Tour Birmania e Cambogia – Parte 2

15 ottobre 2006 Alle 6,00 siamo svegliati da una musica proveniente dal villaggio posto nelle prossimità dell’albergo, scoprirò poi che si tratta di una festa locale; il risveglio permette di vedere le prime luci sul lago. Il cielo si presenta nuvoloso e grigio, le nuvole sono molto basse e coprono le cime delle montagne circostanti, non so...
Scritto da: lelebanfi
tour birmania e cambogia - parte 2
Partenza il: 10/10/2006
Ritorno il: 27/10/2006
Viaggiatori: in gruppo
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15 ottobre 2006 Alle 6,00 siamo svegliati da una musica proveniente dal villaggio posto nelle prossimità dell’albergo, scoprirò poi che si tratta di una festa locale; il risveglio permette di vedere le prime luci sul lago. Il cielo si presenta nuvoloso e grigio, le nuvole sono molto basse e coprono le cime delle montagne circostanti, non so che tempo ci aspetta durante la giornata, ma se il buongiorno si vede dal mattino, potrebbe anche piovere.

E’ domenica, Santa Messa, colazione e partenza con le barche per un tour sul lago che durerà tutta la giornata; il sole spunta dietro le montagne e cerca di farsi largo tra le nuvole, l’acqua del lago si colora secondo la luce che riceve, a tratti è grigia, a tratti è verde, in altri punti è azzurra. Navighiamo per quasi un’ora sulle calme acque e mentre viaggiamo vediamo gli orti galleggianti, notiamo dei pescatori e dei contadini che raccolgono alghe dal fondo del lago che utilizzeranno come base fertile per gli orti. Attraversiamo villaggi in cui parte delle palafitte, seppur alte, sono allagate, la profondità del lago solitamente è 4,5 mt, ma a seguito delle abbondanti piogge l’acqua in questi giorni supera i 7 mt. Lasciamo il lago e ci addentriamo in un affluente la cui acqua è marrone, percorrendo il tortuoso fiume arriviamo ad un attracco per le barche, siamo a Indien (L197 – M173), un villaggio posto sulla riva destra del fiume che stiamo risalendo; lasciamo le barche ed a piedi attraversiamo il villaggio transitando per il mercatino locale, passiamo nelle adiacenze di una scuola elementare ed arriviamo all’imbocco di un porticato ligneo sostenuto da 403 colonne di muratura bianca per lato. Sotto il porticato sono disseminate decine di bancarelle con esposti souvenir e prodotti locali; tutt’intorno centinaia di piccole pagode. Percorrendo il colonnato, all’esterno vediamo delle tombe, appartengono a dei semplici monaci, in passato solo loro erano seppelliti mentre i capi monaci venivano cremati. Il complesso delle pagode risale al XVIII sec., sono in totale 1.045. C’è un tempio principale, stupa e tempietti sono disposti lateralmente, disseminate sulla collina, ed insieme al verde creano una fitta rete di guglie alcune marroni (quelle da restaurare), alcune bianche ed alcune dorate, lo spettacolo è unico e la vista si perde in mezzo a tanta incantevole bellezza. Le pagode, originariamente, avevano tutte un rivestimento decorativo giallo chiaro fatto con pozzolana (una sabbia naturale), attualmente il tempo, i terremoti ed i tombaroli ne hanno distrutto gran parte, che comunque è visibile a “macchia di leopardo”. Le pagode esistenti, la cui maggior parte sono dei piccoli templi, sono state oggetto di predazione da parte dei tombaroli e di saccheggiatori, i quali cercando tesori o reliquie hanno asportato o rovinato le statue presenti all’interno delle strutture, ma tutto questo non diminuisce l’incontrastato fascino del luogo. Alle pareti dei templi e sopra le porte sono presenti delle statue, che rappresentano angeli guardiani a protezione; le statue con diverse figure, rappresentano simbologie varie, risalenti ad epoche e culture differenti. Salendo sulla collina arriviamo al tempio principale, edificato nel XII sec. In puro stile birmano, tutt’intorno sono presenti decine di stupa dorati recentemente restaurati, ed alla base di ogni stupa vi è il nome del donatore. Il tempio è fatto a T rovesciata, l’entrata è frontale all’altare dove è collocata una statua di Buddha, a sinistra, rispetto all’entrata, si trova un altare decorato con vetri colorati e specchi, con altre statue di Buddha, a destra un’uscita permette l’accesso alle altri stupa laterali. Le pareti del tempio sono decorate con vetri policromi e specchi, nella parte alta delle pareti sono presenti dipinti raffiguranti storie della vita di Buddha; il soffitto è colore rosso con decorazioni in oro, il pavimento è di piastrelle in ceramica su cui sono stese delle stuoie di bambù. Sosò spiega che gli specchi posti dietro le statue di Buddha servono come riflesso di se stesso e delle proprie azioni, di conseguenza per potersi riflettere nello specchio senza vergognarsi, bisogna avere e mantenere un comportamento corretto.

Usciamo dal tempio e ci dirigiamo alla base della collina percorrendo il lungo colonnato coperto; noto che le bancarelle sono aumentate, essendo arrivati di buon ora i commercianti non le avevano ancora allestite al nostro arrivo. Sulle bancarelle si trovano caratteristici prodotti artigianali locali quali dei contenitori in lacca con bassorilievi, mentre coltelli, riproduzione di perle, argenterie ed oggetti di lacca decorata, provengono da altre zone del paese.

Riattraversiamo il villaggio e transitando nei pressi della scuola, vediamo i bambini che fruiscono dell’intervallo e come in tutto il mondo la loro voglia di giocare e di ridere è inconfondibile. Arriviamo in prossimità delle barche ed aspettando il gruppo ci fermiamo in un chiosco a bere del latte di cocco; fresco, gustoso e dissetante. Qualcuno nelle bancarelle ha fatto acquisti, do un’occhiata pure io, vedo delle magliette carine che acquisto da portare a casa.

Saliamo sulle barche e percorrendo il fiume rientriamo nel lago, dopo mezz’ora di navigazione arriviamo nei pressi di un villaggio dove imponente appare il Phaung Daw Oo Paya (L197 – M172), un tempio di forma quadrata col tetto di colore rosso decorato con ferro dorato, degradante su sette livelli e con in cima un altissimo hti dorato che sembra perdersi nel cielo. All’interno del tempio il soffitto è completamente laccato in rosso e decorato con oro, sulle pareti sono presenti dei dipinti che raffigurano avvenimenti della vita di Buddha, posto al centro un altare con 5 piccole statue, tre Buddha e due Monaci. Le statue ricoperte di milioni di foglioline d’oro nel corso degli anni, oggi appaiono completamente deformate, sono un ammasso disomogeneo d’oro. Vicino al tempio, sotto un capannone è ormeggiato un battello nero con decorazioni dorate, è il battello che è utilizzato per la festa del lago, che è appena terminata. La festa ha origini molto lontane, inizialmente le cinque statue erano trasportate tutte sulla prua del battello dove girando per tutti i villaggi del lago sostava una notte intera; usanza tutt’ora presente, ed essendoci 20 villaggi, la festa dura 20 giorni.

Nel 1956 durante la festa, una tempesta ha fatto affondare il battello che trasportava le statue, immediatamente sono iniziate le ricerche delle statue affondate, ma nonostante gli sforzi profusi, dal fondale furono ripescate solo quattro delle cinque statue, mancava la più piccola. Al calar della notte, quando riportarono le quattro statue al tempio, sull’altare trovarono la quinta, bagnata e sporca dei detriti del lago; come fosse arrivata lì a tutt’oggi è un fatto inspiegabile. Nel 1957 in occasione delle festa del lago, appena la statua lasciò il tempio, improvvisamente scoppiò un temporale e la gente, memore di quanto successo l’anno precedente, decise di riportare la statua nel tempio, appena la statua venne depositata sull’altare, il temporale cessò; da quell’anno durante la festa vengono portate in pellegrinaggio solo le altre quattro statue.

Sotto il tempio è presente un mercatino di prodotti artigianali locali, si trovano attrezzi agricoli, coltelli, stoffe, borse e camicette.

Uscendo dal complesso, l’acqua del lago rispecchia l’azzurro del cielo, ai lati del lago le verdi montagne fanno da cornice, nel cielo qualche nuvoletta bianca, il sole è veramente caldo; il clima è ideale per la navigazione.

Abbandoniamo la ressa del tempio e dopo pochi minuti di navigazione, arriviamo in una zona tranquilla fatta di palafitte di legno e di bambù, è il ristorante; una bella ed accogliente struttura che ci permette d’osservare bene alcuni aspetti del lago.

Approfitto della sosta per chiedere a Sosò delle delucidazioni sulla costruzione delle palafitte, già dalla mattinata ho notato abitazioni in bambù con tetti di paglia ed abitazioni di legno con tetto di lamiera. La guida mi dice che le abitazioni viste rappresentano i due diversi stili delle case; le prime sono costruite interamente in bambù, dai pali di sostegno alle pareti esterne, i pali hanno una durata di 6 anni e le pareti una durata di 3 anni; le finestre, nella maggior parte dei casi, sono anch’esse fatte con stuoie di bambù.

Le case di legno sono realizzate con dei pali in teak e le pareti in un altro legno locale, la durata di queste case è di circa 50 anni, ed evita una manutenzione continua, inoltre permette di avere delle finestre in legno e vetro.

Il bambù ha una funzione termoregolatrice, permette alle pareti di mantenere un microclima più fresco durante il periodo estivo e trattiene una minore umidità durante il periodo delle piogge.

Approfittando della competenza e della pazienza di Sosò, chiedo come fanno a realizzare gli orti galleggianti che ho visto precedentemente; mi spiega che per realizzarli i contadini, infilano nel fondo del lago delle lunghe canne di bambù che devono fuoriuscire dalla superficie del lago formando dei pali fermi su cui appoggiano le alghe pescate dal fondo, che costituiranno la base “terrena” creando uno strato molto fertile. Una volta che lo strato assume la consistenza dovuta, nello stesso, vengono infissi altre canne di bambù che servono come sostegno per far crescere verdura o fiori. Essendo l’orto galleggiante sul lago, i “contadini” si muovono solo ed esclusivamente su barche per tutti i lavori della coltivazione.

