New York una giungla di grattacieli

Una settimana a New York
Scritto da: ollygio
new york una giungla di grattacieli
Partenza il: 15/05/2018
Ritorno il: 21/05/2018
Viaggiatori: 4
Spesa: 2000 €
Perché New York? Non ha mai fatto parte dei miei sogni di viaggio, ma Giò desiderava visitarla e io sono sempre pronta a preparare la valigia e partire quindi, supportati da Federica, agente di viaggio e turista innamorata della “Grande mela” abbiamo programmato un soggiorno di una settimana in cui abbiamo incluso tutte le maggiori attrazioni della città e i luoghi più caratteristici da non perdere assolutamente. Abbiamo prenotato con Expedia volo e 6 notti in hotel, abbiamo acquistato dall’Italia la City card, l’ESTA, l’assicurazione sanitaria e quella annullamento ed abbiamo speso tra tutto 1200 € a testa, non economico ma visti i prezzi che ti propongono, direi onesto. Il giorno prima della partenza, dopo aver consultato il meteo, ho disfatto e rifatto completamente la valigia, togliendo magliette e pantaloni estivi sostituendoli con maglioncini di lana, un cappottino e calzettoni; sono poi andata in cerca di un ombrello pieghevole da mettere in valigia e un paio di scarpe in gorotex per non avere i piedi a mollo, visto che avevo preventivato di camminare con un paio di scarpe da tennis in tela.

MARTEDÌ 15/05/2018

Per paura di trovare traffico nell’hinterland milanese siamo partiti poco dopo le 5, anche qui le temperature sono rigidissime: 9 gradi a Savona a metà maggio, una follia! E ogni tanto una pioggerellina fine e gelida inumidisce l’asfalto… Sembra novembre! Abbiamo volato con l’ American Airline, il volo non così affollato e ci ha permesso anche di sdraiarci un po’, il cibo era discreto per gli standard da aereo; siamo decollati puntuali alle 10.25 e dopo quasi 9 ore di viaggio, alle 13.40 abbiamo posato i piedi sul suolo americano. I severissimi controlli tanto temuti sono stati quasi inesistenti, non ci hanno fatto compilare il modulo d’ entrata, non ci hanno controllato l’ESTA, le valigie sono arrivate prima che noi avessimo raggiunto il nastro trasportatore, quindi abbiamo lasciato tranquillamente l’aeroporto nemmeno così affollato. Dall’aeroporto abbiamo raggiunto la ferrovia dell’ Air Train che collega i vari terminal e porta a Jamaica station da dove partono le varie linee della metropolitana. Il costo dell’Air train è di 5 $ pagabili prima del tornello all’uscita e qui abbiamo acquistato anche la metro card per 7 giorni al costo di 32 $; abbiamo preso la linea marrone e siamo scesi al capolinea e… risalendo dalle viscere della terra ci siamo trovati all’ombra di grattacieli così alti da non permettere quasi di vedere il cielo, che, per ora sembra sereno! Siamo finalmente nella città vista e rivista in mille film, sembra quasi irreale!

Pochi passi e ci siamo trovati davanti al palazzo della Borsa la cui facciata con le grandi colonne corinzie è la copia di un tempio greco, abbiamo adocchiato la boutique di Hermes, Tiffany, il pacchiano, dorato “Trump Building” e, svoltato l’ angolo abbiamo raggiunto il nostro hotel il “Club Quartier Wall Street”. Al check in ci hanno chiesto il numero di carta di credito come deposito per eventuali danni o furti, pare che sia usuale in quasi tutti gli hotel in America. La nostra stanza è sita all’11° piano, l’edificio è vecchiotto con la moquette nei corridoi e nelle stanze; la stanza è dignitosa ma piccolissima, si riesce a stento a passare per andare in bagno ma, in fondo a noi serve solo per andare a dormire. Nei corridoi c’è il distributore di acqua e in stanza il bollitore per caffè americano e tè. Abbiamo disfatto le valigie, una cosa positiva, visto che gli ultimi viaggi che abbiamo fatto abbiamo cambiato hotel ogni notte; fatto una doccia rigenerante ed abbiamo atteso Stefy e Gigi nella hall dell’Hotel, dove, a disposizione degli ospiti c’è frutta, bibite, caffè e alle 18 anche il vino. Quando finalmente sono scesi, abbiamo fatto tempo a mettere il naso fuori dalla porta che si sono aperte le cateratte del cielo! Abbiamo atteso qualche minuto che spiovesse ma nulla, quindi, inaugurando il provvidenziale ombrello acquistato ieri, ci siamo avviati sotto la pioggia battente. Un mare di persone attraversano correndo la strada, bagnati come se fossero caduti in piscina, altri riparati da ombrelli, altri ancora camminano tranquillamente rassegnati; ruscelli d’acqua attraversano le strade, in alcuni punti allagano il marciapiede… un delirio! Abbiamo cercato la stazione della metropolitana per raggiungere l’Empire State Building, uno dei grattacieli più antichi di New York, è stato costruito nel 1930 diventato uno dei simboli della città, inconfondibile anche perché set di molti film, chi non ricorda King Kong appeso all’antenna che tiene nel pugno la bionda protagonista prima di essere abbattuto? Siamo entrati nell’androne tutto rivestito in marmo ed abbiamo ritirato la City card acquistata on line e che ci servirà per visitare altre 6 attrazioni della città. L’audio guida è scaricabile da internet, Luigi l’ha scaricata ma dopo un paio di minuti si è stufato di ascoltare la storia della costruzione dell’ Empire e… abbiamo così proseguito alla cieca. All’80° piano c’ è un osservatorio al chiuso, la visuale oscurata dai vetri coperti da gocce di pioggia e temperature interne gelide per l’ aria condizionata a palla, il tutto peggiorato dall’umidità degli indumenti… tutto estremamente sgradevole! Con un’altra brevissima corsa in ascensore abbiamo raggiunto l’86° piano da cui si può accedere ad un terrazzo che percorre tutto il perimetro del grattacielo; piove, spesso siamo investiti da raffiche di vento improvvise, poi le nubi nere, basse, che nascondono la cima dei grattacieli più alti, sembrano stracciarsi, come aperte da piccole dita di luce dorata del tramonto; lo squarcio continua ad allargarsi, la pioggia diminuisce fino quasi a cessare, la città con tutti i suoi edifici, l’ Hudson, il mare in lontananza si tingono di giallo e poi di arancione fino a diventare quasi rosso; quindi, nel cielo appare prima un impercettibile porzione di arcobaleno che,come per magia, diventa più evidente, dai colori ben definiti, formando l’ intero arco e poi, ancora un secondo arcobaleno in distanza… Una magia! Da qui si scorge il “One Word Trade Tower” l’attuale grattacielo più alto di New York, il Chrysler, dalla caratteristica punta a pigna, il Flatiron con le fattezze di un ferro da stiro, e, in lontananza, la statua della libertà e il ponte di Brooklyn. Man mano che il sole scendeva e lasciava spazio all’oscurità la città si è accesa di mille luci. Sono le 20.30 e sono quasi 24 ore che siamo svegli, quindi decidiamo di mettere qualcosa nello stomaco ed andare finalmente a nanna! Su indicazione di Federica ci siamo avviati giù per la Fifth Avenue, quindi per la 42 st ed eccoci in Time Square. È un tripudio di luci colorate, insegne che si accendono e si spengono, proiezioni di filmati pubblicitari sulle facciate dei palazzi, tanta tanta luce, da farti dimenticare che è sera e tanta tanta gente che si muove e che vive i questo luogo considerato il cuore pulsante della città. Abbiamo cenato al “Buba Gamp”, locale dedicato allo sfortunato amico di Forest Gump, dove, ovviamente, l’intero menù è a base di gamberi. Io e Stefania li abbiamo presi impanati nel cocco e fritti, erano grandi succulenti e dolcissimi accompagnati da una generosa porzione di patatine fritte; meno fortunati i nostri mariti che hanno scelto un piatto a base di gamberi e formaggi e che si sono rivelati un piatto di pasta con panna e pochissimi gamberi. Considerando che siamo a New York e a Time Square i prezzi qui sono onesti, sui 15 $ a piatto ma abbiamo pagato ben 15$ una birra media, unica alternativa possibile visto che sfilavano solo vassoi con bicchieroni colmi di liquido dai colori fosforescenti ! Ah, dimenticavo, nei 15 $ pagati per la birra c’ è anche incluso il bicchiere che poi ti incartano per portare a casa! Con gli occhi ormai semichiusi abbiamo preso la metro ed abbiamo finalmente raggiunto in pochi minuti il nostro hotel e, quasi vestiti, siamo crollati sul letto!

