Nord ovest on the road
Nei controlli, sembra, sono diventati bravi e puntuali, ma l’organizzazione è sempre la stessa, e così quando mettiamo piede a terra, il nostro bagaglio non c’è. «E’ finito a New York – dicono -, dovete aspettare fino a domani». Poco male, siamo a San Francisco.
23/9, NEBBIA AL GOLDEN GATE Dopo una notte agitata, per forza, in Italia (e per i nostri corpi) era giorno, ci alziamo presto e partiamo per la nostra prima effettiva giornata di ferie. Del bagaglio non ci sono tracce, ma non ci preoccu-piamo. Colazione abbondante e molto calda perché abbiamo già assaggiato il vento gelido che arriva dal mare sferzando la baia nonostante sia solo il 23 settembre, e poi visita a Union Square, la piazza centrale di una città che ci appare subito inconfondibile e bellissima. Questa zona è piena di alberghi lussuosi, negozi e risto-ranti, ma le famose collinette che abbiamo visto tutti in tv rendono ondulato il paesaggio anche qui, in pieno centro. Per questo primo giro rinunciamo a prendere la Cable Car, il famoso tram in cui si può salire praticamente al volo aggan-ciandosi ai corrimano esterni, e decidiamo di camminare fino al mare. Attraversiamo tutta China-town (negozi e ristoranti, negozi e ristoranti) mentre il sole, final-mente, trionfa e rende l’aria molto più sopportabile. Anzi, dopo poco cominciamo a sudare, perché per arrivare al porto bisogna trottare parecchio, su e giù per le colline della città.
Verso le 11.30 approdiamo al Pier 39, sicuramente il molo più famoso del porto, dove ci aspettano, come sempre, negozi e ristoranti, ma anche una vista fantastica: infatti siamo al centro della baia di San Francisco, proprio di fronte all’isola di Alcatraz, una volta sede del carcere, e a sinistra del Golden Gate, forse il più ponte più famoso del mondo. Imbarcazioni non particolarmente costose ma nemmeno particolarmente curate si offrono di portarti a fare un giro per la Baia a prezzi decorosi, e così decidiamo di andare. Circumnavi-ghiamo Alcatraz, scattando un bel po’ di foto ai resti del carcere (non è mai scappato nessuno, raccontano, e non è difficile crederlo), poi raggiungiamo il Golden Gate. La zona del ponte, ma davvero solo lei, è preda di una nebbia fittissima che, quando arriviamo con la barca, ci avvolge completamente. Il sole scompare, il vento si alza e diventa gelido, mentre il suono sinistro di una sirena impazzita ci avverte che il ponte, anche se praticamente non si vede più, è ancora lì, proprio sopra di noi.
Conclusa la gita, con mani e nasi congelati torniamo in porto, dove dopo un meritato pasto a base di pesce (ottimo e non troppo caro, 36 dollari in due) scattiamo un po’ di altre foto ai leoni marini che sonnecchiano pigri e litigiosi all’interno dei moli. Prima di salutare il Pier 39 e tornare verso il nostro Hotel, stavolta utilizzando la Cable, ci fermiamo a comprare un po’ di frutta: per 4 pesche, 2 pere ed un grappolo d’uva ci chiedono 15 dollari. Affare fatto, purtroppo.
