Pushkar, Rajasthan, India del Nord
Pushkar è uno dei luoghi sacri all’induismo, qui si raccolgono le erbe per fare il bhang, qui si viene a morire, in pellegrinaggio, per avere almeno la speranza di non nascere più. Un aiuto a campare e uno a crepare. Le donne hanno ceste piene di fiori senza gambo e cammelli svogliati portano in giro i clienti delle agenzie turistiche. Le strade sono di fango molle, sterco, buche e immondizia: un labirinto di odori e rumori e colori dentro il quale le case, le botteghe, i templi galleggiano, inspiegabilmente leggeri con tutto quel carico di colonnine, logge, barattoli, cappelle, mercanzie, decorazioni, pinnacoli, battenti, guglie, fregi, stampelle e infatti qua e là sprofondano, affondano, ma senza cedimenti, stancamente, si inclinano su un lato, sbilenche, si puntellano l’una contro l’altro, si sostengono, aspettano la fine, come tossici in astinenza, senza volontà nè desiderio, soltanto un architettonico istinto di sopravvivenza che persegue le sue leggi, al di là dell’aritmetica e della natura, e non crollano, non oggi almeno.
Se Venezia muore, sfarzosa e luccicante, teatrale ed esagerata come una diva d’altri tempi, e s’inabissa come un transatlantico mentre l’orchestra suona e tutti si divertono, Pushkar lentamente marcisce. Si apre nelle crepe, si sfalda nel terreno, imputridisce nelle fondamenta, si putrefà, si disossa, si squama – metastasi di una decadenza -, si affloscia, sbiadisce, appassisce, evapora. Pushkar non odora di morte, per Pushkar si respira il puzzo dell’attesa della morte, degli uomini e delle cose che vanno a morire. E’ la rappresentazione sensibile, stereofonica, multimediale dell’agonia. C’è da restare sbigottiti, allucinati, inebetiti, storditi… E commossi.