La spiegazione viene interrotta dal pranzo che sta per essere servito; pollo con arachidi, maiale, zucchine, pesce, spaghetti di riso, riso bianco, the.

Terminato il pranzo riprendiamo la navigazione e noto delle barche cariche di persone; sono alluvionati che avendo la casa inagibile stanno traslocando presso dei monasteri oppure presso parenti.

Proseguendo il nostro giro sul lago, arriviamo presso alcune palafitte collegate tra loro con dei pontili di legno, siamo in un centro di tessitura dove degli artigiani producono tessuti in cotone ed in seta; la seta proviene da Mandalay, qui viene colorata e tessuta. Tutte le fasi della tintura, della tessitura e della creazione dei disegni sono prettamente artigianali; per la colorazione sono usati dei colori naturali ottenuti da corteccia e radici. Giriamo per gli edifici osservando donne che con telai di legno, creano tessuti dai disegni variegati e colorati. In un edificio vediamo una lavorazione unica nel suo genere: la creazione di un filo utilizzando degli steli di fiori di loto; vengono fatti dei mazzetti di steli e vengono tagliati in pezzi lunghi circa 10 cm, da qui estraggono una resina filamentosa che unita crea un sottile filo, questo filo viene fatto essiccare e poi viene lavorato. Per creare un tessuto di 200 x 30 cm. Occorrono 22.000 steli. Questo prezioso tessuto, un tempo era usato per i vestiti delle statue di Buddha, oggi i tessuti sono prodotti per il mercato giapponese, cui la richiesta è molto forte. Il tessuto finale si presenta ruvido, di colore nocciola chiaro, ha una funzione termoregolatrice veramente elevata ed il costo è quasi il doppio di un raffinato tessuto di seta.

Usciamo dall’edificio e camminando sui pontili di legno che collegano gli edifici, facciamo un giretto tra le palafitte, ad un certo punto troviamo una scritta “espresso”, ma sarà vero o è un’allucinazione? Presi dal dubbio e dalla curiosità, mentre qualche donna è nel negozio per vedere i tessuti prodotti, altri del gruppo vanno alla ricerca della preziosa bevanda nera, e come tutte le favole, il lieto fine arriva; un bar è dotato di macchina per il caffè e la bevanda servita è buona.

Dopo aver degustato il caffè, riprendiamo la barca, attraversando villaggi e costeggiando orti galleggianti ci dirigiamo verso Nga Hpe Chaung (L196 – M170), il “Monastero del gatto che salta”.

Attracchiamo e scendendo dalla barca ci apprestiamo a visitare la struttura, all’interno del tempio, sono custoditi altari di legno provenienti da altri templi, il raggruppamento di tanti altari, sembra farne un unico ed impareggiabile museo d’arte sacra dell’etnia Shang. Gli altari sono in legno dorato, finemente lavorato, abbelliti con specchi colorati. Oltre agli altari, sono presenti delle antiche statue di Buddha, le statue sono lignee, ve ne sono alcune dorate ed altre colorate, tutte tipiche dell’arte Shang (riconoscibili dagli orecchini e dai gioielli presenti). Vicino alle statue c’è un trono dove siede un monaco durante i festeggiamenti del tempio.

Poco distante, sul pavimento una serie di stuoie indicano il luogo dove un monaco fa saltare i gatti (da qui l’origine del nome del monastero), un’attrazione inventata più per i turisti che per i fedeli; i felini vengono “invitati” a saltare in un cerchio tenuto a circa 80 cm dal suolo, se il gatto salta viene ricompensato con del cibo. Viste le dimensioni dei gatti, gli stessi devono essere bravi a saltare nel cerchio ed il cibo non manca.

Il monastero edificato nel 1843 è interamente realizzato in legno misura 60 per 40 mt, il pavimento è completamente in teak lamellare, il tetto è sostenuto da oltre 200 colonne di teak lavorato. Il tetto degradante è a tre strati, originariamente erano cinque livelli, ma questo non riduce la bellezza del luogo, tutto il tetto è decorato con tavole lignee disegnate con episodi della vita di Buddha.

Riprendiamo le barche e rientriamo verso l’albergo transitando per il villaggio di Kye Za Gong, completamente circondato da orti galleggianti. Gli orti disposti su lunghe file, sono circondati da acqua calma, tutt’intorno dei “muri” fatti con erbe acquatiche creano una barriera impenetrabile alle barche e alle onde che s’infrangono sui muri a protezione degli orti. All’interno del perimetro l’acqua è calma, ciò permette ai contadini di lavorare tranquillamente sulle proprie imbarcazioni di legno per coltivare ortaggi e fiori. E’ veramente inusuale vedere sull’acqua delle righe verdi con dei tralicci di bambù sui quali crescono pomodori, zucchine e fiori.

Un particolare attira la mia attenzione, i pomodori non sono portati a completa maturazione, vengono raccolti ancora acerbi, depositati in casse di legno chiuse e così portate al mercato. Avremo modo, qualche giorno dopo, di degustare questi frutti completamente maturi. Navigando tra i villaggi mi colpisce il fatto che siamo turisti e stiamo viaggiando nel centro di un imponente alluvione, un evento naturale che vede centinaia di sfollati: mi colpisce la calma, la compostezza e la voglia di proseguire del popolo birmano, veramente un bell’esempio per noi occidentali che facciamo fatica a convivere con manifestazioni naturali di questa dimensione.

Rientro nel tardo pomeriggio, ne approfitto per sistemare gli appunti e poi, dopo una bella doccia, alle 20,00, cena birmana; patate fritte, maiale, manzo, pollo, verdura, l’immancabile riso bollito e … sorpresa … compare una macchina per il caffè espresso. Dopo cena qualcuno del gruppo trascorre la serata giocando a carte.

Prima di coricarmi scrivo sul blocco degli appunti le caratteristiche delle barche che solcano le acque del lago Inle. Le barche sono di due tipi, le prime sono quelle usate dai pescatori, sono lunghe circa 4 metri, dal fondo piatto, hanno le estremità piatte, questo permette di poter lavorare comodamente sulla barca e di poter remare in prua utilizzando la gamba destra per manovrare il remo; questa barca è utilizzata dai pescatori, per il lavoro negli orti galleggianti, oltre che come mezzo di trasporto per le famiglie. La seconda barca serve per il trasporto di merci e di più persone, lunga dagli 8 ai 10 metri, ha poco pescaggio, è mossa da un motore diesel che viene avviato da un volano manuale e successivamente il numero dei giri regolato tramite una manopola posta sul motore. I motori estremamente semplici ma funzionali sono fabbricati in Birmania, l’elica è collegata al motore da una lunga asta di almeno tre metri che serve anche come variatore di velocità della barca immergendola più o meno profondamente nell’acqua. Quando queste barche trasportano turisti, sono predisposte con 5 poltroncine allineate sul fondo della barca; si sale una persona per volta e ci si siede subito, onde evitare di rovesciare la barca: in effetti avendo la barca poca chiglia, la possibilità non è molto remota.

16 ottobre 2006 La sveglia è alle 5,15, alle 5,45 le valigie sono fuori dalle camere, facciamo colazione mentre le prime luci del sole illuminano il lago, la visione è veramente suggestiva, delle rosse ninfee sono fiorite nello specchio d’acqua lacustre antistante il cottage; il cielo è parzialmente nuvoloso e le nuvole sembrano che si stiano abbassando. Spero che non si metta a piovere perchè dobbiamo prendere la barca per ritornare al pullman. Attraversiamo il lago verso nord, man mano che procediamo l’acqua da azzurra diventa marrone; lungo il percorso noto dei pescatori e dei fiori di loto. Vicino alla riva, tra i canneti compare la nebbia, strana sensazione approdare con la nebbia. Attracchiamo e sulla terraferma percorriamo una strada sterrata che porta alla cittadina di Nyaungshwe, dove nei pressi del mercato ci aspetta il pullman; mentre percorro il sentiero vedo ormeggiate delle barche di pescatori, gli stessi scaricano e trasbordano su dei di furgoncini posteggiati nelle vicinanze, sacche contenenti pesce che sarà venduto ai mercati delle città vicine.

Saliamo sul pullman e attraversiamo la città che due giorni fa era completamente allagata, transitiamo per vie che erano sommerse, il segno dell’acqua è visibile sui muri degli edifici. Percorriamo l’unica strada asfaltata che porta all’aeroporto, lo superiamo e proseguiamo in direzione di Pindaya, la distanza è di 80 km, il tempo di percorrenza stimato è 3 ore. Sembra un tempo inverosimile, ma passato l’aeroporto, dopo pochi km il nastro d’asfalto si restringe e diventa percorribile da un solo automezzo, la strada è piena di buche ed in caso d’incrocio, bisogna usare lo sterrato posto al lato della strada dove transitano carri agricoli e trattori.

Il paesaggio è collinare, le risaie hanno lasciato lo spazio a coltivazioni varie, la terra rossastra infonde un colore particolare al panorama; il viaggio è piacevole, lo sguardo spazia continuamente tra le colline in un susseguirsi unico di colori dei campi arati e dei campi coltivati, il rosso della terra si mischia al verde delle coltivazioni ed al giallo dei campi di sesamo fioriti, è un susseguirsi di piante, di colline coltivate e di fiumi. Proseguiamo il viaggio e dopo due ore arriviamo alla cittadina di Taunggyi (L201 – M173) con case di cemento e mattoni, le capanne sembrano sparite, è una zona di agricoltori e commercianti; pare d’essere in un altro paese, le abitazioni sono ordinate, circondate da terreno recintato, l’aspetto sembra più occidentale che orientale. Ci fermiamo e facciamo un giro al mercato; frutta, pesce, abbigliamento tradizionale e moderno (di fattura cinese), attrezzi vari. Qualche acquisto da parte del gruppo e poi si riparte per Pindaya. Sulle verdi colline compaiono le piante di pino, siamo a circa 1.400 s.L.M.; la strada continua ad avere le caratteristiche descritte prima, ed il traffico è intenso a causa dei contadini e della popolazione che si recano al mercato, incrociamo trattori stracarichi di persone, vediamo gente in attesa dell’autobus che li porti in città. A ogni mezzo che incrociamo, l’autista del pullman deve rallentare e mettendo 2 ruote sulla terra battuta (dove non troviamo pozzanghere d’acqua), incrocia l’altro veicolo; le difficoltà aumentano quando incrociamo camion o pullman.

