Primavera nei parchi americani

California, Nevada, Arizona e Utah on the road
Scritto da: centaura
primavera nei parchi americani
Partenza il: 10/04/2009
Ritorno il: 26/04/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
La nostra avventura americana comincia finalmente il 10 aprile, dopo mesi e mesi di preparativi, indecisioni, emozioni nascoste e tanta voglia di partire per questa splendido viaggio che ci accoglie come neofiti nel mondo dei viaggi fai da te. In effetti l’emozione è grande anche per questo motivo, ogni virgola del nostro itinerario è stata decisa a tavolino da me e Gabriele, leggendo racconti di viaggio, navigando in svariati siti internet e fidandoci un po’ del nostro spirito di avventura…

L’itinerario originale avrebbe dovuto terminare con la visita allo Yellowstone N.P. Ma nel corso del viaggio ci siamo resi conto dell’impossibilità di arrivare fin lassù, troppi Km e troppo di corsa…così abbiamo ridimensionato il programma originale rimanendo più nei dintorni.

10APRILE: Venezia – Londra – San Francisco

Partenza dall’aeroporto di Venezia alle h 7.05 con la British Airways, arrivo a San Francisco alle h 16.40 ora locale. Il volo fa scalo a Londra, dove sfortunatamente abbiamo l’inconveniente di dover cambiare aeroporto, da Gatwick a Heathrow, prendendo un bus che in un’ora effettua il trasferimento. Appena arrivati a San Francisco siamo emozionati come due scolaretti, ci accoglie un pomeriggio soleggiato e ventilato (assolutamente tipico nella baia californiana). Per salvare qualche dollaro decidiamo di salire sulla metropolitana che in circa mezz’ora ci porta in centro città, esattamente a pochi minuti a piedi dal nostro hotel: l’Union Square Plaza, situato in Geary Street, una laterale della piazza omonima. L’hotel è piuttosto vecchio, probabilmente il terremoto che sconquassò la città i primi anni del ‘900 non riuscì a buttarlo giù; le camere sono carine ma avrebbero bisogno di un po’ di restauro, la finestra della nostra camera nemmeno si chiude del tutto!

Il primo impatto con Frisco è positivo, ci piace l’atmosfera festaiola che troviamo, soprattutto a Union Square dove gruppi di musicisti, giocolieri, mendicanti (non troppo felici) e turisti, allietano il nostro pomeriggio.

Tempo di arrivare all’hotel, lasciare i documenti alla reception, sistemare le valige, prendere confidenza con la camera e siamo già per strada pronti per cenare. Per la cena scegliamo un locale semplice e spartano poco distante a piedi dal nostro alloggio: a me sembra di essere catapultata in una classica tavola calda da telefilm americano stile Happy Day’s, con divanetti in pelle trapuntati rossi bordoex, tavolo vissuto con sopra l’immancabile ketchup e il dosa-zucchero, lungo bancone con sgabelli in fila…già respiro l’aria di Hollywood (che tra l’altro noi non visiteremo!). Stanchi e in preda alla digestione lenta ci avviamo verso l’hotel per stramazzare a letto.

11 APRILE : San Francisco

Sveglia presto per visitare la città! Purtroppo non ho dormito granché data la confusione terribile che di notte c’è in questa zona… Decido di comprarmi dei tappi per le orecchie, soluzione azzeccatissima. Ci incamminiamo intorno alle 8 del mattino, verso i quartieri che abbiamo deciso di visitare, China Town, Financial District, Golden Gate… Non prima di aver bevuto un famoso caffè-brodaglia americano, che in fin dei conti apprezziamo. A quest’ora la città è semideserta, e un freddo pungente ci risveglia all’istante… Piano piano percorriamo Union Square, vivace piazza quadrata, ricca di artisti che espongono i loro quadri(una specie di Montmartre americana!), contornata da negozietti e boutique e arricchita da palme e fiori. Proseguiamo e poco più avanti vediamo il primo Tram, che emozione… Anche qui mi sembra di ritrovarmi in una scena di qualche film. Gli edifici di questa città sono degli inizi del XX secolo, in pieno stile liberty, colorati e puliti, molti sono ricoperti da mattoncini, decorazioni vegetali e vetrate colorate. Quest’aria retrò rende la città unica nel suo genere e piace molto a noi europei proprio perché ci sentiamo a casa, circondati da palazzi che parlano di un passato che ci è congeniale.

Accanto a costruzioni vecchie si incastrano anche grattaceli un po’ kitsch, che tutto sommato non stonano ma creano una studiata confusione di stili. Arriviamo finalmente a China Town, la più grande comunità cinese al mondo stanziatasi fuori dalla Cina; è il giorno di Pasqua ed un pensiero vola alle nostre famiglie che a quell’ora saranno radunate per il tipico pranzo pasquale (ovvero una grande abbuffata senza fine)…noi invece ci ritroviamo a girovagare tra viuzze deserte, tutte coloratissime e decorate con le tipiche lanterne rosse. Il quartiere inizia a svegliarsi intorno alle 9.30, i negozianti sistemano le vetrine dei negozi riempite di cianfrusaglie di ogni genere, iniziamo ad incontrare qualche persona che passeggia e ad un certo punto ci ritroviamo in una piazzetta dove una folla di studenti divisi a gruppi sta per cominciare un qualche tipo di gioco (per quello che possiamo capire!).

Raggiungiamo poi la principale via di questo quartiere, la più pittoresca perché ricca di negozietti di frutta e verdura che espongono la loro merce fuori dal negozio ed è tutto un vociare di persone che contrattano e comprano generi alimentari mai visti prima! Sembra proprio di essere in Cina (anche perché gli alimenti sono accompagnati da ideogrammi scritti manualmente)!!!

Proseguendo sempre a piedi ci inoltriamo nel Financial District, quartiere finanziario, che ha una costruzione molto originale al suo interno: la Transamerica Pyramid, immenso edificio costruito nel 1972, 48 piani per 260 metri d’altezza. Oggi occupato da uffici (studi legali e banche), in passato fu sede della Transamerica Corporation da cui, appunto, prese il nome. Poco dopo passiamo la sede dei Vigili del fuoco di San Francisco, SFFD, con all’esterno alcuni vigili intenti a pulire e tirare a lucido i loro mezzi: Gabriele rimane imbambolato come un bambino, ci tornano in mente tutte le immagini relative all’11 settembre che ritraevano i pompieri intenti a salvare vite umane in mezzo a quel disastro.

Il nostro giro prosegue verso il quartiere di Haight Ashbury, centro del movimento Hippy di San Francisco, da cui è partita la famosa Summer of love (1967) in seguito alla diffusione di idee anticonformiste e antiborghesi nel corso degli anni ‘60 (stimolate dagli artisti della Beat generation – sesso, droga e rock’n rollmake love not war…). In questa zona è caratteristica la presenza di case molto colorate, di murales e di negozietti che vendono merce indiana… Un odore di marijuana ci investe ogni tanto e un gruppo di ragazzi sfaccendati distesi ai bordi della strada, probabilmente eredi degli hippy ormai estinti da anni, ci chiede qualche spicciolo che io naturalmente gli nego. Ci inoltriamo in seguito in un immenso parco, il Golden Gate Park, che percorriamo un po’ affannosamente pensando di raggiungere il mitico Golden Gate Bridge in un batter d’occhio. Vediamo, ma solo da fuori, l’Accademia delle Scienze, edificio ad architettura sostenibile ed ecologica perfettamente autonomo, oltrepassiamo un bellissimo giardino giapponese che per mancanza di tempo non visitiamo. Passo dopo passo ci rendiamo conto che abbiamo fatto il giro largo e che forse ci conviene prendere un bus, cosa che facciamo prontamente!

