicato al paese si intitola “The best kind of nothing”, che anche le galline stanno raccogliendo le firme per farsi sgozzare altrove, che un drogato preferisce tirarsi una revolverata piuttosto che farsi stando ancora un giorno qua.

Il Dodge Grand caravan è il macchinone più gettonato in loco, sette posti, letto a tre piazze, 3600 di cilindrata e tanta affidabilità su queste strade illimitate, esattamente come ce le siamo immaginate, rettilinei senza fine apparante ove, non vigendo più il limite delle 55 miglia orarie, siamo costretti a tenerci svegli andando per lunghi tratti nella corsia opposta, questo per movimentare un tragitto in cui per 28 chilometri non incontriamo altro mezzo a propulsione meccanica. Lasciata la tomba di Escalante, attraverso una scenic route veramente incantevole anche se un po’ perigliosa in mancanza assoluta di parapetti che ci dividano da dirupi mostruosi, giungiamo al Capitol Reef, da molto sottovalutato ma in realtà assai fotografabile per un susseguirsi di variazioni cromatiche, di cambiamenti geologici, di sorprese paesaggistiche di tutto rispetto.

Il sole picchia come un fabbro ferraio, non osiamo fermarci per alcun motivo e con tre minuti di anticipo rispetto alla tabella di marcia stilata alcuni mesi fa a 12.000 chilometri di distanza scolliniamo a Moab, randez vous per i prossimi trail naturalistici.

L’Apache Motel, nonostante una precedente capatina niente po po’ di meno che di John Wayne, è al limite della sufficienza, puciata assai rapida nella piscina non menzionata nella prenotazione ed immediato start per la gita ad Arches: il parco degli archi naturali è bellissimo, affascinante, inaspettatamente emozionante, lo giriamo ovviamente tutto passando dal Delicate, dal Double, dal Sable, dal Tunnel, dal Landscape, dal Sable, dal Broken, dallo Skyline per ammirare queste costruzioni della natura degna del più ardito ingegnere progettista di soffitti.

Il nostro orologio biologico è perennemente sintonizzato sul sorgere del sole ed allora, come robottini programmati a tavolino, iniziamo il nostro peregrinare sempre a ritmi folli per non perdere alcuna possibilità che questo straordinario paese ci sta offrendo.

Sarà la quantità di cose viste di qualità sopraffina, sarà la stanchezza che comincia a serpeggiare maligna, saranno i primi acciacchi muscolari dovuti agli enormi sbalzi termici, ma la visita al parco di Canyonlands ci delude un pochino o meglio si tratta sempre di livelli praticamente indescrivibili ma a parte Dead Horse Point ove dominiamo un’ ansa del sottostante Colorado che ha eroso centinaia di metri di dislivello di pietra multicolore, Isle in the Sky e Green River Point sono troppo distanti dal letto del fiume ed il canyon troppo esteso per poter rendere l’idea esatta di quanto immaginato.

Piccolo consiglio per passare un’oretta sopra le righe: uscite da Moab sulla 191 N, svoltate sulla 269 per Pulash, abbassate i finestrini, mettete la musica country a cannone, sorseggiate una latta di Coca ghiacciata, sgranocchiate qualche carotina, viaggiate con il sole alle spalle, percorrete 60 chilometri con il Colorado a sinistra e le rocce del canyon a destra, centrifugate il tutto ed otterrete un’esperienza memorabile da raccontare ai vostri nipoti.

Lasciamo Moab con più di un rimpianto per questa cittadina molto più che linda e gradevole, lanciamo un biscotto come tip al daino che ci cura la macchina quando usciamo dalla stanza e tiriamo dentro alla grande fino a Mesa Verde, parco nazionale all’interno del Colorado, altra tacca sul mappamondo, affascinante per la presenza di un villaggio scavato nella roccia pre arrivo del Cristoforo Colombo, in poche parole a questi indiani Anasazi l’unica testimonianza di un passato che per gli statunitensi non esiste.

Grazie ad uno scorcino che neanche viene riportato dall’infallibile Atlas Road Map guadagniamo una cinquantina di miglia arrivando a Blaff ancora prima di quanto auspicato, il tutto per l’arresto cardiaco che ci viene procurato dalla visione della Monument Valley al tramonto: ogni più rosea aspettativa viene ancor più concretizzata col vivere di persona le emozioni assaporate da bambini in tanti film western in bianco e nero, quando la Grande Inter vinceva anche in Europa e non dominava ahimè solo in Italia come oggi.