Lungo la strada, nei campi vi sono dei contadini che stanno lavorando Sosò ci spiega che qui, nell’etnia Paho, i maschi arano il campo con l’aratro trainato dai buoi, le donne curano tutti gli altri lavori dei campi, la semina, la coltivazione, mentre gli uomini danno una mano solo per il raccolto e la disinfestazione delle piante; è una suddivisione di compiti tradizionalmente rigida. Lungo la strada, incrociamo molti carri, qualcuno è trainato da due buoi, altri più leggeri da un cavallo, lungo la strada vediamo un pozzo artesiano, è l’unico pozzo dove la gente può attingere acqua, anche se di colore marrone.

Dopo 4 ore dalla partenza arriviamo a Pindaya (L184 – M163), città famosa in Birmania per tre caratteristiche; lo stupendo lago, le onnipresenti secolari ed imponenti piante di ficus e le grotte.

Avvicinandoci alla città deviamo a sinistra e cominciamo a salire sulla montagna, con ripidi tornanti ci dirigiamo verso le Pindaya Caves (L185 – M164), le Grotte di Pindaya. Il pullman ci accompagna fino all’ingresso dove una tettoia conduce all’ascensore che porta all’entrata della grotta maggiore.

All’ingresso della tettoia una statua di un enorme ragno, simbolo della leggenda locale che vede sette principesse sorprese nella grotta dal ragno, che poi fu ucciso dal principe che liberò le principesse.

In prossimità dell’ascensore abbandoniamo le nostre calzature e saliamo verso l’entrata della grotta calcarea, lunga 150 mt con stalattiti e stalagmiti, articolata in più stanze di dimensioni diverse, ospita oltre 10.000 statue di Buddha, le statue più grandi sono 8.094. All’interno statue di ogni dimensione, gran parte sono di muratura stuccata e dorata, altre sono di legno, di alabastro, di lacca, di marmo, alcune sono annerite dal fumo delle candele, quasi tutte le statue sono ricoperte da foglioline d’oro. In una sala, vicino al pavimento, si apre una cavità, un breve e stretto corridoio porta ad un ulteriore stanza con delle statue di Buddha, è un luogo di meditazione per i monaci. Proseguendo per le stanze vediamo una statua lignea di Buddha in piedi, altre statue di lacca che sottoposte allo stillicidio dell’acqua della grotta, non possono essere ricoperte d’oro; fa un pò impressione vedere due statue nere in mezzo a migliaia di statue dorate. Proseguendo nella grotta vediamo un’enorme stalattite, concava all’interno, un tempo usata come gong (oggi non è più usata per questa funzione), in un anfratto vi è un tempio che è stato offerto dal governo attuale, e sinceramente è un poco pacchiano e stona nell’armonia delle statue presenti di epoche più antiche. In una grotta è stata realizzata una piccola pagoda, vediamo un altare dedicato ad un monaco eremita che vive su un fiume e che durante il periodo delle piogge, è chiamato nei villaggi per far cessare la pioggia ed evitare gli allagamenti (e pare che ogni tanto la sua intercessione funzioni). Nelle grotte lo stillicidio dell’acqua è continuo, il pavimento è scivoloso, e dovendo proseguire a piedi scalzi dobbiamo porre molta attenzione.

Usciamo dalla grotta che piove, per fortuna la tettoia ci protegge, tutt’intorno sulla montagna vediamo un susseguirsi di tettoie che conducono a varie grotte minori, ogni grotta contiene circa 200 statue di Buddha.

Riprendiamo l’ascensore che ci porta alla base, rimettiamo le scarpe e scendiamo lungo la scalinata d’accesso dove, nel vicino piazzale ci aspetta il pullman, sta piovendo ed utilizziamo degli ombrelli per arrivare all’automezzo. Poco dopo smette di piovere e comprendo la comodità della ciabatte infradito utilizzate dai birmani: anche se bagnano i piedi, in pochi minuti si asciugano.

Il pullman lascia la montagna e si avvicina alla città, alla periferia di Pindaya ci fermiamo per visitare una fabbrica di ombrelli tradizionali realizzati con la struttura portante di bambù, i raggi sono fatti con gelso ed il tessuto è di cotone. Qui fabbricano anche dei ventagli realizzati con gelso e tessuto di carta di bambù, tutti i prodotti sono decorati a mano con l’uso di tinte naturali. Il laboratorio è pervaso da un odore acre, è la colla che è utilizzata nelle varie fasi della lavorazione. Vediamo un artigiano lavorare con un tornio a pedali, dei pezzi di bambù destinati agli ombrelli.

Pindaya è nota, oltre che per le caratteristiche predette, anche per la coltivazione del the e del caffè, è l’unica zona del paese dove la pianta del caffè trova l’habitat ideale per la crescita. Ci fermiamo a pranzo in un ristorante dal nome latino “Memento”, ci vengono servite delle sfoglie fritte, zuppa di fagioli, pesce, manzo, erba cipollina, carote con mozzarella di bufala, l’immancabile riso bianco; come frutta una banana rossa (molto dolce e delicata), i dolci sono degli squisiti biscotti con sesamo e burro. Infine, vista la pubblicità della Lavazza, presente sui tavoli, degustiamo un buon caffè espresso.

Al ristorante troviamo altri italiani, è una coppia toscana in viaggio di nozze, qualche parola con i nostri connazionali e poi ripartiamo; il tempo si fa minaccioso, ho l’impressione che al ritorno troveremo pioggia. Siamo leggermente in ritardo e dobbiamo arrivare all’aeroporto di Heho per prendere il volo diretto a Mandalay; dopo due ore di viaggio, arriviamo all’aeroporto. Scendiamo dal pullman e sulle magliette ci appongono un adesivo della Air Mandalay, il check-in è molto veloce, Sosò distribuisce i biglietti e dopo i controlli accediamo alla sala d’attesa, dove gli ingressi sono separati per uomini e donne. Nella sala altri passeggeri attendono il loro volo, un uomo sente parlare italiano e si avvicina, è un padre missionario del Pime, nativo di Bormio, e vive da 32 anni in Thailandia. E’ a Heho per insegnare ai seminaristi teologia e filosofia; ora sta rientrando per un breve periodo in Tahilandia per poi ritornare e concludere l’anno d’insegnamento, qui i permessi di soggiorno non sono molto lunghi e deve continuamente uscire e rientrare nel paese. Scopriamo che in Birmania i cattolici sono oltre 700.000 divisi in 13 diocesi, un dato veramente sorprendente in un paese a così forte fede buddista.

L’aeroporto è molto frequentato, tre ATR 42 sono fermi sulla pista, due decollano e due arrivano, veramente inusuale per gli aeroporti finora visti e completamente diverso dalla desolazione di due giorni fa quando atterrando il nostro era l’unico aereo presente nell’area.

Decolliamo e vedo, poco distanti, le colline che delimitano il lago Inle, un’ultima occhiata al lago e poi l’aereo vira a destra, altri paesaggi appaiono, si vedono colline coltivate solcate da canyon, anche profondi, scavati dall’acqua, la terra rossa erosa dall’acqua appare come ferite vistose tra il verde dei campi e della foresta; il volo è breve, appena superata una catena montuosa inizia la discesa. Sosò durante il rientro da Pindaya, ci aveva comunicato che la strada per Mandalay è impraticabile a causa dell’alluvione che ha distrutto dei ponti, ed anche la città è parzialmente sommersa dall’acqua; fino a pochi giorni fa camion militari erano adibiti al trasportare dei turisti all’aeroporto della città.

Atterriamo e prendiamo il pullman, partiamo e ci dirigiamo verso la città, il percorso previsto richiederà almeno 1 ora. Mandalay è una città dove il contrasto con i poveri è evidente, la città è stata “invasa” dai cinesi dediti al commercio delle pietre preziose, essi hanno ottenuto dal governo l’affitto per 60 anni dei terreni sulle montagne dove cercare smeraldi, rubini ed altre pietre preziose, e nel tempo hanno trasformato Mandalay nel loro centro commerciale; gli stessi commercianti hanno creato delle catene di negozi dove vendono abiti e prodotti cinesi da loro importati e, fino a poco tempo fa anche l’oppio non era escluso dai loro traffici. Attualmente il divario sociale tra povertà e ricchezza è visibile in modo molto evidente.

Lasciato l’aeroporto viaggiamo su una strada bella ed asfaltata, quando vediamo ai lati baracche e tende: sono le abitazioni di fortuna della popolazione alluvionata. In prossimità di un ponte la strada è sbarrata dall’acqua, giriamo a sinistra ed imbocchiamo una strada secondaria che transita alla periferia della città; la parte più povera dell’abitato. Lungo il percorso, ininterrottamente vi sono tende e baracche di fortuna; centinaia o forse migliaia di persone ammassate senza soluzione di continuità. La gente cucina sul fuoco acceso a bordo strada e poco dietro hanno delle stuoie dove sdraiarsi per riposare, tutt’intorno pentole e suppellettili recuperate dalle loro abitazioni sommerse da oltre un metro d’acqua. La vita è veramente desolante in quelle condizioni; affiancate alle persone ogni sorta di animali, bovini, equini, suini, caprini, anatre. Poco prima delle 19, arrivando nella città, costeggiamo un fossato immenso, lungo oltre due km: è il fossato del Palazzo Reale di Mandalay (L244 – M139). La cinta muraria è lunga oltre 1,6 km per lato, ha quattro entrate e tre porte per lato. Originariamente ogni lato aveva una funzione specifica; il Sud era l’entrata per i Re ed i Regnati, a Nord l’entrata per i monaci, ad Est l’entrata era destinata al popolo ed ai visitatori, infine il lato Ovest era riservato all’uscita per i defunti all’interno del palazzo reale. Il palazzo era interamente ligneo e fu distrutto durante un bombardamento nel corso della seconda guerra mondiale.

