Qunang Ngai, Vietnam centrale
QUANG NGAI
Il dolore matura la nostra umanità Ho Chi Minh
L’Espresso della Riunificazione, il treno che collega Ho Chi Minh Ville ad Hanoi, entra nella stazione di Quang Ngai alle quattro del mattino dopo nove ore di viaggio. Scendiamo solo noi. Siamo riposati, poiché agli stranieri (in verità non ne abbiamo visto nessuno sul nostro convoglio) è concesso il privilegio di viaggiare in prima classe. In Vietnam la prima classe consiste in cuccette comode che purtroppo non riescono ad eliminare l’agonia dell’aria calda mossa dal ventilatore inchiodato al soffitto.
Abbiamo lasciato alle nostre spalle la città costiera di Nha Trang, il primo timido e triste tentativo dell’occidente di appropriarsi delle potenzialità turistiche del Vietnam: spacciatori di erba, massaggiatrici speciali, bar sulla spiaggia gestiti da australiani abbronzati. Fuori dalla stazione ferroviaria gli Honda om (moto-taxisti “fai da te” presenti in ogni realtà antropizzata del Vietnam) non sono abituati a vedere stranieri, non parlano inglese né francese: comunichiamo a gesti. Veniamo caricati da due magri e silenziosi motociclisti che ci conducono, attraverso strade buie, davanti ad una serranda abbassata. Cinque minuti dopo il proprietario la solleverà, mostrandoci la sua opera completa dei teorici del marxismo-leninismo, il busto dello zio Ho e, finalmente, la nostra stanza. Disfiamo i pochi bagagli, facciamo un sonnellino di quattro ore e iniziamo ad immagazzinare le prime immagini nitide della città: dalla finestra osserviamo una coppia di anziani praticare thai chi sotto gli alberi. Delle studentesse in ao dai, passano ridendo. Davanti ad un ristorante, degli operai fanno colazione con dei phở, i gustosissimi tagliolini in brodo, piatto fondamentale della dieta vietnamita. Il traffico della via principale si sveglia ma non riesce a sormontare il coro altissimo dei grilli, a migliaia, sugli alberi. Quang Ngai (talvolta abbreviato in Quangai o storpiato in Quang Nghia) è capoluogo della provincia omonima. Tagliata a metà dalla Statale 1, che qui prende il nome di Đ Quang Trung, è stata costruita sulla sponda meridionale del fiume Tra Khuc, noto in tutto il Vietnam centro-meridionale per le sue gigantesche turbine idrauliche. Quang Ngai è anche famosa per la prelibatezza locale, il Cơm Gà (pollo cotto insieme a riso giallo e guarnito con zuppa di uova, coriandolo, foglie di menta e cipolla), che si può mangiare nelle mense popolari e in tutti i ristoranti della città.
La provincia di Quang Ngai è una delle più popolate della nazione grazie al suo entroterra prevalentemente pianeggiante, che l’ha resa meta, a volte cercata a volte obbligata, di un esodo interno di agricoltori. I villaggi sono sorti ovunque, formando una rete capillare di insediamenti autosufficienti ma fortemente legati l’un l’altro che presentano una tipica forma allungata, con case addensate lungo le strade e i corsi d’acqua. Bình Sόn, Bình Châu, Sa Kỳ: agglomerati di baracche nei quali scorazzano maiali selvatici e bufali. Mentre li attraversiamo a bordo di un Honda Dream prestatoci dal proprietario dell’albergo, scorgiamo piccole stanze pastellate di azzurro aperte sulla strada: il privato si affaccia sul pubblico. Salutiamo un barbiere che, con l’ausilio di uno specchio legato al tronco di un albero, taglia i capelli ad un giovane cliente. Per le strade polverose i bambini con la divisa della scuola schiamazzano felici. Poco lontano dalla spiaggia di Bien Khe Kỳ, una lunga distesa bianca coperta di pini, gli abitanti di Son My allevano gamberi. I villaggi costituiscono le fondamenta socio-economiche dell’identità vietnamita. Grazie a questi, il Vietnam assume la sua struttura storica di base. Per secoli i vietnamiti si sono prodigati nella costruzione di un sistema duttile e dinamico: un villaggio dopo l’altro; una risaia dopo l’altra, con le sue dighe e i suoi canaletti. Hanno edificato un sistema socio-economico che impone un posto ben definito a ciascuno. Il modo di vivere vietnamita si traduce nell’immane fatica collettiva di trasformare un paesaggio di foreste in una miniatura di colture quadrettate. La socializzazione e l’organizzazione politica da cui deriva, costituiscono per il contadino vietnamita un forte elemento identitario, capace di diventare il senso stesso della sua vita. Il villaggio gli fornisce un clima familiare, affettivo e culturale, ne costruisce la tempra. In questa unità, in questa coesione, il popolo vietnamita ha trovato la forza, nei secoli, di resistere agli aggressori: cinesi, giapponesi, francesi, americani.