Lo spettacolo è a dir poco unico, irripetibile, le formazioni rocciose tinteggiate di rosso fuoco sono da cartolina ed infatti il giorno dopo ripetiamo il giro dell’oca, questa volta prendendoci la prima sola del tour in quanto ci facciamo convincere da due pellirossa dal fare molto truffaldino a scucire cash 240 bigliettoni, credit card no accepted, per salire su un pick up mobile per grazia ricevuta onde poter girare in ogni suo sentiero l’affascinante pianura sottostante i monoliti sacri al popolo Navajo.

Il susseguirsi di palpitazioni e di scatti fotografici arrivati nel frattempo a 1200 unità ci fa dimenticare l’essere stati buggerati, finiamo il trip, mandiamo qualche maledizione agli antenati di questi quattro sfigati e ci strappiamo i legamenti della coscia per pigiare sulla tavoletta del gas del fidato Dodge alfine di arrivare in tempo per un gioco di luci all’interno dell’Antelope Canyon nei pressi di Page.

Non riusciamo nell’intento, rinviamo questo sottolineatissimo consiglio prelevato dai diari di viaggio di altri fruitori di Giramondo.Net e ci godiamo due ore di sole ai bordi dell’apprezzatissima piscina del graditissimo e consigliatissimo Travel Lodge, non prima ovviamente di aver saldato i conti con la fortuna grazie ad una escursione insuperabile ed indimenticabile all’Horse Shoe Band con prospettiva da capogiro sul fiume sottostante qualche centinaia di metri, con inquadratura dell’obiettivo che valeva da sola l’intero viaggio fin qua sostenuto.

Piccola nota stradale per i maniaci della precisione: partita da Los Angeles abbiamo preso la 15 per l’Outlet di Barstow, indi la 58 West per poi raggiungere la Death Valley sulla 178 con passaggio nella rovente Ridgcrest.

Per uscire dall’inferno abbiamo seguito la 190 che ci ha fatto giungere nella Sodoma e Gomorra di Las Vegas che abbiamo lasciato con la 15 North direzione Utah con prima tappa a St. George.

Tagliato lo Zion, la 89 ci ha fatto entrare nel Bryce prima di arrivare nell’obitorio di Escalante che il mattino successivo abbandoniamo con la 12 che poi diventa 24 East con l’attraversamento del Capitol Reef.

Seguiamo poi i cartelli per l’INTERSTATE 70 E con uscita subito dopo Green River ove nel paesino di Bendel acchiappiamo la 191 che ci porta dritti dritti a Moab ove ci godiamo Arches e Canyonlands.

Dallo Utah per andare a Mesa Verde è tutta 191 prima di entrare a Monticello ( non Brianza) sulla 491 che lasciamo nell’abitato di Cortez, mentre per tagliare trasversalmente la Monument è necessario seguire la 160, poi 162, indi 163 per arrivare in Arizona ove ci troviamo ora.

Sto, one moment, errata corrige: abbiamo vissuto la più memorabile delle esperienze proprio nei dintorni della cittadina di Page, creata dal niente nel lontanissimo 1956 a seguito della costruzione della diga che, orrore e maledizione di tutti gli ecologisti nostrani, ha formato il Lake Powell, inondando un bacino vasto tre nostre regioni, coprendo intere vallate e seppellendo sotto milioni di metri cubi d’acqua gole straordinarie come il Glen Canyon ma dando la possibilità di accendere le lampadine di LA e Las Vegas e di far puciare i piedini ai riccastri di quattro stati limitrofi che scorrazzano con potenti motoscafi e velocissime moto d’acqua. In tutto ciò la spaccatura multicolore dell’Antelope Canyon con la sua fenditura di non più di due metri di larghezza, illuminata da fasci di luce solare che ne enfatizza i colori già di per sé fiammeggianti è un qualcosa di magnifico, strabiliante, imperdibile anche se assolutamente non segnalato, tutti e dieci rimaniamo affascinati consumando all’esagerazione le memorie delle nostre digitali ( mai fatto in vita mia così tante foto in una sola ora, senza flash, con tempi di esposizione manuale di almeno un secondo e mezzo ).