MERCOLEDÌ 16/05/2018

Notte d’inferno! Il cuscino era troppo alto, mi sono svegliata quasi subito per il dolore alla cervicale, ho tentato di dormire senza ma, a quel punto, ero troppo bassa, mettici poi il jet leg, alle 4.30 ero sveglia! Doccia con calma, mandato messaggi per rassicurare parenti e conoscenti, poi anche Stefania ha scritto che erano ormai svegli da un pezzo, così siamo scesi in cerca di un locale in cui fare colazione. Abbiamo trovato un locale sulla Brodway che è un misto tra pasticceria, caffetteria, self service, rosticceria, supermercato in cui si trova ogni ben di Dio, veramente per tutti i gusti. Abbiamo cominciato all’americana, addentando un muffin buonissimo, sofficissimo, delle dimensioni di una focaccia e poi una ciotola enorme di frutta fresca di tutti i tipi; abbiamo acquistato qui anche un panino per il pranzo, quindi dopo aver fatto ritorno in hotel per la “sosta bagno”, abbiamo percorso a piedi il breve tratto di strada che ci separa da Battery, il parco da cui partono i battelli per Liberty Island , infatti oggi, confidando sulla clemenza del tempo, abbiamo deciso di visitare la celeberrima Statua della Libertà. La navigazione per raggiungere l’isola dura circa 15 minuti e si può godere della splendida vista dello skyline di New York. Scesi sulla terra ferma ci siamo procurati l’ audio guida gratuita in italiano con la spiegazione per la visita all’intera isola che era anticamente abitata dagli indiani Lenate che vivevano pescando ostriche e cacciando, e, dal gran numero di ossa trovate, si pensa che la fauna fosse molto abbondante. Dopo l’arrivo di Colombo, gli europei hanno individuato l’ isola come punto strategico d’osservazione tra il porto di New York e il mare aperto, è passata quindi di mano in mano ad inglesi, olandesi, ha cambiato più volte nome, vi fu costruito un forte a forma di stella che oggi funge da basamento per la statua della Libertà. Quest’ultima, diventata patrimonio dell’UNESCO, è il simbolo della città; è alta 47 m e, nel 1886, anno in cui è stata inaugurata, era l’ edificio più alto della città; oggi paragonata all’altezza dei grattacieli, sembra un nanetto da giardino! La progettazione si deve ad un architetto francese che la fabbricò in sottili lamine di rame, il cui spessore non supera quello di 2 monete da un centesimo e fu suddivisa in più di 300 porzioni, che furono trasportate così dalla Francia e assemblate in loco, con un lavoro complessivo di 2 anni. L’interno è costituito da un pilastro di ferro da cui partono diversi bracci, quasi fosse un albero con i suoi rami, un progetto dell’architetto Eiffel. La statua è posta su un basamento in arenaria dalla forma neoclassica, più o meno dell’altezza della statua. Per accedere al basamento e, ancor di più per salire all’interno fino alla corona bisogna prenotare il biglietto, a volte anche 6 mesi prima! Se la mattinata, seppur grigia ci aveva concesso una tregua, al termine della visita ha ripreso a piovere; restituite le audio guide ci siamo imbarcati verso Ellis Island, l’isolotto in cui facevano sbarcare gli immigrati provenienti dall’Europa nel nuovo mondo giunti fin qua a cercar fortuna. Qui venivano registrati quelli che viaggiavano in 3°classe o in stiva, cioè coloro che si imbarcavano quasi clandestinamente, venivano osservati, visitati per appurare che non avessero malattie contagiose, quindi, se ritenuti sani, veniva permesso loro l’ ingresso nel paese, venivano assistiti in tutte le loro esigenze, venivano accompagnati in banca per convertire i pochi risparmi in dollari ,e, coloro che non avevano New York come destinazione finale, venivano accompagnati alla stazione perché potessero fare il biglietto e raggiungere la meta stabilita. Molti di loro non parlavano inglese, quindi veniva appuntato sul cappotto il biglietto con la destinazione affinché il capotreno li aiutasse a scendere nella città dove si sarebbero ricongiunti con un parente o avessero avuto un contratto di lavoro. Le persone malate venivano nutrite e curate nel grande ospedale che era sull’isola e, se si trattava di bambini, le madri venivano accolte in case-dormitori fino a che il piccolo non fosse stato in grado di proseguire il viaggio. Talvolta capitava che qualche persona ritenuta a rischio per la popolazione americana venisse rispedita nel paese d’origine, ma quest’ultimi erano veramente pochi. Questa grande struttura rimase in uso fino alla fine degli anni 50 e poi venne abbandonata, e, negli anni 80, quando iniziarono i lavori di recupero, era diventata quasi un rudere. Le varie stanze sono tappezzate di foto di repertorio, bellissime, toccanti, veritiere, da fare accapponare la pelle; gente disperata che per dare un futuro, a volte solo un pasto quotidiano ai propri figli lascia la famiglia, la casa natia, gli affetti, cosciente, che difficilmente vi avrebbe fatto ritorno. Siamo rimasti là dentro per più di 3 ore, ascoltando le spiegazioni dell’ audio guida gratuita presa all’ingresso, quindi con il, solito battello, siamo rientrati a Manhattan.

