Rajasthan e Nepal in solitaria

Zaino in spalla tra gli imprevisti, in mezzo ai sorrisi e dentro sé stessi
Scritto da: kagno87
rajasthan e nepal in solitaria
Partenza il: 12/04/2014
Ritorno il: 29/04/2014
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
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Viaggiare è la mia più grande passione, una vera ragione di vita. Viaggio appena ne ho l’occasione, non importa se vicino, lontano, lontanissimo, da solo, in coppia, con amici…. Negli anni mi sono creato una mappa su cui mi annoto tutti i luoghi interessanti che scopro in internet, tv, libri o per sentito dire, e il mio sogno è che piano piano riuscirò a vederne, se non tutti, almeno la maggior parte. Se vi interessasse dare un occhiata alla mia mappa (sentitevi liberi di scrivermi per segnalare altri posti che mi sono sfuggiti!) la trovate a questo link: https://www.google.com/maps/d/viewer?mid=z65-C6Bk5ja8.kVi1qtP3Gt6A&hl=it

Questo è il racconto della mia avventura in solitaria in India e Nepal, durata circa 3 settimane in tutto. La scelta di queste destinazioni si è basata principalmente sul fatto che da sempre ho provato una certa curiosità verso questi popoli e culture così radicalmente distanti dagli schemi di pensiero con cui noi conviviamo dalla nascita. Volevo abbandonare per una volta lo stile di vita all’occidentale e, perché no, prendere la scusa per visitare luoghi di assoluto interesse architettonico, storico e culturale. C’è chi per una destinazione del genere si prepara psicologicamente per mesi, a me invece è capitato di svegliarmi una mattina, un paio di settimane prima delle ferie pasquali, dicendo: beh, perché non andarci subito? In quattro e quattr’otto ho organizzato tutto, preferendo buttarmi nella mischia e sfidare un po’ me stesso, vedere se ero in grado di uscirne intero. Ancora non sapevo di preciso cosa mi avrebbe aspettato…

TUTTO IL NECESSARIO PER PARTIRE

A livello di vaccinazioni ero già a posto per quanto riguarda epatite A e B, tifo, tetano, polio e difterite, il “pacchetto minimo” per viaggiare. La malaria in questo periodo non minaccia in modo sostanziale il Rajastan, su cui mi volevo concentrare, quindi più che il vaccino (che talvolta provoca un po’ di nausea) si consiglia uno spray repellente a base di DEET, come l’Autan Tropical. Il farmacista mi ha dato un altro saggio consiglio, quello di iniziare una settimana prima della partenza una confezione di fermenti lattici in compresse, una al giorno fino al ritorno. Hanno funzionato alla grande, con un po’ di fortuna e attenzione ho evitato ogni problema gastrointestinale che spesso affligge che si reca in questi Paesi.

Quindi, prima cosa da fare: ottenere il visto. Per evitare tempi e costi delle agenzie sono passato dal consolato indiano a Milano, che in pochi giorni mi ha recapitato per posta il visto (valido 6 mesi con ingressi multipli, costo circa 90€). Quello nepalese invece si ottiene direttamente all’arrivo in aeroporto pagando 20€ e dura 15gg.

Dopodiché ho scelto le tappe da visitare in base ai percorsi che grossomodo i tour operator propongono per un viaggio di tre settimane. Gran parte si assomigliano; io faccio un po’ di variazioni e decido per un itinerario di massima Delhi-Jodhpur-Jaisalmer-Jaipur-Agra-Khajuraho-Varanasi-Kathmandu. Con il senno di poi, posso dire che per apprezzare davvero le incredibili sfaccettature di questi posti è bene sì avere un percorso da seguire, ma il bello sta veramente nel lasciarsi andare e dimenticare tutto il resto, orologio e calendario per primi, assaporando ogni luogo con la gente del posto e partendo per il successivo solo quando ci si sente davvero appagati. Per quanto possa sembrare strano guardando un mercato o una strada affollata, la fretta è una cosa che indiani e nepalesi non conoscono affatto!

Partendo da Torino opto per un volo Alitalia per Roma e da lì un China Airlines per Delhi; il ritorno sarà invece Kathmandu-Torino via Istanbul con la Turkish. Totale dei due voli circa 850€, a cui sommo altri 180€ per i voli interni Delhi-Jodhpur e Varanasi-Kathmandu.

Per trovare le sistemazioni notturne mi sono basato sul sito Hostelworld.com. Mediamente una notte in una guesthouse senza troppe pretese va dai 2 ai 5€, e all’atto della prenotazione si paga solo il 10%, quindi con pochi spiccioli mi sono assicurato di avere sempre un letto.

Per gli spostamenti interni ho cercato di prenotare in anticipo i treni tramite cleartrip.com, che è semplice da utilizzare ma è complicatissimo riuscire ad iscriversi. In mio aiuto ho trovato questa pagina, in inglese, http://www.seat61.com/India.htm#.VJmPBF4DQI, dove viene anche fatta chiarezza sulle dozzine di classi di viaggio dei treni indiani. Dato che i prezzi sono molto bassi ho deciso di prenotare più treni per ogni tratta, per sentirmi più libero. Sempre con il senno di poi, consiglio di tenere d’occhio i posti “Taktal”, riservati ai turisti e disponibili online dal giorno prima: aggiungono ancora un pizzico di imprevedibile e permettono di decidere all’ultimo minuto quando partire. Altra ottima alternativa sono i bus locali, troverete ovunque decine di compagnie con diverse classi di viaggio e prezzi solo leggermente più alti dei treni. A livello pratico posso dire che l’inglese è parlato quasi ovunque in modo quantomeno comprensibile e la segnaletica è ovunque bilingue; non preoccupatevi se non conoscete l’hindi o nessun’altra delle altre mille lingue locali. Le città sono relativamente sicure, ho conosciuto anche diverse ragazze che giravano senza problemi da sole. Alla sera si sconsiglia comunque di girovagare dopo le 10. Purtroppo la microcriminalità esiste e oltretutto i blackout sono frequenti, il rischio è quello di perdersi nelle stradine senza nessun tipo di riferimento. In ogni caso non immaginatevi di trovare pub affollati o altri posti dove tirare tardi, men che meno fuori dalle grandi città.

Ricapitolando, in totale il viaggio mi è costato sui 1200€ tra visto, aerei, assicurazione e pernottamenti, a cui ho aggiunto altri 350€ circa (prelevati in rupie direttamente in loco) per pasti, trasferimenti in città, mance, ingressi e regalini vari. Per sentirmi più sicuro avevo una scorta di euro nel marsupio in caso non fossi riuscito a prelevare, ma in un modo o nell’altro me la sono sempre cavata.

Per essere flessibile al massimo mi sono portato solo lo stretto indispensabile, uno zaino da montagna contenente sacco a pelo, scarpe comode, vestiti chiari e leggeri (ma che coprano da sole e insetti), carta igienica, macchina fotografica, crema solare, un buon libro, una guida National Geographic (che però sconsiglio, è economica ma molto sommaria), il mio Lumia con le sue preziosissime mappe offline e una borsa a tracolla, più pratica per visitare le città.

12 APRILE: PARTENZA!

All’aeroporto di Torino sono le 19.10 ed eccoci, finalmente, si parte. Sono esageratamente elettrizzato dal viaggio che mi aspetta. Quando il secondo aereo decolla da Roma è ormai buio e mi rendo conto che mi sto lasciando alle spalle non solo l’Italia, ma l’intero mondo occidentale in cui sono sempre stato abituato a vivere. Guardo fuori dall’oblo ma vedo solo il mio riflesso, e vien quasi da chiedermi “ma chi me l’ha fatto fare?”…. Mi rispondo con un sorriso, e mi sento davvero vivo. Oltre che un viaggio in posti così diversi a livello sociale e culturale so che sarà un viaggio all’interno di me stesso, serviranno tenacia e calma per affrontare tutto. Penso agli amici, ai colleghi, alla mia famiglia, tutti hanno reagito in modo diverso alla mia decisione di partire. C’è chi invidia il mio coraggio, chi risponde schifato che sono posti da terzo mondo, chi non sa neanche dove siano o chi comunque non ha idea di quanto possano essere diversi dall’Europa. Il volo trascorre tranquillo, anche se l’aereo della China Airlines sembra fatto di plasticaccia, i film hanno giganteschi sottotitoli in cinese a prescindere da cosa tu stia guardando e il cibo è piuttosto asciutto e insapore. Dormendo per quanto possibile, la mattina mi sveglio che manca poco a Delhi. Dopo l’atterraggio nell’enorme e moderno aeroporto sbrigo velocemente la modulistica per l’immigrazione e cerco di prelevare ad un bancomat nella hall. Anche se tutti i principali circuiti fanno bella mostra di sé, la mia carta sembra non funzionare affatto. Una coppia francese con il mio stesso problema mi dice che basta digitare cifre più basse ed insistere un po’. Effettivamente per qualche strano sortilegio al sesto tentativo riesco a ritirare le rupie. Non sono moltissime ma per i primi giorni dovrebbero bastare. Esco dall’aeroporto per incontrare l’autista mandato dall’ostello e l’aria è calda ma non soffocante: sono in India!!

13/14 APRILE: DELHI

Il primo impatto con la capitale è uno spaccato del Paese: con il nostro minivan mezzo scassato, passiamo per autostrade, periferie, quartieri agiati e infine per le polverose viuzze dei quartieri più poveri. Per pulire il vetro impolverato, l’autista sporge il busto dal finestrino per sciacquarlo con una bottiglia d’acqua, il tutto continuando a guidare come un pazzo. Osservo divertito il caotico incrociarsi di persone, auto, scooter, animali di ogni sorta, tuc-tuc, mezzi pubblici, camion e chi più ne ha più ne metta. Ognuno guizza via infilandosi in spazi strettissimi e sembra che la precedenza vada fondamentalmente a chi fa più casino col clacson. L’autista mi spiega che ormai è più un gioco collettivo che non una sollecitazione a fare largo. Come vi ho già detto, di fretta non ne hanno.