Alle due del pomeriggio siamo tutti a compilare i moduli per la richiesta del rimborso spese per gli assurdi 15 chilometri buttati via per vedere le impronte dei dinosauri vicino a Tuba City, solo questi fessi americani potrebbero essere colpiti da quattro piedate mal conservate di ipotetici animali preistorici che a noi appaiono invece come il segno di un qualsiasi palmipede da cortile.

Come previsto e stabilito mesi orsono, eccoci al Grand Canyon, che riusciamo ad ammirare ed ovviamente fotografare in tutta la sua vastità: partendo dall’entrata est con Desert View, facciamo sosta nelle piazzole Overwiew di Navayo, Miron, Grand Point, Mather e comprendiamo fino in fondo la grandezza e l’immensità dell’anfiteatro che ci circonda, soprattutto al tramonto a Yairepai.

Il mio precedente giudizio, risalente a vent’anni fa esatti, deve essere aggiornato e modificato, il Canyon è veramente strabiliante ma il non vedere il fiume sottostante che ha creato il tutto in milioni di anni di erosione e la massa umana che lo affolla al punto da farlo apparire in alcuni tratti simile allo struscio estivo di Viale Ceccarini a Riccione ledono in qualche modo l’immagine generale che comunque acquista mille punti grazie ad una stellata pazzesca in cui sembra di poter sfiorare la Via Lattea vicina come non mai.

Anche il Grand Canyon è fatto, lasciamo la regione dei grandi parchi del West con dieci tacche sul calcio del nostro Winchester, non ci fermiamo per alcuna ragione e puntiamo sparati verso sud, destinazione Phoenix che raggiungiamo nel primissimo pomeriggio, dopo aver attraversato Flagstaff, attraente paesino di montagna simile al nostro Sud Tirolo, la foresta di pini e di abeti denominata Coconano, visto l’Oak Creek unica canyon interamente ricoperto di boschi e la cittadina di Sedona, che seppur circondata da un contorno paesaggistico veramente notevole, è un’indegna summa di negozietti vendenti paccottiglia pseudo indiana di infimo livello nel più che vano tentativo di far rivivere la grande corsa all’oro.

Phoenix non è assolutamente nulla se non sette grattacieli contornati da quartieri industriali ed immensi depositi, il tutto avvolto da una cappa di calore abbondantemente superiore ai 100 ° Celsius per cui l’intera piscina a nostra completa disposizione a Scottsdale, elegante ed ammiccante sobborgo al di fuori della cerchia metropolitana, assume i connotati del vero e proprio miraggio nel deserto.

Anche il giretto serale si rivela azzeccato ed oltre ad un mall al cui confronto i nostri iper super extra centri commerciali sembrano botteghe mal assortite girovaghiamo per il quartiere caratterizzato da bellissime residenze dai giardini curatissimi, da una serie di vie centrali visibile anche da un cable car stile San Francisco con interessanti ricostruzioni di edifici stile pionieri, con un’alternanza piacevolissima di gallerie d’arte, negozi attraenti, ristorantini per tutti i gusti, immancabilmente con nebulizzatori di umidità per un pubblico finalmente elegante.

Stanchi dei soliti minimarket all’angolo delle strade, generalmente gestiti da occhi a mandorla che applicano prezzi da strozzinaggio per due bottiglie d’acqua, visioniamo uno dei luoghi cult della società americana, il Wal Mart: prendete due campi di calcio regular size, riempiteli di ogni tipo di prodotto vendibile, armi comprese, in ogni sua più strana ed imprevedibile variante e potrete capire la summa del consumismo, comunque abbordabile come dice lo slogan “Paga meno, vivi meglio” che ha reso i proprietari la famiglia più ricca d’America.

Nella categoria dei personaggi da sottolineare e tratteggiare ritengo necessario inserire i sempre presenti harleyisti che si girano ogni tipo di strada, capelli al vento ovviamente tutti targati libertà, cinque sboroni rivelatisi ahimè monzesi che incensavano le loro prodigiose escursioni solo per i costi proibitivi, in realtà realizzabili anche gratuitamente, i maniaci dello scatto, al cui confronto mi considero l’ultimo degli ignoranti in materia, che anche in pieno deserto si trasportano materiali da set cinematografico, la vicina di hotel a Phoenix che a five ‘o clock in the morning ha iniziato ad ululare dando inizio ad un concerto di corde vocali in godo maggiore terminato con gemito corale.