Sotto l’incessante pioggia battente ci siamo recati al botteghino per vedere di acquistare i biglietti per lo spettacolo di Broadway a cui stasera ci piacerebbe assistere. La nostra scelta era caduta su Aladin, che, pare avesse recensioni splendide, ma al botteghino che ci siamo rivolti non aveva disponibilità di biglietti, quindi demoralizzati anche dal tempo e con la voglia di restare un po’ al chiuso abbiamo optato per Jersey Boys, tratto dal film di Clint Eastwood che a noi era piaciuto molto. Siamo rientrati in hotel per una doccia e per abbigliarci in modo consono ad una serata a teatro, quindi verso le 6 siamo usciti per riuscire a mangiare qualcosa prima dell’inizio dello spettacolo. Trovare il teatro è stato tutto fuorché facile, così come percorrere e ripercorrere le strade parallele con i tacchi a spillo cercando di evitare le profonde pozzanghere. Qui, però, per Giò, abbiamo fatto l’incontro del secolo; avendo avvistato il teatro in cui Bruce Springsteen si esibisce tutte le sere da più di un anno , ci siamo avvicinati per fare la foto di rito e, proprio quando siamo stati dinnanzi all’ingresso, si è avvicinata un’auto nera da cui è sceso proprio il Boss in persona ed ha cominciato a fare autografi alla piccola folla che era lì sul marciapiede… per Giò questo è stato il vero senso del viaggio! Dopo questa inattesa sosta, il tempo a nostra disposizione prima che iniziasse lo spettacolo era poco più di mezz’ora, quindi ci siamo accontentati di un trancio di pizza mangiato in piedi in un take way. Il teatro è piccolino, i posti sono buoni ma… l’aria condizionata è quasi un tornado e fa un freddo polare! Lo spettacolo poi, che dire, avrebbe potuto anche essere gradevole se noi avessimo compreso bene l’inglese, però, per le 4 canzoni del repertorio di Frankie Valli, cantate, non lo si può definire un musical: è una commedia teatrale, anche la scenografia spoglia, molto distante dall’immaginario di costumi e lustrini di Brodway, non aiutava di certo a capirne la trama. Abbiamo speso una quarantina di dollari ma, col senno di poi, avremmo dovuto spendere il doppio ma vedere qualcosa che conoscevamo alla perfezione, come Aladin o il Re Leone! Siamo tornati nello sfavillio di luci di Time Square per prendere la metro ma non ci siamo fermati che per pochi minuti perché eravamo di nuovo stanchi morti !