Dopo poco ci appare l’agognato ponte, visto in migliaia di immagini e simbolo della città. Percorriamo subito una parte del lato pedonale, scattando foto all’impazzata… La baia vista da quel lato è splendida!…continuiamo il giro incamminandoci per un sentiero che costeggia la baia per scattare ancora qualche foto da diverse angolazioni poi dopo un caffè ritorniamo verso il centro per cenare e coricarci.

12 APRILE: San Francisco

Partiamo sempre presto per guadagnare tempo. Facciamo colazione da Starbucks, ottima catena di caffè-bar che impareremo a cercare lungo tutto il viaggio per il buon cappuccino e i gustosi dolci proposti. Per prima cosa raggiungiamo Powell Street da dove facciamo un bellissimo giro con il tram, piuttosto costoso tra l’altro, rispetto agli altri mezzi pubblici della città…ma il costo è giustificato dal fatto che si viaggia in un pezzo di storia, infatti i tram sono originali dell’epoca e una associazione senza fini di lucro, la Market Street Railway, si occupa di restaurali e ne acquista in tutto il mondo! Infatti i tram non sono tutti del luogo ma provengono da diverse parti del globo, alcuni addirittura da Milano.

Scesi dal tram andiamo a vedere la famosa Lombard Street, purtroppo senza fiori data la stagione ma suggestiva comunque per la bella vista che si gode da lassù, infatti questa viuzza è abbastanza in alto e io ci arrivo arrancando! Raggiungiamo poi Fishermans Wharf per ammirare i leoni marini spaparanzati al sole come vip che si fanno fotografare dai paparazzi, io inizio ad imprecare nell’accorgermi che la mia digitale ha le batterie KO! Questo quartiere, affacciato interamente sulla baia, ha sviluppato svariate attività commerciali a favore dei molti turisti che ogni giorno lo visitano: si incontrano quindi molti negozietti, localini e info point, costruiti in modo pittoresco. Presi dalla fame assaporiamo una gustosissima crab chowder, zuppa di granchio servita nella particolare ciotola di pane e decidiamo di berci qualcosa nel leggendario Planet Holliwood. Come maratoneti perseveriamo nel macinare km a piedi e visitiamo il caotico quartiere italiano di North Beach (noto come Little Italy), ricco di caffè, ristorantini, pizzerie e localini in stile italiano; qui è pieno di gente che mangia e beve. Il nostro obiettivo è il Caffè Trieste, primo Caffè italiano della città, aperto nel 1957 da Giovanni Giotta un’emigrante di Rovigno. Rimane tuttora un covo di artisti e letterati (tra verità e leggenda si dice che F.F. Coppola scrisse qui buona parte del copione per Il Padrino): ci beviamo un ottimo caffè espresso con la soddisfazione di comunicare al barista la nostra provenienza quasi triestina. Riprendiamo ad incamminarci verso Telegraph Hill, quartiere associato alla Coit tower, torre che commemora i pompieri di San Francisco, dono di una ricca ereditiera, Mrs. Lillie Hitchcock Coit, alla città. Molto suggestivo il panorama dalla torre…procediamo scendendo dal lato opposto, discendiamo Napier Lane, una scalinata di legno impervia che si dipana in mezzo ad una folta vegetazione da cui si intravedono ai lati alcune casette in legno che sembrano piccoli cottage curati nel minimo dettaglio: io rimango a bocca aperta, mi sembra di essere finita insieme ad Alice nel suo Paese delle meraviglie…”ma porca miseria, perché la mia digitale non dà segni di vita???”.

Alle 18.10 dobbiamo partire dal Pier 33 per il Tour ad Alcatraz, quindi con anticipo ci facciamo trovare al molo. Avendo già comprato i biglietti su internet non facciamo la fila ma ci accomodiamo direttamente a bordo della nave e in circa mezz’oretta arriviamo nella prigione più famosa del mondo.

Nel 1934 quest’isolotto, distante circa 3 km dalla città, divenne un carcere federale di massima sicurezza ma nel 1963 venne chiuso a causa degli elevati costi che lo caratterizzavano, visto che era necessario trasportare sull’isola ogni bene necessario (cibo, vestiti, acqua potabile ecc.), tanto che i politici statunitensi arrivarono a sostenere che sarebbe costato meno mantenere ogni detenuto nell’hotel più lussuoso di New York piuttosto che mantenerlo ad Alcatraz. Qualche decina di anni più tardi, Alcatraz viene aperta al pubblico per le visite guidate.

Il tramonto visto dall’isola trasforma San Francisco in un diamante sulle cui pareti riflettono i raggi del sole: la città cambia colore minuto dopo minuto e un’atmosfera magica si impadronisce di noi visionari di questo mondo incantato.

Oramai il buio si è fatto avanti, le 21 sono passate e noi stanchi dopo i numerosi km percorsi a piedi, decidiamo di prendere un tram che ci riporti all’hotel. A letto presto, domani ci aspetta la partenza on the road verso il primo parco!

13 APRILE : San Francisco – Yosemite N.P. (303 km)

Abbiamo appuntamento alla National intorno alle 10 per ritirare la macchina, fortunatamente è a 10 minuti a piedi dal nostro albergo, così non dobbiamo prendere mezzi pubblici ma carichi come cammelli arriviamo in anticipo e ci prende il panico quando vediamo la fila di persone in attesa. Armati di pazienza attendiamo per più di un’ora la consegna della Ford Focus berlina, 2000 cc, Gabriele come sempre si esalta ma inizia ad insinuarsi in lui la paura di affrontare l’uscita dal centro città (forse qualche ricordo di Melbourne incombe ancora!). Eccitatissimi ci accingiamo ad uscire, io con la mappa in mano faccio da GPS umano (compito che svolgerò eccellentemente per tutta la durata del viaggio, senza falsa modestia!). Tutto fila liscio fin da subito, le highway americane sono uno spasso rispetto alle nostre strade congestionate…

Imbocchiamo l’hw 580, poi la 205, in seguito la 120 fino allo Yosemite. Piano piano passiamo da un paesaggio brullo ad una vegetazione da montagna, saliamo di quota ed iniziamo a fare curve e tornanti, tant’è che Gabriele pensa alla sua moto parcheggiata nel nostro garage! Per prima cosa decidiamo di trovare un alloggio per poi entrare nel parco a fare un sopraluogo veloce. Il primo paese abbastanza popolato che incontriamo è Groveland (Big Oak), in stile western, case e saloon in legno contornano la strada, ma essendo bassa stagione in giro non si vede nessuno. Qui abbiamo uno spiacevole incontro ravvicinato con una supercicciona che sembra uscita da un libro di Stephen King, ci mostra delle specie di camere-baracche ad un costo esorbitante e quando le diciamo che non accettiamo cerca di contrattare ma non capisce che non è per i soldi, bensì per lo squallore del luogo! Ribadisco che non ci interessa e saluto cordialmente mentre lei ci lancia uno sguardo assassino…io e Gabriele un po’ terrorizzati allunghiamo il passo e raggiunta la macchina partiamo a razzo. Fortunatamente poco dopo troviamo un American Best Value Inn, motel molto carino, in stile country, che per circa $90.00 ci offre una camera confortevole. Scaricate le valige arriviamo all’entrata del parco e compriamo l’annual pass, la tessera per visitare tutti i parchi nazionali USA che vale un anno intero e conviene se si decide di visitare almeno 5 parchi (il costo singolo si aggira intorno ai $25.00 per parco). Proseguiamo fino ad arrivare ad el Captain, roccia granitica di circa 900m situata nella zona a Sud-Est del Parco: iniziamo a vedere cascate da tutte le parti, infatti aprile è la stagione giusta per visitarle. Arriviamo fino alle Yosemite Falls ma comincia a fare buio e decidiamo di ritornare al motel. Ceniamo in un saloon accanto al nostro alloggio, Gabri si sbaffa una specie di arrosto accompagnato da una baked potato, io rimango leggera con un’insalata di tonno (c’era più tonno che insalata, una vera bomba!).