Tornati in albergo ci avvertono che del bagaglio non ci sono tracce: per fortuna che in quello a mano abbiamo tutto l’indispensabile (dentifricio, spazzolini, pettini, ecc.), ed un primo cambio, così possiamo stare tranquilli per qualche tempo. Ma quando anche il giorno dopo non si trova niente, «Spiacenti, non sappiamo dov’è» è la laconica risposta dell’ufficio Lost and found, iniziamo ad innervosirci. Mille telefonate non portano a nulla, quindi decidiamo di non farci rovinare le vacanze e ripar-tiamo. Di nuovo Union Square, qualche negozio (Niketown, stilisti italiani inavvicinabili, Disney e similari, intanto i soldi cambiano padrone), poi scegliamo di fare un salto nella Downtown, per scoprire com’è la città fuori dai classici itinerari turistici. Prendiamo la metro e andiamo a sud, verso il Golden Gate Park. Poi risaliamo la città a piedi, per oltre un’ora e mezzo. Un tragitto sfiancante, tutto un su e giù per le colline, ma che offre uno spaccato indimenticabile della città: strade drittissime, che si snodano per centinaia di metri tra salite e discese che ti permettono di ammirare chilometri di paesaggio. Stupende anche le case, alcune coloratissime, altre pastello, tutte basse, di legno, con piccolo porticato e scalette d’ingresso. Molte di queste abitazioni, anzi vie intere, esibiscono la rainbow flag, la bandiera dell’orgoglio omosessuale: disegnata nel 1978 da Gilbert Baker, artista gay nato proprio qui, è immediatamente diventata un simbolo della libertà sessuale. Concluso il giro, stanchissimi andiamo a mangiare una pizza e poi torniamo in albergo.
25/9, VERSO L’OREGON Il mattino successivo ancora nessuna notizia del bagaglio: ormai è uno stillicidio e decidiamo di rinunciare. «Mandatelo in Italia, se lo trovate, oppure tenetelo a San Francisco fino al nostro ritorno»: con queste parole ci liberiamo e partiamo. Comprata un po’ di biancheria, due felpe, calzini e magliette, e noleggiata la macchina (una stupefacente Dodge Intrepid con cambio automatico, per circa 50 dollari al giorno) puntiamo il muso verso nord: attraversiamo la città, passiamo sopra il Golden Gate (emozione zero, troppo traffico e nebbia), costeggiamo Oakland e Berkeley (sede della notissima università) e iniziamo la corsa verso la California del Nord e l’Oregon, la nostra nuova meta. Dopo una mezza giornata di macchina e 400 miglia tonde (circa 650 chilometri) arriviamo a Medford, dove dormiamo in un Motel 6 (una catena poco costosa e di discreta qualità).
Il mattino successivo, dopo un paio d’ore di una strada magnifica, che si snoda all’interno di un enorme bosco di alberi sempreverdi altissimi, arriviamo al Crater Lake: un gigantesco vulcano spento, il cui cratere è sede di un lago al cui centro c’è un’isola. Il lago, di un blu intensissimo mai visto, ha una profondità media di circa 400 ed al massimo è largo 6 miglia, circa 10 chilometri. Misure, numeri, che non spiegano quanto sia imponen-te, maestoso, impressionante.
Esaurita in mattina la visita ci dirigiamo verso est: saranno altre 400 miglia nell’interno dell’Oregon meridionale. I 650 chilometri più stressanti della nostra carriera di turisti: la prateria, gialla, piatta e sempre uguale, dove le strade drittissime sembrano non finire mai, ti inghiotte letteralmente. Puoi correre quanto voi, e noi lo faceva-mo, perché niente e nessuno ci intralciava, ma ti sembra di essere sempre nello stesso punto. Chilo-metri e chilometri così, ore trascorse in questa campagna, senza nulla che rompa la monotonia del paesaggio. Finché, poco prima delle sette di sera, arriviamo ad Ontario, proprio al confine con l’Idaho. Cena, e poi a nanna. Non prima però d’aver regolato gli orologi: infatti abbiamo abbandonato la zona del Pacific Time (nove ore in meno rispetto all’Italia) per entrare in quella del Mountain Time (un’ora avanti).
28/9, GEYSER A YELLOWSTONE Il mattino successivo ci alziamo presto e, dopo una pessima colazione, partiamo: dal parco nazionale di Yellowstone ci separano circa 350 miglia, e siamo ansiosi di arrivare. La strada è buona ed il paesaggio decisamente più vario: ondulato, verde, poi giallo, arancione, pure rosso fuoco: le tinte dell’autunno hanno incendiato la campagna e reso gradevole guidare in questa zona. L’Idaho offre un paesaggio interessante ma nessun posto che valga veramente la pena di visitare: l’unica curiosità è il Crater Moon, il cratere della luna. Una zona dove la terra è completamente nera e friabile, quasi sabbiosa, evidentemente di natura vulcanica.