L’Hostel New King si trova in una zona di mercato mezza diroccata, costellata di rifiuti e, manco a dirlo, terribilmente sovraffollata. Dentro, il posto è semivuoto e un tizio che neanche si presenta mi accompagna frettolosamente in una camera matrimoniale nonostante avessi prenotato un letto in camerata mista. Ho come la sensazione che mi abbiano portato all’ostello sbagliato, qui è facile essere raggirati. Riposo un’oretta un po’ confuso, il jet-lag non è eccessivo ma si fa sentire, poi mi decido a chiarire la cosa. Scopro che mi trovo nell’ostello giusto, è solo il personale ad essere decisamente freddo e disinteressato. Mi spiegano che comunque siamo in bassa stagione e per di più in questi giorni ci sono le elezioni, per cui molti turisti hanno scelto altri periodi per venire qui. Così sono l’unico ospite e mi hanno lasciato una camera più grande allo stesso prezzo. In ogni caso la stanza è spaziosa e pulita, la doccia funziona e le prese di corrente pure. Peccato solo non poter scambiare due parole con altri “vagabondi” come me.

Alla reception mi danno una mappa malconcia e mi incammino con l’intenzione di raggiungere la cittadella antica, Old Delhi. Esco in strada e la gente inizia ad assillarmi per fare il tour della città, trasferimenti in tuc-tuc, darmi indicazioni, chiedermi da dove vengo e se è la mia prima volta in India. Non puoi fare 10 metri senza che qualcuno ti fermi, seguendoti per tempi infiniti e cercando di convincerti che sa SEMPRE una scorciatoia. Un ragazzo parla addirittura italiano e tenta di vendermi biglietti aerei scontati. Cerco di svicolare il più possibile e proseguire a piedi per conto mio, ho bisogno di un po’ di tempo per ambientarmi. Attraverso un mercato di stoffe e spezie, scavalco il ponte sulla ferrovia e inizio ad addentrarmi nella città vecchia. Qui diventa davvero difficile descrivere a parole il caos, il sovraffollamento, il senso di continua allerta che pressa. Una calca da fare invidia ad un concerto metal, tagliata in continuazione da risciò, carretti e scooter; ragazzi corrono stracarichi di sacchi di cereali, un tizio munge una pecora, uno sgozza un pollo, uno cucina del riso in condizioni igieniche assolutamente impensabili, bambini frugano in un cumulo di vecchi elettrodomestici, rifiuti ovunque, cacca ovunque, cani, capre, mucche, mosche, gente ovunque. Alcuni dormono in una nicchia del muro, altri su un condizionatore, altri semplicemente su un vecchio cartone buttato per terra. La sensazione è quella di galleggiare in un mare in tempesta: se ti fermi vieni sommerso. L’impatto è traumatico, niente può prepararti ad un pianeta così distante dal nostro. A parte i cavi elettrici penzolanti qua e la potrei credere di essere tornato indietro nel tempo di un paio di millenni. Finalmente, oltre la folla vedo la sagoma della Jama Masjid, la moschea più grande del Subcontinente. Tolgo le scarpe e mi concedo un po’ di respiro ammirando l’ampia, incredibilmente pulita, costruzione in pietra rossa con le sue cupole, i minareti e i porticati. Proseguo poi per la Fortezza Rossa, o Lal Qila, che nonostante sia per molti il cuore della città vecchia trovo severa e poco affascinante. E’ comunque impossibile da fotografare decentemente per la quantità di turisti, tutti indiani, che riempiono la spianata. Mi avventuro ad attraversare qualche grosso incrocio rischiando di finire spappolato sotto decine di scooter, taxi e camioncini che scorrazzano senza regole e inizio a percorrere Chandni Chowk, dove si affacciano svariati templi giainisti e dove, con somma vergogna, mi mangio un gelato da McDonald’s. Ho poche alternative, dimenticatevi i ristoranti, i menù, i tavoli all’aperto. Qui ci sono soltanto chioschetti ambulanti con ogni genere di cibo di strada, ma non me la sento di provare subito. Vedere le condizioni igieniche in cui si mangia nella città vecchia mi ha chiuso lo stomaco già sottosopra per il fuso orario, e trovo nel gelato una temporanea ancora di salvezza dopo la faticosa camminata sotto il sole. Sono comunque abbastanza stanco, quindi riposo un po’ nel parco dedicato a Mahatma Gandhi, osservando i ragazzi che giocano a cricket. Da qui posso tornare all’ostello in metro, che funziona con uno strano gettone di plastica al posto del biglietto, dal costo proporzionale al numero di fermate che si intende fare. Mi sento ancora un po’ scosso dallo “shock culturale”, ma in fondo è solo il primo giorno… Dopo 26 anni che vedo il mondo all’occidentale è più che comprensibile, mi ci abituerò.

Mi faccio una doccia e poi mi faccio consigliare dal proprietario dell’ostello un buon posto per cenare, e lui mi accompagna al Tadka, piccolo ristorante li vicino dove assaggio uno squisito riso con piselli, cetrioli, anacardi, asparagi, yogurt e mille spezie. Le porzioni sono gigantesche e i prezzi ridicoli. Sazio e rinfrancato, decido di prenderla larga e vedere il mercato di sera. La gente è ancora molta, ma meno del mattino; insegne colorate richiamano l’attenzione sulle infinite botteghe di tessuti, mobili, generi alimentari e monili religiosi. Due bambine, avranno avuto 4 e 7 anni, mi chiedono l’elemosina. Un passante mi suggerisce che è da preferire comprare loro qualcosa da mangiare, ne hanno più bisogno che dei soldi e in questo modo possono condividere il cibo in famiglia senza fomentare il fenomeno del racket delle elemosine, che punta ad intenerire il turista piazzando in strada i bambini per poi chiedere loro una tangente. Così le seguo fino ad un bazaar dove acquisto un sacco di riso, patate e una miscela di spezie, per poi vederle correre via gioiose del loro bottino. Probabilmente dureranno per tutta la settimana. Son piccoli gesti che già mi fanno apprezzare questo posto fatto di persone che non hanno davvero niente ma che sono grandi nella loro umiltà.

Passeggio ancora un po’ prima di tornare in ostello e mi imbatto nei colorati festeggiamenti di un matrimonio tradizionale, con decine e decine di invitati che cantano stonati e ubriachi. Sto iniziando ad abituarmi a questo strano mondo e, a piccoli tasselli, penso di cominciare a capire qualcosa di come funziona questo immenso formicaio che è l’India.

Mi concedo una bella dormita e il mattino dopo mi sveglio tardi. Esco e ormai mi sento più disinvolto, ripasso dal Tadka per colazione e mi sbafo un bel naan al formaggio e un tè alla menta. Appena esco trovo un signore distinto che come da copione mi vuole portare ad acquistare qualcosa. Si guadagna da vivere così, procacciando clienti per i negozi, che in in cambio gli concedono una percentuale su quello che riescono a vendere. Mi rendo conto che oggi sono l’unico turista in giro, non riuscirò a scamparla a lungo. Decido quindi di seguirlo fino ad un magazzino di stoffe e vestiti da cui me ne esco con una camicia e una pashmina tinti a mano. Non saprei dire se siano durati di più gli acquisti o i ringraziamenti. Essendo italiano, i commessi si dilungano nello spiegare come nella capitale ci sia fermento per le elezioni e di come loro sosterranno il figlio della torinese Sonia Gandhi. Già che sono in zona giro con più calma il variopinto mercato, che al mattino è ancora più vivace ed è pieno di frutta fresca esposta direttamente in carri di legno trainati da buoi. Prendo la metro e mi dirigo stavolta al Lotus Temple, moderna costruzione situata in un vasto parco nella parte sud della città. Purtroppo è ormai passato mezzogiorno e il tempio non è visitabile fino a domattina. Davanti al cancello vengo prontamente fermato da Raju col suo tuc-tuc, che approfitta della mia delusione. Mi lascio andare alla sua proposta di giro turistico tra i siti archeologici della zona. Come tutto, mi tocca trattare sul prezzo prima di accettare: ci accordiamo per una cifra ragionevole di 500 rupie per un giro di mezza giornata, con la promessa di altre 50-100 di mancia.

Il mezzo è tappezzato di santini, molto probabilmente l’unico sistema di sicurezza, e dal cellulare usato come radio esce musica tradizionale in una sorta di strampalato remix elettronico. Come drink di benvenuto Raju compra da un ambulante un imbevibile intruglio caldo, salato e piccante, che bevo solo per cortesia cercando di nascondere l’espressione dubbiosa. Il tour può partire: prima tappa il tempio Iskcon (sede del movimento Hare Krishna), un recente edificio che vuole richiamare lo stile dei tempi che furono ma che a conti fatti ricorda più Gardaland che qualcosa di spirituale, con sculture di divinità dai colori esasperatamente sgargianti. Tra gli altri monumenti che intendo visitare oggi vengono inseriti nel tour anche due soste negli immancabili negozi di souvenir, dove non è obbligatorio acquistare nulla ma i commessi mi assillano proponendomi di tutto. Me ne esco con un portachiavi di Ganesh in legno, dicono che porti fortuna. Successivamente eccoci alla vera perla della città: la tomba dell’imperatore Humayun, con colossali edifici funerari, giardini, templi e fontane. Si passa poi dal mausoleo di Safdarjung, imponente struttura settecentesca in stile mughal, e infine ci dirigiamo al cuore della Delhi coloniale: il colle del Parlamento. Qui si aggirano numerosissimi macachi, che sembrano farsi beffa delle impassibili guardie armate che pattugliano i cancelli presidenziali. Dall’alto si ammira l’immensa spianata del Rajpath, che ricorda molto quella di Washington, attorniata dagli edifici amministrativi e dalle varie ambasciate che contornano il parco fino al celebre India Gate. Ci sarebbero molti altri siti archeologici interessanti, ma a quest’ora son già chiusi o perlomeno è quello che Raju mi dice. Forse sono semplicemente troppo lontani e a lui, facendo due conti, non conviene in termini di tempo e benzina. Quindi pago, lo saluto e lo ringrazio: in ogni caso mi ha permesso di vedere tutti questi monumenti in un pomeriggio. Affidarsi ad un tassista era praticamente la mia unica soluzione. Nel pagare, comunque, mi fa notare che una delle banconote da 500 che ho prelevato in aeroporto è falsa e non me la può accettare. In effetti è leggermente più scura delle altre ma non ci avevo fatto troppo caso. Pace.