14 APRILE : Yosemite N.P. – Bakersfield (326 km)

Come sempre la sveglia del cellulare inizia a suonare presto, la visita ai parchi esige l’essere mattutini anche perché si possono avvistare più animali. Entriamo nuovamente nel parco dopo circa mezz’oretta di macchina, per prima cosa visitiamo nuovamente le Yosemite Falls, questa volta con la luce diurna… Hanno una portata d’acqua spettacolare e rimaniamo incantati di fronte a cotanta bellezza. Successivamente entriamo in un emporio a comperare qualcosa per pranzo e merenda, poi facciamo un simpatico incontro con uno scoiattolo che, forse sotto l’effetto degli ormoni, ci intontisce con dei versi acuti…e allestisce un mezzo circo dato che altri passanti si fermano a guardarlo.

Decidiamo poi di andare a vedere un’altra cascata che si raggiunge percorrendo un sentiero ma sbagliamo trail, tanto per cambiare, e inizia pure a nevicare! Siamo lividi per il freddo, saliamo su una navetta e ritorniamo subito alla macchina! Gabri accende a tutto gas il riscaldamento della macchina e procediamo verso sud per visitare Mariposa Groove of Giant Sequoias. Dopo una camminata di mezz’ora arriviamo in questa parte del parco nella quale vive un gruppo di 200 sequoie secolari. È la prima volta che possiamo ammirare degli alberi così imponenti, rimaniamo ad ammirarli a bocca aperta!

Il nostro itinerario prosegue verso la città di Bakersfield, tappa che faremo prima di raggiungere la Death Valley. Non potendo percorrere la strada più corta che oltrepassa il Tioga pass, chiuso per neve in questo periodo, allunghiamo il percorso facendo il giro largo e arrivando all’entrata occidentale della Valle della Morte.

Imbocchiamo la statale 41 fino a Fresno, poi la 99 fino a Bakersfield. Lungo la statale 99 il paesaggio è abbastanza monotono, campi, pianura, industrie alimentari e agricole. Pernottiamo in un motel spartano, l’Econo Lodge, che per $ 50.00 ci offre anche la colazione (ovvero caffè e dolcetto). Per cena mangiamo da Sizzler, ottima catena di steak house, per la grande felicità di Gabriele che divora una grossa bistecca!

15 APRILE : Bakersfield – Death Valley – Las Vegas ( 650 km)

Oggi il nostro programma di viaggio comprende la visita alla Death Valley e l’arrivo in serata a Las Vegas. Imbocchiamo la statale 58, poi la HW 395, la statale 178 e infine la 190 che attraversa la Death Valley. Questo tratto di viaggio presenta un paesaggio molto suggestivo, a partire dalla zona dei Monti Tehachapi, piccola catena montuosa che corre trasversalmente nel sud della California, sui quali stava nevicando nel momento in cui li abbiamo attraversati. Appena oltrepassati i Monti Tehachapi si giunge nel magnifico deserto del Mohave dove, cactus e fiori selvatici arricchiscono questo brullo e arido paesaggio. Questa regione desertica è ampia 38000 kmq e possiede molti giacimenti minerari. Al suo interno vi si trova anche una base aerea militare dove solitamente atterrano gli Shuttle al rientro dalle missioni spaziali. In questo tratto incrociamo pochi veicoli, e poche stazioni di benzina, tant’è che quando arriviamo a Ridgecrest ne troviamo una e facciamo il pieno. Proprio qui mi accorgo di aver perso la mia insostituibile Lonely Planet, rischiavo di impazzire… Eravamo senza programma di viaggio e pure senza guida!!! …fortunatamente gli americani sono molto organizzati, in ogni paese c’è un info point con depliant e cartine gratuiti, per cui ce la siamo cavata benissimo ugualmente.

Entriamo nell’agognata Death Valley, molto curiosi per ciò che visiteremo: Stovepipe Wells è il primo punto che incontriamo, qui parcheggiamo e facciamo un giretto veloce. C’è un general Store, una tavola calda, un benzinaio, un hotel e poco altro. Leggiamo il cartello che ci avvisa che siamo sul livello del mare. Procediamo verso il prossimo punto d’osservazione, Sand Dunes, una zona dove ci sono delle dune di sabbia con della bassa vegetazione: sembra di essere in Africa, la sabbia ha dei microgranuli d’oro…! Facciamo una veloce camminata tra le dune e dopo qualche scatto fotografico raggiungiamo un punto dove sono sistemate in bella vista le attrezzature dei vecchi pionieri che in questa valle cercarono l’oro. Nel 1849 un centinaio di cercatori d’oro disinformati e senza mappa, cercando la via verso la California, procedevano in gruppi sparsi sull’orlo orientale del pavimento salato della Valle della Morte. Passarono un mese di spaventose privazioni sul fondo della valle e una persona anziana, già ammalata, morì. Prima di arrivare ad uscire fuori dalla valle, per sopravvivere mangiarono i loro buoi rinsecchiti, bruciando e abbandonando i carri, nei pressi dell’attuale Stovepipe Wells. La loro sofferenza divenne una leggenda che ha dato il nome alla valle.

Negli anni dal 1850 al 1900, durante il periodo della corsa all’Ovest (Far West), la Valle della Morte veniva attraversata dai pionieri con le carovane, nel suo punto più stretto che è di circa 30 chilometri. Nel 1881 Aaron Winters scoprì i giacimenti di borace e vendette i diritti a William Coleman per 20.000 dollari che l’anno successivo costituì la Harmony Borax Works. Nello stesso anno la società mineraria Pacific Coast Borax Company incominciò ad estrarre il borace, portando nella Valle della Morte molta gente. Sono di questo periodo i viaggi e le avventure della speciale carovana formata da due carri enormi e dalla cisterna dell’acqua trainati in blocco da 20 muli, chiamata Twenty Mule Team Wagon (carro della squadra di venti muli), che univa la miniera di Harmony Borax Work con la ferrovia di Mojave distante 265 chilometri[1]. Raggiungiamo un altro sito, Badwater, il punto più basso del Nord America, – 85.5 metri sotto il livello del mare. Camminando lungo la zona accessibile riusciamo a capire cosa si prova in un deserto: non riusciamo a sudare dato che il nostro sudore evapora istantaneamente, una spossatezza ci attanaglia e nel giro di un quarto d’ora siamo costretti a rientrare in macchina a bere e mangiare qualcosa per rinfrancarci. E’ il 15 aprile e qui ci sono 30 gradi, non oso immaginare come sia d’estate! I cristalli di sale che si formano sulla terra in questa zona, danno un aspetto lunare a questo posto. Riprendiamo la macchina e arriviamo nel famoso Zabrinskie point, forse il luogo più speciale di questa Valle: qui ci si ritrova in un altro pianeta. Zabriskie Point è famoso per la bellezza del paesaggio di origine sedimentaria, vulcanica ed erosiva: questi sedimenti di cui è composto provengono da un antico lago, chiamato Furnace Creek, prosciugatosi 5 milioni di anni fa, molto tempo prima della formazione della Valle della Morte. A causa della deviazione di un vicino canale d’acqua, oggi questo paesaggio corre il rischio di erosione.