GIOVEDÌ 17/05/2018

Ieri sera ho chiesto se potevo avere un cuscino più basso, così stanotte ho dormito meglio ma anche stamattina alle 5.30 eravamo già entrambe svegli, così siamo usciti un po’ prima dell’ora dell’appuntamento con Stefy e Gigi per andare a vedere la celebre statua del toro di Wall Street ma abbiamo vagato un po’ senza trovarlo.Dopo colazione, mentre Stefy e Gigi sono tornati in hotel noi abbiamo approfittato del breve lasso di tempo per visitare la Trinity Church, sulla Broadway, un splendida costruzione in stile neogotico contornata da un verde prato utilizzato come cimitero nel secolo scorso e dove sono seppelliti anche personaggi famosi. La chiesa è in fase di restauro quindi si può visitare solo la cappella del Sacro Cuore. Anche oggi piove, quindi abbiamo cambiato il programma odierno e siamo andati a visitare il Metropolitan museum. Dopo una breve coda siamo entrati nella grande sala centrale in cui sono site le biglietterie e dove migliaia di turisti si accalcano per fare i biglietti o ad organizzarsi in visite guidate. Noi abbiamo noleggiato l’audio guida in dotazione che però ha solo parte delle nozioni tradotte in italiano. È il museo più grande e più caotico che io abbia mai visitato! Al piano terra ci sono un’infinità di sale, da ogni sala ne partono almeno 3, senza poi corridoi che le raccordino le une con le altre. C’è un’esposizione di manufatti preistorici, arte greca e romana, manufatti degli aborigeni australiani e delle popolazioni africane, arte precolombiana e preincaica, per poi passare all’architettura francese del 700/800 con tanto di ricostruzione di ambienti di castelli e palazzi nobiliari e, per finire una parte di arte sacra con esposizione di abiti d’alta moda delle griffe più famose, il tutto, secondo me, blasfemo; un insulto ai credenti. Poi c’è una sezione dedicata all’arte dell’Antico Egitto con dipinti, gioielli, sarcofagi, vasi canopi, manufatti trovati nelle tombe e un intero tempio ricostruito all’interno del museo salvato dall’inondazione dopo la costruzione della diga di Assuan, una parte di arredamento e oggettistica americana del secolo scorso. Al piano superiore abbiamo visitato la sezione dedicata all’arte cinese, giapponese, indiana, Khmer, mesopotamica e araba, questi ultimi veramente interessanti perché provenienti in parte dal la città di Palmyra, in Siria, oggi quasi rasa al suolo dai talebani e un sculture provenienti dalla tomba di Assurbanipal, oggi in suolo iracheno. Dopo 4 ore Gigi ha gettato la spugna e affamato è uscito dal museo, perché nel bar all’ interno un sandwich costava pressappoco 15$. Io e Stefy ci siamo attardate ancora un po’ per le varie sale, anche se non abbiamo varcato la soglia della sezione dedicata alla pittura, immensa, che andava dal Rinascimento ai giorni nostri ed essendo per lo più quadri provenienti dall’Europa e, quindi già visti, dopo 5 ore di museo non ne potevamo davvero più! Abbiamo mangiato un hot dog seduti sulla scalinata del MET accarezzati da un debole raggio di sole, veramente una goduria, dopo 3 giorni di pioggia! Approfittando finalmente del bel tempo siamo andati a Chelsea, un quartiere più modesto con palazzine a 3 quattro piani, molte con la facciata in mattoni e le inconfondibili scale antincendio che collegano i terrazzini tra un piano e l’altro. Con un ascensore abbiamo raggiunto l’High Line, una passeggiata sopraelevata che passa sopra ai tetti dei palazzi più bassi, contornata da ricche aiuole di piante aromatiche; centinaia di persone passeggiano pigramente tenendosi per mano lungo i 4 km di questo nastro verde sorto sul tracciato della ferrovia in disuso. Dopo un paio di chilometri c’è una scala che ci ha condotto direttamente al Chelsea Market una sorta di centro commerciale sorto nei locali di un antico biscottificio, in cui sono stati lasciate le porte in ferro, i tubi a vista, un pozzo per l’acqua di raffreddamento delle macchine. Ci sono bar originali, ristoranti, pasticcerie, gelaterie, negozi di moda e di profumi molto carini e particolari. Abbiamo quindi raggiunto Greenwich Village, un quartiere simile a Chelsea con case basse e viali alberati, dove, secondo Federica era tutto un susseguirsi di ristorantini e trattorie a prezzi più modici rispetto a Mahanattan, ma noi non abbiamo trovato tutta questa varietà, né prezzi competitivi. Abbiamo cenato da “Rosmary”, un locale tipico, e malgrado volessimo evitarlo siamo finiti in un ristorante italiano. Abbiamo mangiato bene anche se 18$ un piatto di pasta per noi è veramente inconcepibile e ancora di più 22$ per un pollo allo spiedo. Alle 9, quando non era ancora buio completo siamo rincasati e siamo crollati a letto distrutti!

