Shams Alam: il vento caldo del deserto
Arriviamo all’aeroporto di Marsa Alam portandoci dietro il ritardo della partenza dovuto, come sottolineato in maniera seccata dal comandante, ai disservizi di Aeroporti di Roma, e subito la memoria che conservavamo dell’Egitto viene ravvivata dal vento caldo del deserto, che sembra accoglierti in un morbido e accogliente abraccio.
L’assistenza di Albatour appare efficiente: Elisa ci consegna le etichette da applicare sui bagagli perché, all’arrivo al resort, possano essere portate in camera mentre noi andremo liberamente a pranzo, e ci indirizza al nostro pullman, pronto a percorrere i circa 100 km che ci separano da Shams Alam, probabilmente uno dei tratti di costa più belli e di più facile accesso di tutto il Mar Rosso turistico, appena prima dell’inizio della riserva naturale di Wadi Gemal.
Appena arriviamo, constatiamo che il luogo è esattamente come ci era stato piacevolmente presentato: il resort è una presenza discreta in uno scenario emozionante, il deserto roccioso alle spalle, la riserva naturale a sud, il mare percorso dalle geometrie della barriera corallina; si estende con una fila di bungalow a due piani color sabbia lungo la parte centrale della piccola insenatura, fiancheggiato a nord dal centro per il windsurf e a sud dal centro per le immersioni. Lungo la strada per l’aeroporto solo la presenza sporadica dei vari resort, interrotta dal centro indigeno di Marsa Alam, che costituisce una improvvisa e diretta inserzione di vita egiziana all’interno del settore vacanziero. A sud la creazione della riserva naturale di Wadi Gimal impedisce ulteriori costruzioni, che riprendono solo oltre i suoi limiti meridionali, dove è già attivo un recente resort a Lahadi, che ha tolto a Shams Alam il primato dell’insediamento turistico più meridionale.
La gestione del resort è senz’altro buona: molto gentile e disponibile il personale egiziano, apprezzabile e vario il mangiare, discreta l’animazione del personale Albatour, sempre presente senza essere opprimente. Ricordiamo con piacere le uscite snorkeling con Luca, la ginnastica con Marzia, le partite a pallavolo con Toc Toc, ma un attestato di simpatia va a tutti quanti, anche a quelli con cui siamo stati meno a contatto.
Per la prima escursione, decidiamo di cercare l’impatto con la realtà della vita beduina non da cartolina, scendendo fino a Shalatin, centro nato sul commercio e lo scambio al confine con il Sudan, che ospita uno dei più grandi e frequentati mercati di dromedari di tutta l’Africa. Per arrivarci si devono percorrere più di 200 km attraverso un ambiente complessivamente lontano dall’essere monotono: poche centinaia di metri dopo Shams Alam ha inizio la riserva naturale di Wadi Gimel, dove la vegetazione rada, a livello del terreno, impedisce la dispersione della sabbia operata dal vento e causa la formazione continua di dossi che, più in là, lasciano il posto a una limitatissima macchia di acace e, ancora oltre, a una distesa di sabbia, sommersa dal mare a est e interrotta a ovest, in lontananza, dai rilievi del deserto roccioso orientale. A 15 km da Shams Alam una pista di m. 200 circa conduce alla spiaggia bianca di Shams El Luli, meta di una successiva escursione di cui diremo tra poco.
A circa 70 km da Shams Alam e a breve distanza dalla strada principale, un sentiero che scavalca un ponticello posto sopra un wadi asciutto, a parte qualche sporadica pozza, porta a un’ampia rientranza della costa, chiusa al mare da un’estesa fila di concrezioni calcaree sulle quali spicca la forma di un’unica mangrovia, che affonda le proprie spire nell’acqua. Vegetazione similare, che però si limita a cespugli affioranti dall’acqua, borda a sud il piccolo golfo, che assume così la forma di una vasta piscina, calda e accogliente. Qui un commerciante egiziano, valutando le possibilità del posto, ha impiantato una semplice struttura di accoglienza e ristoro che sembra ben fruttare; il tizio è anche un severo controllore dell’integrità dell’ambiente, pronto ad ammonire qualunque tentativo di prelevare anche una semplice conchiglia.
Sia qui sia a Shams el Luli donne egiziane circondate da una folla di bambini dalla chiassosa simpatia sono pronte a spendere qualche parola di italiano per invitare a comprare monili disposti su banchetti che smontano alla partenza dei turisti.