Il nome Zabriskie deriva da Christian Brevoort Zabriskie, che nei primi anni del XX secolo fu vice-presidente e general manager della Pacific Coast Borax Company, di cui accennavo sopra. Questa località deve anche la sua fama all’omonimo film diretto da Antonioni nel 1970. Proseguiamo verso l’ultima tappa della Valle, la cosiddetta Dante’s View: Dante’s View (Veduta di Dante) è una terrazza belvedere posta a 1.669 metri, dalla parte Nord del Coffin Peack (Picco della Bara), in cresta alle Black Mountains (Montagne Nere), approssimativamente a 40 chilometri da Furnace Creek (Torrente della Fornace).

Da questo elevato punto a Nord si vede una parte del Devil’s Golf Course (Campo da Golf del Diavolo), che sembra una grande brillante onda marina spumeggiante e invece è solida salgemma (halite). Questa crosta di sale è spessa circa da 0,90 a 1,8 metri e i suoi contorni cambiano aspetto quando raramente piove durante la stagione invernale. Allora si formano delle piccole pozze di acqua nelle quali il sale si scioglie per cristallizzarsi di nuovo appena sale la temperatura e l’acqua evapora nella stagione estiva. A Nord-Ovest direttamente sotto a Dante’s View c’è Badwater. Nell’aprile del 1926, alcuni sovraintendenti di finanza della Pacific Coast Borax Company e uomini d’affari della ferrovia informati del potenziale turistico della Valle della Morte, stavano cercando una posizione con la migliore vista sulla Valle della Morte. Giunti su questo picco lo scelsero all’unanimità nominandolo Dante’s View[2].

Decidiamo di ripartire poiché non sappiamo esattamente quanto lungo è il tragitto per Las Vegas. Lungo la strada incrociamo pochissimi autoveicoli, il paesaggio è sempre mozzafiato, mi immagino che, da un momento all’altro John Wayne arrivi in groppa al suo cavallo offrendosi di scortarci fino in città. Oltrepassiamo un centro abitato che incute un po’ di timore, Pahrump. Qui cominciano a profilarsi i casinò, che insegne luminose pubblicizzano nei bordi della strada principale. L’ambiente naturalistico è abbastanza monotono e non cambia molto, km e km di deserto, cactus, joshua tree…

In serata arriviamo a Las Vegas, che intravediamo già parecchi kilometri prima. L’agglomerato urbano di questa città è un’oasi in mezzo al deserto: per molte miglia non si incontra nemmeno una casa e tutto ad un tratto appare, come in un miraggio, il groviglio di luci stratosferiche che illuminano esageratamente questo posto di perdizione! Personalmente rimaniamo colpiti favorevolmente da Las Vegas, capitale del gioco d’azzardo, degli spettacoli per adulti (e anche della prostituzione anche se nella contea è illegale) e dello shopping!. Giungiamo subito al nostro albergo, lo Stratosphere, che è situato quasi alla fine della Strip, la via principale della città. Ci consegnano le chiavi della camera, prenotata precedentemente via internet ad un prezzo concorrenziale, poco meno di $ 40.00. Qui il prezzo delle camere triplica nel w-end, ma durante la settimana è piuttosto basso. Siamo sfiniti ma decidiamo di uscire: siamo a Las Vegas, non si può non visitarla di notte!!! Prendiamo un bus che ci porta in centro e cominciamo a girovagare con la testa rivolta verso l’alto, non sapendo esattamente cosa guardare dato che qui è tutto uno sfavillare di luci, colori, suoni che caoticamente si intersecano! Vediamo il Treasure Island, il Ceasar, il Flamingo, il Venetian, il Luxor, il Mandalay, e lo splendido Bellagio, l’hotel più famoso e rinomato di Las Vegas. Ci fermiamo ad ammirare lo spettacolo delle fontane del Bellagio che circa ogni mezz’ora viene riproposto. Proviamo a giocare solo $10.00 alle slot machine ma non vinciamo nulla…notiamo però la febbre dei giocatori che con la carta di credito “al guinzaglio” perdono delle fortune. Qui non esistono il giorno e la notte, tutto continua a girare sempre, ininterrottamente, e instancabilmente…alle 2 del mattino ci trasciniamo in hotel, io sono cotta a puntino, la sveglia rimane inattiva per una volta!

16 APRILE: Las Vegas – Grand Canyon (433 km)

Oggi ci aspetta la visita al Grand Canyon, una delle meraviglie naturali più belle del mondo. Ci alziamo con calma e dopo una buona colazione da Starbucks decidiamo di fermarci in un outlet per cercare dell’abbigliamento tecnico a buon prezzo, dato che anche il cambio dollaro-euro è a nostro favore. Sfortunatamente, un po’ anche per la fretta che ci perseguita, non troviamo nulla: io comunque non me ne vado senza un ricordino, un paio di scarpe della Puma e un cappellino della Levi’s!

Partiamo nel pomeriggio, un po’ tardino nella tabella di marcia, ma decidiamo di rimanere due notti al Grand Canyon, anche perché Gabriele, giustamente, è stufo di correre di continuo e vuole godersi un po’ di pace e tranquillità. Imbocchiamo la statale 93 che passa accanto a Lake Mead National Recreation Area, dove c’è la famosa Hoover Dam (diga di Hoover), nei pressi di Boulder City, che permette a Las Vegas di essere illuminata a giorno per tutta la notte. Questa è una zona molto bella, il colore rosso acceso della roccia risalta il blu intenso dell’acqua e crea una piacevole concordanza di toni. Il paesaggio in questo tratto di strada è sempre straordinario, desertico ma con qualche oasi di verde creata dai centri abitati che in questa zona sono più frequenti. Passiamo accanto all’ Historic Route 66, nel tratto che collega Kingman a Seligman, senza accorgercene: avremmo potuto percorrere un pezzo di questa rotta storica invece percorriamo la HW 40 che copre lo stesso percorso in un’ora in meno: porca miseria, ora come ora mi mangio le mani! Questa è una delle conseguenze della perdita della mia amata Lonely Planet! Sigh sigh…

Proseguiamo per l’HW 40 fino a Williams dove svoltiamo a sinistra nella statale 64(180)…non manca molto ma ormai è buio e non ci siamo mai fermati da Las Vegas, un tour de force ! Un po’ preoccupata telefono all’hotel che abbiamo prenotato dall’Italia, lo Yavapay Lodge all’interno del parco. La receptionist, molto gentile, mi rassicura. Arriviamo a Tusayan, unico centro abitato (o quasi) situato subito fuori l’entrata del Grand Canyon South Rim. Troviamo un Mc Donald’s e ci sbaffiamo un panino velocemente, siamo stanchi e vogliamo arrivare in camera al più presto. Ci rendiamo conto che siamo entrati nella riserva Navajo, qui non vige l’ora legale ma solo quella solare, quindi mandiamo indietro le lancette dell’orologio di 1 ora, che bello! Il buio pesto non ci permette di intravedere il Canyon che possiamo solo immaginare, arriviamo in camera sfatti, lasciandoci cullare all’istante dalle braccia di Morfeo…

17 APRILE : Grand Canyon

L’UNESCO ha inserito il parco tra i Patrimoni dell’umanità.