Nel primo pomeriggio entriamo nel Montana, la temperatura e gli alberi sempreverdi testimoniano che cominciamo a salire: alle 15.30 siamo a West Yellowstone, stu-penda cittadina che ha sede all’entrata ovest del parco, ad oltre 2.000 metri d’altezza. Altitudine che si sente, anche sulla pelle: il freddo punge. Dopo un rapido giretto alla parte iniziale del parco (20 dollari l’ingresso, ma il biglietto vale una settimana), sufficiente per vedere i primi enormi bisonti americani guadare un fiume, andiamo a cercare un hotel. Scegliamo il Fairfield Inn: molto tipico, di legno, intimo, soprattutto caldo perché nelle camere l’aria condizionata spara aria bollente. Rilassati, andiamo a mangiare. Ci offrono carne di bisonte: è ottima.
Il mattino dopo rientriamo nel parco. Tempo cinque minuti e siamo bloccati in un ingorgo: colpa dei bisonti, of course, che invece di limitarsi ad attraversare la strada, decidono di percorrerla nel nostro senso di marcia, occupando entrambe le corsie. Dopo dieci minuti a passo… Di bisonte, in mezzo a queste bestie che possono raggiungere l’altezza di un uomo, finalmente riusciamo a farci largo e a ripartire. Sarà una giornata splendida, dove percorreremo circa 300 chilometri, in parte in mezzo alla neve, sconfinando nel Wyo-ming, in una natura selvaggia ed affascinante, tra boschi, cascate, laghi, animali di ogni tipo (aquile, cervi, alci, avvistiamo anche un lupo ed un orso nero) e geyser. Già, Yellowstone è famosa per le sue tantissime sorgenti di acqua calda sulfurea: ce n’è un po’ dappertutto, ma la più impressionante è quella chiamata Old Faithful. Ogni 94 minuti, con larga approssimazione, il Vecchio Affidabile (questa la traduzione del suo nome) spara un getto d’acqua bollente alto oltre 30 metri. Uno spettacolo che condividiamo con centinaia di altri curiosi.
Esaurita la visita al parco, che porta ancora le cicatrici di un incendio che nel 1988 ne devastò il 36% della superficie totale, usciamo. Non prima di aver lottato con altri bisonti, che evidentemente ignorano le norme del codice stradale, per avere via libera verso il Gate Ovest.
1/10, ECCO IL NEVADA Il mattino successivo accantoniamo l’idea di andare ancora verso nord, nel cuore del Montana, per visitare Little Big Horn, dove gli indiani, alleluia, le suonarono alle giacche blu di Custer, accoppandone oltre 250. Purtroppo la storia del bagaglio ci ha fatto perdere tempo, e non possiamo andare ancora ad est. Così ci dirigiamo verso sud e partiamo per quello che sarà lo spostamento più lungo di tutto il viaggio: 570 miglia (circa 920 chilometri) sulla I-15, un’autostrada dritta, veloce e poco trafficata che ci permette di attraversare nuovamente l’Idaho (ma da nord a sud) e tutto lo Utah (compresa Salt Lake City, capitale dello stato). Non ci concediamo tappe intermedie perché lo stato dei mormoni, seppur bellissimo, l’abbiamo già visitato in un precedente viaggio, che comprendeva anche gran parte del sud-ovest, Grand Canyon compreso. Dormiamo a Cedar City, città piccola e carina del sud dello Utah, e il mattino successivo, dopo aver attraversato il confine con il Nevada, alle 10.30 ecco Las Vegas. Anche qui eravamo già stati, ma l’incredibile Las Vegas Boulevard, con i suoi giganteschi e stravaganti alberghi, non può non stupirci ancora. Decidiamo di alloggiare al Luxor, hotel in stile egizio. Per 60 dollari a notte (una splendida camera doppia con due letti matrimoniali) dormiamo nella piramide, al 26° piano. Per raggiungerlo non si usano gli ascensori, ma gli inclinators, perché, giustamente, in una costruzione così si sale solo in diagonale. A sorprendere è invece il fatto che la