Mi faccio una lunga camminata per avvicinarmi alla metro e rientrare in ostello. E’ inconcepibile e frustrante come le stazioni della metro siano mal disposte rispetto ai punti importanti della città. Tanto vale che me la faccia tutta a piedi. Per il caldo anche oggi ho pranzato solo con gelati e succhi di frutta tra un monumento e l’altro (sarà così per quasi tutto il viaggio), quindi presto mi viene fame e ceno di nuovo al Tadka, stavolta con una saporita zuppa di funghi e lenticchie e un dolce tipico fatto con palline di latte e miele fritte. Una cosa ormai mi è chiara: ieri mi sono buttato senza saperlo nell’India “hardcore” senza un minimo di preparazione…beh consideriamolo il migliore dei vaccini.

Tirando le somme di quel che ho visto, Delhi offre molto ma ha un’identità fortemente spaccata tra il passato millenario, il colonialismo inglese e il tentativo di essere una metropoli del XXI secolo. Detto questo, resta il posto ideale per un perfetto “battesimo dell’India”.

15/16 APRILE: JODHPUR

Alle 11 in punto parte il mio volo Air India per Jodhpur, la Città Blu. Volendo avrei potuto prendere un treno notturno, ma ho trovato questo volo scontato prima di partire e ne ho approfittato. Quindi torno all’aeroporto con buon anticipo, sempre accompagnato dall’autista dell’ostello e ne approfitto per prelevare ancora qualche rupia visto che in tasca non mi resta granché. Nella hall delle partenze però non ci sono bancomat, provo a tornare agli arrivi ma delle guardie armate me lo impediscono senza ben chiarire il perché. Passo un po’ teso l’oretta di volo cercando di capire quanta autonomia mi resta con i pochi soldi che ho.

L’aeroporto di Jodhpur è minuscolo, sembra più una fattoria, e l’unico bancomat non funziona, quindi decido di farmi a piedi la breve tratta di strada fino all’ostello sperando di trovare una banca in mezzo a queste baracche di periferia. E, cosa incredibile, la trovo davvero! Riesco a prelevare al primo colpo, pochi secondi prima che un uomo venga a chiudere la saracinesca. Vuoi vedere che Ganesh mi sta davvero portando fortuna?

In pochi minuti arrivo alla mia sistemazione, il Zostel Jodhpur, decisamente più accogliente del precedente e con l’aria condizionata in camera per stemperare i 42 gradi del deserto. Poso i bagagli e mi lancio di nuovo all’avventura: fermo il primo tuc-tuc e gli chiedo di portarmi al forte senza sapere bene cos’è, quanto dista e cosa fare dopo. L’autista sorridente mi scorrazza, quasi sempre contromano, fino alla cima della ripida salita che si inerpica verso la parte alta della città. Mi ritrovo così ai piedi di una rocca immensa, con decorazioni meravigliose traforate nella pietra bruna, conservata e gestita in modo impeccabile. Dalle mura il panorama è stupendo, con migliaia di case dipinte in vari gradi di blu e turchese che si stendono fin quasi all’orizzonte. Oltre a tenere lontani gli insetti, queste tinte di colore erano rappresentative dello status sociale dei rispettivi abitanti. Dall’altro lato rispetto alla città invece si può scendere verso un lago piovano che si trova sul costone roccioso, accanto al quale sorge uno scintillante tempio crematorio in marmo bianco noto come Jaswant Thada.

Scendo poi per viuzze secondarie verso il centro, che ruota attorno all’animato mercato della Clock Tower. Le stradine sono bellissime, colorate e tortuose, piene di bambini appena usciti da scuola che fanno festa quando mi vedono. Per loro un turista che arriva dall’altro capo del mondo e si ferma proprio davanti a loro è fonte di un orgoglio incredibile, un motivo per fare festa. Regalo loro un po’ di caramelle al miele che mi ero portato apposta da casa e loro allargano sorrisi di gioia pura. Sono persone semplici ma sincere, e fanno di tutto per farti sentire a casa. E devo dire che ci stanno riuscendo alla grande!

In generale Jodhpur non è sporca e caotica come Old Delhi, né “artificiale” come la New Delhi dove tutti hanno interessi e secondi fini. Questa è autentica India, solo una manciata di turisti, ad ogni angolo gente che ti sorride, anche l’aria profuma…è un posto che si è già ritagliato uno spazio nel mio cuore.

Per cena provo il ristorante sotto l’ostello, che mi delizia con un tenerissimo chicken curry mentre alla tv danno un film di Bollywood. Sto vivendo giornate densissime, quindi non mi sorprendo se sono tentato di andare a letto presto. Ho la sensazione di essere qui da molto più che qualche giorno, e credo sia un buon segno!

Punto la sveglia abbastanza presto, perché nel pomeriggio intendo prendere il treno per Jaisalmer. Faccio colazione con dei dolci e con il primo degli infiniti chai che mi verranno offerti in questo viaggio. Sostanzialmente si tratta di tè con l’aggiunta di latte e spezie, un vero rito per ogni indiano, da consumarsi in ogni situazione.

Nella mattinata ho il tempo di visitare il palazzo Umayid, molto scenografico anche se solo una sua piccola parte è aperta al pubblico, e la zona coloniale della città, con i palazzi municipali, la biblioteca e il parco. Ripasso dal mercato e dalle vie dalle pareti blu per poi tornare a prendere lo zaino in ostello e dirigermi in stazione. Prendere il treno in India è un must e non può mancare in un viaggio che si rispetti. Io ho prenotato una cuccetta nella carrozza AC3, con aria condizionata. Il personale è gentilissimo e le carrozze non sono affatto quelle da cartolina con le persone aggrappate al tetto, anzi, il mio vagone è praticamente vuoto. Due ragazzi inglesi conosciuti all’ostello mi hanno avvertito di non mangiare al vagone ristorante del treno, diverse persone hanno accusato intossicazioni alimentari. Mi limito quindi a fare uno spuntino veloce con l’idea di cenare a Jaisalmer.

Non potevo immaginare però che il viaggio invece che 4 ore ne sarebbe durate quasi 6, procedendo per tutto il tragitto a una velocità da lumaca. Inizio a credere che il programma che mi sono fatto è un “tour de force” eccessivo. Rischio di passare più tempo sui treni che nelle città, senza godermi niente. Quello che mi abbatte è pensare che qualsiasi variazione al programma vorrò fare dovrà comprendere per forza di cose un altro lento e straziante viaggio di ritorno a Jodhpur in treno. All’una di notte il treno finalmente arriva a destinazione, i crampi allo stomaco mi stanno piegando e mi sento stanco morto. In stazione mi aspetta l’autista che, già che c’è, offre un passaggio anche a due francesi che devono andare in un albergo vicino.

Inizio a risollevarmi lo spirito quando arrivo all’ostello, il Mystic Jaisalmer, tutto agghindato con drappi colorati alle pareti. Il gestore, Ashraf, mi vede affamato e senza badare troppo all’orario richiama un ragazzo per farmi cucinare un riso alle verdure che mi ricorda tanto i sapori dell’Asia centrale che un ragazzo uzbeko mi aveva fatto provare a Torino. Mangio beato sulla terrazza, da cui si ammirano le mura della città fortificata che domina dall’alto. Qui trovo molta più gente e un’atmosfera piacevole, finisce che chiacchiero fino a tardi e mi lascio convincere a restare un po’ di più delle due notti previste. Continuerò il viaggio con più calma, tagliando alcune delle tappe più lontane. Tanto per vedere TUTTA l’India servirebbe una vita intera, e non sono certo venuto fin qui per scappare subito o far tutto di corsa! Da adesso me la voglio vivere alla giornata, un modo per arrivare a Kathmandu poi lo troverò…

17 APRILE: JAISALMER

Il mio primo giorno da vero “nomade senza un programma” mi carica: dedico la mattinata alla visita della Città Dorata, chiamata così per la tinta dell’arenaria con cui è stata costruita. Qui, oltre ad addentrami tra le mura, i pittoreschi vicoli e i mercati di stoffe, visito il City Palace, il complesso dei templi giainisti e le numerose haveli. La città non è grande, è molto tranquilla e vivibile, anche se nonostante la bassa stagione la trovo un po’ più turistica di quanto mi aspettassi. Il caldo si fa sentire, la città sta in mezzo al nulla in pieno deserto. Chi mi vede per strada tutto sudato mi consiglia di passare il pomeriggio a godermi un po’ di fresco al Gadisar Lake, appena fuori dal centro, su cui si affacciano templi e cenotafi. Per strada incontro un sacco di buffi personaggi: due bimbe che mi presentano il loro cammello, altri bimbi che ridono facendo il bagno nudi in una tinozza, un barcaiolo che sogna di aprire una biblioteca gratuita, una nonnina cieca che canta canzoni tradizionali…

Nel frattempo sono riuscito ad annullare il mio volo Varanasi-Kathmandu e a prenotarne un altro da Jaipur per il 24; ho quindi una settimana per arrivarci in tutta libertà. Purtroppo questo significa saltare le tappe di Agra, Khajurhao e Varanasi. Vuol dire semplicemente che ci dovrò ritornare con più calma in un altro viaggio. In compenso scopro che domani un gruppo parte per un camel safari nel deserto e prenoto un posto aggregandomi a loro.