Il Grand Canyon – che in realtà è un esteso sistema di canyon collegati – non è il più grande, né il più profondo del mondo, ma è considerato prezioso per la combinazione di grandezza, profondità ed esposizione delle stratificazioni colorate di rocce che risalgono al periodo Precambriano (archeozoico). Ci attende un volo in elicottero prenotato dall’Italia, con la compagnia Papillon. Il piccolo aeroporto è a Tusayan, quindi dobbiamo fare solo pochi km per arrivarci. Avevamo scelto il volo delle 9, così da avere poi tutto il giorno a disposizione. Nel piccolo hangar ci mostrano un filmato, ci smistano in base al peso e quando mi accorgo che mi consegnano il numero 1, quello da co-pilota, mi viene un colpo! Gabriele sembra un bambino il giorno di Natale, i suoi occhi brillano come la neve che durante la notte è scesa a formare un sottile manto.

Arriva il momento di salire e i nostri cuori battono all’impazzata, cominciano a sudarci le mani e un’espressione da beoti si incolla alle nostre facce! Ché dire…un’esperienza come questa va vissuta sicuramente, anche perché in questo modo si può comprendere l’immensità e la maestosità del Grand Canyon. Io sono talmente emozionata che mi commuovo, non trovo le parole per esprimere le molte emozioni e sensazioni che mi colmano l’anima. Una tale botta di vita si vive poche volte nel corso dell’esistenza…

Le pareti del Canyon si aprono a strapiombo sotto di noi all’improvviso, una visione imponente appare lasciandoci senza fiato!

Il volo dura mezz’ora, al rientro siamo estasiati e pronti per cominciare a visitare i numerosi point del parco. Decidiamo di percorrere il lato ovest del south rim, che dallo Yavapai point si dipana fino al Desert View. I point intermedi che visitiamo tutti sono il Mather point, lo Yaki point, il Grandview point, il Moran point, il Lipan point ed infine il Navajo point.

Al Desert view point ammiriamo la torre di controllo opera dell’architetto Mary Collter, una torre di ispirazione indiana dove all’interno si possono ammirare alcuni affreschi Hopi. Nel 1930 è stata assunta dalla ditta Fred Harvay Co. Per designare un negozio di souvenir e punto di ristoro per turisti.

Ognuno di questi punti va visitato perché mostrano il canyon da varie angolature.

Ammiriamo uno spettacolare tramonto che ci carica di energie positive e ci accingiamo a cenare da Pizza Hut a Tusayan, dove conosciamo una simpatica coppia di ragazzi italiana che girano senza meta per gli USA. E noi a farci mille problemi perché non riusciamo a rispettare il programma di viaggio che c’eravamo imposti??? Così dopo una lunga consultazione tête-à-tête, la famiglia all’unanimità decide di escludere lo Yellowstone N.P. Dal suo giro, scelta rivelatasi azzeccatissima.

Animali avvistati durante il giorno: bighorn sheep (ovvero capra di montagna, una specie di ariete), mule deer (ovvero un tipo di capriolo che bruca con non curanza ai lati delle strade del parco), scoiattoli di tutti i tipi!

A nanna presto…

18 APRILE: Grand Canyon – Canyon de Chelly (283 km)

In questa giornata ci accingiamo a percorrere il lato est del South rim (cioè della sponda sud del Grand Canyon). Il Noth Rim è il lato più selvaggio e meno turistico del parco, d’inverno chiude al pubblico perché essendo più elevato è spesso innevato. Per visitare il lato est prendiamo la navetta gratuita che ferma in ogni point, poiché questo tratto è vietato ai veicoli privati. Il tempo è meraviglioso, come in tutto il corso del nostro viaggio fortunatamente… Soprattutto qui al Grand Canyon troviamo delle giornate freddine ma molto limpide. Il bello di visitare i Parchi durante la bassa stagione è proprio questo, non si soffoca dal caldo e la calura non appanna la visibilità, e soprattutto non siamo contornati da orde di turisti che invadono queste zone durante l’estate!

Saliamo sulla navetta e ci fermiamo a Maricopa point, Hopi point, Mohave point, Pima point ed infine a Hermits Rest dove troviamo un piccolo punto di ristoro e ci beviamo un caffè. In uno di questi punti avvistiamo dal bus dei Condor che sorvolano il canyon: in men che non si dica ci catapultiamo giù e attendiamo fiduciosamente l’avvicinamento di questi splendidi rapaci. In questo parco ne sono rimasti ormai solo una settantina di esemplari…

Dopo poco uno di essi ci svolazza davanti e noi in perfetto stile giapponese iniziamo a fotografarlo senza sosta…! Nel primo pomeriggio partiamo per raggiungere il Canyon de Chelly, un parco che abbiamo aggiunto in sostituzione allo Yellowstone. Percorriamo la 264 imboccata a Cameron, poi la 191 fino a Chinle. Il paesaggio in questo tratto toglie il fiato per la sua bellezza: si percorre la riserva indiana Hopi e Navajo, che sono recintate con il fil di ferro. Un deserto rosso fuoco costituito da formazioni rocciose di vari tipi ci attornia per miglia e miglia, qualche cavallo selvaggio e poche mucche che brucano dei fili d’erba secca contornano la strada. Leggiamo che la statale asfaltata è del Governo, mentre le strade sterrate laterali sono degli indiani e per utilizzarle serve un loro permesso. Questi sono luoghi mistici, è rimasto ancora qualcosa nell’aria dell’ascetismo di questi popoli, ormai ridotti a vivere in ritagli di territorio che non hanno neppure scelto! Nei pochi incontri che abbiamo fatto con i nativi siamo rimasti positivamente colpiti per la calma e la riservatezza con cui approcciano, nonostante abbiano dovuto adattarsi ad un grande cambiamento di vita.

A Chinle cerchiamo un hotel ma i prezzi purtroppo non sono molto convenienti. Scegliamo, tra poche alternative, l’Holiday Inn Canyon de Chelly, una magnifica struttura che per una notte ci chiede $116.87. In queste zone si pagano, oltre alle tasse statali, anche quelle dei Navajo! La sera ceniamo dentro l’hotel anche perché in questa zona c’è veramente molto poco, un benzinaio, un’immancabile Mc Donald’s e le baracche dove vivono i nativi.

Un lettone king-size a testa ci aspetta!!!

19 APRILE : Canyon de Chelly –Monument Valley – Page (342 km)

Di buon mattino decidiamo di percorrere una delle due strade del parco e ci fermiamo in un punto per imboccare il sentiero che ci porterà sul fondo del Canyon dove si possono ammirare delle antiche abitazioni di un popolo antecedente ai Navajo, gli Anasazi. Iniziamo a scendere attorniati da uno splendido paesaggio dipinto di rosso e verde…in questo periodo dell’anno la vegetazione è in piena fioritura, d’estate invece tutto è più brullo. Non ci mettiamo molto ad arrivare sul fondo… Soprattutto perché abbiamo disceso il canyon. Incontriamo dei giovani indiani che vendono dei manufatti e compriamo una roccia piatta dipinta a mano con dei simboli che lui ci spiega prontamente. Gabriele naturalmente si dovrà portare “la piera” sul groppone al ritorno, lungo tutta la salita che ci aspetta!…queste mogli incontentabili!

Le costruzioni degli Anasazi sembrano un presepe incastonato in un’alta parete di roccia liscia, rimaniamo ad osservarle per un po’, poi prendiamo la via del ritorno, con mia somma preoccupazione per l’ascesa che mi aspetta!…almeno smaltisco un po’ di cibo malsano assunto da svariati giorni.