piramide sia cava e che le stanze siano addossate alle pareti esterne; quando esci dalla tua camera ti ritrovi in un corridoio che si affaccia sul vuoto: sotto di te un buco di 70-80 metri, e poi un villaggio egizio ricostruito dove trovi ristoranti, negozi e, sotto ancora, l’immancabile casinò. Las Vegas è piena di alberghi come questo, enormi e surreali, ognuno con la propria caratteristica: il Venezia, con il Ponte di Rialto, San Marco ed i canali per le gondole (giapponesi in fila per farsi un giro), il Parigi con la Torre Eiffel, l’immenso Caesar’s Palace in stile impero romano (cui stanno costruendo a fianco pure un Colosseo), il New York con la statua della libertà, l’Exalibur con le sue torri colorate (ci abbiamo dormito nel 1999), l’Isola del Tesoro con un lago e i galeoni, il nuovo Alladin con il temporale che si scatena all’interno, e tantissimi altri. Ogni albergo è una specie di città: nel nostro abbiamo stimato ci fossero circa 4.000 camere (la conferma via Internet, sono 4.200), poi cinque ristoranti, un self-service gigantesco, una ventina di negozi. Pure una Wedding Chapel per chi vuole sposarsi in Nevada (abbiamo contato cinque matrimoni in due giorni), dove tutto è più facile. Anche divorziare, naturalmente. Ogni albergo ha le immancabili piscine in stile, e noi approfittiamo delle tre (circondate da colonnati e palme) che sono a disposizione dei clienti del Luxor per rilassarci e ricaricare le batterie in vista del ritorno alla base.
3/10, VIA DA LAS VEGAS Il mattino successivo mentre ci prepariamo a partire, in tv dà spettacolo il solito predicatore che avevamo già notato nei giorni precedenti: si chiama Benny Hinn (umorismo involontario?), si veste come un dandy, ma tutto di bianco, e davanti a migliaia di persone compie ogni sorta di miracolo. Fa camminare le persone sedute sulle sedie a rotelle, ne guarisce altre affette da malattie mortali. Ma soprattutto si diverte e farle svenire, a decine, semplicemente sfiorandole sulla fronte. Un grande, atteso pure in Europa, dicono gli spot, per il mese di novembre.
Salutato per sempre Benny lasciamo Las Vegas, stranamente sotto la pioggia. A giudicare dall’arido deserto che circonda la città per centinaia di chilometri, dev’essere un evento raro. Noi ne percorriamo un lungo tratto, costeggiando una Death Valley, così chiamata anche perché è stata la tomba di tanti clandestini messicani che cercavano un passaggio sicuro per arrivare in California, immersa nella nebbia. A mezzogiorno siamo al limitare delle gigantesche zone militari, dove in passato sono stati effettuati anche alcuni esperimenti nucleari. Ad un tratto bassissimo e parallelo alla strada ci viene incontro un enorme aereo militare che porta uno strano dispositivo sotto un’ala. Ma non eravamo noi il suo obiettivo, perché ci sorvola pigro e se ne va. Nel primo pomeriggio raggiungiamo la Sierra Nevada, imponente catena montuosa che separa la California dal resto del continente americano. Il passo che scegliamo è dentro allo Yosemite, un altro parco nazionale. Carino, ma dopo aver visto Yellowstone impallidisce. Qui incontriamo nuovamente la neve, però la temperatura è accettabile. E diventa decisamente gradevole una volta scesi dalle montagne ed arrivati in pianura. Dormiamo a Tracy, in un Motel 6 stranamente sporco, dove un gruppo di messicani, disturbandoci, se la spassa per tutta la notte. La nostra ultima, purtroppo, negli Stati Uniti: il giorno dopo arriviamo a San Francisco, riconsegniamo la macchina (dopo quasi 4.500 chilometri) e andiamo in aeroporto. Il bagaglio è lì che ci aspetta: tornerà a casa con noi, ormai inutile, ma sano e salvo.