Dopo oltre due ore dalla partenza dall’aeroporto, arriviamo in albergo, una struttura moderna ed ospitale che appare quasi irreale rispetto agli accampamenti che abbiamo appena visto.

Cena a buffet e poi ritiro in camera, la mia camera ha la vista una collina da cui scorgo, sulla sua cima, una pagoda dorata ed illuminata. Mi addormento pensando alle persone a me care che non possono condividere con me questa visione.

17 ottobre 2006 Il risveglio è accolto dal sole che illumina la collina dove c’è la pagoda, il contrasto tra l’oro scintillante della pagoda ed il verde della foresta che ricopre la collina è veramente forte. Scendiamo per la colazione a buffet, tutto è veramente cucinato bene, le marmellate, i dolci, i cibi salati, la frutta, il caffè seppur “all’americana” permette d’iniziare bene la giornata. Poco dopo saliamo sul pullman e si parte per un’altra giornata da turisti. Durante lo spostamento Sosò ci spiega che le regole del buddismo sono scritte in 40 libri che i monaci dovrebbero conoscere a memoria, siccome la conoscenza totale è ardua, esista una “scala della conoscenza” con relativi privilegi. Chi conosce un libro a memoria può girare sugli autobus gratis, che ne conosce due può viaggiare in nave in modo gratuito chi invece, conosce tutti e 40 i libri, gira il mondo spesato dallo stato birmano. I migliori monaci, spesso sono invitati da persone facoltose, a soggiornare negli alberghi più lussuosi, ed, in effetti, la sera precedente un monaco s’aggirava nell’albergo dove eravamo alloggiati con al seguito un nugolo di persone.

Col pullman ci stiamo recando presso il porto di Mandalay e durante il tragitto, vediamo il festeggiamento di un matrimonio, qualcuno del gruppo scende dal pullman per vedere la cerimonia; l’usanza locale vuole che in cambio di un dono, che è generalmente in denaro, gli sposi regalino un ventaglio su cui sono riportati i loro nomi.

Riprendiamo il viaggio e dopo pochi minuti arriviamo al porto fluviale dove c’imbarchiamo su un battello diretti a Mingun (L269 – M150), una località a circa 11 km da Mandalay.

Durante la navigazione il battello, improvvisamente si trasforma in un mercatino, i componenti dell’equipaggio ed alcuni loro familiari mostrano mercanzie varie, le donne del gruppo, attratte da collane, arazzi, cartoline, dipinti, borsette, ventagli si danno alla contrattazione. Più i mercanti vendono e più merce arriva sulla terrazza del battello, sembra d’essere in un pozzo senza fondo; l’ultimo articolo a comparire, ma non trova assolutamente successo, sono delle marionette con i costumi tradizionali birmani. Per la cronaca è giusto dire che precedentemente alla vendita dei prodotti, una parte del gruppo si era dedicato alla ginnastica, una serie di esercizi effettuati sulla poppa del battello “allietati” da una temperatura calda ed umida, per cui un pensiero ai “nostri ginnastici eroi” è più che dovuto.

Durante la navigazione siamo sulla terrazza superiore del battello che è coperta per proteggere dal sole e dall’acqua, la temperatura è calda ed umida e, nonostante il battello navighi in mezzo al fiume, la ventilazione è limitata, si suda copiosamente. Durante la navigazione vedo degli isolotti con la coltivazione di saggina, destinata alla produzione di scope, lungo il fiume barche e chiatte per la raccolta della sabbia ed il trasporto di mercanzia varia. Il terreno della zona non adatto per le risaie è stato destinato alla coltivazione delle arachidi, sulla terraferma poco dopo vedremo dei terrazzi con le arachidi poste ad essiccare.

Pian piano, ma inarrestabilmente il battello solca le marroni acque del fiume, ci avviciniamo a Mingun (L269 – M150), lungo la riva molto fangosa del fiume il battello tenta più volte l’attracco e dopo qualche tentativo riesce, scendiamo lungo una passerella di legno ed in breve raggiungiamo la riva, dove immancabilmente ci attendono dei venditori di prodotti artigianali. Ci avviamo velocemente verso i monumenti da visitare, il primo che vediamo è la Pondaw Paya (L 270), un modellino bianco alto “solo” 5 mt della pagoda incompiuta, la cui costruzione si è fermata solo alla prima terrazza e la cui imponente mole domina la zona. Poco distante una pagoda con l’accesso dal fiume, dove due bianchi leogrifi, angeli con la forma tra il leone ed il grifone, sono posti all’ingresso come guardiani: è la Settawaya Paya (L270).

Tutta completamente bianca, con solo l’hti dorato, la pagoda si staglia nell’azzurro del cielo creando un bel contrasto, una vista incantevole (il colore bianco è ritenuto molto bello dai birmani, e lo utilizzano per dipingere pagode e stupa).

La struttura è alta oltre 30 mt, all’ingresso vi sono tre scale d’accesso con funzioni precise, quella per ministri o persone importanti, quella per i monaci e quella per la gente. Questa divisione mi ricorda i monasteri europei medievali, dove su più piani erano simboleggiati i ruoli dell’epoca, religiosi, imperatori ed infine il popolo.

All’interno del tempio vi sono 4 statue di Buddha, le originali sono state distrutte o danneggiate nel corso dei secoli, e sono state sostituite con delle statue di recente costruzione; vicino alle statue l’impronta di Buddha scolpita su marmo e, tradizionalmente l’acqua contenuta nell’impronta è considerata sacra. L’impronta è scolpita con tutti i 31 piani della reincarnazione, i 26 piani del paradiso, il piano attuale ed i 4 inferni.

Il re che voleva edificare nella zona, intendeva realizzare 4 grandi opere; la pagoda alta 150 mt (incompiuta), una campana (terminata), delle statue di leoni che servivano come angeli protettori (terminati) ed una diga di protezione per evitare che il fiume inondasse la zona (incompiuta).

Poco distante dalla Settawaya Paya con i suoi 150 mt la Mingun Paya (L270 – M150), avrebbe dovuto esser la più alta pagoda del paese, ma un presagio di distruzione della città fece sospendere i lavori nel 1816. Tre anni dopo il re suo edificatore morì. La struttura attuale è quadrata ed è larga 72 mt, alta 50 mt, interamente realizzata con mattoni pieni. Negli anni i terremoti hanno creato delle vistose crepe nella struttura e parte dei mattoni sono crollati al suolo, i fedeli hanno realizzato una scala esterna di 174 gradini e prelevando i mattoni da terra, li portano in cima, la credenza dice che serve per la realizzazione dei desideri.

Di fronte alla pagoda incompiuta vi sono i resti di due imponenti leoni, posti a protezione del luogo sacro, le statue erano alte 30 mt e rappresentavamo gli animali nell’atto di saltare, ma a seguito di terremoti le statue sono crollate ed ora ne rimane solo la parte posteriore.

Proseguendo tra capanne, bancarelle per turisti e devoti, arriviamo alla Mingun Bell (L270 – M151), un’enorme campana di 90 tonnellate; costruita sulla sponda opposta del fiume e trasportata in loco creando una zattera di legno di teak. E’ la più grande campana suonabile esistente al mondo, e come tutte le campane buddiste non è provvista di batacchio. Realizzata in più pezzi utilizzando bronzo e ferro; i pezzi sono poi stati uniti tra loro ma sono visibili le saldature e gli spessori differenti delle fusioni.

Proseguiamo per Mingun ed arriviamo all’entrata di Hsinbyume Paya (L271 – M151), una pagoda completamente bianca, rotonda, dalla simbologia complessa ed affascinante. E’ realizzata su 8 piani, rappresenta i sette mari ed i sette monti che bisogna superare per raggiungere il Monte Merù; l’architettura è unica, dall’alto la vista si perde fra ondeggianti strutture che rappresentano i sette mari, la struttura è dedicata alla principessa Hsinbyume (da cui prende il nome la pagoda). La pagoda originariamente, conteneva una statua di Buddha in smeraldo; attualmente all’interno del tempio sono presenti due statue, la prima che si vede è recente, mentre quella posta dietro è antica.

Giriamo per la pagoda assediati da un gruppo di ragazzini che vogliono vendere di tutto; cercano di capire da che paese proveniamo, poi quando scoprono che siamo italiani, qualche parola la formulano, anche in modo corretto. L’atteggiamento di questi ragazzi e la loro insistenza non sono assolutamente tipici del popolo birmano; un effetto negativo che il turismo di massa provoca in alcune località.

Usciti dalla pagoda, la visita di Mingun è terminata, bisogna ritornate al battello. Qualcuno del gruppo decide di utilizzare i “taxi“ locali: dei carri trainati da buoi. Io rientro a piedi e ne approfitto per rivedere i luoghi ed osservare particolari che prima non avevo notato; sul mio immancabile blocco, prendo appunti e faccio qualche disegno per rammentare quanto ho visto.

Il gruppo si ritrova vicino al fiume, ci imbarchiamo sul battello e ci dirigiamo verso Mandalay, ricompare il mercatino sulla barca, ma subito ci si accorge che i prezzi sono più alti delle bancarelle, nessuno acquista nulla. La navigazione è tranquilla, il gruppo di italiani vivacizza la monotonia della navigazione.

Arriviamo a Mandalay, prendiamo il pullman e ci accorgiamo che l’aria condizionata non funziona, il caldo comincia a farsi sentire.

Pranzo al ristorante cinese; involtini con gamberi, zuppa di verdura con uova di quaglia, zucca (ripiena di pollo, granchio, e verdure), pollo con mandorle, anatra laccata, manzo, verdure, riso pesce e frutta (anguria, melone bianco e papaja). Il ristorante posto di fronte alle imponenti mura del lato ovest del palazzo reale, permette una bella e suggestiva visione.