Per giungere a Shalatin bisogna poi superare la città di Baranis, l’antica Berenice fondata da Tolemeo II come porto e via di accesso in Egitto per le vie carovaniere dell’Arabia: ora è ridotta a qualche baracca beduina lungo l’arteria che punta a sud e sfiora l’aeroporto militare. Proprio il fatto che tutta la zona sia sotto il controllo dell’esercito impedisce la libera perlustrazione del territorio: è impossibile muoversi alla ricerca dei resti antichi, per lo meno di quei pochi che sono stati individuati, e chiunque voglia spostarsi ha bisogno di un lasciapassare da richiedere alla polizia. Di tali pratiche si occupa l’organizzazione dell’escursione che, tramite il nostro accompagnatore Ahmed, consegna al posto di blocco posto poco prima dell’insediamento l’autorizzazione al nostro spostamento. Il tempo che ci separa dall’arrivo a Shalatin è impiegato da Ahmed, che per semplicità nostra si fa chiamare Amedeo, a fornire qualche notizia sulla vita beduina: tiene a precisare –lo fanno tutti gli Egiziani con più di una punta di discriminante orgoglio patrio- che non sono Egiziani e non hanno nulla a che fare con l’Egitto, essendo nomadi provenienti dall’Arabia, a cui il paese ospitante concede di vivere secondo le proprie usanze senza obbligarli né a dar conto della propria esistenza anagrafica, né a sottoporsi ad altri doveri istituzionali: in breve, i beduini non hanno carta di identità e i loro bambini non vanno a scuola. A Shalatin, infatti, la cui popolazione è costituita essenzialmente da beduini e nubiani, non esiste un edificio scolastico e l’unica traccia di istituzione statale che abbiamo visto e il posto di polizia, da cui provenivano i due agenti che ci hanno scortato durante la visita a piedi per le polverose vie dell’insediamento. Tra le altre informazioni di carattere sociale fornite da Ahmed, ricordiamo le procedure matrimoniali: le unioni sono regolate dalle madri; è la madre dell’uomo che si reca dalla madre della ragazza per controllare il fisico della promessa sposa e prendere accordi. Se le due donne acconsentono all’unione, la ragazza viene sottoposta al controllo della verginità; se positivo, viene fissato il matrimonio, che si celebrerà dopo che l’uomo avrà recato in contributo una quantità stabilita di beni consistenti in dromedari, capre e litri di latte di entrambi. I matrimoni si svolgono all’interno della stessa tribù; normalmente ogni uomo si lega a quattro donne e genera in media cinque figli.
Il termine di questa presentazione coincide con l’arrivo alla zona del mercato dei dromedari: l’impatto è immediatamente duro. Un tempo utilizzai come mezzo di trasporto delle merci, ora sono i dromedari stessi la merce privilegiata, destinata alle tavole degli egiziani: la carne di dromedario è il kebab dei poveri. All’esterno della struttura del mercato avvengono le contrattazioni tra compratori e venditori; dopo l’accordo, le bestie vengono condotte dentro il recinto e marchiate, perché siano riconoscibili; una volta vendute, vengono issate a forza di nerbate su furgoncini capaci di condurre fino al Cairo cinque o sei dromedari insieme. Se si ha a cuore la sorte degli animali, è opportuno arrivare preparati ad assistere alla scena del dromedario con una zampa legata, perché abbia difficoltà a fuggire, marchiato a fuoco, trascinato a frustate e accatastato insieme ad altri su un camioncino scassato.
Sotto un sole che trapana i sassi (l’ultima volta questa striscia di territorio tra Sudan ed Egitto ha visto la pioggia per dieci minuti nel 1865), ci avviamo per le vie polverose di Shalatin, una rete quasi regolare di spazi sterrati delimitati da baracche di cartone e lamiera, che ospitano le attività commerciali legate all’alimentazione e all’artigianato; per tutto il percorso siamo scortati da due poliziotti, l’uno in testa, l’altro in coda, la cui occupazione principale è tenere distanti i bambini che, in realtà, neanche tanto insistentemente, cercano di vendere per pochi euro collanine di nessun valore. Il pranzo è nell’unico ristorante del luogo, ospitato al secondo piano di un edificio, al cui piano terra una televisione offre in visione a un nutrito gruppo di indigeni telenovele e film locali. Le mura, ricoperte da argilla essiccata, sono decorate con motivi incisi e a rilievo ispirati alla vita nel deserto; un angolo della sala è allestito con tappeti tessuti sul posto; un’ampia terrazza consente la vita su quasi tutto l’insediamento.