Ci lasciamo alle spalle anche Phoenix, dopo il rito della colazione da Starbucks, prodotti certamente buoni ma esagerata mazzulata monetaria di prima mattina, abbiamo ancora nelle orecchie i sussurri e gemiti della vicina pornostar mentre prendiamo la one-o-one, than la two-o-two, at least la ten per rimetterci in rotta verso la California, sempre con sole a tutto tondo, mai vista una nuvola in dieci giorni di parchi ben oltre i duemila metri, con stop and go nella mitica Yuma giusto il tempo di ingurgitare qualcosa da Uncle Mac in attesa del passaggio di quel treno, di scambiare quattro chiacchiere con uno yankee che finalmente sa dove si trova l’Italia, forse perché lavora in pubblicità e, scollinando da un deserto coperto di cactus e di filo spinato onde evitare l’ingresso clandestino dei chicos mexicani, entriamo in pompa magna in San Diego.

Il Days Inn dalle parti dell’arcinoto Sea World è passibile, gettiamo i bagagli ancora increduli di poter respirare tre giorni nello stesso luogo e cominciamo il tour delle spiagge con Ocean Beach prima di vedere il tramonto nell’artificiale creazione commerciale di Seaport Village e di fuggire a gambe levate da una downtown tutta colori e gioia di giorno ma piena rasa di homeless al calar delle tenebre.

Giusto per aggiungere la classica ciliegina su questa torta americana che ci sta piacendo da morire non disdegniamo un estemporaneo fuori programma ed allora eccoci alla frontiera messicana per passare il confine, direzione la tristissima Tijuana che viene solcata longitudinalmente nell’arco di una mezz’oretta, giusto il tempo di comprendere la sfiga che è toccata nella roulette della vita a chi è nato due miglia oltre il lato sbagliato della barricata.

Rientriamo con qualche affanno verso la civiltà, durante l’attesa al controllo passaporti ci viene offerto di tutto dagli ambulanti che circolano tra le colonne di auto, compresi inginocchiatoi finemente decorati, enormi testuggini intagliate in un legno scurissimo e, non plus ultra, bassorilievi in ceramica raffiguranti l’Ultima Cena, assolutamente indispensabili sotto il sole messicano di mezzogiorno.

Prendiamo l’elevatissimo ponte che unisce i due lembi della penisola di San Diego e ci ritroviamo immediatamente protagonisti del tipico serial sulla perfetta vita del ricco americano: Coronado è una cartolina dai contorni perfetti, tutto è studiato e curato nei minimi dettagli con esplosione finale di sfarzo e di lusso con l’hotel omonimo affacciato sulla spiaggia oceanica. Se avete un pomeriggio a disposizione, la voglia di tornare al tempo dei pantaloni alla marinara, una cofana di denari da gettare nello sciacquone andate a Sea World, parco acquatico di notevole rilevanza ove i due marmocchi godono finalmente di uno spazio temporale completamente a loro disposizione.

Nulla di straordinario ma lo spettacolo finale delle tre orche, crudeli regine dei mari addestrate come innocui cagnolini da salotto è decisamente da menzionare, il tutto in un clima da festa di campagna, sotto i fuochi di artificio, per mostruosi ciccioni delle pianure del Minnesota che si compiacciono di essere qualche libbra più magri dei leoni marini e delle foche elefante.

Un’atroce, improvviso e dolorosissimo attacco di sciatalgia mi menoma praticamente in maniera totale, sembro un ottuagenario che si trascina per i corridoi del reparto geriatrico, gli sforzi per ogni movimento sono drammatici, riesco a trattenere a malapena le residue energie per qualche apertura dell’obiettivo e per i due ultimi appunti pre nanna ( speravi Simi di porre fine al tuo supplizio…) Il tempo passa per tutti, luoghi compresi, ed ecco perciò il più che ventennale ricordo onirico di San Diego scontrarsi con una realtà attuale forse non così strabiliante come quella cullata per lustri interi, in ogni modo La Jolla, la spiaggia più famosa e decantata, non è niente male, la chilometrata di footing sul bagnasciuga dona una respirazione polmonare e cerebrale fantastica, se ci aggiungiamo poi che non abbiamo incontrato bagnine o lifeguard all’altezza di Baywatch ( Silvestri dove sei ??? ) ma che un delfino ci ha nuotato tra le gambe ecco che la mattinata è stata ben spesa.