Terminato il pranzo, riprendiamo il pullman e constatiamo che l’aria condizionata proprio non funziona. Costeggiamo in senso orario le imponenti mura del palazzo reale e terminato il lato nord giriamo a sinistra, entriamo nella cinta della Shwenandaw Kyaung (L244 – M142), il “monastero del Palazzo d’oro“. Questo monastero è realizzato con legno di teak intarsiato e dorato, sono 2 stanze provenienti dalle 114 del palazzo reale, andato distrutto da un incendio durante la seconda guerra mondiale. Le due stanze sopravvissute erano state staccate dal palazzo nel 1880 per un dono del re fatto ad un monaco molto erudito.

L’architettura dell’edificio è affascinante, la struttura completamente in teak finemente lavorato, all’esterno compaiono degli angeli a protezione dell’edificio, dei fiori di loto e dei pavoni (tra l’altro il pavone è il simbolo della Birmania, rappresenta il sole ed il giorno, mentre il coniglio rappresenta la notte ed il buio). Originariamente l’edificio era interamente dorato, oggi le parti dorate visibili sono solo quelle interne che protette dalle intemperie hanno mantenuto la doratura. La cinta del monastero è inusuale, la sua forma ricorda un diamante. Sosò ci spiega che i monasteri venivano edificati proporzionalmente alle capacità dei monaci che ci vivevano, più un monaco era bravo, più poteva avere un monastero bello; ecco perché il re staccò due stanze del palazzo reale per realizzare questo monastero.

Entriamo nelle stanze dorate del monastero e resto abbagliato da tanta bellezza, vi sono delle colonne cilindriche interamente dorate, il soffitto è un unico bassorilievo; nelle pareti laterali, anch’esse lavorate, si aprono delle finestre che permettono alla luce di passare e riflettersi sull’oro presente creando un continuo gioco di luci ed ombre. Ad una parete della stanza è appoggiato l’altare di Buddha, con specchi e vetri originali, la parete dietro l’altare è interamente ricoperta di formelle rettangolari con angeli. La struttura interna del tempio si sviluppa partendo da una parte verticale esterna, poi una parte obliqua, successivamente un primo livello orizzontale, poi ancora una parete verticale, altro pezzo obliquo ed infine il plafone terminale, tutto interamente intarsiato e dorato. Ai lati dell’altare due porte, una per lato, comunicano con la seconda stanza, noi transitiamo da quella destra ed accediamo alla sala dove, vicino alla parete che divide le due stanze sono collocati quattro altari ed un armadio coloniale. Gli altari, originariamente erano collocati altrove, hanno una forma particolare, come due parallelepipedi sovrapposti, il parallelepipedo più grande è in basso e quello piccolo è sopra, entrambi con funzioni ben precise, quello sotto provvisto di ante conteneva i 40 libri del buddismo e sopra, veniva posizionata la statua di Buddha.

Scatto qualche foto della struttura lignea veramente incantevole, esco mi rimetto i sandali, pochi passi ed arriviamo presso Kuthodaw Paya (L243 – M141) ”il libro più grande del mondo”, la pagoda contiene 729 tavole di marmo, ognuna delle quali custodite in una singola cappella, sulle tavole sono incisi i tre libri fondamentali del buddismo. Per scrivere una tavola occorrono tre giorni di lavoro; originariamente le parole erano scritte in argento, poi furono scritte in oro ed attualmente i nobili metalli sono stati sostituiti con delle scritte in colore nero, per evitare il deterioramento dovuto alle intemperie. Le cappelle contenenti le tavole, in origine avevano degli hti di bronzo intarsiati con pietre preziose ed una campanella terminale in oro ed argento. Questi hti sono stati sottratti dai dominatori della Birmania nel corso dei secoli, attualmente sono presenti hti in ferro dorato.

All’interno della pagoda, uno stupa dorato con posti ai quattro punti cardinali sei orchi a protezione, la fisionomia di queste statue ha un’influenza cinese. All’interno della pagoda sono presenti 1771 tavole di marmo, anche queste, protette da piccole cappelle, riportano i tre libri fondamentali del buddismo.

All’interno della pagoda, in un tempio vediamo una statua di Buddha a grandezza naturale realizzata da un pezzo unico di legno con apposte sulla fronte delle pietre preziose, il soffitto a cassettoni è ricoperto d’oro lamellare, l’altare è anch’esso d’oro.

Usciamo dalla pagoda di Kuthodaw Paya e prendendo il pullman ci dirigiamo alle pendici della Mandalay Hill (L239 – M140), la collina di Mandalay, lasciamo il pullman e salendo su dei pick-up iniziamo la salita lungo tortuose strade. Ci fermiamo per vedere Shweyattaw Buddha (L241 – M141), la Statua di Buddha in piedi che con la mano tesa indica il luogo dove 2.400 anni dopo il passaggio di Buddha, sarebbe nata una città, Mandalay, fondata nel 1857. Vicino alla statua di Buddha alta 9,5 mt di legno dorato, una statua poco più piccola raffigura una donna, che la credenza dice si sia tagliata i seni in segno di rispetto per Buddha.

Risaliamo a bordo dei pick-up e proseguiamo la salita fino alla cima della collina. Tutta la cima è una zona sacra con templi ed alberi. Anche qui per fotografare, come in tutti i luoghi sacri, occorre pagare. L’edificio centrale della collina è interamente rivestito di specchi e di vetri colorati. Il luogo è pieno di libellule, Sosò dice che questo fenomeno indica pioggia, in effetti delle nuvole sono presenti nel cielo. Troviamo un gruppo di turisti francesi e la loro guida è la sorella di Sosò; ci fermiamo a salutarla e proseguiamo nel giro.

Il tramonto sulla città e sulla pianura sottostante è suggestivo, i raggi dorati del sole calante illuminano la pianura, si riflettono sulle risaie e sulla zona allagata creando un unico, grande immenso specchio a perdita d’occhio.

Lasciando la collina ed a bordo dei pick-up scendiamo percorrendo una strada diversa da quella fatta in salita.

Rientriamo in albergo, mi reco presso il business center munito di collegamento internet, con un pò a fatica riesco ad inviare una e.Mail ad amici per far avere mie notizie, poi si parte per la cena.

Ci rechiamo in un ristorante tailandese per la cena e, mentre entriamo, per puro caso incrociamo delle persone che stanno uscendo dal locale, Fernanda riconosce un sacerdote che è stato in Italia, ci fermiamo a parlare un poco e ci diamo appuntamento per la sera successiva, dove poi gli daremo degli indumenti, un piccolo aiuto per proseguire la sua opera, oltre a dei farmaci portati dall’Italia che non avevamo usato.

La cena trascorre tranquillamente; involtini primavera, wanton fritti, zuppa di cavoli con formaggio, gamberoni fritti, pollo con verdure, verdure, pesce con verdure, spiedini di carne, l’insostituibile riso bianco. Per dolce arriva una ciotola con un impasto bianco e delle palline verdi, è grano ammorbidito nel latte di cocco. Ha un gusto strano, ma è buono. Anche in questo ristorante con grande gioia per gli italiani, troviamo il caffè espresso.

Nel locale c’è un gruppo di francesi che soggiorna nel nostro albergo, 2 ragazze parlano correttamente italiano, sono comasche, una è di Como e l’altra di Lomazzo, da tempo risiedono in Francia; una di loro parlando con Fausto scoprono che è la sorella di un’amica di Fausto: il mondo si rivela veramente piccolo.

Dopo la cena, rientriamo in albergo, mi addormento osservando la pagoda illuminata sulla collina e le stelle che brillano nel cielo.

18 ottobre 2006 Sveglia alle 6,15, siamo avvolti dalle nuvole basse e durante la notte ha piovuto, guardando dalla finestra la giornata appare grigia, ma dopo pochi minuti dalla comparsa del sole, le nubi si diradano lasciando il cielo sereno, s’annuncia un’altra giornata di caldo afoso. Scendiamo per la colazione e noto che in tutto l’albergo sono posizionati dei fiori freschi e profumati, oltre ad abbellire fungono da deodorante. Alle 7,30 partiamo col pullman per vedere la statua di Buddha più famosa della Birmania, un luogo sacro e meta di molti pellegrinaggi. Dopo pochi minuti arriviamo presso la Mahamuni Paya (L245 – M142); un colonnato ammette al tempio dov’è custodita la statua di bronzo, realizzata in sei pezzi dal peso originale di 12 tonnellate con la testa tempestata di pietre preziose. Oggi dopo la continua apposizione, da parte dei fedeli, di foglie d’oro la statua pesa 13 tonnellate, praticamente una tonnellata d’oro è stata applicata in modo disomogeneo deformandola, sembra un corpo pieno di bubboni. Un’antica tradizione tutti i giorni si ripete; alle 4,00 di ogni mattina il tempio viene aperto ai fedeli ed alle 4,15 il viso della statua viene accuratamente lavato.

Il tempio originale era in legno di teak, nel 1880 è stato rifatto in muratura e a tutt’oggi non è stato modificato; gli archi sono in stile coloniale, la copertura è interamente dorata e sulla sommità è presente una griglia per proteggere l’hti d’oro da eventuali ladri.

Alle donne non è consentito l’accesso al centro del tempio dov’è la stanza di Buddha e devono restare ai lati, oltre alle transenne; delle guardie, rigorosamente controllano l’accesso alla stanza, bisogna essere vestiti con pantaloni lunghi ed indossare magliette, i copricapo non sono ammessi. Chi indossa un abbigliamento non consono, viene bloccato ed “invitato” ad indossare delle tuniche che i guardiani gentilmente pongono. Di conseguenza l’apposizione di foglie d’oro sulla statua è riservata solo gli uomini che salendo scale laterali arrivano alla base della statua potendo così applicare l’oro.

Lasciamo il tempio e poco distante, in un edificio vediamo delle statue bronzee, sono d’origine tailandese, del VIII sec., frutto di un bottino della guerra del 1784. Le statue erano state prese per essere fuse per realizzare delle armi, ma il re, appassionato d’arte decise di tenerle per collezione. Nel tempo, la credenza popolare attribuì alle statue dei poteri guaritivi, tutt’oggi toccando le statue nella parte dove si sente dolore si pensa che aiutino nella guarigione. Il risultato è che le statue sono più lucide e levigate in alcuni punti rispetto ad altri.