VENERDì 18/05/2018

Stamattina siamo riusciti a dormire fin quasi alle 7, alle 8 ci siamo trovati con Stefy e Gigi per la colazione; abbiamo cambiato caffetteria, questa più chic ma con meno assortimento di brioches. Mentre Stefy e Gigi sono rientrati in hotel noi eravamo determinati a trovare la statua bronzea del toro di Wall Street, che dopo un po’ di ricerche abbiamo trovato in Bowling Green Park, considerato il parco più antico di New York, luogo in cui il governatore di allora pagò per pochi spiccioli di dollaro l’intera isola di Manatthan agli indiani nativi. Ci siamo messi in coda per fare la foto di rito, la più importante delle quali mentre si accarezzano le palle del toro, gesto che sembra porti fortuna, perché di fortuna ne abbiamo sempre bisogno! Per ora non piove, ci siamo avviati verso il ponte di Brooklyn facendo una breve piacevole passeggiata. La zona del porto con i suoi moli mantiene ancora l’architettura di un secolo fa con bassi edifici in mattoni, molti dei quali, allora adibiti a magazzini in cui si vede ancora l’insegna sbiadita. Un’altra breve passeggiata e siamo sul ponte più antico di New York, la costruzione risale al 1883 e, con i suoi 1825 metri di lunghezza attraversa l’East River, visto e rivisto in mille tra film, documentari e pubblicità e ora camminarci sopra è una grande emozione. Sopraelevata ad una strada a 2 carreggiate per i mezzi a motore, c’è una passerella in legno percorribile a piedi o in bicicletta. Abbiamo percorso i quasi 2 km dell’intera campata del ponte sferzati da un vento gelido. È impressionante passare a fianco ai tiranti d’acciaio grandi quanto il mio polso e stare sotto a queste 2 arcate in cemento alte 84 mt. C’è una discreta folla di turisti, che passeggiano col naso in aria, spesso occupando la pista ciclabile, alcuni newyorkesi che lo attraversano di corsa indossando abbigliamento tecnico e… alcune spose in abito bianco a cui il vento faceva volare le impalpabili vesti; c’era un gruppo di poliziotti, legati gli uni agli altri in allenamento che tentavano di scalare una delle 2 arcate. Siamo scesi a Dumbo, un quartiere di Brooklyn, dove è stato girato il film di Sergio Leone “C’era una volta in America” da cui si può ammirare il Mahanattan Bridge tra i palazzi in brownstone. Scesi nel Brooklyn Bridge Park abbiamo scattato una miriade di foto al celeberrimo ponte e a Manhattan vista da Brooklyn. La nostra successiva tappa è il “Top on the Rock”, cioè la terrazza che si trova sul tetto del Rockfeller Center in cui si trova un immenso centro commerciale. Il grattacielo in questione, costruito dal magnate petrolifero nel1939 è alto 70 piani e si affaccia su una piazza con una grande fontana nel cui centro fa bella mostra di sé una statua dorata di Prometeo e attorno sventolano le bandiere di tutto il mondo. A fine novembre qui viene allestito l’albero di Natale più grande della città, illuminato da 45000 lampadine. Per salire su con l’ascensore abbiamo dovuto prenotare l’orario, perché non fanno salire più che un certo numero di persone, l’orario della nostra visita è alle 3.20, quindi siamo andati a mangiare l’hamburger più americano possibile da “Five Guys”, catena in cui puoi comporre con una gamma di 20 ingredienti l’hamburger che tu preferisci. Abbiamo passeggiato un po’ lungo la fifth Avenue, che io immaginavo una boutique dietro l’altra, in cui passeggiano signore elegantissime come in Pretty Woman, invece ci sono tanti negozi (zara, H&M, Intimissimi, Berska ecc) le boutique poche e con prezzi stratosferici per capi non così innovativi… È stato comunque bello lascarsi portare da questa fiumana di gente spensierata. Siamo saliti al 70° piano del top on the rock e qui si gode un panorama a 360° su tutta la città, in paticolar modo su Central park che da quassù sembra una foresta e sull’Empire State Building inconfondibile con la sua lunga antenna tra questa jungla di grattacieli. Oggi è venerdì e dopo le 18 l’ingresso al Moma è gratuito ma prima di raggiungerlo abbiamo visitato la chiesa di Saint Patrick la più grande cattedrale cattolica americana, risalente al 17 à secolo, ricostruita il secolo seguente in stile neogotico in marmo bianco, con un altare dorato progettato da Tiffany. A quest’ora il Moma è affollatissimo e, come consigliato dalla Lonly Planet cominciamo la visita al 6° piano per poi scendere verso il piano terreno. Al sesto piano c’è una mostra di un’artista nostra coetanea, morta già un paio d’anni fa, un’artista poliedrica che passa dai quadri, alle foto, alle sculture, il tutto creato sotto l’effetto del’LSD. Il quinto piano è il più interessante perché custodisce le opere di Picasso, Monet, Matisse, Van Gogh (2!), De Chirico, Kandinsky, Andy Warhol, Rousseau. Al quarto e al secondo piano ci sono opere d’arte contemporanea di artisti a noi sconosciuti e difficili da capire da chiunque non sia uno studioso d’arte. Il terzo piano era una mostra di foto artistiche di paesaggi, una sala era completamente tappezzata di foto di parti e di donne gravide. Ci avevano detto che esisteva una parte dedicata agli oggetti di modernariato, ma oltre ad una vecchia Ferrari non abbiamo visto nulla. Alle 20 ci hanno letteralmente cacciato dal museo e abbiamo scelto Fulton il quartiere nei pressi del ponte di Brooklyn per cenare, dove stamane avevamo adocchiato un paio di localini veramente carini. Abbiamo cenato al Barbalù, un locale sito in un antico magazzino dove abbiamo mangiato bene a prezzi accettabili per New York e qui, nella fornitissima cantina, abbiamo trovato una bottiglia di Pigato del finalese, vino principe in Liguria, a 19$ la bottiglia, una follia! Abbiamo raggiunto il nostro hotel quasi correndo perché faceva un freddo polare.