La sera invece succede qualcosa di più unico che raro: un temporale fuori stagione nel bel mezzo di un deserto dove non pioveva da 4 anni! Prima un vento che ha letteralmente spazzato via tutto dalla terrazza, pareti comprese, ricoprendo ogni cosa di sabbia. Poi una tempesta di fulmini come non ne avevo mai visti, a tagliare l’orizzonte da est a ovest proprio al di sopra del forte, abbagliandolo per brevi istanti di tinte rosa e arancioni come in un istante di tramonto. Anche la gente del posto resta a bocca aperta, mi dicono che è la prima volta che capita una cosa del genere e mi sento fortunato, è qualcosa di veramente spettacolare.

18/19 APRILE: SAM SAND DUNES

Alla mattina salgo nuovamente in terrazza per la colazione. In terra restano ancora i cocci di una statua di Buddha distrutta ieri dal vento. Incredibilmente il volto è l’unica cosa rimasta intatta. Ashraf mi dice che secondo lui è un buon auspicio e ci divertiamo a fare foto indossandolo come maschera. “Tutto succede per una ragione” mi dice. Ha un’incrollabile fiducia nel destino benevolo e nel fatto che ci faccia tendere ad un’esistenza migliore.

Faccio scorta di frutta e acqua per prepararmi al viaggio nell deserto. E’ ora di partire: saliamo in 12 su un fuoristrada da 5 diretti a Sam, vicino al confine col Pakistan. Il gruppo con cui farò il safari è una simpatica famiglia del Manipur in vacanza per Pasqua. La loro terra, tra Cina e Birmania, dona tratti molto più orientali, al punto che spesso faticano a convincere i commercianti locali che sono indiani tanto quanto loro. Il capofamiglia è un ingegnere idroelettrico ed è stato un paio di volte in Europa. Quando gli dico che sono originario di una città vicino a Milano, invece della solita tiritera su spaghetti e mandolini mi sento rispondere “Buona Nebbia Semolino!”. Lo guardo perplesso chiedendogli chi gliel’ha insegnato…

Per strada le mucche attraversano senza preavviso, ma l’autista, lo stesso che era venuto a prendermi l’altra sera in stazione, le evita calcolando la traiettoria al millimetro senza alzare il piede dall’acceleratore. Facciamo una sosta ad un “villaggio fantasma” abbandonato da 200 anni perché si riteneva infestato da spiriti maligni. Si conservano ancora varie abitazioni, cuspidi e statue, un tempo doveva essere un centro importante lungo le piste delle carovane.

Arriviamo a destinazione e conosciamo i cammellieri che ci accompagneranno, gente dalle mani ruvide e il sorriso pronto, con un amore profondo per il deserto. Montiamo in sella agli animali e iniziamo il lento cammino sulla sabbia. Le dune sono maestose anche se, per il temporale di ieri, non sono alte come al solito. Sono comunque stupende, devo tenere a freno la macchina fotografica perché non potrò ricaricarla fino a domani. Bivacchiamo con i beduini, che cuociono riso e verdure direttamente su una pietra scaldata dal fuoco, il tutto da mangiare con le mani aiutandosi con il chapati e bevendo acqua di pozzo che a casa non avrei il coraggio di dare neanche alle piante… Se non ho preso nessuna strana malattia qui posso dire di essere d’acciaio. Da un capanno prendiamo le brande per la notte: oggi si dorme sotto le stelle. Stiamo davanti al fuoco a goderci le dune al tramonto e poi al chiaro di luna, intorno solo il silenzio.

L’aria non è eccessivamente fredda e abbiamo pesanti coperte, ma al mattino il vento alza la sabbia e non ci lascia dormire. Tanto meglio, sta sorgendo il sole e ci prepariamo all’alba sulle dune. Passiamo qui ancora qualche ora, il vento sta modellando le creste e le dune si sbizzarriscono in forme sempre più marcate. La colazione oggi è a base di diversi tipi di frutta tra cui mango, papaya e altre prelibatezze non meglio identificate. Il sole inizia a scaldare rapidamente l’aria, quindi torniamo in groppa ai cammelli e proseguiamo il safari, puntando verso la strada principale ma stavolta passando da un altra pista. Attraversiamo un “villaggio gipsy”, dove le donne vestite con splendidi sari viola e fucsia portano enormi secchi di ferro in equilibrio sulla testa. Non capirò mai come ci riescano. Abbeveriamo i cammelli e ci spostiamo sotto un gruppetto di alberi per cucinare. Stavolta i cammellieri preparano montone, pollo e lenticchie, sempre alla pietra e mangiati con le mani. Ci riposiamo un po’ all’ombra prima di ritornare a Jaisalmer, e ne approfittiamo per ringraziare i beduini regalando loro dei pensierini portati dalla città, come schiuma da barba, deodorante e rasoi.

Di nuovo all’ostello, per prima cosa mi concedo una bella doccia per sciacquare via sabbia e sudore, poi un pisolino visto che comunque questa notte ho dormito solo una manciata di ore.

Prima di cena faccio ancora due passi al mercato. Decido poi di entrare in un ristorante ma è chiuso: da un negozio balza fuori un giovane di nome Yogi, che si presenta e mi dice che se aspetto due minuti chiude bottega e mi porta in un posto ottimo. So già che in cambio vorrà farmi comprare di tutto nel suo negozio, ma ha un’aria allegra e decido di fidarmi. Il ristorante è una baracca di lamiera senza insegne, pavimenti e acqua corrente, con bombole di gas vuote ammucchiate in un angolo e topi che scorrazzano ogni tanto. Ma il cibo è davvero ottimo, provo un pollo tandoori buono da commuoversi. Yogi non ordina niente, dice di non aver fame ma capisco da come guarda il mio piatto che semplicemente è senza un soldo. Ordino da mangiare anche per lui, che non smette più di ringraziarmi. Sazi, passiamo a prendere due bottiglie di birra e torniamo al negozio dove ridiamo e scherziamo tutta sera. Lui mi racconta un sacco di cose sull’India e sulla sua famiglia: in queste zone più isolate si sente molto di più la mancanza dei servizi primari, e parlando di politica mi dice che lui voterà per il partito di Modi, il quale ha puntato la sua campagna elettorale sulle riforme. Poi stempera il clima un po’ malinconico insegnandomi come gli Indù praticano il mantra, e mi da anche lezioni di yoga spiegandomi come rilassare mente e spirito. Come previsto compro un po’ di vestiti e cianfrusaglie per ricambiare e poi ci salutiamo, nonostante lui insista ad invitarmi a casa sua per conoscere la sua famiglia. Decido di non esagerare con le confidenze, preferisco la mia tranquilla camera in ostello. Intanto la città ripiomba nell’ennesimo blackout, per fortuna la mia torcia mi evita di finire in mezzo a branchi di cani e cinghiali che lottano per contendersi qualcosa di commestibile trovato nei rifiuti.

20 APRILE: IN VIAGGIO

Appena mi sveglio mi rendo conto che devo iniziare a pensare un modo per arrivare a Jaipur: scorrendo gli orari noto che i treni partono solo alcuni giorni della settimana e i posti sono già esauriti su quelli di oggi e domani. Ma ancora una volta lo staff del Mystic si fa in quattro per darmi una mano. Mi consigliano un bus notturno che parte nel pomeriggio, il che significherebbe arrivare a Jaipur all’alba di domani. Non sembra male come idea. Nel frattempo posso godermi un ultimo assaggio di Jaisalmer ritornando alle mura, al mercato delle stoffe e alle haveli della zona vecchia prima di salutare definitivamente la città.

Con un po’ di dispiacere dico addio ad Ashraf e a tutti gli altri ragazzi. Al momento di pagare rimango allibito da quanto sia poco cara la vita qui: quattro notti in ostello, due cene, un pranzo, colazioni, merende, frutta, bibite e gelati vari più la gita nel deserto in totale mi sono venuti a costare la ridicola cifra di 2600 rupie, circa 35€. Roba da matti!

Il ragazzo che la prima sera mi aveva cucinato il riso si offre di darmi un passaggio in scooter fino alla stazione degli autobus, ma anche per lui capire come si fanno i biglietti sembra essere un’impresa. Dopo aver girato 3 biglietterie che si contraddicono a vicenda, riusciamo a capire che il biglietto si fa a bordo del pullman. Il mezzo è moderno, con le poltroncine-letto reclinabili, ed è popolato principalmente da studenti universitari che rientrano dalle vacanze e che si meravigliano del fatto che io a 26 anni non sia né fidanzato né sposato.

Il viaggio si prospetta lungo, stiamo attraversando l’ampio deserto su strade che forse un tempo erano state asfaltate, con lunghe soste in villaggi in cui la povertà è davvero estrema. Appena cala la sera cerco di dormire, ma non facile per colpa di un’aria condizionata esagerata al punto che devo chiedere all’autista se posso recuperare il mio sacco a pelo dalla stiva. Tutti gli altri passeggeri mi guardano straniti avvolto nel mio bozzolo blu. Come se non bastasse, dallo schermo vengono sparati film d’azione a tutto volume, con gli studenti che incitano i loro eroi a gran voce. La cosa buffa è che gli uomini nei film parlano hindi, mentre le ragazze parlano inglese per il semplice fatto che le attrici in questo modo sperano di farsi notare da qualche produttore americano.

Siamo ancora lontani dalle città, dal finestrino vedo solo qualche tempietto in pietra, mentre quasi tutte le case sono di fango, paglia e lamiera. Alla fermata di Jodhpur ne approfitto per comprare della frutta e delle patatine che mi valgono come cena, non ho comunque molta fame.