Originariamente le statue erano tempestate di pietre preziose, ma oggi sono visibili solo gli incavi contenenti le pietre.

Adiacente, un altro edificio dove è custodito un gong di bronzo dal peso di cinque tonnellate, sul cui dorso sono incisi un pavone ed un coniglio; la tradizione vuole che il gong serva per la distribuzione di particolari meriti. Collocate vicino all’enorme gong, con funzione solo di abbellimento, sono presenti due statue di bronzo che rappresentano degli angeli, ognuna dal peso di due tonnellate.

Uscendo dal tempio, percorriamo la galleria iniziale che ospita un mercatino di bancarelle dove si possono trovare statue di Buddha di varie dimensioni, braccialetti, collane, oggetti in lacca e mercanzie varie. Visto che i miei sandali, il giorno prima si sono scollati, decido di acquistare delle ciabatte infradito, chissà mai che riuscirò a vestirmi anche parzialmente alla birmana? Sosò ci richiama alla puntualità in quanto siamo in ritardo sul programma, ma d’altronde transitare per un mercatino con delle donne, equivale ad un ritardo “indefinito”.

Lasciamo Mahamuni Paya ed uscendo dalla città di Mandalay ci fermiamo per vedere la scultura di statue di Buddha di marmo, la pietra proviene da cave poste sulle montagne adiacenti alla città. La lavorazione avviene partendo da un unico blocco di marmo, gli artigiani, che sono tutti cottimisti, secondo la propria capacità lavorano varie parti del blocco, dando forma alla statua. Il viso è la parte più delicata e viene lavorata esclusivamente da artigiani esperti. La lavorazione del marmo avviene con martelli, scalpelli e flessibili, uomini, donne, ragazzi e ragazze lavorano dando forma alle statue senza nessuna protezione per gli occhi, per la bocca e per il naso. La polvere di marmo, frutto dell’abrasione dei dischi flessibili, avvolge tutto e tutti, creando una nuvola bianca visibile da lontano e rendendo l’aria irrespirabile. La vita media degli artigiani è molto bassa a causa dell’asbestosi prodotta dall’inalazione della polvere.

Queste statue di marmo sono destinate alle pagode, la maggior parte è destinata all’esportazione; i birmani che sono molto superstiziosi, nelle abitazioni usano statue di bronzo o di legno, in quanto credono che statue di marmo in casa portino sfortuna.

Lasciamo Mandalay percorrendo le vie centrali che al nostro arrivo erano alluvionate, nel centro città gli edifici sono moderni, mentre man mano che ci avviciniamo alla periferia vedo delle abitazioni di bambù, alternate ad edifici coloniali un accostamento che ha un suo particolare fascino.

Percorriamo una strada attorniata da capanne e da risaie, e dopo pochi km arriviamo a Amarapura (L262 – M146), dove ci dirigiamo presso il Maha Ganayon Kyang (L263 – M148), un importante monastero dove risiedono migliaia di monaci; sono appena trascorse le 10 e possiamo girare per il monastero scoprendo la vita interna; vediamo molti edifici, qualcuno destinato a stanze dove i monaci dormono in comunità; solo agli insegnanti è permesso di dormire soli. Altri edifici sono luoghi di studio, altri sono scuole di ogni ordine e grado. Posti fra edifici dei muretti nascondono il luogo in cui i monaci fanno toelette; si lavano vestiti ed utilizzando delle scodelle si versano addosso dell’acqua che è sempre presente in diverse vasche dislocate nel monastero, veniamo avvertiti che è vietato fotografare i religiosi mentre si lavano.

Girando arriviamo alla cucina dove vi sono enormi pentoloni con gamberetti, carne, riso, the verde. Sul fuoco stanno cucinando della carne, poco lontano delle pentole di alluminio contengono il riso bollito che sarà servito per pranzo ai monaci. All’interno della cucina vi è una dispensa con dei sacchi, gamberetti essiccati, sacchi di cipolla e casse di legno contenenti dei pomodori (provenienti dal lago Inle). Molti alimenti sono frutto di offerte; i cuochi del monastero sono stipendiati da una persona benestante di Yangon, che in questo modo fa la sua offerta.

Nella vicina sala da pranzo possiamo vedere i posti riservati ai monaci e quelli riservati ai donatori.

Proseguendo nel giro del monastero vedo alcune abitazioni con delle donne anziane: è un ospizio inserito nel monastero, in cambio dell’ospitalità che ricevono, queste donne giornalmente si dedicano alla pulizia del riso per il pranzo dei monaci.

Siamo venuti al monastero per assistere alla processione che precede il pasto dei monaci, Sosò ci avverte di evitare di fotografare i monaci mentre pranzano.

Arriviamo presso l’entrata principale del refettorio, all’esterno vi sono dei tavoli con le offerte fatte dai donatori odierni, oltre alla carne vista in cucina, sui tavoli vi sono dolci e frutta.

Alle 11 precise un primo suono della campana, improvvisamente il viale centrale si popola di monaci, ognuno vestito col suo mantello marrone porta la ciotola nera che serve da piatto. I religiosi si pongono in due file indiane e lentamente s’avviano verso la sala da pranzo; l’ordine nelle file non è casuale, risponde ad un preciso rito e codice che non riesco a decifrare. Un secondo suono della campana, annuncia che è possibile accedere alla sala da pranzo; i monaci entrando nel cortile antistante alla sala da pranzo, porgono la loro ciotola ai donatori che la riempiono di riso, prendono la loro razione di carne, il dolce, la frutta e vanno a sedersi nella sala da pranzo, il tavolo è basso e devono sedersi per terra per poter consumare il pranzo. Oggi il pasto è ricco ed abbondante, nelle giornate senza donazioni, i monaci pranzano con un piatto fatto con riso, gamberi secchi, cipolle e peperoncino; ovvero gli ingredienti che abbiamo visti accumulati nella dispensa. I monaci entrando nella sala da pranzo si siedono senza un ordine ben preciso, pranzano in assoluto silenzio; solo ai monaci ammalati il pasto viene servito in camera. Quando il pranzo sarà servito a tutti i monaci, quello che avanzerà sarà distribuito ai poveri.

Lasciamo il monastero di Maha Ganayon Kyang e col pullman ci dirigiamo poco lontano, sulla riva del lago Taungthaman, l’automezzo si ferma e noi scendiamo per vedere il ponte U Bein (L263 – M148), il ponte in Teak più lungo al mondo; ben 1.200 metri. Il luogo è prettamente turistico, pieno di venditori e di bancarelle, con ogni scusa un nugolo continuo ed interminabile di bambini tentano di vendere di tutto. Presso il ponte delle barche a remi assomigliano vagamente alle gondole veneziane.

Il ponte ha una struttura molto semplice, due file di pali di legno infilati nel fondo del lago ad una distanza di circa 2,5 mt uno dall’altro, sono collegati da travi di legno, e sopra le stesse, delle assi inchiodate creano la passerella su cui camminare, la struttura è sprovvista di parapetti laterali, ma la gente cammina tranquillamente. Circa ogni trecento metri, è presente una casetta di legno che serve come sosta e come punto d’osservazione, a metà ponte, dove è presente una curva, la casetta è dotata di una scala che scende nel lago, qui è un crocevia di barche che raccolgono i turisti e li trasportano a riva; qualche persona del gruppo decide di rientrare verso riva con la barca, ma il tempo del rientro in barca si rivela molto più lungo del previsto e dobbiamo aspettare i ritardatari.

I ragazzini che vendono prodotti artigianali, si dimostrano poliglotti, hanno una notevole capacità d’apprendimento ed assimilano le parole straniere molto velocemente. Sulle bancarelle si trova di tutto, leggii di legno, sculture, decorazioni, collane e borse realizzate con semi d’anguria, disegni in bianco e nero ed acquarelli, collane e braccialetti di pietre varie, cappelli a ventaglio (dalla struttura in bambù e colorato), cappelli in paglia a falde larghe tipici dell’Asia.

Lasciamo il ponte di teak e nel tragitto verso il ristorante ci fermiamo presso un laboratorio artigianale dove lavorano l’argento. Vediamo le varie fasi della lavorazione del metallo, la fusione, la cesellatura, la lucidatura che è effettuata utilizzando frutti ed una pietra locale dal nome intraducibile. L’argento è fuso in un crogiolo alimentato da un maglio a mano, colato in lastre di fine spessore e poi cesellato. Questo artigiano produce braccialetti, orecchini, collane, vasi, scatole, suppellettili di ogni forma, gusto e prezzo; nel negozio sono presenti anche collane, orecchini ed anelli con pietre preziose.

Lasciamo l’artigiano e proseguiamo la nostra strada costeggiando un fiume, ad un certo punto un ponte di ferro lo attraversa, la struttura del ponte vede al centro una sede ferroviaria ed a entrambi i lati delle strade su cui transitano i mezzi motorizzati, ciclisti, pedoni e carretti. Il ponte realizzato dagli inglesi, fu distrutto dai giapponesi nel secondo conflitto mondiale, ricostruito nel 1952, attualmente è una struttura considerata instabile e per questo il governo birmano sta realizzando un ponte adiacente a quello vecchio.

Proseguiamo il trasferimento e ci fermiamo per il pranzo presso un ristorante cinese, nei bagni dei rotoli di carta igienica sostituiscono gli asciugamani, ma almeno sono monouso. Si pranza con nuvole di drago, zuppa, pollo, gamberi, maiale, riso e frutta.

Usciti dal ristorante, saliamo su dei furgoni e iniziamo la salita verso la collina di Sagaing (L268 – M152), durante la salita ci fermiamo presso il tempio di Umin Thounzeh (L268 – M153), il tempio delle trenta grotte; il tempio fatto a mezzaluna contenente 45 statue di Buddha, realizzato in onore dei 45 anni in cui Buddha ha girato predicando. La struttura è interamente piastrellata con ceramica, anche il pavimento della terrazza adiacente al tempio è di ceramica bianca.