sabato 19/05/2018

Oggi piove… che strano! Abbiamo cambiato il nostro programma odierno e siamo andati a visitare il museo dell’11/9. Scrollandoci la pioggia di dosso come i cani siamo entrati nell’Oculos, un centro commerciale tutto bianco, dalle forme sinuose e con una vastissima zona centrale e 2 piani di negozi. Siamo usciti da lì e ci siamo messi in coda per entrare nel museo che si trova lungo il perimetro delle fondamenta delle torri gemelle e dove si possono ancora vedere parti arrugginite e contorte dall’esplosione e dal crollo. Le twin towers sono state costruite negli anni 70, allora erano gli edifici più alti, posti al centro dello skyline di New York. All’interno del memoriale sono rimaste parti delle colonne delle fondamenta dette a scatola, i muri di rinforzo per contenere le acque del fiume Hudson, camion semidistrutti dei pompieri e della polizia, oggetti rinvenuti tra le macerie appartenuti alle vittime; l’ultima colonna rimasta in piedi dopo l’implosione è divenuta il simbolo del ricordo delle quasi 3000 vittime ed è stata onorata con una cerimonia ufficiale a cui hanno partecipato tutte le maggiori cariche dello stato e naturalmente la popolazione. C’è una sezione in cui artisti contemporanei hanno creato le loro opere in memoria dell’eccidio da parte di Al quaeda. Ci sono le foto di tutte le vittime, lavoratori, visitatori, negli edifici avevano sede aziende, c’erano ristoranti e hotel, 300 agenti delle forze dell’ordine. Persone di tutte le età, il più giovane aveva 2,5 anni e il più anziano 85. È rimasta anche una parte della scala utilizzata da quelli che erano ai piani inferiori per mettersi in salvo. Qua e là proiezioni con le espressioni atterrite dei presenti che avevano sentito il boato, hanno visto sprigionarsi le fiamme, sono stati investiti da una pioggia di macerie che con un denso fumo bianco si è sparso per tutta Manhattan. In un piccolo teatro veniva trasmesso un video in cui i famigliari delle vittime raccontavano chi erano i loro cari e cosa facevano lì, su un’altra parete venivano proiettati i biglietti con le foto dei dispersi; il video dell’imbarco degli attentatori e la rotta seguita dagli aerei prima e dello schianto. La cosa che più di tutto mi ha colpito è il silenzio che regnava in queste stanze dalle luci soffuse benché fossero occupate da centinaia di visitatori visibilmente commossi e molti con gli occhi lucidi: è una parte di storia, così recente, che abbiamo vissuto tutti un po’ in prima persona anche se fortunatamente ci trovavamo al di là dell’oceano. Nel grande piazzale antistante l’ingresso del museo è Ground Zero, un’immensa piazza esattamente della forma e dimensione delle torri gemelle in cui ci sono 2 fontane quadrate con un foro quadrato centrale che sembra convogliare l’acqua al centro della terra in un gorgo infernale. Sul bordo delle 2 vasche ci sono i nomi di tutte le quasi 3000 vittime. Continua a piovere a dirotto, la cima del One Word Tower è nascosta dalla nebbia. Abbiamo spostato l’ascesa al lunedì confidando in un tempo migliore. Abbiamo mangiato un panino in una caffetteria, infreddolitissimi, ci sono 10 gradi ed io indosso tutto ciò che avevo in valigia. Ci siamo avviati verso la Central Station, un enorme edificio in marmo del 18° secolo da cui partono tutti i treni da e per la Grande Mela, ha un soffitto blu come se fosse un cielo in cui sono rappresentate le costellazioni e un atrio immenso e, per accedervi, 2 scale che si incrociano… ben impresse nei miei occhi l’immagine di Kevin Costner che ferma con un piede la carrozzina che stava ruzzolando giù dalla scala durante una sparatoria in “The untouchbles”. Abbiamo percorso la Fifh Avenue fino alla Pubblic Library, con grandi sale affrescate, uno scalone monumentale in marmo che conduce al secondo piano ed una sala da lettura grande come un campo da baseball. L’ingresso qui è gratuito. Con la metro abbiamo raggiunto Soho, il quartiere dello shopping con negozi e boutique di stilisti emergenti, quasi tutti ubicati in cantine o magazzini, infatti Soho ad inizio secolo era una zona di capannoni industriali ed officine. Abbiamo fatto un po’ di shopping: Luigi ha trovato i Levi’s che tanto desiderava a metà prezzo rispetto all’Italia ed io ho acquistato due magliette per i ragazzi giusto per non arrivare a casa a mani vuote. Non capisco però chi viene a New York per fare shopping, i prezzi sono pressoché quelli italiani, se non maggiori (da intimissimi lo stesso completino comprato il giorno prima di partire costava 20€ in più!), non ho visto capi particolari, anzi, secondo me la qualità e il design italiano sono decisamente migliori. Da Soho, abbiamo raggiunto Little Italy, dove è tutto un fiorire di pizzerie, pasticcerie, trattorie dai nomi tipicamente italiani e dove tutti parlano italiano. Pochi passi e siamo a Chintown, sembra di essere tornati negli hutong pechinesi, bazar con ogni genere di cianfrusaglia, insegne con le celebri lanterne rosse e, qui, da Quan, in un minuscolo ristorante con soli 4 tavoli e 14 coperti abbiamo mangiato uno dei migliori sushi mai assaggiati ad un ottimo prezzo: una barca di sushi con almeno 50 pezzi, 2 piatti di noodles, 4 birre Sapporo abbiamo speso 130$ in 4!