Nel 1962 il governo filo americano di Diem scelse la provincia di Quang Ngai come luogo in cui attuare il programma delle agrovilles, chiamate in seguito Villaggi Strategici. Gli abitanti delle zone rurali venivano prelevati a forza dai militari e, con la complicità dei primi funzionari americani (come l’umanitario signor Wolf Ladejinsky), “spostati” in villaggi recintati, sotto controllo. Questi primi atti di violenza, di socialità obbligata, questi aggressivi sradicamenti di intere comunità, portarono definitivamente la popolazione della provincia dalla parte del Fronte Nazionale di Liberazione o, più volgarmente, dei viet cong. Le conseguenze furono terribili, l’attaccamento alla causa dell’indipendenza venne pagato a caro prezzo. A 13 Km da Quang Ngai, c’è Xom Lang, dove, in mezzo alla vegetazione e al silenzio, è stato eretto il monumento commemorativo alle vittime del massacro comunemente noto come l’eccidio di My Lai. In verità My Lai è solo uno dei quattro villaggi dove i marines sfogarono la loro cieca violenza sui civili. Il monumento commemorativo è stato edificato a Xom Lang perché lì i massacri furono più efferati. Nella casa museo, è impressionante constatare che nel libro delle firme dei visitatori non compaiano nomi americani. Sembra strano che nessuno si senta in dovere di venire a vedere. Forse non sanno? Nessuno di loro ha passeggiato nei luoghi dove il capitano Ernest Medina e i suoi sgherri, il tenente Wiliam Calley (che divenne una celebrità), il tenente Jeffrey la Cross e il tenente Stephen Brooks, sguinzagliarono i loro uomini. Quel giorno del ’68 i ragazzoni dello zio Sam entrarono nei villaggi e squartarono, stuprarono, mitragliarono forse duecento, forse trecento persone. Il numero rimane imprecisato perché quando misero fine alla mattanza, gli uccisori buttarono bombe a mano sui corpi per nascondere l’eccidio. Il tenete Calley, unico accusato al processo farsa messo in piedi negli Stati Uniti, si scusò dicendo che non era facile distinguere un neonato in fasce da un guerrigliero viet cong. Gli diedero l’ergastolo ma dopo quattro anni venne liberato impunemente. C’è una sua foto nella casa museo di Xom Lang. Ha una faccia antipatica e snob. Fuori dall’area recintata del museo due bambini giocano, correndosi dietro. Appesi agli alberi sono scritti su lavagnette di legno i nomi delle persone che sono state massacrate. La famiglia Khoi, il più grande aveva 16 anni, la più piccola 3 anni; il signor Chinh, 91 anni, sicuramente un sovversivo; la famiglia Loy, padre, madre, figli, nipoti: 84 anni, 78 anni, 32 anni, 12 anni, 6 anni, 4 anni, due mesi… due mesi. Mette i brividi.
Uscendo guardo le baracche sul ciglio della strada; nelle risaie dei contadini stanno lavorando: sembra che la collettivizzazione sia riuscita. Il divario con gli agi delle città è evidente ma mancano le differenziazioni sociali che esistono all’interno dei grossi agglomerati urbani di Hanoi, Ho Chi Minh Ville, Da Nang, dovute alle prime perdenti aperture sul mercato internazionale. Nei villaggi non ci sono bambini poveri per strada. Tutti coltivano la terra, hanno poco ma hanno di che vivere, sono legati da un forte senso comunitario; in fondo, hanno tutto. Il miracolo del Vietnam collettivo e rurale sopravvive, forse anche grazie a quell’orrore, testimoniato dal monumento alle mie spalle, che gli aggressori occidentali hanno portato per tentare di imporre la loro “libertà” e la loro “democrazia”.
Osservo migliaia di sfumature di verde cadere nel giallo ocra e nel giallo paglierino. Osservo le palme chiare e il granitico rosso scuro delle strade. Bufali. Per la strada, lentamente, un contadino su una bicicletta ci sorpassa e prosegue verso il mare. Il solito, fiero, orgoglioso cappello conico calato sulla faccia.