Sulla terrazza Sosò ci spiega che i monaci buddisti fanno due pasti al giorno, il primo quando si svegliano, solitamente all’alba, ed il secondo, dopo aver chiesto la questua, comunque sempre prima delle 12, e fino al giorno seguente non assumono più cibo. Questa usanza fu introdotta nel tempo, in quanto i monaci facevano poca meditazione: il lungo digiuno dovrebbe servire anche per aiutarli nella meditazione. Mentre prendo gli appunti sul mio blocco, dei monaci incuriositi, vengono a vedere come scrivo e sorridono.

All’uscita del tempio, vicino a delle bancarelle alcuni artigiani stanno fabbricando, utilizzando i semi di anguria, collane, borsette e porta chiavi; un nugolo di bambini ci segue: vogliono vendere gli oggetti prodotti dagli artigiani.

Riprendiamo i camioncini e proseguiamo verso la cima della collina dove troviamo un tempio con all’interno una statua di Buddha che indica la costruzione della città, sulla collina è presente anche un monastero ed un cimitero, chiaramente non buddista. Giriamo per la collina e possiamo osservare il bello stupa interamente dorato che si staglia nell’azzurro del cielo. Percorriamo un corridoio colonnato interamente piastrellato e protetto da una tettoia dove sui lati sono presenti dei disegni rettangolari raffiguranti i 15 incubi avuti dal re ed i relativi interventi di Buddha; in cui l’Illuminato ne spiega il significato e predice cosa avverrà in futuro.

Poco distante, un tempio contiene una pietra, è la “pietra del giudizio” che è usata dagli studenti per sapere se un esame andrà male o bene; sollevano una prima volta la pietra, fanno un’offerta e poi risollevano la pietra, se la pietra sembra di minor peso significa che l’esame sarà superato, se la pietra sembra di maggior peso, difficilmente l’esame sarà superato.

Lasciamo la collina di Sagaing e sempre a bordo di pulmini, scendiamo verso la pianura percorrendo una strada diversa da quella utilizzata per la salita.

Ripartiamo per il rientro a Mandalay e lungo la strada ci fermiamo a visitare una fabbrica di arazzi. Gli arazzi si distinguono secondo il disegno e le finiture; se l’arazzo contiene poca superficie lavorata è da ritenersi poco prezioso, invece se presenta una superficie molto ricamata è da ritenersi prezioso. All’intero della fabbrica, sedute ad ogni tavolo, quattro ragazze lavorano a cottimo alla produzione di arazzi, l’età è indefinita, alcune potrebbero essere veramente giovani.

Proseguiamo il tour e poco dopo ci fermiamo in un laboratorio dove realizzano le foglie d’oro da apporre sulle statue di Buddha e nei luoghi sacri. Da 26 grammi d’oro escono ben 4.000 foglie d’oro, ognuna di pochi cm di superficie. Gli artigiani lavorano nell’area a piedi nudi, in quanto ritenuta sacra e benedetta. Per assottigliare l’oro utilizzano uno strumento fatto con dei fogli di carta bambù, larghi circa 15 per 15 cm, trattenuti da due pezzi di legno ai lati, legati a croce con della pelle di cervo. L’oro posizionato tra i fogli di bambù, trattenuti e legati dalla pelle di cervo, viene picchiato con una mazza, così facendo lo strato d’oro si assottiglia. Successivamente, i fogli di bambù vengono aperti e la foglia d’oro divisa in due parti, i fogli vengono richiusi e proseguono nella battitura. Questo procedimento è ripetuto per cinque passaggi, alla fine ottengono una foglia d’oro sottilissima che confezionata in bustine è venduta fuori dalle pagode e dei templi.

I fogli di bambù che servono per questa lavorazione, sono fatti stagionare nell’acqua per due anni, mentre la pelle di cervo che tiene uniti i bastoni di legno ed i fogli di bambù, è l’unica pelle resistente ai colpi di mazza inflitti dagli artigiani.

Le foglie assottigliate, vengono rifinite dalle donne che le predispongono in forma quadrata e le imbustano. I pacchetti di 10 bustine hanno un valore, in negozio di 1.500 khat, ovvero 1,5 €. Adiacente al laboratorio c’è un negozio, dove si trovano vari oggetti d’oro da quelli religiosi a quelli di bellezza.

Rientrando verso l’albergo in prossimità del fossato delle mura del palazzo Reale, ci fermiamo a fare delle fotografie.

Rientro in albergo, doccia e poi mi metto a sistemare gli appunti presi durante la giornata. La cena la consumiamo in un ristorante birmano; zuppa di lenticchie e cipolle, pesce, pollo, manzo, verdure, riso e di dolce, delle banane fritte. Il ristorante all’aperto fa “assaporare” appieno la temperatura calda ed afosa; terminata la cena, si torna in albergo, vado a letto con lo sguardo sulla pagoda illuminata, posta in cima alla collina.

19 ottobre 2006 Sveglia e sistemazione delle valigie, colazione e caricati i bagagli sul pullman, partiamo per Monywa. Uscendo dalla città, noto come sia invasa da biciclette e da motorini; essendo mattina la gente dalla campagna si reca in città per lavorare, ognuno porta la sua “gavetta” col pranzo della giornata.

Lasciando Mandalay, ripercorriamo la strada verso Sagaing, riattraversiamo il ponte di ferro e stavolta, proseguiamo diritti senza fermarci sulla collina. Percorriamo la strada asfaltata contornata dalle capanne delle famiglie alluvionate, ci fermiamo a fotografare la Kaunghwmudaw Paya (L269 – M153), una pagoda eretta nel 1636 dalla bianchissima cupola, la leggenda vuole che essa rappresenti il perfetto seno di una regina birmana. L’altezza della cupola è di 46 mt. Scatto delle foto e controllandole salgo sul pullman ma … Hanno cambiato l’autista? No, sono io che camminando senza guardare, ho sbagliato pullman e sono salito su quello di turisti francesi, scendo immediatamente e salgo sul pullman giusto posteggiato dietro a quello dei francesi.

Approfittando del viaggio, Sosò racconta curiosità, usanze e tradizioni della Birmania; la superstizione è molto forte e coinvolge completamente tutta la vita; se le case hanno l’entrata a sud o ad est, l’abitazione viene ricercata ed assume un buon valore economico, se invece l’entrata è a ovest o nord, il valore economico scende di molto. Nei negozi e nelle bancarelle, i commercianti sono convinti che il primo cliente che entra nel negozio o si ferma alla bancarella, se acquista, la giornata è positiva, se non acquista, la giornata avrà un risvolto negativo per gli affari, per questo i commercianti al primo cliente sono disposti ad applicare sconti molto forti pur di vendere ed avere così una giornata positiva.

In Birmania la patente del motorino si può conseguire a 18 anni, dopo sei mesi, si può conseguire quella dell’auto, dopo due anni quella dei pullman e dopo cinque anni quella dei camion.

I telefoni cellulari hanno una storia tutta particolare, girando per la capitale ho notato delle pubblicità di telefonini dell’ultima generazione, ma le schede funziono solo localmente. Il costo degli apparecchi è equivalente a quello italiano, invece la scheda d’attivazione costa 5.000 $ (tutte tasse governative). Esiste una lotteria nazionale in cui il vincitore ottiene un premio che consiste in una scheda telefonica d’attivazione per “soli” 1.500 $ e, vista la situazione economica dei birmani, molte volte il premio viene venduto in cambio di soldi. Sempre in fatto di telecomunicazioni anche il telefono fisso ha costi d’attivazione notevoli, la linea costa 1.500 $.

Lungo la strada ci fermiamo per una “sosta idraulica” presso un ristorante posto sulla strada, pur essendo mattina sulla tavola ci sono dei piatti pronti, quali passeri fritti e formaggio fresco; riprendiamo il viaggio e Sosò continua nell’illustrazione della vita del suo paese.

Le abitazioni sono costituite da una sala principale dove in molti casi è collocato un altare dedicato a Buddha, nelle abitazioni si entra sempre scalzi, le stanze, oltre a quelle dei genitori, sono divise tra maschi e femmine; anche i figli sposati, quando vanno a trovare i genitori, dormono in stanze separate.

Ogni birmano per essere una persona corretta dovrebbe rispettare cinque doveri; l’insegnamento di Buddha, il rispetto per i genitori, per i figli, per gli insegnanti e per gli studenti.

Lungo il percorso attraversiamo una zona agricola coltivata a cotone, anche qui è arrivata l’alluvione e sono presenti baracche di fortuna che costeggiano la strada.

La strada che collega le città birmane ha le caratteristiche delle precedenti percorse, un nastro d’asfalto largo circa 4 mt, affiancato da due piste sterrate dove transitano trattori e carri agricoli; i pedoni e chi viaggia in moto non hanno delle regole ben precise, ma tendenzialmente viaggiano sull’asfalto. In caso d’incrocio di pullman e camion, gli automezzi vanno con le ruote esterne sullo sterrato, di conseguenza la velocità varia a seconda del traffico che si trova.

Avvicinandoci alla città di Monywa, Sosò ci fa notare imponenti edifici con adiacente estesi prati ben tenuti; sono le facoltà universitarie, costruite dal governo tutt’intorno alle città. Essendo luoghi decentrati, agli studenti è garantito un regolare trasporto pubblico.

Proseguo ad ascoltare altre caratteristiche della vita della Birmania odierna, dove i servizi sociali sono assenti, la pensione non esiste, gli anziani devono sperare nell’aiuto dei figli, altrimenti devono andare negli ospizi. Gli stipendi sono esenti da tasse per operai, impiegati statali e militari, solo gli scaricatori del porto e le guide turistiche devono pagare il 10% di tasse.

Mentre viaggiamo si rompe l’aria condizionata del pullman, è proprio un tormento in questo tour, proseguiamo con i finestrini aperti. Durante il tragitto troviamo un passaggio a livello chiuso, un addetto della ferrovia con una bandiera verde annuncia la chiusura manuale delle sbarre e l’arrivo del treno; la ferrovia è ancora quella costruita dagli inglesi, il treno passeggeri ha un locomotore diesel ed è formato da quattro carrozze.