DOMENICA 20/05/18

Stamattina sveglia un po’ prima del solito perché la messa inizia alle 10, bisogna essere lì un po’ prima dell’inizio della funzione perché i posti riservati ai turisti non sono tantissimi e raggiunto il numero non lasciano più entrare nessuno. È domenica, giornata dedicata al completo riposo per gli americani, le strade sono pressoché deserte e trovare un bar in cui fare colazione è stata un’impresa! Alle 8.30 eravamo comunque già in metrò per raggiungere Harlem e la Canaan Baptiste Church, ci siamo messi in coda aspettando di entrare, mentre dalla corsia preferenziale entravano i fedeli, quasi tutti di colore, elegantissimi, con un outfit che noi potremmo definire “da matrimonio” e tutti indossavano un accessorio rosso: un cappello, la cravatta, una sciarpa, un fiore. In questa chiesa ci hanno lasciato entrare con gli zaini (in quasi tutte le altre puoi entrare solo senza zaino), ci hanno fatto accomodare in galleria, assieme agli altri turisti, con la raccomandazione di non scattare fotografie. È stato molto suggestivo ascoltare questi canti allegri, le voci squillanti e vigorose del coro, intervallati da pochi minuti di preghiera, poi sono cominciati lunghi sermoni tenuti dalle personalità di spicco della comunità e dai padri fondatori della chiesa. Abbiamo solo percepito stralci si discorsi sulla storia della chiesa capendo che oggi si festeggia l’87° anniversario della fondazione. Avevamo letto che non si può uscire prima che la funzione sia finita ma, trascorse 3 ore di discorsi a noi pressoché incomprensibili, vedendo che tanti altri turisti lo avevano già fatto, siamo usciti. Oggi finalmente c’è il sole, ed è caldo come agosto… ieri c’erano 10°, oggi si cerca l’ombra… che clima assurdo! Abbiamo attraversato Harlem a piedi e ben presto abbiamo raggiunto Central Park, il cuore verde della Grande Mela. Ci siamo procurati un panino pessimo in una delle tante catene sparse per la città che abbiamo consumato al sole su una panchina dinnanzi ad uno dei numerosi laghetti del parco e poi, come consigliato da Federica, ci siamo apprestati a noleggiare una bici per riuscire a percorrere per tutti i 4 km di lunghezza il parco (pessima idea per tutto quello che è conseguito poi…). Ci siamo avvicinati ad una rastrelliera dove si trovano le cosiddette citybike, già riuscire a capire il funzionamento è stata un’ impresa e poi, appena strisciata la carta di credito abbiamo dimenticato il codice da digitare per sbloccare le bici, che compare sul display per pochi secondi… per fortuna è arrivata in nostro soccorso la proverbiale gentilezza degli americani. Una ragazza, vedendoci in difficoltà, si è fermata, chiedendoci se avevamo bisogno, le abbiamo spiegato a gesti e a stralci di frasi ciò che ci era capitato ella ha chiamato il numero verde di soccorso e si è fatta ripetere il codice, senza il suo provvidenziale aiuto avremmo perso 52€ (anche se, come spiegherò dopo, abbiamo perso ben più di quello!). Saliamo finalmente in sella e all’entrata del parco siamo stati redarguiti da una signora perché non si può pedalare per i sentieri del parco, si può transitare solo su laterali piste ciclabili, quindi per passeggiare sulle rive di un laghetto o in prossimità di aiuole fiorite bisogna camminare con le bici a spinta. È domenica e metà della popolazione di New York è stesa sui prati a godersi il sole dopo una settimana di pioggia, i bambini giocano, le famiglie fanno il pic-nic, scoiattoli curiosi scendono dagli alberi e si avvicinano alle persone senza timore. Nel centro del parco si trova “The Lake”, il più ameno degli invasi artificiali del parco, tante piccole barche a remi solcano le acque del lago affittate da romantiche coppiette; tante tartarughe si tuffano nelle acque verdastre per poi risalire in superficie e asciugarsi sulle rocce scure. Da qui in poi è veramente una bolgia: gente ovunque, chi passeggia a piedi, suonatori di mandolino e madrigali, bancarelle che vendono bibite e gelati, chi pattina, chi corre, chi va in bicicletta, chi va in monopattino, chi sui risciò; ci sono anche carrozze trainate da cavalli addobbate con fiori sbiaditi. Abbiamo fatto tappa in tutti i punti più rappresentativi del parco: Strawberry Field, dove si trova un mosaico con la scritta “Immagine”, posto di fronte al palazzo in cui è stato assassinato John Lennon; la grande fontana, la statua di Alice nel paese della meraviglie, abbiamo cercato invano la statua di Balto ma nessuno ha saputo indicarcela. All’altezza del MET abbiamo lasciato le biciclette e abbiamo convenuto non essere stata una grande idea perché la lunghezza per intero del parco è percorribile in un’ora e, noi, avevamo a nostra disposizione tutto il pomeriggio; zigzagando per i sentieri avremmo raggiunto gli angoli più ameni, senza doverci trascinare appresso il pesante mezzo, senza contare che per andare a vedere qualcosa o andare a fare una foto andavamo 2 alla volta, lasciando gli altri di guardia alle bici. Stefy e Gigi, stanchissimi, sono tornati in hotel per una doccia e noi siamo andati nell’East River perché Giò voleva fotografare un murales dedicato a Joe Strummer, suo idolo da sempre. L’East River è un quartiere affascinante, pieno di vita, fatto di palazzine in brownstone e un locale dietro l’altro, tutti pieni di persone con un bicchiere in mano per l’happy hour. Noi abbiamo preso un aperitivo al Niagara, lo storico bar sul muro del quale si trova il murales. Ci siamo ritrovati con Stefy e Gigi per andare a cena, nuovamente a Chinatown, nello stesso locale di ieri sera e la barca di sushi nuovamente superlativa. Dopo cena abbiamo raggiunto Battery ed abbiamo preso il ferry boat gratuito per Staten Island. La traversata dura circa 20 minuti e si può ammirare uno splendido panorama sullo skyline di Manahttan completamente illuminato. Peccato solo che soffiasse un vento gelido che ci impedisse di restare sul ponte per tutta la traversata. Rientrando in Hotel ci siamo imbattuti in un set cinematografico: una gru che sorreggeva una telecamera, una moto e un’auto che si inseguivano a folle velocità, la strada quasi illuminata a giorno e… tutti fermi fino a che non ci hanno dato il permesso di transitare

LUNEDÌ 21/05/18

Stamattina abbiamo fatto colazione da soli perché volevamo vedere Washington Square, una grande piazza con un arco simile all’arco di trionfo di Parigi e una grande fontana al centro. Siamo poi andati all’appuntamento con Stefy e Gigi davanti all’osservatorio del One World Trade Tower, ci siamo messi in coda per salire sulla cima dell’attuale più alto grattacielo di New York ma ben presto abbiamo scoperto che l’ingresso non era compreso nel New York Pass e per salire fino lassù costava 37 $… abbiamo desistito visto che il panorama dall’ alto della città lo avevamo già ammirato un paio di altre volte. Siamo andati a Roosvelt Island dove siamo tornati a Manahattan con una funicolare rossa che attraversa l’East River, quindi abbiamo raggiunto Abercrombie per l’ultimo shopping della vacanza. Sul Pier 16 abbiamo scattato un paio di foto del ponte di Brooklyn, finalmente con il sole, quindi abbiamo mangiato un hamburger alla velocità della luce in un locale elegantissimo e quindi di corsa in hotel a recuperare le valigie e a prendere il taxi che era lì ad attenderci per portarci all’aeroporto. Ci abbiamo impiegato circa un’ora, in una città trafficatissima, che è tutta un semaforo, abbiamo lasciato Manahttan percorrendo il ponte di Brooklyn, abbiamo attraversato Brooklyn e, man mano che ci si allontana dall’Hudson, New Yok diventa sempre più paese con casette a 2 piani con giardino, senza grattacieli e lustrini. La corsa in taxi ci è costata 82 $, l’unico vantaggio è stato non dover trascinare dietro le valigie, altrimenti, con la metro, avremmo fatto più veloce ed avremmo pagato solo i 5 $ dell’Air Train perché la nostra metro card era ancora attiva oggi. Il terminal 8 da cui partiremo è piccolino, piuttosto semplice ma abbiamo dovuto far controllo passaporti e carta d’imbarco a quelle infernali macchinette che servono solo ad ottimizzare sul personale, non certo per sveltire le code visto che, se non arriva in soccorso l’addetto si rimane bloccati, eppure noi di viaggi ne abbiamo già fatti parecchi! Alle 18.15 siamo decollati puntuali e siamo stati disseminati qua e là per l’aereo, io sono finita vicino ad un ciccione indiano che teneva una poltrona e mezza, debordando quindi sulla mia, impedendomi quasi di chiudere gli occhi. Abbiamo mangiato anche malissimo, la pasta era scotta, quasi dolce, terribile! Alle 7,30 siamo atterrati a Milano.