Alle 6 del mattino arriviamo puntuali a Jaipur. Ho prenotato un letto alla Vinayak Guesthouse, poco lontana, ma nonostante abbia provato a contattare il proprietario via e-mail per mandare qualcuno a prendermi, all’autostazione non si presenta nessuno. Non mi va di aspettare, quindi salgo sul tuc-tuc di un ragazzino che all’inizio tenta di portarmi all’ostello di suo zio ma poi mi accompagna a destinazione senza troppe storie. Il proprietario mi accoglie in mutande e con l’aria un po’ assente. Si era effettivamente addormentato durante il suo turno notturno. Si scusa e mi lascia le chiavi della camera, ho proprio bisogno di un materasso…

21 APRILE: JAIPUR

Qualche ora di sonno mi riassesta: sono pronto per avventurarmi nella capitale del Rajasthan, città gigantesca di cui nessuno sa darmi una mappa decente, nemmeno l’ufficio del turismo. Arrivo in tuc-tuc alla porta ovest della Pink City e inizio a percorre a piedi il viale porticato con gli edifici color salmone. Mentre sono fermo per fare delle foto, un ragazzo mi ferma e mi chiede cosa ho in programma di vedere. Quando gli dico che sono diretto al centro, lui invece mi consiglia di rimandarne la visita alla prima mattinata di domani. Meno caldo e meno gente, mi dice. Per oggi invece mi suggerisce un tour delle altre attrazioni fuori dalla cittadella. Ferma un tuc-tuc di passaggio guidato da un ragazzo giovanissimo e spericolato, e si accorda con lui sul giro da farmi fare. L’autista, appena maggiorenne, si chiama Viktor. Tra gli improponibili zigzag fra le auto in coda, mi racconta del suo sogno di sposarsi e di fare il tassista in Europa. Rimane un po’ deluso quando gli spiego che se là guidasse come guida in India sarebbe un disastro. Mi chiede poi se voglio provare a guidare io il suo tuc-tuc. Beh, direi che non mi sembra il caso, penso che non durerei neanche trenta secondi.

Come prima tappa mi porta al Tempio delle Scimmie, in cima ad una nuda roccia che sovrasta la metropoli. Qui osservo una cerimonia indù dove vengo benedetto con il tilaka, il punto rosso al centro della fronte che simboleggia per i pellegrini il Sole nascente che protegge dagli spiriti maligni.

Proseguiamo per il Villaggio degli Elefanti, in cui gli stallieri stanno facendo pranzare le bestione con grossi fasci di erba secca. Altri uomini li bagnano con dell’acqua, anche loro stanno soffrendo il caldo. Per non affaticarli troppo, il regolamento cittadino impone che facciano soltanto un viaggio al mattino e uno al pomeriggio, portando i turisti in cima alla ripida salita del forte di Amber nelle ore meno calde. Continuiamo per il Jal Mahar, dimora di piacere costruita al centro di un lago artificiale, dove il Maharaja organizzava feste lontano dagli occhi curiosi del popolo. Essendo vicini alla zona delle più antiche botteghe artigiane della città, passiamo da un tradizionale laboratorio in cui si tingono le stoffe. Mi viene mostrato il cortile, con al centro un enorme calderone scaldato dal fuoco dove ribolle una tintura azzurra intensissima. Un uomo accaldato, con spessi guanti di pelle, immerge il tessuto per farlo impregnare e poi lo appende al tepore della brace per farlo asciugare . Mentre aspetto il mio autista, finito chissà dove, scambio qualche parola con gli operai in pausa, che mi offrono l’immancabile chai con dei dolcetti. Chiudiamo il giro con la visita in un altra bottega dove si lavorano il legno e le pietre preziose, vanto della città. Anche qui non c’è obbligo di comprare nulla, ma nel complesso ho trovato cose molto più interessanti che a Delhi. Compro del tè, un profumo e degli elefantini di legno da portare agli amici. Prima di riportarmi dove ci eravamo incontrati, Viktor devia per portarmi a bere un frappè di mango da un suo amico che fa l’ambulante appena fuori dal bazaar centrale. L’uomo sorridente trita sul momento il ghiaccio e i frutti nel frullatore e ci serve il tutto in vecchi bicchieri lavati alla bell’e meglio in un catino usato decisamente troppe volte. Per l’ennesima volta noto come i sapori siano squisiti nonostante l’attenzione all’igiene non sia proprio da manuale.

Sono quasi le 4 del pomeriggio e tra un’oretta palazzi e musei chiudono, quindi preferisco zigzagare nel bazaar andando verso un tempio che scorgo oltre i palazzi. Mi ferma l’ennesimo ragazzo, stavolta in scooter; per qualche motivo mi lascio convincere a farmi accompagnare da lui in motorino. Mi dice: “Siamo senza casco, quindi dovremo fare solo vie secondarie”. Che in una città indiana significa vicoli sterrati, allagati, tortuosi e affollatissimi, dove temo seriamente di perdere una gamba schiacciandola da qualche parte. Come promesso mi porta al tempio, poi fa un giro attorno alle mura e mi invita a bere un altro chai con suo nonno, che ha un negozio di tappeti ma con mia assoluta sorpresa non insiste per niente a rifilarmene uno. Di solito cercano di venderti anche oggetti giganteschi, e se provi a dire che non sapresti davvero come portarli via ti rispondono prontamente che la loro impresa può spedire merci in tutto il mondo. Sarà che, per qualche lampo di genio, mi è venuta l’idea di provare a dire che sono svizzero. Appena ti presenti come italiano, tutti prendono la palla al balzo per dirti che hanno almeno un parente in Italia e non ti mollano più. La Svizzera, invece, sembra un posto del tutto sconosciuto, e li mette completamente in crisi. Ormai è diventata la mia tecnica ufficiale quando non ne posso davvero più di venir fermato in continuazione.

Torniamo in sella e come c’era da aspettarsi il ragazzo mi chiede di pagargli un po’ di benzina per riportarmi all’ostello, ma sempre con la scusa che siamo senza casco dice che non può attraversare le strade più grosse e mi fa scendere all’ottocentesco Albert Hall Museum, parecchio distante da dove devo arrivare io. Il cellulare mi si è scaricato, la mappa fotocopiata che mi han dato in ostello è quasi illeggibile, i soldi che ho addosso non mi bastano per un taxi e in questa metropoli non esistono mezzi pubblici. Non mi resta che orientarmi col sole e tornare a piedi. Fortunatamente la mia bussola interiore è imbattibile e non posso trattenere un sorriso di soddisfazione quando arrivo sano e salvo all’ostello.

Questa è stata veramente una giornata all’insegna del “lasciati guidare dagli imprevisti e ridici sopra quando in un modo o nell’altro ne vieni fuori…” Forse è proprio questo che cercavo venendo in India da solo, una sorta di test di sopravvivenza, a prescindere da quanto sia bizzarra o pericolosa la sfida. E mi sento veramente tosto!

La serata passa tranquilla sulla terrazza, anche qui sono l’unico ospite, quindi mangio fino a scoppiare e scambio due parole con il manager dell’ostello. Già che ci sono gli chiedo di avvertirmi in caso ci fossero altri ospiti interessati a dividersi le spese per un viaggio alla riserva naturale di Sariska, sui Monti Aravalli. L’alternativa potrebbe essere andare in treno a Chand Baori, il celebre pozzo a gradoni, un altra interessante escursione da fare in giornata.

22 APRILE: SARISKA

Ed ecco che la mattina il proprietario mi bussa in camera e mi dice che forse ha trovato qualcuno: nella hall infatti mi presenta Xu, una fotografa cinese incuriosita dall’idea del safari. Le faccio vedere qualche immagine da internet e lei si lascia convincere in un attimo, pregustando la varietà di animali che si possono fotografare nella riserva. Ci facciamo chiamare un’auto con guidatore, che per 1500 rupie in totale ci accompagnerà tutto il giorno. Il parco dista circa tre ore di guida, cominciando con il solito caos nel traffico cittadino dove un furgone tampona allegramente la nostra auto, per fortuna senza far male a nessuno. Un giro veloce di spago basterà al nostro paraurti per restare al suo posto ancora per un po’. Proseguiamo sull’autostrada che porta a Delhi, contesa tra carretti di legno e giganteschi tir carichi di ghiaia, e poi su strade minori che attraversano le fertili zone agricole. I trattori che incrociamo portano nel cassone sacchi di cereali grandi come una villetta di due piani, procedendo a passo d’uomo.

Qualche tornate, il posto di blocco che segna l’inizio del parco, e siamo al centro visitatori della Sariska Tiger Reserve. L’anziana bigliettaia parla solo hindi, e per capire come funzionano le visite bisogna decifrare una complicatissima tabella scritta in un inglese un po’ arbitrario. Alla fine capiamo che l’ingresso alla riserva viene 430 rupie, a cui va sommato un totale di 2400 rupie per jeep e guida da dividere fra i 6 passeggeri.

Essendo in due soltanto ci rendiamo conto che può essere un po’ sopra le nostre aspettative, ma ad un tratto compare una coppia indiana e poco dopo si presenta anche Neel, inglese di origini indiane con la passione per i safari. Mancherebbe solo la sesta persona per coronare l’opera, quindi “corrompiamo” il nostro autista con un chai e qualche pacchetto di patatine. La bigliettaia è ormai confusa da tutti i conti che deve rifare ogni volta che si aggiunge qualcuno, tant’è che alla fine si dimentica di far pagare l’ingresso a Xu. Quando ce ne rendiamo conto, fra le risate mi dice che per equilibrare le cose stasera mi offrirà la cena. Perfetto!

Prenotiamo una visita per il pomeriggio, approfittandone per uno spuntino. Quanto arriva il nostro fuoristrada montiamo sul cassone e ci addentriamo nel parco, una vallata boscosa con laghi e zone rocciose ai margini. La ricchezza di fauna è sbalorditiva: cervi, cinghiali, antilopi, iene, scimmie, gazzelle e pavoni sono ad ogni angolo; e poi martin pescatori, picchi, aquile e una miriade di altri uccelli. Un’esperienza che consiglio assolutamente, specie per chi come me non aveva mai fatto un vero safari. Dei “piatti forti” riusciamo ad intravedere soltanto i coccodrilli a mollo nel lago, mentre tigri, leopardi e pantere purtroppo ci sfuggono. Il guardiaparco che ci accompagna ci consola dicendo che c’è più o meno una probabilità su 3 di vedere le tigri nel tour, mentre gli altri felini sono ancora più rari, tanto che molti si chiedono se ce ne siano ancora. Sappiamo comunque di aver mancato la tigre per un soffio, visto che a terra ci sono tracce fresche e i pavoni segnalano la minaccia con caratteristici versi simili a miagolii.