Pomeriggio con breve spostamento nella vicina Mission Beach, tipica immagine californiana con cavalloni domati da decine di surfers e casette colorate da fiaba di fronte al Pacifico, il tutto as usual senza l’ombra di una nube.

Per accontentare l’ultimo sfizio del fotografo in erba Tommy che sta battendo ogni parcheggio alla ricerca delle targhe dei vari stati confederati, al momento della visione di una macchina del Mississipi, una delle otto su cinquanta ancora mancanti, cominciamo un inseguimento per le autostrade statunitensi degno del più mozzafiato ed adrenalinico serial poliziesco o real tv stile fuga di O.J.Simpson.

Rinsaldando l’opinione che nulla è più come un tempo, ci lasciamo perplessi ed un pochino delusi alle spalle San Diego Maradona, come ribattezzata nel secolo dal leggendario Ciardiello, qua ancora idolatrato dalle verginee teenagers al ricordo di quanto non fece con le loro madri in due mesi di campus estivo, ed affoghiamo i dispiaceri della vita nello shopping più totale in un ennesimo mall architettonicamente perfetto ove finalmente, dopo aver rifatto i guardaroba ai pargoli, anche noi due acquistiamo il prodotto fashion, trandy e cool made in USA e cioè qualcosa di Abercombie & Fitch, nulla assolutamente di trascendentale ma non si poteva evitare di trasvolare l’Atlantico senza aver fatto piangere la plastica fantastica, ormai allo stremo delle sue forze.

La 5 è una autostrada dritta come una mazza da baseball, qui non si vede altro sport che questo, perciò la lasciamo ben presto per risalire verso L.A. Attraverso qualche scenic drive più pittoresca ed allora dopo la piattissima costa nei dintorni di Del Mar, Escondido, Encinitas, Solana ecco un bello scorcio alla marina di Dana Point, incastonata tra roccia e prati meglio tenuti del centrale di Wimbledon, per poi arrivare a godere dei quattro sensi a nostra disposizione a Laguna Beach.

Vista, udito, olfatto e tatto vengono messi a dura prova dall’emozione di trovarsi sulla spiaggia di un elegantissimo paese tutto verande inserite direttamente sulla sabbia, lussuosissimi alberghi stile Grande Gatsby, scorci memorabili sul rimbombante e tumultuoso oceano che ci garantisce proprio in faccia a noi la stampata di un tramonto da doppio circolino rosso.

Una pesante cappa di calura condensata ci fa da aureola sul viale del tramonto del nostro viaggio, proseguiamo mestamente lungo la Pacific number 1 attraversando Newport, Oceanside, Huntington e Long Beach, tutte immense spiagge che non ci voltiamo neanche a guardare in quanto l’appuntamento è fissato per le due di pomeriggio sul mitico arenile di Santa Monica, senza dubbio il nostro preferito, ove abbiamo più di un problema a spendere l’ultimo dollaro in contanti avanzatoci per poter pagare, da bravi americani naturalizzati assolutamente ligi alle regole, il parcheggio davanti al pier proteso come ultima propaggine occidentale della California.

Non penso sia il caso di fare particolari commenti dopo 3200 miglia, oltre 5200 chilometri al cambio attuale, più di 2200 scatti fotografici, un’infinità di gioie, di sensazioni, di emozioni che questi sei stati ci hanno donato in questi 21 giorni on the road ed allora semplicemente un grazie immenso ad Annie per la perfetta, quanto mai meticolosa preparazione ed organizzazione, coadiuvata in ciò dalla propositiva Ale, un arrivederci a quanto prima a Raffaele Jack ed alla sua gentile pulzella, al saggio e mansueto Max, un sincero e grandissimo complimento a Nico, Tommy, Nicolò ed Ottavia per l’enorme capacità di sopportazione stradale nonostante l’età in erba, ai redattori dell’impeccabile Atlas Road Map, ed un pensiero, non so quanto amorevole o ostile, ai fantomatici Paola e Matteo, croce e delizia della fase preparativa on line, ispiratori virtuali di questo indimenticabile sogno americano



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche