Nel Sahara con i Tuareg

Maggio è un buon momento per un tour in fuoristrada nel cuore dell'Algeria, fino all'Erg del Ténéré
Scritto da: epinephelus
nel sahara con i tuareg
Partenza il: 25/10/2009
Ritorno il: 08/11/2009
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
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L’Algeria richiama alla memoria, specie dei meno giovani, eventi tragici di guerra, di massacri, di caccia all’uomo… In comune con tutti i paesi che si sono liberati dal giogo del colonizzatore europeo. Ora quel tempo è passato ed i turisti hanno incominciato, più o meno lentamente, a trovare interesse per quelle aree nordafricane così vicine a noi. Ma non si tratta di turismo facile, tipo Sharm o Luxor. Già arrivare a Tamaranset, nel Sahara algerino, richiede ore ed ore di viaggio, lunghe soste all’aeroporto di Algeri, numerosi controlli del visto e del passaporto, in breve, molta pazienza. Quindi è la determinazione del viaggiatore a necessitare, anche perché dormire in tenda, praticamente sulla sabbia, alimentarsi di verdura e scatolette, lavarsi con l’acqua di una bottiglia di plastica richiede uno spirito d’adattamento non comune. Ma la ricompensa è straordinariamente piacevole. Già quelle distese infinite, mai eguali l’una all’altra, il silenzio che regna su tutte, il cielo notturno, splendente, solcato da una via lattea che erano anni che non vedevo così luminosa, la luna piena che sorge dietro le dune (…La luna sulla duna! Recita il mio tuareg in una cantilena che ripeterà ad ogni ospite italiano) che cancella qualche miliardo di stelle ma permette col suo splendore di osservare ogni dettaglio di quanto ti circonda.

Ma andiamo con ordine, delineando il percorso di questa avventura, una delle tante che è possibile intraprendere in partenza da una delle due cittadine: la già citata Tamaranset e Djanet, distante dalla prima circa settecento km, il circa è dovuto all’incertezza della pista scelta dalla guida, e dalla inattendibilità dei contachilometri dei mezzi, solitamente vetusti.

I voli Algeri – Tamaranset hanno orari notturni con arrivo nelle prime ore del giorno successivo, s’intende… Inshallah! Se il viaggio è costituito da un “pacchetto” l’hotel sarà scelto dal fornitore del servizio e difficilmente avrà standard europeo, ma tanto la stanchezza sarà tale che la breve notte passerà in un sonno profondo, probabilmente interrotto dal canto del muezzin. I fuoristrada, rigorosamente Toyota stagionati (i nostri, del 1983 e 1995, palesemente indistruttibili), aspettano nel cortile dell’hotel e mentre il cuoco va a far spesa – per una settimana – noi passeggiamo nel suk, resistendo alla tentazione di acquistare souvenirs, peraltro esageratamente costosi, ancor prima d’iniziare il viaggio. Nelle due auto stiviamo bagagli, vettovaglie, taniche acqua e carburante – quanto serve per una settimana in solitudine, fuori dalla pista battuta – e con i due autisti ed il giovane cuisinier Mo’med, partiamo lasciandoci alle spalle questa cittadina, capoluogo dell’Hoggar, situata su un altopiano a 1400 m. Senza dilungarmi sulle caratteristiche orografiche del nostro percorso, accenno solo al fatto che l’altitudine non sarà mai inferiore ai mille metri e raggiungerà anche i 2800, proprio al termine della prima tappa: la vetta dell’Assekrem. Com’è facile immaginare, da questa quota lo sguardo spazia su valli e cime vulcaniche dell’Atakor. Spettacolo superbo, impreziosito dal tramontare del sole, dal leggero rimbombo del vento nelle orecchie, unico suono in questo silenzio assoluto.

Ed il silenzio sarà uno dei compagni di viaggio più apprezzabili, un compagno che sempre più raramente percepiamo e quasi mai per ben due settimane filate.

In verità, il silenzio della notte sarà lacerato più volte dal grido non del muezzin ormai lontano, bensì di un gatto, rigorosamente nero, che già aveva mostrato le sue capacità canore prima del tramonto e pure ci aveva stupito per il suo urlo, nient’affatto felino. Un veggente avrebbe potuto dire che nell’animale s’era reincarnato lo spirito di Pére de Foucauld che sulla vetta dell’Assekrem aveva eletto il suo eremo, nel lontano 1911 e v’era stato ucciso dalla fucilata di uno dei soliti fanatici – la storia ne è piena – che vedono nell’uomo buono e colto il diverso, il nemico da uccidere. Su questa vetta, una vetta scoscesa ed aspra, crudele, tra rocce, sole, vento, tutti elementi che riconciliano l’uomo alla vita e lo spingono verso il Creatore, quel nobile alsaziano fattosi prete, dopo una carriera d’ufficiale in un fortino francese, aveva costruito un rifugio di pietra in cui viveva pregando e studiando le tradizioni dei tuareg, finché… Quello sparo.

La casetta c’è ancora, custodita da un religioso della stessa congregazione e nella cappelletta sono raccolte poche suppellettili e qualche scritto dello studioso.

La discesa dal rifugio dove abbiamo passato la notte la facciamo a piedi, in auto saremmo stati sbatacchiati come grani nelle maracas e poi i nostri autisti inaugurano un nuovo corso: dopo la sosta, notturna o prandiana che sia, ci invitano ad incamminarci in una direzione indicata vagamente con un braccio teso… La notte d’altronde era trascorsa più o meno decentemente, tutti e cinque in un locale di pietra, branda contro branda, e quindi una sgambata ci stava bene, noi, soli umani in quello spazio infinito delineato da vette aguzze su cui il sole da poco alzatosi sull’orizzonte mette in risalto forme di cui cerchiamo di intravedere similitudini con cose o umani. Lì un capro, più in là una quasi sfinge, e poi una testa di tre quarti che pare quella dell’Eroe dei due mondi con i capelli lunghi, come appariva nei disegni dei libri delle medie. Piantine ricoperte di fiorellini rossi costeggiano il ripido sentiero (tratturo? mulattiera? Comunque lo qualifico, non rendo l’idea) smentendo il luogo comune che associa al deserto la mancanza di vita. Ma quanto ci circonda non è che una delle infinite forme con cui il deserto si manifesta ai nostri occhi, giorno dopo giorno tanto differente quanto fantastico.

Un asino si staglia da un’altura verso l’azzurro intenso del cielo, pare curioso, forse si meraviglia di vedere pedoni senza la Toyota intorno. Asini e cammelli saranno incontri frequenti, anche dove non t’aspetti presenze animali per la totale assenza di vegetazione. Ma la guida/autista osserva che un padrone c’è sempre, l’animale selvatico, libero, non esiste da tempo. D’altra parte non t’aspetti neanche distese di tamerici in mezzo al nulla sabbioso, ma poi la guida ti parla di fiumi che nel quaternario arrivavano al lago Ciad, fiumi che ora scorrono nel sottosuolo e si manifestano solo quando piove e diventano oued. Queste tamerici sono un’altra costante lungo il percorso e capisco anche il perché: non abbiamo mai incrociato un mezzo, locale o turistico, salvo intorno ai due villaggi previsti nell’itinerario. Il che implica la necessità di totale autosufficienza o, alla peggio, la possibilità di trovare acqua, e, dove crescono le tamerici, sotto c’è l’acqua e spesso ci sono pozzi più o meno antichi e accessibili. Con questo non voglio instillare il dubbio che un viaggio come questo sia pericoloso. Al contrario, le guide sono di un’affidabilità assoluta, conoscono il percorso in ogni possibile variante, sanno smontare e rimontare le loro Toyota (a noi non è capitata che una foratura, prontamente risolta con una nuova camera d’aria di scorta), conoscono e usano piante medicinali raccolte lungo il percorso, insomma sanno bene quale risorsa noi siamo per la loro esistenza ormai incentrata solo sul turismo, e la nostra soddisfazione è il loro primo obiettivo.

Ovviamente tutto si svolge con tempi africani, inutile correre o affannarsi: lasciarsi alle spalle i nostri ritmi è il primo impegno da prendere con sé stessi. E poi, volenti o nolenti, lo si impara presto: la preghiera è un must (cinque volte al dì), il tè è un piacere (tre volte la dì) e la legna dev’essere d’acacia, accesa senza l’utilizzo di carta, solo ramoscelli, altrimenti la carbonella su cui depositare la teiera non viene bene ed il tè non è gradevole. Quindi ci si ferma dove capita per la preghiera (dopo l’abluzione, solitamente lontana dai nostri occhi infedeli) e ci si ferma per raccogliere i rami di un’acacia più o meno secca, rami che finiscono prima sul tetto della Toyota e poi nel fuocherello del tè. Il tè poi è veramente un rito a cui i tuareg non rinunciano, nemmeno nella tempesta di sabbia o quando piove, come abbiamo sperimentato direttamente. Anche noi ospiti siamo chiamati a partecipare e i tradizionali tre bicchierini ci vengono serviti con priorità, beninteso dopo l’assaggio ed il beneplacito del preparatore, il più anziano dei tre. Le tre pozioni hanno intensità decrescente – come recita un loro ritornello che richiama la morte, la vita e l’amore – e tra noi non tutti terminano il ciclo: c’è chi teme effetti notturni e chi proprio non apprezza il sapore. Credo d’essere stato l’unico a non aver perso un giro… Alla fine del viaggio m’han regalato una confezione di tè. Sorprendentemente è tè verde cinese e non potrò prepararlo come il mio autista suggeriva (Hai un giardino? No? Hai un terrazzo? Si? E allora! Accendi il fuoco sul terrazzo!… Gli ho spiegato cos’è un condominio e c’è rimasto male!), mi accontenterò del gas cittadino sapendo che il risultato non sarà eccelso.

Come accennavo, un evento che uno non s’aspetta nel deserto è un uragano. Anche questo termine non è accurato, non chiarisce quel che accade. Più precisamente, il tutto inizia con l’apparire di un alone bianco, giusto all’orizzonte, come una nuvola bassa ma bianca. Sabbia, afferma la guida, che non smetteva di guardare nella direzione della tempesta di sabbia e dalla quale cercava di defilarsi.

Mentre procediamo in quella direzione alla nuvola bianca si sovrappone una nuvola, questa volta vera e tendente al nero, di mano in mano che procediamo. In breve, arrivati sotto la duna dove è previsto il campo, siamo sovrastati da una coltre compatta e nera attraversata da spettacolari fulmini orizzontali che illuminano a giorno le tende che in tutta fretta abbiamo montato. La scena è francamente surreale: tira un forte vento, con raffiche violente che mettono a dura prova le intelaiature delle nostre alcove e la già limitata resistenza dei picchetti nella sabbia, guardiamo perplessi il cielo senza che alcuno si azzardi a far previsioni, ma un minimo di preoccupazione s’avverte. Ed i tuareg? Tranquilli, sdraiati sulle loro stuoie ad attendere il tè che l’anziano sta preparando imperturbato. Non piove! Sostiene la guida. Ma il cielo è talmente pauroso che è difficile credergli, e poi lo scioglimento delle nubi lo si vede poco distante alla luce dei fulmini, al punto che nemmeno osiamo estrarre le macchine fotografiche e riprendere questo fenomeno straordinario nel quale siamo immersi. Peccato, avremmo raccolto immagini da primo premio senza bagnare le macchine: il tuareg ha avuto ragione, dov’eravamo noi non ha praticamente piovuto! Il giorno dopo gli effetti della tempesta erano evidenti lungo il percorso: negli oued l’acqua a tratti abbondava e già si vedevano forme di vita vegetale ed animale beneficiare di quel raro regalo del cielo. In particolare, nel parco nazionale Esséndiléne, le guelte (pozze) sono ricolme d’acqua e non permettono d’inoltrarsi nei canyon più stretti. Ma ciò non impedisce di apprezzare la bellezza di una gola ricca di vita: vegetazione rigogliosa, tipica degli ambienti umidi, tamerici, oleandri, palme, acacie e animali domestici, capre, pecore, cani, gatti, cammelli, tutto sovrastato da guglie d’arenaria rossa rilucenti al tramonto. In questo ambiente i turisti abbondano: col cammello i più arrivano da Djanet, poco lontana. In realtà i cammelli trasportano i bagagli e qualche ragazzino, gli altri, i duri, vanno a piedi: con una ventina di km al dì in tre giorni s’arriva in questo paradiso.

La nostra meta, al termine della prima settimana è Djanet. Chiamata “perla del Tassili”, è un borgo attraversato dalla RN3 – strada asfaltata che prosegue per la Libia – e impreziosito da un palmeto un po’ malridotto. In verità tutto appare assai maltenuto, ma è sciocco valutare con i nostri occhi ed i nostri canoni. Nel borgo c’è quel che serve per viverci e per rifornire le carovane (d’auto, asini o cammelli che siano) dei turisti che arrivano il sabato notte, partono per il trecking la domenica mattina e ritornano il sabato pomeriggio successivo. Alle 20 di ogni sabato la città è spettrale, i bar (2!) sono chiusi, il ristorante non ha avventori, e par la strada non si vede anima viva. Poi, venuto il nostro ultimo sabato, capiamo perché: tutti i turisti sono in aeroporto in partenza, tutti i tuareg sono all’aeroporto ad attendere le centinaia di turisti negli aerei ritardatari provenienti da Algeri (con i non francesi) o direttamente dalla Francia. Ed il ciclo riprende. Anche noi, dopo una notte passabilmente tranquilla in albergo, muezzin delle 04:00 a parte, ed una doccia superba che ha asportato anche la sabbia dalle orecchie (risultato difficile da conseguire con la razione di un litro d’acqua al dì ad uso …Igienico), siamo pronti a partire. Il magazziniere (sì, nell’organizzazione c’è anche un addetto all’approvvigionamento delle vettovaglie che però deve avere una lista della spesa standard, che non cambia nonostante le nostre osservazioni e i suggerimenti per rendere un po’ meno ripetitivo il menù quotidiano), un ometto minuto che pare avere cent’anni, ma ne avrà certamente assai meno, finisce di disporre gli alimenti in terra ed il cuisinier li sistema con criterio nella vettura. Ovviamente il frigorifero non c’è, e la verdura si conserva fresca per qualche giorno se seppellita al centro del bagaglio dove i trenta gradi diurni non arrivano. La notte poi, a dieci/dodici gradi, aiuta la conservazione. La direzione questa volta punta a Sud/Est: un percorso circolare che sfiora il confine e l’Acacus libico per poi risalire con un ampio giro che in sei giorni attraversa le grandiose dune dell’Hoggar e le piatte distese infinite del Teneré che continuano nel Niger. Partiamo quindi in direzione del Tadrart percorrendo una pista ai bordi della falesia del Tassili fino ad un’altra guelta circondata da massicci arenarici. Un nutrito gruppo di turisti europei qui giunti sulle loro fuoristrada – prevalentemente eleganti, tipo città! – sta finendo lo spuntino di mezzodì ed in breve ci lascia proprietari del sito. L’acqua di questi bacini è solitamente fangosa, comunque marrone. Questa invece è limpida segno che una qualche sorgente vive ancora nelle profondità dello oued. Un giovane touareg cammellato porta ai nostri qualcosa che non intravedo e se ne va con un sacchetto di zucchero, forse il suo tè ne reclamava di più…

Anche noi, dopo l’abituale rito, ce ne andiamo. Ora è un susseguirsi di hammada (deserto di pietra e roccia) che ci piomba in un paesaggio dall’aspetto lunare e che sfocia in una serie di dune dalle sfumature grigie fino all’oued In Djeran che defluirebbe (se ci fosse ancora acqua) nell’Acacus. E qui, nelle alte pareti arenariche dell’oued si apre una delle più interessanti gallerie d’arte pittorica rupestre del Sahara: giraffe, scene di vita pastorale con buoi bicromi, immagini di caccia a cervidi. E poi graffiti, ancora con giraffe, elefanti, buoi.

L’oued In Djeran si perde fra le stupende dune rosse dell’Erg Tin Merzuga, dalla cui altezza appare l’immensa distesa del deserto libico. Imperdibile la scalata, coi piedi nudi che affondano nella sabbia ancora tiepida, per farsi avvolgere dall’atmosfera dorata che il sole ci offre con il suo tramonto. La luna, ora piena, trasforma con il suo bianco fulgore il paesaggio: i grani di sabbia ne riflettono il chiarore rendendo la duna più splendente che mai. Ombre paurose sono create dalle tortuose rocce che paiono castelli, torri, e richiamano figure mitologiche. Ormai la tempesta di quella sera passata è un lontano ricordo: ora le sere e le notti incipienti ci immergono in una sensazione di pace profonda: la televisione, il quotidiano, la politica, la crisi, le trasgressioni sessuali del politico di turno… Tutto è lontano, ignorato, nemmeno arriviamo a chiederci: chissà cosa è successo nel… E’ una sensazione che già una settimana di vita nel deserto ci permette di conquistare: meglio farne tesoro, prima che il ritorno nella nostra civiltà ci risvegli crudelmente.