Ripartiamo verso una delle mete più ambite, la Monument Valley, che in circa due ore e mezza raggiungiamo. La Monument Valley è un’icona degli Stati Uniti occidentali. Il pianoro desertico è in realtà di origine fluviale e si trova al confine tra Utah e Arizona in un’area abbastanza isolata quanto estesa che dista più di 70 km dalla cittadina più vicina: Kayenta. La strada che conduce alla Monument Valley nella parte terminale è altrettanto famosa: essa segue un percorso rettilineo in leggera discesa che dà al viaggiatore l’impressione di calarsi all’interno della valle. La strada principale che conduce al luogo è la Highway 163. Il territorio è prevalentemente pianeggiante ad eccezione del fatto che la pianura è cosparsa da una sorta di guglie dette butte o mesas. Questi costoloni naturali formati da roccia e sabbia hanno la forma di torri dal colore rossastro (causato dall’ossido di ferro) con la sommità piatta quasi orizzontale; alla base si accumulano detriti composti da pietrisco e sabbia. Io e Gabri iniziamo a fischiettare i famosi temi dei film di Sergio Leone, composti da Morricone…ridiamo a crepapelle perché ci sembra di essere in un’atmosfera irreale, non ci rendiamo realmente conto del posto in cui siamo! Entriamo alla Monument, $ 5.00 a testa, in questo parco si paga l’ingresso perché non è governativo ma degli indiani Navajo. All’interno vi hanno costruito un resort magnifico con ristorante e negozio di lusso annessi. Da qui si gode di una vista spettacolare! Le alternative per visitare questa valle sono due: percorrere lo sterrato principale con il proprio veicolo (tua responsabilità se succede qualcosa!!!) oppure affidarti ad un tour con gli indiani che ti portano in zone inaccessibili. Noi decidiamo per la prima alternativa anche per andare un po’ al risparmio, insomma, non siamo in viaggio di nozze e non si può sempre strafare!!! La strada sterrata è un po’ difficoltosa da percorrere, soprattutto se si possiede una macchina normale, non una jeep. Ci fermiamo, anche qui, negli svariati punti d’osservazione, e compriamo un po’ di regalini per amici e parenti, nelle bancarelle degli indiani che sono posizionate in varie parti. In circa 2/3 ore visitiamo il parco, in seguito ripartiamo per raggiungere Page, cittadina nel vero senso del termine. Ripercorriamo la statale 163, poi la 160 ed infine la 98. La zona è molto bella, il deserto rosso fa sempre da padrone. Giunti a destinazione troviamo subito in centro un discreto Motel Rodeway Inn a $ 45.00 a camera, gestito da una simpatica famiglia di indiani (dell’India questa volta). La sera facciamo una camminata in paese e ceniamo in una birreria. A nanna presto, come sempre, per recuperare le energie!

20 APRILE : Page – Zion N.P. (223 km)

Un’ottima colazione a buffet ci attende e dopo aver lavato la biancheria sporca nella washing machine a gettoni del motel ci incamminiamo verso il centro per comperare un cappellone da cowboy per il mio papà in un negozio che avevo adocchiato la sera prima. Esco dal negozio con un cappello da cowgirl anche per me naturalmente! In seguito facciamo un giretto tra le varie agenzie che organizzano il tour all’Antelope canyon, scegliamo quella che per noi è la migliore, e decidiamo per il tour di mezzogiorno, l’orario più consigliato per l’incidenza del sole che entra all’interno della cavità creando magnifici effetti di luci-ombre-colori. Questo canyon Infatti è totalmente gestito dagli indiani Navajo che con le loro guide ti portano a visitare questa meraviglia della natura. Siamo scortati da una donna indiana di circa 45/50 anni, con le sembianze di un folletto, la quale prontamente guida un Bigfoot attraverso un percorso sabbioso lungo pochi km. Sembra molto a suo agio quando salendo sulla jeep si posiziona 2/3 cuscini sul sedile in modo da riuscire a vedere oltre il volante…un po’ meno tranquilli risultiamo essere io e Gabriele, soprattutto perché siamo seduti davanti con lei!!!

La parte bassa di questo canyon è una stretta via da percorrere a piedi completamente avvolta da pareti sinuose, incredibilmente levigate dalla sabbia dal vento e dall’acqua, che assumono tutte le tonalità del giallo, del rosso e dell’arancione.

Nelle giornate di sole, verso mezzogiorno per una mezzora circa avviene il miracolo: il sole attraversa le sottili feritoie in alto, alla congiunzione delle pareti a picco, ed entra nel canyon sotto forma di coni di luce.

Per i Navajo questo posto è sacro, e noi ne comprendiamo in motivo, veniamo rapiti da un’atmosfera magica, soprattutto quando un’altra guida inizia a suonare il loro tipico flauto dolce…che sensazioni!

Rientriamo dal tour dopo 2 ore, presi dalla fame mangiamo da Taco Bell, tanto per cambiare…che non risulta essere poi così malvagio. In seguito ci fermiamo a visitare la Glen Canyon Dam, una grande diga che permette al Lake Powell di esistere. Il Lake Powell è uno dei più grandi laghi artificiali degli Stati Uniti. In realtà, dove oggi si possono ammirare le acque del lago, un tempo si potevano contemplare gli scenari tipici dei canyon scavati nell’altopiano del Colorado. Solo nel 1957, a seguito della costruzione della diga di Glen Canyon, le acque invasero le strettissime gole del canyon creando l’attuale lago. In prossimità del lago hanno creato una Recreation Area, nella quale si può noleggiare una House boat per trascorrere le vacanze, oppure soggiornare in una delle strutture attrezzatissime che pullulano lungo le sponde. Si è circondati da un deserto di sabbia e rocce di arenaria rossa interrotto da una screziatura di un blu profondo che crea degli effetti ottici spettacolari, da pianeta rosso!

Il nostro itinerario ci fa proseguire nel pomeriggio verso lo Zion N.P., percorrendo semplicemente la statale 89. Passiamo dall’Arizona allo Utah, lo stato dei mormoni. Il territorio fu sotto il governo spagnolo fino al 1811 e poi di quello messicano fino al 1848. Dopo la cessione agli Stati Uniti ebbe una forte immigrazione di Mormoni che nel 1849 arrivarono a creare lo stato mormone di Deseret, fondando la capitale Salt Lake City. Tuttavia la fondazione di tale stato non fu mai ratificata dal Congresso degli Stati Uniti che, anzi, lo elevò a territorio nel 1850, riducendone quindi la superficie, fino ai confini attuali. Forti furono le opposizioni del Congresso per il suo ingresso nell’Unione, che fu sanzionato solo dopo che furono modificate alcune dottrine mormone (come la poligamia); il 4 gennaio 1896 venne ammesso come 45° stato dell’Unione. Attraversando questo tratto si nota visibilmente come l’ambiente cambi considerevolmente: dal deserto brullo e arido dell’Arizona raggiungiamo un territorio che si fa sempre più verde e lussureggiante; ci fermiamo a Kanab, un piccolo paese mormone in perfetto stile cowboy. Sembra di essere in un set cinematografico! Questa cittadina è la più grande che si incontra in questo tratto di strada. Dopo alcune foto ci sgranchiamo le gambe e ripartiamo… Troviamo dei bisonti al pascolo e Gabriele già si pregusta la cena! Attraversiamo lo Zion N.P. Con la macchina e per prima cosa cerchiamo un alloggio. Dopo alcuni tentativi falliti a causa dell’elevato prezzo (siamo all’interno del parco, cosa pretendiamo!!!), giungiamo ad Hurricane, una cittadina a circa 25 km dal parco. Appena avvistiamo un Motel Super 8 ci fermiamo, felicissimi per i $ 50.00 che ci richiedono: anche qui è compresa nel prezzo un’abbondante colazione a Buffet. Ci sistemiamo e rimaniamo al motel per riposarci un po’…