Durante l’ultimo tratto ci sorprende un acquazzone mostruoso. Tiriamo la tela cerata sul cassone cercando di ripararci per quanto possibile. Ci tocca rimanere con la schiena curva per il poco spazio in altezza che resta e per tentare di intravedere ancora qualcosa dai piccoli oblò trasparenti.

Arrivati alla nostra auto la pioggia sta già calando. Offriamo un passaggio in città anche a Neel, che è diretto a Udaipur per incontrare la moglie che arriva dall’Inghilterra. Anche Xu domani parte per Udaipur, prenderanno lo stesso treno la mattina presto.

Io e lei decidiamo di cenare sulla terrazza dell’ostello, la classica abbuffata serale a cui ormai abbiamo fatto l’abitudine. Parliamo di viaggi e di posti lontani, delle nostre avventure e dei nostri programmi futuri, e finiamo per fare molto più tardi di quanto il treno mattutino consiglierebbe.

23 APRILE: AMBER FORT

E’ il mio ultimo giorno in India, come vola il tempo! Decido di spendere la mattinata tornando alla Pink City in tuc-tuc. In realtà la cittadella non mi colpisce particolarmente, nonostante i sontuosi cortili e portali dipinti. Fotografo da fuori il City Palace e visito invece il particolarissimo Jantar Mantar, un giardino astronomico voluto dal Maharaja per osservare con precisione il moto del sole e delle stelle. Per il pomeriggio invece mi faccio accompagnare in tuc-tuc ad Amber Fort, situato su di un monte poco fuori città. Il tassista insisterà per aspettarvi durante la vostra visita, anche per diverse ore, ed è la soluzione migliore perché i suoi colleghi di base al forte chiedono solitamente prezzi molto più alti per riportarvi in città.

Una volta alla rocca, la magnificenza che ho davanti mi lascia di stucco: anche dopo aver già visto capolavori come i palazzi di Jodhpur e Jaisalmer, qui il mix tra architettura, specchi d’acqua e giardini è veramente qualcosa di speciale. I visitatori sono molti ma quasi esclusivamente gente del posto. All’interno ci sono incantatori di serpenti e donne in abiti tradizionali che si mettono in posa per le foto in cambio di una piccola mancia (10-20 rupie in genere). La visita dura un paio d’ore, dopodiché decido di risalire la ripida muraglia sul monte che sta dall’altro lato della conca. Gli alti gradini sono faticosi, ma dalla cima la vista è impagabile: il forte, il lago, le mura, le torri, la città più in basso e decine di altre montagne all’orizzonte. Come ultimo quadro dell’India non potevo chiedere di meglio, davvero.

Sono l’unico qui in cima, mi rilasso e ammiro il panorama. Mi viene naturale fare un po’ il punto della situazione: ho conosciuto beduini, mercanti, bambini, vecchi e studenti, e credo di aver imparato una piccola lezione di vita da tutti loro e dalla loro umile serenità. Penso che tornato in Italia mi mancheranno, sicuramente nelle nostre città non accetterei passaggi, cene o birre da uno sconosciuto che mi ferma per strada. Certo, qui sono gentili solo per ottenere qualcosa in cambio, ma nel profondo hanno un’indole onesta e ospitale, compensando la loro povertà con un genuino sostegno reciproco.

In ogni caso l’India è ancora un paese molto arretrato: troppo grande, complesso e politicamente corrotto perché la situazione migliori in breve tempo. Sanità, scuola, poste, elettricità, rifiuti, codice stradale, sicurezza sul lavoro… non funziona nulla di nulla, almeno dal nostro punto di vista, ma nonostante tutto loro riescono a vivere sempre in modo positivo. Sarà il mantra, o forse il cibo buono, ma sembrano aver inquadrato il loro stile di vita e forse non hanno tutta questa brama di sentirsi occidentali come accade in altri Paesi emergenti.

Ridiscendo verso il tuc-tuc, e siccome non ho voglia di spiegare come arrivare all’ostello mi faccio lasciare in stazione, cogliendo l’occasione per scattare ancora qualche foto ai convogli in partenza.

Ceno di nuovo al mio fidato ostello, dove faccio la conoscenza di un ragazzo australiano che, una canna dietro l’altra, mi dice di aver fatto il bagno nel Gange a Varanasi e di aver poi scontato 5 giorni di diarrea. Poi si aggiungono due donne spagnole, qui da sei mesi per imparare l’arte dello Yoga. La mia impressione è che siano una coppia omosessuale che qui deve ancora nascondere la propria natura in pubblico. Arrivano anche due ragazze, una inglese e una svizzera, che stanno girando tutta l’India con una calma esagerata e che sono dirette a Kathmandu via terra per poter rinnovare il visto indiano e rimanere qui per altri sei mesi.

Tante storie, racconti, volti ed esperienze: sono veramente felice di trovarmi qui, e non c’è cellula del mio corpo che lo possa negare. Penso a 10 giorni fa, quando ero a Delhi chiedendomi se non avessi azzardato troppo a buttarmi in quest’avventura. E mi rivedo ora, che vorrei proseguire ancora fino a Agra, Varanasi o chissà dove. Ma il tempo è tiranno, e sono sempre più sicuro di aver fatto la scelta giusta a rallentare il passo. Vivere giorno per giorno ha reso senza dubbio molto più intense tutte le mie esperienze.

Ma dopotutto l’avventura non è ancora finita: mi resta ancora la tappa nepalese!

24 APRILE: IN VIAGGIO

Oggi giornata dalle mille variabili: l’aereo parte da Jaipur alle 11:05, ma mi reco in aeroporto molto prima perché oggi c’è l’ultima tornata elettorale e nessuno si fida a fare previsioni sul traffico. La seconda incognita invece sta nel fatto che il mio volo per Kathmandu comprende uno scalo a Delhi di solo 1h15, e non so se mi basterà per attraversare l’immenso aeroporto dal terminal dei voli domestici a quello degli internazionali. E qui invece sottovaluto la Air India, che appena atterrati nella capitale manda un ragazzo a prenderci al gate d’arrivo per scortare me e altri passeggeri ai rispettivi voli, passando dai corridoi di servizio. Prendo il mio aereo quando ormai stanno chiamando gli ultimi passeggeri e tiro un sospiro di sollievo.

Nel pomeriggio sono finalmente a Kathmandu, che mi accoglie con un basso aeroporto in mattoni rossi. Dall’ostello, l’Alobar 1000, arriva un furgoncino a prelevare me e altre due ragazze, che però dobbiamo aspettare nel parcheggio perché il loro volo è in ritardo. La guesthouse su 5 piani è colorata e piena zeppa di gente. Qui siamo in alta stagione, ormai non ci ero più abituato! La maggior parte sono escursionisti che si preparano a lunghi circuiti in montagna oppure volontari che prestano aiuto come elettricisti, insegnanti o carpentieri nei villaggi vicini. In sostanza, un sacco di gente che fuma e suona bonghi.

Per prima cosa, alla reception cambio in rupie nepalesi le rupie indiane che mi sono rimaste. Mi cambiano pure il biglietto falso da 500, dicono che troveranno loro il modo di farseli sostituire. Visito poi il travel desk all’ingresso e inizio a farmi un’idea di come spendere questi giorni in Nepal. Le mete più spettacolari, come le escursioni per Langtang, Mustang, Annapurna e Everest, richiedono ovviamente troppo tempo e una certa preparazione. Quindi mi viene proposto un trekking di 3 giorni per Nagarkot, da cui si può vedere l’Everest all’alba. In alternativa, per qualcosa di meno impegnativo, un sacco di gente mi sta suggerendo di spendere qualche giorno a Pokhara, circa 200km a ovest, una rilassante cittadina sul lago da cui invece si può ammirare l’Annapurna. Opto per la seconda e compro dei biglietti per il pullman di dopodomani. Alcuni preferiscono il rapido e costoso trasferimento in aereo, per poter ammirare le montagne dall’alto durante il tragitto, ma quello me lo potrò già godere durante il mio volo di rientro.

In camera conosco Jenny, una ragazza tedesca appena tornata proprio dal circuito dell’Annapurna. Mi spiega che il percorso dura circa 12-15 giorni senza essere troppo faticoso. Nei tratti in alta quota i panorami sono mozzafiato, dice, ma la gran parte dell’anello è su strade aperte al traffico e sommerse dai rifiuti. In ogni caso mi attira, ma sarà per la prossima volta.

Ormai è ora di cena, e sulla terrazza Jenny mi introduce alla birra locale e ai famosi momos, simili ai ravioli al vapore cinesi ma ripieni di pollo e fritti, accompagnati da una salsa speziata e leggermente piccante che ricorda la cucina indiana. Riflettono benissimo il Paese, arroccato tra due imperi millenari e diversissimi.

25 APRILE: KATHMANDU

Visto che domattina partirò per Pokhara, intendo visitare tutto il possibile in giornata. Un ragazzo mi consiglia di chiamare un taxi, che per 600 rupie (circa 5,20€) mi accompagnerà a vedere tutti i luoghi principali delle 3 Città Reali della vallata, ormai inglobate in un unica area urbana. Il fatto è che ormai ho cominciato a ragionare direttamente in rupie e il prezzo mi sembra esagerato, è grossomodo il mio budget giornaliero per vitto e alloggio! Preferisco lanciarmi nuovamente nell’ignoto e girare il centro a piedi. La città è decisamente più calda e polverosa di quanto mi aspettassi: nonostante i quasi 1400m di quota siamo comunque vicini al tropico e il sole si fa sentire, scaldando l’aria già densa per gli scarichi di un traffico composto quasi esclusivamente da minivan malandati e obsolete Maruti 800. Evito le strade principali, un serrato alternarsi di agenzie viaggio, negozi di articoli da montagna, souvenir e mantelle di lana, e mi addentro invece nei vicoli secondari dirigendomi verso il centro. Ho così modo di incrociare monaci che pregano al tempio, contadini che vendono cetrioli dal loro carretto, cuochi di strada, riparatori di biciclette… L’approccio è molto simile all’India, ma nettamente meno caotico: il Nepal è povero al punto da essere considerato un posto economico pure dagli indiani, ma i locali preferiscono valutare il proprio Paese rispetto al “tasso di felicità” dei cittadini, che sostengono essere tra i più alti al mondo.