IMPORTANTE

Non noleggiate le city bike! È vero che il nostro inglese non è perfetto ma vi assicuro che sulla colonnina non si faceva cenno del regolamento di noleggio delle biciclette, noi ce ne siamo accorti solo 2 settimane dopo il rientro quando ci sono stati addebitati 240$ per il noleggio. Andando a fondo della questione abbiamo scoperto che il prezzo di 13$ del noleggio è per 24 ore ma non si può usare la bicicletta per più di 30 minuti consecutivi. Trascorso questo tempo si deve riporre la bici nelle rastrelliere, attendere 15 minuti almeno , quindi ridigitare il codice e usarla per un’altra mezz’ora, non oltre, pena un sovrapprezzo di 4$ ogni 15 minuti.

FATE ATTENZIONE!

CONCLUSIONI

Allora… che dire di New York? Non è il primo viaggio che faccio, penso di aver già visto una porzione, seppur piccola di modo, quindi cercherò di dare un giudizio abbastanza imparziale. New York è una grande metropoli, vivace, giovane, frizzante, un enorme set cinematografico, ogni angolo in cui rivolgi lo sguardo ti ricorda questa o quell’altra scena di films o serie televisive; tante persone che camminano per la strada a tutte le ore del giorno, molti si esibiscono in strada ballando suonando o facendo acrobazie; in metropolitana spesso in un unico vagone si trovano seduti , uno a fianco all’altro neri, cinesi, sudamericani, arabi, indiani e bianchi, un città veramente multietnica ma… ad oggi quale città non lo è? Anche Savona, nel suo piccolo, è ormai sede di un crogiolo di razze… Due sono i monumenti degni di essere definiti tali: il ponte di Brooklyn e la statua della Libertà ma, per noi italiani che abbiamo dato i natali agli etruschi, ai romani, quando Roma era “caput mundi”, siamo stati la culla del Rinascimento,dove ogni angolo del nostro minuscolo paese testimonia con l’ arte il nostro glorioso passato, New York, con la sua recentissima storia, è piuttosto deludente… Musei ce ne sono tanti, forse troppi, immensi, impossibile vistarli tutti ma moltissimi sono raccolte di opere d’arte arrivate qui dall’Europa o dal Sud America (speriamo in modo legale!). Gli unici musei autentici sono quelli di Ellis Island e il memoriale dell’11 Settembre che però illustrano due momenti dolorosi della storia degli Stati Uniti. Gli Usa hanno una storia così recente, che spesso diventano luoghi storici, alcuni posti dove hanno girato un film. Lo skyline ricchissimo di grattacieli sempre più alti, molti ancora in costruzione, scintillanti al sole e illuminati come alberi di Natale di notte ma quasi tutte le metropoli moderne ne hanno uno, noi siamo stati a Shangai e non ha veramente nulla da invidiare a quello newyorkese. È una città molto verde, con parchi in ogni dove, Central park ne è il cuore ma quante altre città ne hanno di simili, il primo dei quali il Valentino e il lungo Po a Torino, tanto per citarne uno… Ci sono ristoranti ovunque con ogni tipo di cucina, la loro cucina tipica si limita a grigliate di carne o ad hamburgher con ogni tipo di salsa (anche se poi gli hamburger sono nati ad Amburgo, come dice il nome!), il tutto a prezzi esagerati, il prezzo medio per un piatto di pasta va dai 15 ai 20 $. Bellissima la messa gospel di Harlem, è comunque stato bello vivere per una settimana in questa atmosfera patinata, vedere con i propri occhi ciò che ci propone quotidianamente il cinema e la tv, vivere un po’ come una delle protagoniste di un film ma… i posti che mi hanno lasciato senza fiato sono altri… il Machu Picchu visto dal Wayna Picchu, le oasi del Sahara attorno ai laghi di Mandara, le rovine di Leptis Magna; la vista del tesoro del Faraone dal sick a Petra, i visi di pietra del Bayon ad Ankgor, le rovine del Ta Phrom stritolate dalle radici di alberi giganteschi, Timbuctù son le sue strade di sabbia e le moschee di fango, l’imponenza del tempio di Ramses II ad Abu Simbel; camminare sulla Muraglia Cinese che non ne vedi né l’inizio né la fine; la sacralità, con la sua storia dolcissima del Taj Mahal; la foresta guatemalteca vista dall’ alto di una piramide a Tikal mentre le scimmie urlatrici emettono i loro versi gutturali; la potenza di un temporale in Amazzonia su una piccola barca ancorata su uno dei bracci minori del Rio delle Amazzoni; sul Cammino di Santiago il Cebreiro e le centinaia di chiese e hospitali che hanno accolto migliaia di pellegrini da mille anni a questa parte; un leone che caccia una zebra e condivide il pasto con il resto del branco e elefanti e rinoceronti che di notte vanno a bere ad una pozza illuminata; la fiamma eterna del Mausoleo del Che a Santa Clara dove il rivoluzionario, con lo stratagemma del treno blindato ha rovesciato il governo di Batista ; una caverna dipinta con mille immagini di Buddha a Dambulla; i villaggi Dogon sulla falesia di Bandiagara ; i colori del deserto del Namib…

Più ci peso e più e più mi tornano in mente luoghi che mi hanno segnato profondamente e… purtroppo New York non è uno di quelli. Per questo, anche se so che molte saranno le persone che dissentiranno, per me New York è solo un’affascinante giungla di grattacieli!



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