Transitato il treno, riprendiamo il viaggio costeggiando campi coltivati e, lungo la strada vediamo delle bancarelle con angurie.

Continua la descrizione della vita in Birmania: la distribuzione della benzina è regolata dallo Stato, al cittadino spettano 4 galloni la settimana, il rimanente fabbisogno viene acquistato al mercato nero con un costo tre volte superiore, circa 4.500 kyat al gallone (3 €).

I birmani usano masticare foglie di the mischiate tra betal e calce, masticando questo intruglio hanno le gengive e la lingua corrose dallo sfregamento della calce. La calce viene preparata ponendola in una pentola con acqua e viene fatta cuocere, poi l’acqua viene gettata e resta solo la calce; il procedimento viene ripetuto cinque o sei volte. Così preparata la calce avvolta da foglie di the, viene masticata; toglie la fame ed il sonno. La saliva diventa rossa, i birmani che masticano foglie di the sputano continuamente e, camminando sulle strade è possibile intravedere molte macchie rosse, frutto degli sputi effettuati. L’uso della masticazione delle foglie di the è di origine indiana.

Le donne, fin dalla tenera età amano apporre sul viso della “tanaka”, un prodotto che serve per proteggere ed abbellire la pelle. La corteccia del legno di tanaka è grattugiata e macinata finemente, poi viene applicata sul viso. Terminata la corteccia, i pezzi di legno vengono macinati ed utilizzati per realizzare creme per la cura delle mani.

Arriviamo a Thanhoddhay Paya (L274 – M155), un tempio dai colori pastello, contenente 600.000 statue di Buddha, di ogni grandezza. Scendiamo dal pullman e prima di accedere al tempio, chiaramente rigorosamente scalzi, vediamo degli scoiattoli correre per terra e su un albero. Il tempio costruito da un monaco di nome Leonardo è davvero inusuale, il colore pastello del rosa, azzurro, verde, bianco e giallo, si perdono, si mischiano continuamente con le bianche statuine di Buddha poste all’esterno del tempio sui pinnacoli, sulle steli, come decorazione. Vicino al tempio, una vasca contenente dei pesci è circondata da una cornice abbellita con pannelli descriventi la vita di Buddha. I buddisti acquistano pesci ed uccelli (tra l’altro visti in vendita sul ponte di teak il giorno precedente) per poi liberarli. Adiacente alla vasca due donne vendono del cibo per i pesci; il cibo acquistato dai pellegrini e dai turisti è dato direttamente ai pesci che sono nella vasca.

Lasciamo la vasca ed entriamo nel tempio, è pieno di gladioli, i fiori della fede, il loro profumo si diffonde e mischiato all’incenso che brucia sugli altari, rende l’aria veramente gradevole. All’interno del tempio vi sono statue di Buddha con varie posizioni delle dita della mano, in segno d’insegnamento. Scatto alcune foto di questo particolare e cromatico tempio e poi ci dirigiamo tra campi coltivati presso un’altra zona sacra, sulle colline di Po Khaung (L274 – M154) dove c’è un’imponente statua di Buddha disteso, la lunghezza della statua è 90 mt.; accediamo in quest’area tramite una zona in cui sono presenti 10.000 piante di Ficus Religiosa, saliamo su una torre che è il miglior punto d’osservazione per la pagoda e la statua di Buddha sdraiato. Dietro a questa statua un’enorme impalcatura fa intravedere un’ulteriore statua di Buddha in piedi in costruzione, l’altezza è imponente, a lavori terminati la statua sarà alta 167 mt.

Lasciamo la zona e ci dirigiamo verso la città di Monywa dove giungiamo per l’ora di pranzo, ci fermiamo ad un casello per pagare il pedaggio che permette l’accesso alla città. Sosò ci spiega che per la costruzione delle strade le persone “volontariamente”, dietro imposizione statale, lavoravano un giorno la settimana. Lo stato per ricompensare questo contributo, divide a metà la riscossione del pedaggio, 50 % va allo Stato e 50 % resta alla città e viene utilizzato per la manutenzione delle strade e per altre opere pubbliche.

Arriviamo al ristorante; patate fritte (sempre gradite dagli italiani), zuppa di ceci, manzo, maiale (dall’ottima cottura), verdure, ananas. L’albergo è carino, le camere sono delle palafitte di legno, molto pulite e gradevoli.

Dopo pranzo col pullman andiamo al porto cittadino, luogo in cui prendiamo delle barche per traghettare sull’altra sponda del fiume dove, adiacente ad un mercato caotico, ci attendono dei fuoristrada che ci porteranno a visitare le Hpo Win Daug Caves (L275 – M155), le Grotte degli sciamani. Saliamo sui mezzi e partiamo verso le grotte percorrendo la pianura caratterizzata da campagna; poco dopo transitiamo vicino ad estese aree cintate e delle montagne di pietrisco indicano che siamo nella zona mineraria di proprietà statale, dove estraggono rame. La guida racconta che di notte, la gente del villaggio, prende la terra per estrarre il prezioso minerale e poterlo vendere.

Lasciamo la pianura e cominciamo a salire sulle colline, la strada è sterrata ed i ponti sono di legno, l’autista procede a velocità abbastanza sostenuta continuando a suonare il clacson ogni volta che incontra qualcuno.

Dopo circa 45 minuti di viaggio ci fermiamo su un piccolo piazzale, siamo arrivati alle Grotte degli sciamani. Le prime grotte furono scavate nell’arenaria nel 900, nel 1400 sono state affrescate e gli affreschi, seppur parzialmente rovinati, sono ancora ad oggi visibili; nel 1780 vengono apposte le prime statue di Buddha in bronzo, nel 1900 cominciano i restauri e vengono apposte numerose statue ancora visibili.

L’origine del nome delle grotte si perde nella notte dei tempi, sembra che derivi dal fatto che il luogo era frequentato da sciamani che si riunivano per la preparazione di pozioni varie.

Accediamo alla prima grotta, è preceduta da un tempio di muratura, originariamente il tempio era di legno, oggi rimangono solo le porte di legno di teak intarsiato, visibili ai lati. La grotta è scavata nell’arenaria, all’interno una statua di Buddha e degli affreschi raffiguranti la sua vita. Proseguiamo lungo le pendici della collina, è un susseguirsi di grotte, alcune visibili, altre seminascoste dalla foresta tropicale, appaiono delle scimmie che, anche a distanza ravvicinata ci chiedono del cibo e, putacaso, dei ragazzini vendono dei sacchetti di arachidi da dare alle scimmie. Proseguiamo il giro sulle colline, vedendo grotte di ogni forma e dimensione, alcune sono abbastanza ben tenute, altre mostrano i segni del tempo e dell’umidità. In alcune possiamo osservare degli affreschi raffiguranti l’impronta del piede di Buddha o dei fiori di loto; una credenza locale vuole che transitare sotto questi affreschi, porti fortuna, allora visto che sono li perché non approfittarne? In cima ad una collina, una grotta contiene una statua di Buddha morente, la caratteristica sono le gambe completamente distese e non flesse, come nelle statue precedentemente viste, questa fu la prima grotta scavata tra quelle presenti.

Scendiamo un poco dalla collina e troviamo un piazzale circondato da templi, sul piazzale si sono radunati gli abitanti del villaggio e sono comparse decine di urlanti scimmie. Visitiamo una grotta contenenti quattro grandi statue di Buddha ed una più piccola; questa grotta fu restaurata nel 1901. Nonostante il restauro complessivo del sito, iniziato nei primi del 1900, solo ultimamente sono stati effettuati degli interventi conservativi e se non proseguiranno celermente, potrò dire di aver visitato le grotte pochi decenni prima della loro distruzione a causa dell’umidità, delle infiltrazioni d’acqua e della foresta che avvolge tutto.

Sulla facciata della montagna, vediamo una grotta con la rappresentazione del Monte Merù, di fianco all’entrata una forma piramidale scolpita nella roccia rappresenta i sette monti ed i sette mari da superare per raggiungere il monte sacro ai buddisti. Nella scultura la parte rappresentante le montagne è in altorilievo, mentre la parte rappresentate il mare è in bassorilievo, in cui sono scolpiti dei pesci. Sopra la forma piramidale, sono rappresentati i 26 piani del paradiso.

Poco distante, una grotta contiene la statua più grande del complesso, rappresenta Buddha sdraiato ed è lunga 27 mt.

Seguendo un percorso ai limiti della foresta, scendiamo dalla collina e saliti suoi fuoristrada, ripercorrendo la strada percorsa nell’andata ritornando al fiume. Nel viaggio transitiamo vicino a terreni recintati, dove la pastorizia è diffusa, al posto delle classiche palafitte noto delle abitazioni, significa che qui la piovosità è minore che in altre zone del paese.

Arriviamo al fiume e m’accorgo d’essere ricoperto della terra sollevata dai fuoristrada che ci precedevano, ho proprio il viso ricoperto e questo si nota bene, quando tolgo gli occhiali da sole, per fortuna che in albergo ci attende una bella doccia.

Prendiamo la barca per attraversare il fiume, mentre il tramonto lascia spazio a nuvole minacciose, lontano, sul fiume si vedono dei lampi. Rientriamo in albergo che il buio è già calato sulla città, una doccia e poi, visto che l’internet point è accessibile, il collegamento internet funziona ed i costi sono accettabili, ne approfitto per inviare mie notizie tramite la solita catena di amici.

La cena la consumiamo in albergo, verdura fritta (un piatto chiamato tampura, fatto con farina di riso e verdure), zuppa con uova di quaglia, spaghetti di grano, riso saltato, agnello, pesce, cavolfiori. Servono un dolce fatto con pasta di riso farcita con cocco, poi delle banane.

Durante la cena comincia a piovere copiosamente, attendiamo che il temporale diminuisca d’intensità e ci rechiamo presso la hall dell’albergo per giocare a carte e chiacchierare un poco. Poi mi ritiro in camera per la sistemazione del diario e m’addormento con negli occhi la visione delle grotte scavate nell’arenaria viste nel pomeriggio.



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