Una volta uscito dai labirintici vicoli, eccomi finalmente a Durbar Square, in tutto il suo splendore. Templi, statue religiose, il palazzo imperiale, il plurisecolare albero di Buddha…non è difficile capire perché sia riconosciuta patrimonio UNESCO ed attragga così tanti turisti. E’ un luogo fuori dal tempo, e anche nell’architettura si comprende di essere a cavallo tra Cina e India. Decorazioni indù e tetti spioventi, pilastri in legno scolpito e dragoni di bronzo, mattoni rossi, legno scuro e pietra. Un mix davvero caratteristico, che si ritrova anche nei tratti somatici e nel carattere delle persone che mi avvicinano, molto meno insistenti degli indiani.

L’ingresso alla magnifica piazza è a pagamento, e include la visita del palazzo imperiale. Molte guide si offriranno di farvi da guida per poi portarvi in qualche negozio a fare compere; se vi sta bene accordatevi subito sul prezzo, 250-400 rupie al massimo, ma ne vale la pena. Durante la visita guidata della piazza ho anche la fortuna di vedere affacciata al suo balcone la Kumari, detta Dea Vivente, l’imperatrice bambina venerata da buddhisti e indù vestita con abiti splendidi e sontuosi. Un’altra curiosità è la fontana con scritte in 15 alfabeti: si dice che se qualcuno riuscirà mai a leggerle tutte sgorgheranno dalle sue canne latte di mucca e oro liquido. Una strana combinazione, devo dire, ma fa capire quanto questo fondamentale animale sia venerato.

Mi viene spiegato che le sculture e i bassorilievi dei frequenti templi del Kamasutra disseminati lungo le vie servivano ad incitare nel modo più ovvio alla riproduzione come unico modo per rinfoltire un popolo storicamente schiacciato tra due giganti demografici.

Il giro si chiude quando la guida mi porta al negozio del fratello. Io, un po’ a corto di contanti, evito di comprare le costose stampe, foto e mandala che mi mostra. Per compensare pretende una mancia esagerata, tanto che al mio rifiuto inizia una tiritera sull’onore, sul karma, sulla generosità degli altri europei…. Sono irremovibile: posso pagare 500 rupie per la visita, non un soldo di più. Li accetta comunque più che volentieri, tentando malamente di apparire deluso.

Ora è il momento di farsi una camminata fino a Patan, la seconda delle capitali della valle imperale. Lungo la strada cedo alla tentazione di un chicken burger da KFC. Per una volta posso concedermi di fare il turista ignorante e mangiare qualche schifezza carnivora. A Patan si trova una seconda Durbar Square, più raccolta di quella di Kathmandu ma anch’essa stupenda. Stavolta svicolo passando dal retro per evitare di pagare l’ingresso, visto che comunque non intendo visitare il palazzo e non vorrei farmi accalappiare da un’alta guida. Un paio di isolati più a nord della piazza si trova il Golden Temple, che merita assolutamente una sosta per ammirare le sue decorazioni zoomorfe in legno e bronzo, le campane votive e le stanze in cui meditano e studiano i monaci. Uscendo in strada placo la mia sete con una bibita al mango da un ambulante e gli chiedo come posso arrivare alla famosa Stupa di Swayambhu. Mi spiega come arrivare al vicino capolinea dei minibus locali e come funzionano: c’è un ragazzo che urla nel piazzale formando gruppetti di persone che devono andare grossomodo nella stessa zona; quando ce ne sono abbastanza li fa salire tutti sul pulmino (senza biglietti, orari né percorsi precisi). Poi per tutto il lento tragitto nelle trafficate periferie se ne sta appeso al predellino, sempre urlando la destinazione; sale e scende come uno scoiattolo, e quando sei arrivato semplicemente lo avvisi, lasci i soldi e salti giù. E’ senza dubbio più “colorato” e divertente del taxi, il tutto per sole 45 rupie.

Per arrivare alla Stupa si sale una dolce collina alberata. Ormai si avvicina il tramonto e la vista dall’alto è davvero toccante. Faccio un sacco di foto alla cupola, alle tipiche bandierine, ai monaci, alle scimmie, ad una bimba che vende candele ed infine alla ripida scalinata che scende per dirigersi nuovamente verso il centro.

Devo dire che il primo contatto con il Nepal è stato decisamente ottimo, la città è veramente qualcosa di speciale. L’unica perplessità mi viene al momento di cenare, sempre all’ostello, quando alla richiesta di un piatto tipico mi vedo servire un brodo colloso in cui galleggiano più o meno gli ingredienti di un involtino primavera e dei bozzi di pasta di riso. Un gruppetto di neozelandesi invece ha appena ordinato delle pizze nonostante io cerchi di spiegare che farlo fuori dai confini italiani è un suicidio gastronomico. Non sembrano convincersene neanche quando il cuoco porta loro delle strane piadine bianche a forma di quadrifoglio, con gli spicchi decorati rispettivamente con un pomodoro a fette, un cetriolo, del formaggio non meglio definito e dell’insalata. Contenti loro…

26 APRILE: POKHARA

Mi sveglio mattiniero e mi presento puntuale alle 6:30 al vicino capolinea degli autobus, da dove decine di vecchi autobus partono in carovana tutti alla stessa ora. Il viaggio si dimostra subito di una lentezza allucinante, un po’ per il traffico, un po’ per le interminabili fermate in cui aspettiamo chiunque sia interessato alla destinazione, con il solito ragazzo che urla dalla porta aperta. Poi altre mille soste: sosta pipì, sosta colazione, sosta pranzo, e come se non bastasse un mega-ingorgo in cui stiamo fermi quasi due ore, probabilmente per colpa di una ruspa lasciata in mezzo alla strada durante la pausa pranzo. Il mio vicino di sedile, un uomo bengalese in vacanza col padre e il fratello, si diverte a farmi assaggiare mille tipi di improponibili patatine e snack indiani, solitamente dolci quando a logica dovrebbero sembrare salati e viceversa. Piccanti sempre e comunque.

Nonostante l’estenuante viaggio col mio pullman mezzo scassato sull’unica e malconcia strada che attraversa la vallata, dal mio finestrino sul lato destro mi godo scorci del Nepal rurale che meritano davvero di non essere persi: raccoglitori nelle risaie, camion colorati che scaricano le merci, case di legno e paglia, donne con zaini in legno che portano mattoni, ponti a carrucola sul fiume…

Fatto sta che se l’arrivo era previsto per l’una di pomeriggio arriviamo che sono quasi le 5. 10 ore per 200km, un’invidiabile media di 20 km/h! In più, ho giusto il tempo di arrivare a piedi alla Pushpa Guesthouse, dove ho prenotato, che il cielo si fa scuro e inizia a scendere il diluvio universale. Nel frattempo cerco di farmi una doccia nello scomodissimo bagno comune del piano sopra, a cui si accede solo dal ballatoio esterno rischiando di bagnarsi di nuovo sotto il temporale dopo essersi appena cambiati. Fortunatamente dopo circa un’ora il meteo torna clemente, ed è il momento perfetto per assaporare il sole che tramonta oltre il lago.

La zona costiera della cittadina è nata su misura di un turismo decisamente occidentale, un susseguirsi di pub, ristoranti di ogni genere e negozi di souvenir. Pokhara è infatti il punto di partenza ideale per le escursioni sull’Annapurna ma offre anche moltissime attività e sport estremi, come parapendio, bungee jumping, mountain bike, canoa o esplorazione di grotte. Il gestore dell’ostello mi suggerisce un paio di percorsi da fare l’indomani, entrambi di mezza giornata: da un lato del lago si arriva alla Stupa della Pace, dall’altro a Sarangkot, da cui si gode la vista migliore sulle vette. Dice che molti salgono in taxi fin li per vedere l’alba, partendo attorno alle 4,30 del mattino. A me pare che tolga tutta la soddisfazione della conquista. Deciderò domattina cosa fare.

Per cena ho voglia di provare il pesce locale, quindi opto per un ristorante in stile “piratesco” che non mi delude, anche se le porzioni non sono certo paragonabili a quelle indiane. Passeggio poi per la vivace via principale ma mi rendo conto che ho voglia di altro. Normalmente conoscere gente, bere una birra fresca e ascoltare musica live sarebbe il mio pane quotidiano, ma sento che non è quello di cui ho bisogno ora. Do un’occhiata ad uno spettacolo di danze tipiche nepalesi e poi torno in riva al lago. Trovo un angolino di buio totale da cui noto che il cielo sta tornando limpido, e si vede una stellata fantastica, come non si vedeva neanche dal deserto. Le lucciole gironzolano senza meta e fanno chiasso tutt’intorno, l’unico suono oltre ai danzatori ormai lontani. Inizio a pensare a tante cose: alle stelle, all’universo, alla solitudine, alla grandiosità di tutto quello che la Natura ha creato. E mi sento completo. Una sensazione stranissima, improvvisa ed inaspettata. Come mai in vita mia, mi sembra di fondermi con la terra su cui siedo, con il cielo così infinito, l’erba, le lucciole, il vento, i monti… Sento di non aver bisogno di nient’altro, né di birra, né di persone, nemmeno di parlare mentalmente. E’ un concetto che mi appare chiaro nella mente e non devo nemmeno sforzarmi di tradurlo in pensieri formati da parole. Una sensazione inaspettata di completezza, di pace interiore, che non dimenticherò mai. Resto ancora po’ ad assaporare questo senso di beatitudine, finché vengo risvegliato dei miei pensieri da un chiassoso gruppo di cinesi che ha appena scelto una tettoia a pochi metri da me come campo base per una serata alcolica.

Non mi resta che tornare alla camera e aspettare domani, svegliarmi di buon’ora e vedere cosa mi offre il destino.