Il momento conviviale fornisce anche l’occasione per chiacchierare più familiarmente con Ahmed, che, rispondendo a precise domande, non evita di esporre la sua contrarietà politica al governo di Mubarak, di cui contesta la gestione clientelare del potere con la conseguente dissoluzione delle possibilità di vita e lavoro per le nuove generazioni: scherza, dicendo che se fosse italiano potrebbe chiamarlo “Rubarak”.
Al momento della partenza, in parte eludendo, in parte sfidando i divieti dei poliziotti, riusciamo a dare ai bambini che circondano il pulmino le scatole contenenti un piccolo spuntino, preparato dal resort; uno di loro ci ringrazia offrendoci in cambio un paio di collanine; un altro ci saluta facendoci vedere che indossa la maglia dell’Italia.
Sulla via del ritorno ci fermiamo alla spiaggia delle mangrovie descritta prima.
La seconda escursione è alla spiaggia bianca di Shams El Luli, dove con un po’ di fortuna si possono vedere le tartarughe: noi la fortuna non l’abbiamo avuta, in compenso l’ambiente marino è sicuramente il più bello tra tutti quelli che abbiamo visto, compresi i fondali di Hurghada e Ras Mohammed a Sharm el Sheik. Il bianco della sabbia del fondo riflette la luce del sole componendola e rifrangendola sui coralli, creando strepitosi giochi di luce attraversati da una fauna ricchissima per varietà e quantità. Spostandosi sulla sinistra, rispetto al punto dove si viene portati con il pulmino al termine del sentiero di accesso, si apre alla vista una lunghissima striscia di sabbia bianca percorsa da granchi di diverse forme e dimensioni e costellata da enormi conchiglie sparse o raggruppate qua e là: se ci si allontana un po’ a piedi, si riesce a percepire il rumore del silenzio, solo affiancato dal leggero sciabordio dell’acqua.
La terza escursione è dedicata al divertimento puro e semplice: la motorata nel deserto fino a un accampamento beduino, che richiede un minimo di adattamento e spirito di avventura, sia perché la guida dei quad è tutt’altro che semplice, sia perché gli Egiziani, un po’ per spirito goliardico, un po’ per naturale disinteresse, non si impegnano molto a tenere unita la carovana, che tende spesso a sfilacciarsi e disunirsi. Se si aggiunge la non perfetta tenuta tecnica dei quad, che tendono a surriscaldarsi e a spegnersi, e la difficoltà a muoversi sulle piste desertiche la notte (l’escursione per vedere il tramonto parte verso le 5 e ritorna al buio; esiste anche la versione totalmente in notturna finalizzata alla contemplazione delle costellazioni), si comprende che bisogna affrontare la motorata mettendo in conto qualche imprevisto. L’andata fila tutta abbastanza liscia e fa vivere l’emozione della guida sulla sabbia che ci fa sentire un po’ tutti Lawrence d’Arabia: la guida si diverte anche a farci percorrere un giro ozioso mirato a costringerci a compiere salti sulle dune, che a momenti mandano fuori pista diversi quad. La sosta all’accampamento beduino consente di gustare un indimenticabile caffè allo zenzero, preparato sul posto, e a immergersi in uno spettacolare tramonto nel deserto, immortalato con le macchine fotografiche e soprattutto con la memoria. Il ritorno è tutto un’avventura, tra piloti (o meglio turisti che si sentono piloti) che sbagliano strada (anzi pista) e sono recuperati a fatica dalla guida, la quale, dimentica del suo ruolo, procedeva come se non avesse nessuno alle spalle, quad che si infiammano e si spengono per riaccendersi solo dopo molto tempo e fatica, quad privi di luci, buio, sabbia sparata negli occhi, manubri sempre più pesanti, stanchezza sempre più pressante. Alla fine, si riesce a tornare al punto di partenza, tutto sommato pervasi da una immensa, infantile soddisfazione, tutti contenti di poter spargere la polvere del deserto per tutto il resort.
L’ultimo giorno trascorre tranquillo, tra snorkeling (le barriere coralline di fronte al resort sono splendide e immediatamente raggiungibili con pochi colpi di pinna) e interminabili partite di pallavolo, già sperimentate nei giorni precedenti.
Il ritardo di tre ore in partenza è compensato dalla cena offerta dall’organizzazione, che si è dimostrata senza dubbio efficiente sotto ogni aspetto.