21 APRILE: Zion N.P. – Bryce N.P. (185 km)

Il Parco nazionale dello Zion protegge un ambiente unico dove si incontrano imponenti formazioni rocciose e profonde gole incise e modellate dalla forza delle acque del Virgin River e dei suoi affluenti. L’azione erosiva dell’acqua ha evidenziato l’antichissima storia geologica di questa regione, che può essere letta nelle pareti di roccia dei canyon. La varietà di ambienti naturali garantisce inoltre un’enorme varietà di flora e fauna, tra cui numerose specie a rischio di estinzione, che nel parco sono protette e tutelate. Oltre alle ricchezze naturali, il parco di Zion può vantare una presenza millenaria dell’uomo che in questi canyon ha lasciato numerose tracce del suo passato. Il nome Zion, adottato ufficialmente per designare il canyon nel 1918, viene fatto risalire a Isaac Behunin, uno dei primi coloni mormoni insediatisi nel canyon nel 1863, il quale riteneva di aver trovato in quel luogo la Sion descritta dal profeta Isaia nella Bibbia. Nomi di derivazione biblica hanno anche molte delle formazioni di roccia che costituiscono le principali attrazioni del parco. Formazioni come i Templi della Vergine, la Sentinella, i Tre Patriarchi devono infatti i loro nomi ad un pastore metodista che visitò l’attuale zona del parco nel 1916[3]. Anche questo parco si visita con una navetta gratuita che si ferma in svariati punti e passa frequentemente, ogni 10/15 minuti circa. Per apprezzarlo al meglio è necessario fare qualche escursione perché le cose più belle e particolari si possono osservare all’interno, non dalla strada principale. Scegliamo per prima cosa di visitare le Cascate, anche qui denominate Lower e Upper, come allo Yosemite. Il paesaggio che ci attornia è bellissimo, ci si ritrova immersi in un paradiso terrestre: le rocce hanno una gradazione di colore che va dal grigio al rosso, gli alberi crescono in qualsiasi fenditura trovano libera e svariati rigagnoli riescono a formare delle splendide cascate. Io ho la sfortuna di essere allergica ad una specie vegetale che in questo periodo è in piena fioritura: con mio sommo piacere mi ritrovo a starnutire in continuazione, per di più senza un misero antistaminico passo la giornata in uno stato di trance. In seguito imbocchiamo un altro sentiero che sale parecchio: l’hidden canyon trail. Lo percorriamo per un bel po’ anche perché un simpatico signore del Wyoming ce lo consiglia, sottovalutando il fatto che noi siamo degli scarponi e forse non troppo allenati! ..in effetti dopo un bel tratto decidiamo di ritornare indietro sacrificando la splendida vista che ci avrebbe atteso all’arrivo. Ma come si fa senza acqua né cibo, con una bomba ad orologeria di starnuti, a proseguire un così arduo sentiero?. Ci fermiamo in un punto di ristoro per pranzare, poi riprendiamo la macchina perché ci aspettano 185 km per raggiungere il Bryce Canyon National Park, percorrendo la statale 9, poi la 89 ed infine la 12. Inutile aggiungere che le strade sono sempre panoramiche con paesaggi mozzafiato tutt’intorno e soprattutto pochissimi veicoli. A pochi km dal parco si cominciano già a intravedere gli Hoodos, le tipiche formazioni rocciose di questo originalissimo parco. Giungiamo in prossimità dell’ingresso, dove ci sono, come di consueto, un benzinaio, un emporio che vende di tutto un po’, un fast-food e un hotel Rubys Inn con ristorante annesso. Entriamo a chiedere un preventivo all’hotel e ci viene un colpo… Poco distante fortunatamente troviamo il Bryce View Lodge, una struttura semplice ma ad un prezzo accettabile, per due notti paghiamo $ 147.88. Espletate le formalità alla reception e scaricate le valige corriamo a vedere il tramonto all’anfiteatro, uno dei punti panoramici più suggestivi. Ormai il sole è già sceso, ma rimaniamo comunque estasiati davanti a queste formazioni rocciose che sembrano tante stalagmiti unite una all’altra. Ritorniamo in camera e dopo una rilassante doccia ci incamminiamo verso l’unico ristorante cui accennavo prima: io mi mangio una specie di stufato molto buono, Gabriele si sbaffa la sua solita beef steak well done. Felici e soddisfatti ce ne ritorniamo in camera a ronfare.

22 APRILE: Bryce Canyon National Park

Abbiamo tutta la giornata a disposizione per visitare il parco, così decidiamo di percorrere il Faryland Loop Trail, un sentiero di 14 km, una passeggiata insomma! Io ho la brillante idea di prendermi un antistaminico dopo colazione, nonostante avessi letto sulle controindicazioni gli effetti indesiderati cui sarei andata incontro, uno fra questi la sonnolenza. Appena imbocchiamo il sentiero mi sento subito un torpore che mi pervade, se avessi potuto mi sarei buttata a terra e avrei iniziato a ronfare, con il pericolo che qualche orso mi facesse visita. La sonnolenza dura all’incirca ¾ del percorso, vago come uno zombie rispondendo a monosillabi a Gabriele che è fresco e arzillo. Nonostante questo il paesaggio che ci circonda non può lasciarmi indifferente, sembra di essere atterrati su Marte, il pianeta rosso; siamo attorniati dagli Hoodos di varie dimensioni, il dislivello del sentiero è alternato, quindi riusciamo a calibrare le energie. Dopo un po’ facciamo uno spuntino con dei sandwich al tonno (alimentazione base di questo viaggio!), e ci fa visita un ospite, un simpatico scoiattolo che non ci lascia in pace finché non finiamo di mangiare. Riprendiamo il cammino e ad un certo punto arriviamo al Tower Bridge, una formazione rocciosa che somiglia al ponte di Londra. Al rientro dalla camminata ho solo le forze per buttarmi a letto e fare un sonnellino prima della doccia. In seguito decidiamo di visitare tutti i vari point del parco che sono uno migliore dell’altro: diciamo che la zona più suggestiva è quella del cosiddetto Anfiteatro, all’altezza di Sunset, Sunrise ed Ispiration Point. Per cena questa volta proviamo l’unica alternativa al ristorante del giorno precedente, il fast-food. Io mangio una pizza abbastanza buona, Gabriele un hamburger. Poi a letto presto, come sempre!

23 APRILE: Bryce Canyon N.P. –Capitol Reef N.P. (178 km)

Ci alziamo all’alba per ammirare il sole che riflette i suoi raggi sui pinnacoli creando un effetto ottico inimmaginabile. Facciamo una prima tappa al Sunrise point, abbastanza affollato, poi ci spostiamo all’ Ispiration point, ancora più bello. Siamo ancora intontiti dal sonno però emozionatissimi di vivere momenti così unici…

Riprendiamo la macchina, dopo aver fatto scorta di cibarie, per raggiungere il Capitol Reef National Park: aggiungiamo questo parco, meno famoso ma degno di nota, perché ci accorgiamo che abbiamo un giorno in più. In effetti avendo tolto lo Yellowstone dall’itinerario originale, riusciamo a vedere abbastanza bene questa zona dello Utah. Imbocchiamo la statale 12 che giunge direttamente al parco. Percorriamo una scenic drive affascinante che attraversa Escalante Petrified Forest State Park. Questa zona fa parte del Grand Staircase Escalante National Monument, istituito dal presidente Bill Clinton negli anni ’90: il Grand Staircase (letteralmente grande scalinata) è un’immensa sequenza di strati sedimentari che si distende dal parco nazionale del Bryce Canyon al Grand Canyon passando attraverso il parco nazionale di Zion. Gli strati più vecchi di questa sequenza sono visibili al Grand Canyon, gli strati intermedi allo Zion e i più giovani sono visibili al Bryce Canyon[4].