27 APRILE: SARANGKOT

Per un blackout notturno il cellulare non si è caricato e la sveglia non ha suonato. Per pura fortuna o per un riflesso involontario alla luce mi sveglio ai primi chiarori dell’alba, esco in cortile e rimango inebetito quando finalmente riesco a vedere dietro le colline la sommità innevata dell’Annapurna, con i suoi maestosi 8091m di altezza resi rosa dai primi raggi del sole. Caricato a mille, compro acqua, frutta e snack vari al negozio di una vecchietta mattiniera e parto in direzione di Sarangkot. La salita spacca le ginocchia: l’ascensione non è esagerata, circa 600m, ma tutta in gradoni di pietra e massi. Un cane randagio mi incita e proseguire e mi accompagna finché incontro un altro gruppetto di escursionisti con cui proseguo il sentiero. Sono Andrea e Flora, due ragazze austriache, e il loro amico malese Noel, che come mi raccontano stanno facendo via terra da Singapore a Mumbai. Il secondo tratto è meno impegnativo, arriviamo presto al rifugio sul colle da cui si ammira un panorama stupendo. Da un lato c’è un prato da cui numerosi paracadutisti si lanciano volteggiando sul lago, dall’altro si vede la base dell’Annapurna che purtroppo adesso è incappucciato da qualche nuvola di troppo. Solo ogni tanto si apre un varco, ed è abbastanza per rendersi conto della sua imponenza.

La camminata ci ha messo fame. Per pranzo un bel pollo allo zenzero con riso e patate non me lo toglie nessuno. Mi manca terribilmente la succulenta carne rossa, penso che in Italia la prima cosa che vorrò sarà un hamburger grasso e saporito. Mangiamo sulla terrazza e ci rilassiamo un po’ godendoci l’aria fresca. Gli altri poi si sistemano nelle camere del rifugio, rimarranno qui la notte per vedere l’indomani la spettacolare alba dall’alto. Anche a me piacerebbe restare, se non fosse che domani mattina devo già rientrare a Kathmandu. Quindi mi incammino per ridiscendere il monte sperando di non beccarmi un altro scroscio pomeridiano come quello di ieri. La discesa è decisamente più semplice, in un’ora e mezza scarsa arrivo a destinazione. Scopro che il mio vicino di camera è un pugliese trapiantato in Inghilterra, il primo italiano che incontro in tutto questo viaggio. Tornare a sentire il suono della mia voce in italiano mi sembra quasi strano adesso. Andiamo in un ristorante per riempirci lo stomaco e bere qualche birra, e mi racconta un po’ della sua storia. Dopo essersi stancato del suo stressante lavoro a Londra, ha cercato la pace interiore in un monastero qui in Nepal. Per l’ammissione gli è stato chiesto di stare in meditazione per 10 giorni, senza lasciare la stanza o parlare con gli altri monaci. Al quarto giorno ha capito che non era la vita che faceva per lui, e ha iniziato a vivere spericolate avventure a base di sport estremi di ogni genere. Mi dice che qui attorno gli standard di sicurezza sono a livelli europei ma i prezzi sono circa un terzo, quindi vuole provare tutto il possibile. Di nuovo, mi tocca maledire il poco tempo che mi resta a disposizione.

28/29 APRILE: RIENTRO

So già quello che mi aspetta oggi. Sveglia presto, un ultimo sguardo alla cima dell’Annapurna ancora ben visibile oltre Sarangkot, e poi ore e ore di autobus. Fortunatamente stavolta riesco a dormire per gran parte del tragitto. Quello che non mi aspetto è che arrivati a Kathmandu il capolinea d’arrivo è da tutt’altra parte rispetto a quello dell’andata. Mi prendo un attimo per orientarmi con il gps del telefono e mi incammino per fare ritorno all’Alobar 1000. Posso accettare che le fermate non siano fisse, ma non riesco veramente a capire per quale dannatissima ragione non lo debbano essere nemmeno i terminal. Perlomeno lungo i vicoli trovo finalmente un negozio con delle cartoline carine da spedire a casa, anche se so benissimo che arriveranno mesi dopo di me. In compenso, non sembrano esistere le cassette della posta per imbucarle.

Passo tranquillo pomeriggio e sera a bere birre nepalesi sulla terrazza con gli altri ospiti. Intendo andare a dormire presto, il mio volo di ritorno mi obbliga ad essere in aeroporto domattina prestissimo.

Il fatto di alzarmi rintontito alle 4,30 di notte forse mi aiuta a rendere meno lacrimoso il mio addio al Nepal. Divido il taxi con due ragazze inglesi che devono prendere il mio stesso volo delle 7,30 per Istanbul. Quando arriviamo, l’aeroporto è ancora chiuso e fuori c’è una coda interminabile di gente che ha presumibilmente passato la notte li fuori. Ci mettiamo in coda anche noi, e poco dopo il personale inizia a smistare lentamente le file. Penso di aver fatto vedere il passaporto e il biglietto ad almeno una decina di punti di controllo, ma alla fine registriamo i bagagli e ci avviamo al gate. Con sorpresa trovo nella sala d’aspetto una cassetta delle lettere, quando ormai avevo perso ogni speranza. Per ingannare l’attesa, io e le inglesi ci prendiamo un tè, che scopriamo costare 250 rupie quando in ostello eravamo abituati ad averlo per 5. Nel frattempo l’altoparlante annuncia che il volo partirà con un’ora di ritardo causa foschia. Inizia a venirmi un dubbio: pochi giorni fa è scattata l’ora legale in Italia. In Nepal invece no, rimaniamo sempre nello strambo fuso +5:45. Ma in Turchia? Sinceramente non ricordo. Il punto è che ad Istanbul avrei una coincidenza di 2h10, che tolta l’ora di ritardo e l’ora estiva in meno, significherebbero 10 minuti tra un aereo e l’altro. Al momento dell’imbarco vedo nei monitor dell’aereo turco l’orario attuale alla città di arrivo. Come temevo, anche in Turchia è scattata l’ora legale. Avviso da subito le hostess di considerare il mio problema, e loro mi dicono di stare tranquillo, avvertiranno loro il secondo aereo.

Sono seduto nell’ultimo posto in fondo a destra, il mio posto preferito: il primo a cui viene portato il pranzo (riso e montone alla maniera turca, decisamente buono!), quello con un po’ di spazio in più per i gomiti, quello dove nessuno ti prende a pedate nella schiena, ma soprattutto quello da cui si vede meglio fuori. E qui ne vale davvero la pena. Appena l’aereo decolla e si alza sopra la coltre di nebbia, l’intera catena dell’Himalaya è lì, davanti a me. Durante la virata distinguo chiaramente l’Everest e poi l’Annapurna, punte di diamante in un oceano di montagne innevate alte 8000 metri e più. Le cime sono quasi alla stessa altezza del nostro aereo, è uno spettacolo ineguagliabile. Resto incollato all’oblò, ringraziando per quest’ultimo fugace regalo che il Nepal mi ha voluto concedere. Piango dalla felicità, non ho parole di fronte a tale maestosità. Sto ammirando il Tetto del Mondo, ed è la ciliegina sulla torta di un viaggio dalle mille sfaccettature. Dopo circa un’ora di spettacolo puro ci allontaniamo dalle montagne iniziando a sorvolare l’arido deserto tra Afghanistan e Iran, che ogni tanto delizia con i poco noti plateau e canyon che visti da terra potrebbero probabilmente rivaleggiare senza timori con quelli statunitensi. Riposo un po’, e prima dell’arrivo ricordo di nuovo alle hostess il mio problemino di orari.

Quando arriviamo all’aeroporto di Istanbul mi fiondo fuori dall’aereo e comincio a correre come un dannato per raggiungere il mio volo in partenza per Torino. Per fortuna i cittadini dell’Unione Europea in Turchia non hanno bisogno di timbri e visti sul passaporto, quindi sfilo rapidamente evitando tutte le code. Trovo il mio gate dopo chilometri di tapis roulant e scale mobili, e faccio appena in tempo a salire prima che il personale chiuda tutto. Se questa doveva essere la vacanza all’insegna degli imprevisti non si sta smentendo neanche all’ultimo.

Per rendere il tutto ancora più vicino ai limiti dell’improbabile, appena mi siedo al mio posto mi accorgo che il mio vicino è nientemeno che un mio vecchio amico israeliano, che ho conosciuto in università anni fa e non vedevo da allora. E’ di ritorno da Tel Aviv, dove ha passato con i parenti la pasqua ebraica. Ci pappiamo divertiti il saporito kebab e i morbidi dolcetti di frutta secca, tanto buoni che il mio amico ne chiede di nascosto una confezione intera da portarsi via.

Ho come la sensazione però che mi manchi qualcosa. Infatti, atterrati a Torino, ne ho la conferma. Mentre poche ore prima correvo per i moderni corridoi vetrati, il mio zaino passava lentamente di mano in mano, rimanendo ad Istanbul. Mi assicurano comunque che mi verrà recapitato dopodomani a casa. Beh, poco importa, dopo sette aerei in tre settimane il destino ha avuto almeno il buon gusto di non farmelo perdere durante il viaggio. Il risultato è che rientro in casa con una semplice borsa a tracolla, come se fossi uscito poco prima per comprare il pane. Sono solo un po’ più abbronzato.

Non dimenticherò mai questa mia avventura. Mi sono immerso tra caos, folla e povertà e poi nella natura, dai deserti alle vette più alte. Ho compreso fino in fondo, anche se per poco, cosa significa essere liberi, padroni di sé stessi, in comunione con tutto e con tutti.

Prima di partire sentivo molte persone dire che l’India ti cambia dentro, e concordo solo in parte. Non mi sento un’altra persona, sento piuttosto che in questo viaggio ho imparato a capire più profondamente me stesso e a scoprire una forza di spirito che non osavo neanche immaginare. Mi sento più forte, più positivo e, forse, più saggio. Spero che questi posti non cambino troppo in fretta, spero che tutti li possano vivere come sono ora, culture antichissime che non devono per forza di cose adattarsi alle esigenze di un occidentale. La loro diversità mi ha lasciato un’impronta che terrò viva per sempre.



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