Pushkar, Rajasthan, India del Nord

Pushkar ha fascino e di conseguenza non le manca un certo stile. Niente scarafaggi alla White House, nessun cadavere stecchito stamattina per la polverina da viaggio che Emme ha spruzzato lungo il perimetro della nostra stanza e di quella di Elle. E dormito s'è dormito, utilizzando il sacco-lenzuolo preparato a Milano, con sulle labbra il...
Scritto da: Gabriele Nava
pushkar, rajasthan, india del nord
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Pushkar ha fascino e di conseguenza non le manca un certo stile. Niente scarafaggi alla White House, nessun cadavere stecchito stamattina per la polverina da viaggio che Emme ha spruzzato lungo il perimetro della nostra stanza e di quella di Elle. E dormito s’è dormito, utilizzando il sacco-lenzuolo preparato a Milano, con sulle labbra il sorrisino beato dei previdenti. (Consiglio pratico: prendere due vecchie lenzuola e cucirle insieme per tre lati; meno ingombrante di un sacco a pelo e meno doloroso da abbandonare in caso di sovrappeso). Sulla terrazza, per colazione, un profumato tè al mango e il grigio di un cielo che staziona pesante e annoiato, che piove pigramente, senza nessuna voglia di togliere l’ingombro. E dove sono i celebri monsoni, gli acquazzoni torrenziali che lasciano posto al sereno? Piove come a Londra, poco e quasi sempre.

Pushkar è uno dei luoghi sacri all’induismo, qui si raccolgono le erbe per fare il bhang, qui si viene a morire, in pellegrinaggio, per avere almeno la speranza di non nascere più. Un aiuto a campare e uno a crepare. Le donne hanno ceste piene di fiori senza gambo e cammelli svogliati portano in giro i clienti delle agenzie turistiche. Le strade sono di fango molle, sterco, buche e immondizia: un labirinto di odori e rumori e colori dentro il quale le case, le botteghe, i templi galleggiano, inspiegabilmente leggeri con tutto quel carico di colonnine, logge, barattoli, cappelle, mercanzie, decorazioni, pinnacoli, battenti, guglie, fregi, stampelle e infatti qua e là sprofondano, affondano, ma senza cedimenti, stancamente, si inclinano su un lato, sbilenche, si puntellano l’una contro l’altro, si sostengono, aspettano la fine, come tossici in astinenza, senza volontà nè desiderio, soltanto un architettonico istinto di sopravvivenza che persegue le sue leggi, al di là dell’aritmetica e della natura, e non crollano, non oggi almeno.

Se Venezia muore, sfarzosa e luccicante, teatrale ed esagerata come una diva d’altri tempi, e s’inabissa come un transatlantico mentre l’orchestra suona e tutti si divertono, Pushkar lentamente marcisce. Si apre nelle crepe, si sfalda nel terreno, imputridisce nelle fondamenta, si putrefà, si disossa, si squama – metastasi di una decadenza -, si affloscia, sbiadisce, appassisce, evapora. Pushkar non odora di morte, per Pushkar si respira il puzzo dell’attesa della morte, degli uomini e delle cose che vanno a morire. E’ la rappresentazione sensibile, stereofonica, multimediale dell’agonia. C’è da restare sbigottiti, allucinati, inebetiti, storditi… E commossi.



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