Percorrendo a ritroso l’oued In Djeran proseguiamo per Alidemma, distesa senza fine di faraglioni rocciosi che emergono dalla sabbia dorata. Ci si perde passeggiando tra queste rocce, pur così differenti l’una dall’altra. Ma sono così numerose che pare di passeggiare tra i vicoli sabbiosi d’una città antica, morta, abbandonata. Anche qui una novità, la tombe preislamiche: anelli concentrici di pietra con una sorta di percorso d’accesso. Ce n’è un paio non distanti dal nostro campo. A detta delle guide sono molto antiche, quanto antiche non si sa, dubito abbiano riesumato i resti per analizzarli col carbonio 14.

Il paesaggio cambia ancora, ma ormai non ci stupiamo più: ogni giorno nuovi colori, nuovi orizzonti, rocciosi, sabbiosi, ed oggi vuoti! Non c’è nulla davanti alle auto, vedo la linea dell’orizzonte come fossi sulla tolda d’una barca, netta, leggermente curva a destra e a sinistra, proprio come sul mare, senza le onde a muovere un po’ il confine tra cielo e terra. Scopro un fenomeno che non conoscevo: nel miraggio, ovvero nella distesa chiara, sotto l’orizzonte che fa apparire un mare che non c’è, le isole di roccia che emergono dalla piatta superficie, si riflettono senza rovesciarsi, come invece accadrebbe su uno specchio d’acqua vera. E’ il Teneré, il nulla, il vasto deserto bianco e piatto, bidimensionale, solo larghezza e lunghezza, altezza zero! Non ci sono punti di riferimento, cioè non ce ne sono di naturali. Ma questo deserto è stata l’arena d’una spedizione di un certo Berliet, costruttore francese di grossi camion, che pare mandasse i suoi prodotti quaggiù, per il collaudo. Qui le balise (aste metalliche con cartello numerato sovrastante, piantate nella sabbia) sono l’unico riferimento visibile a perdita d’occhio. Ce ne sono fino ben dentro il Niger, ma noi, incontrata la balise 21, viriamo ad ovest e ci dirigiamo verso i monti Gautier che lentamente sorgono da questa distesa.

Osservo la guida: non guarda praticamente avanti, il capo è in rotazione continua, cosa controlli o cerchi non riesco a capirlo: non c’è nulla, almeno per i miei occhi. Certo, sul terreno le tracce di ruote abbondano e vanno nella nostra direzione il che è rassicurante. Talune le incrociamo, impresse da mezzi cingolati. Ma non sono carri armati, sono i solchi lasciati dai veicoli di ricerca petrolifera che qui, in questo deserto, cercano – e trovano – l’oro nero. L’avventura volge al termine e la stanchezza si fa sentire: oddio, non facciamo nulla se non camminare un paio d’ore al giorno, forse anche tre se c’è una duna da scalare all’arrivo serale; restiamo seduti per non più delle sei ore di guida dei nostri conduttori, non cuciniamo, non laviamo stoviglie, quasi non ci laviamo nemmeno noi (ma non si “sente” assolutamente), insomma l’unica altra attività di un qualche impegno è guardare nel mirino della macchina fotografica, che fa tutto da sola, e schiacciare il pulsante. Meno di così…

In ogni caso conveniamo che dieci giorni nel Sahara potrebbero bastare, pur nella inesauribile varietà di paesaggi. Che comunque non sono esauriti perché le successive dune dell’Erg Admer sono di una finissima sabbia rosa. Questo colore infatti ci mancava: bianca, grigia, dorata, cangiante, ma rosa doveva essere il tocco finale. L’ultima sgambata mattutina è ai piedi di dune sinuose dai contorni netti ma dolci, linee morbide che richiamano delicate rotondità femminili, poi, dopo più di un’ora siamo raggiunti dalle auto, minuscoli puntini che s’avvicinano da lontano. Ed infine l’ultima incisione rupestre: “la vache qui pleure” un bassorilievo finemente lavorato e ritenuta la più bella opera d’uno sconosciuto artista del paleolitico. Attorno alla roccia si accalcano decine di turisti arrivati tutti insieme: è l’ora di pranzo e tutte le guide touareg mantengono questo sito come ultima visita prima di rientrare a Djanet nel primo pomeriggio.

E come tutti i sabati si consuma il rito delle partenze e degli arrivi. L’ultima cena a base di mechoui, montone alla brace, la consumiamo sotto un ennesimo tramonto che ci ha lasciato un ricordo indelebile, anche perché il vento, con contorno di sabbia tra i denti, non ha voluto mancare l’occasione di darci l’ultimo addio.



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