Il Capitol Reef si estende in senso longitudinale lungo una gigantesca e sinuosa fenditura della crosta terrestre che si sviluppa per oltre 160 chilometri, attraverso il territorio dello Utah centro-meridionale. Questo impressionante ambiente roccioso, originatosi circa 65 milioni di anni fa dalle stesse immani forze che successivamente diedero luogo al sollevamento dell’altopiano del Colorado, è conosciuto come Waterpocket Fold. Il parco occupa tutta la citata fenditura e le sue diramazioni laterali, con le spettacolari e colorate pareti rocciose, i monoliti isolati e i vari canyons convergenti verso i bacini collettori. Non mancano numerosi archi naturali.

Per quanto concerne l’aspetto storico ed antropologico del parco, degne di nota sono le incisioni rupestri – petroglifi – e i pittogrammi, ancora visibili lungo il corso del fiume Fremont, fatti dagli indiani che vissero in questa zona svariati secoli fa.

I primi abitanti della regione appartenevano a gruppi etnici sulla cui identità ancora si discute: secondo alcuni erano autoctoni, secondo altri si erano stabiliti in un secondo tempo in questa vallata; pare certo che agli inizi del VI secolo della nostra era vennero in contatto (o in contrasto) con gli indiani Anasazi, principale ceppo indiano della Utah meridionale. I segni della loro presenza nella valle del Fremont, fatta eccezione per le citate pitture ed incisioni, sono pressoché inesistenti.

Intorno al 1250 d.c. Tutta l’attuale regione del Parco venne abitata dagli indiani Ute principalmente cacciatori e raccoglitori. Verso la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, i pionieri mormoni vivevano miseramente nel paese di Fruita, così chiamata perché il loro più grande mezzo di sostentamento era la coltura di frutta. Nonostante Fruita non sia più abitata, i suoi frutteti, adesso curati dal parco nazionale, producono ancora frutti deliziosi. Durante la stagione idonea, è possibile cogliere mele, pere, ciliege, pesche e albicocche proprio nel parco![5]

Ci fermiamo troppo poco in questo parco per ammirarlo pienamente: iniziamo a percorrere un sentiero che porta ad un arco di roccia ma torniamo indietro perché perdiamo l’orientamento e siamo in ansia dato che vogliamo arrivare il più possibile vicino a Salt Lake City in serata.

Rubiamo qualche foto qua è là poi riprendiamo la statale 24 poi l’Highway 15 che sale fino a Salt Lake City. La nostra intenzione è quella di fermarci un po’ prima di Salt Lake in modo da proseguire il giorno dopo con tutta la calma. Dopo miglia e miglia di deserto iniziamo ad incontrare qualche paesino molto isolato e pure un po’ squallido: il problema, riscontrato più volte durante il viaggio, è che un nome di paese sulla cartina equivale il più delle volte a quattro agglomerati di case con un benzinaio, molte volte sprovvisto di una struttura dove dormire. Ci fermiamo in una specie di città fantasma, dove tra l’altro soffia un vento fortissimo, e troviamo un misero motel che ci fa decidere di proseguire senza neanche entrare a visitarlo. Inoltre questo posto pullula di camionisti dalle facce brutte e cattive, indi per cui Gabriele fa retro-marche, e inforca nuovamente l’hw. Facciamo un’altra tappa a Provo, città universitaria che guarda caso proprio in quella settimana ospitava tutti i parenti dei prossimi laureandi: che fortunati! Una segretaria di un motel ci consiglia di andare alla successiva città perché a Provo non avremmo trovato nulla, e aveva ragione!

Gira che ti gira giungiamo a Lehi, periferia di Salt Lake City. Il mio maritino mi toglie 10 anni di vita quando imbocca una highway all’incontrario…fortunatamente poco trafficata, così facendo una veloce manovra salva le nostre vite e la patente!

Dormiamo in un semplice ma pulito Motel 6 per la modica somma di $ 51.50. Una splendida cena al fast food ci attende!

24 APRILE: Salt Lake City

Essendomi informata in varie brochures, decidiamo di sfruttare la giornata visitando Antelope Island, la maggiore delle 12 isole del Grande Lago Salato, lunga 24 km e larga 6. Fu scoperta nel 1845 da John Fremont e Kit Carson: i due pionieri videro saltellare nell’isola numerose antilopi, da qui deriva il suo nome. Ora l’isola è collegata alla terraferma da una lunga carreggiata lunga 11 km. Sono stati importati parecchi bisonti che scorazzano liberi al pascolo e fanno prendere paura ai turisti come noi, soprattutto quando oltrepassano le strade. Visitiamo anche il Fielding Garr Ranch, costruito nel 1848 da un cowboy che volle far prosperare questa terra selvaggia: dopo un anno Garr riceve l’incarico di controllare le greggi della Chiesa dei mormoni[6].

Purtroppo il freddo e il maltempo non ci fanno apprezzare pienamente questa riserva che con l’aiuto del sole farebbe senz’altro un’impressione migliore.

Il lago salato sembra un po’ la laguna di Grado, un odore acre di salsedine e di alghe ci investe a tratti.

Nel pomeriggio decidiamo di cercare un centro commerciale per cercare un po’ di abbigliamento tecnico dato che il cambio a nostro favore ci farebbe risparmiare un po’. Ci informiamo ad un infopoint ed una signora ci consiglia di andare in un outlet molto famoso a circa una cinquantina di km. Tanto per cambiare maciniamo altri km fino a questo paesino che è una stazione sciistica molto popolare. Il centro commerciale ci piace, troviamo cose a buonissimo prezzo della Columbia e soddisfatti ritorniamo in città alla ricerca del Motel 6 vicino all’aeroporto che abbiamo fatto prenotare la sera prima alla receptionist dell’altro Motel.

Abbiamo un po’ di difficoltà a trovarlo, infatti ci fermiamo in due posti a chiedere, poi finalmente arriviamo a destinazione…ci spaventa un po’ il fatto che dobbiamo dormire sotto l’Highway, sentiamo continuamente enormi camion che sfrecciano sopra di noi e tra l’altro fanno vibrare un po’ la porta della camera. Furbamente dormo con i tappi, ma l’ansia di perdere l’aereo non mi fa dormire tranquillamente. Per cena mangiamo all’ultimo Fast food il solito panino, poi a nanna presto, l’indomani ci aspetta il volo interno alle 8:25 del mattino, inoltre dobbiamo consegnare la macchina due ore prima, quindi sveglia alle 4:00, sigh!

25/26 APRILE: Salt Lake City – San Francisco – Londra – Venezia

Che tour de force, in poche ore tocchiamo due stati, due continenti, tre nazioni e due regioni…insomma quasi il giro del mondo!

Fortunatamente fila tutto liscio, i voli partono in orario e nonostante lo sfinimento e il barcamenarsi da un aeroporto all’altro festeggiamo il nostro primo anno di matrimonio in volo, in territorio neutrale…!

Che dire, è stato uno splendido viaggio, soprattutto per la soddisfazione di cavarsela in ogni occasione, scoprendo anche se stessi e le proprie potenzialità nascoste, oltre ai magnifici posti e territori quasi incontaminati che l’America offre!!!


[1] Informazioni tratte dal sito it.wikipedia.org

[2] Informazioni tratte dal sito it.wikipedia.org

[3] Informazioni tratte dal sito it.wikipedia.org

[4] Informazioni tratte dal sito it.wikipedia.org

[5] Informazioni tratte dal sito it.wikipedia.org

[6] Usa Ovest- i parchi nazionali, Le guide Routard, 2004/2005



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