Messico Nord e Centro
Pochi giorni prima della partenza per il Messico, un gruppo di fanatici dinamitardi ha pensato bene di farsi scoprire con le mani nel tritolo dalla solerte polizia londinese. Questi figli della Regina hanno di fatto quasi mandato in tilt il sistema di aviotrasporto inglese e americano. Nessun bagaglio a mano se non una busta di plastica con portafogli, biglietto e passaporto. Io mi sono attenuto scrupolosamente ai dettami, ho preso una busta di biscotti, ho tolto le briciole, ci ho fatto un paio di buchi e mi sono avviato alla volta della tratta Roma-Mexico City via Milano-NewYork. Dovendo cambiare tre aeroplani, mi è toccato fare scalo tre volte e triplicare le code. Ad esempio nella ospitale Grande Mela ho dovuto affrontare la coda per l’accettazione negli Stati Uniti, con il simpatico protocollo che vede i passeggeri allungare gli indici in un lettore di impronte digitali e mostrare il volto tumefatto dal sonno e da fuso orario alla telecamera della Immigrazione. Passato il primo zig-zag in solo 40 minuti, sono andato a recuperare il bagaglio (attesa), l’ho consegnato all’ufficio bagagli in transito (attesa), sono uscito giusto in tempo per fare un altro check-in di 30 minuti. Altra coda da arca di Noè ai metal-detector dell’ingresso alle partenze dove facevano togliere persino le scarpe per farle passare ai raggi-X, mentre la nube tossica sprigionata dai piedi dei viaggiatori era appena mitigata dai profumi al mughetto spruzzati dalle malcapitate e cianotiche guardie.
Ad ogni modo sono giunto a Città del Messico, o De-efe, come la chiamano lì, sano e salvo, profumato come una capra e con tutti i cavoli salvati, dove mi aspettava il dolce sorriso di Paulina.
Dopo una colazione degna di questo nome all’Hotel Fiesta Inn (sempre lo stesso da quando bazzico il tropico), basata su un menu da Nozze di Cana (ma analcolico), abbiamo deciso di dedicare il primo ed unico giorno di Mexico City alla visita del quartiere di Coyoacan.
Questa elegante borgata è piena di ville di lusso, con porte e cancelli blindatissimi, a volte con tanto di guardia armata davanti. È stata la residenza di personaggi illustri come la super famosa e onnipresente baffuta (e non criticatemi Tiziano Ferro) Frida Kahlo, col suo amato pittore Diego Rivera e anche del russo rivoluzionario ribelle Trotskij trucidato per ordine del Baffone in persona.
Nel cuore di Coyacan si trovano due piazze gemelle, ed una chiesa (figlia unica). Di domenica, il nostro giorno di visita, si tiene un mercato di souvenir e cianfrusaglie varie, affollatissimo.
Non mancano individui vestiti da Azteca precolombiani che, in cambio di pochi pesos, affumicano e spolverano con foglie di felci i passanti che vogliono farsi togliere il malocchio.
Dopo aver apprezzato l’eleganza di alcune sue strade e piazze, la pace del suo Parco/Vivaio, ci siamo riposati guardando dei balletti folcloristici di tutta l’America Latina, circondati da stand di presentazione dei vari paesi. Come sempre succede, il grande assente era lo stato del Brasile. Sembra quasi che non faccia parte del sudamerica… In effetti il premio nobel Octavio Paz, in un famoso saggio sul Messico e i messicani, si chiede quale siano le differenze significative tra le nazioni del sudamerica (hispanoablanti, aggiungo) ed i motivi che giustifichino la presenza di confini se non spartizioni burocratiche di influenze feudali…
La stessa sera ci siamo messi in viaggio in autobus alla volta di Cuernavaca, una città famosa per ospitare ville e buen retiros di persone illustri, fin dai tempi di Cortez.
Sistemati in un hotel rebberciato, ma al centro della città, abbiamo fatto la conoscenza con il centro storico, ormai già dopo il tramonto.
La piazza centrale ha la caratteristica unica in tutto il Messico, di non avere insieme il palazzo comunale e la cattedrale. In questo caso Stato e Chiesa sono ben separati.
La città era piena di vita e di locali dove si cenava, beveva e ballava. Come solitamente avviene alla latitudine tropicale, gli avventori con grande eleganza e leggiadria si scioglievano in danze in salsa piccante. A tutte le età uno spirito si agita e li agita senza fiaccarsi mai.
Il giorno seguente avremmo volentieri visitato una delle ville o uno dei musei di Cuernavaca, ma il lunedì è il giorno sacro al Signore dei Custodi. Tutto chiuso.
Siamo rimasti in giro a visitare le chiese della centro aperte ed a pianificare l’immediato futuro.
Con le idee confuse e la guida illuminante in mano, abbiamo deciso di andare a visitare Zihuataneco, un ex-villaggio di pescatori, trasformato, insieme alla vicina Ixtapa, in un paradiso del turista balneare.
Ci siamo informati alla stazione degli autobus: una corsa di 4 ore fino ad Acapulco (che Paulina già conosceva e che non l’aveva gradita) e poi la coincidenza di un altro bus di 4 ore per il paradiso promesso.
Nel terminale dei bus ci siamo un po’ riposati. Davanti a noi c’era lo spettacolo dell’ingresso delle toilet. Un signore lavorava tutta la sua giornata rimanendo in piedi ad infilare le monetine per pagare l’ingresso. Sarà mobbing? Ad ogni modo alle sue spalle, su una lunga parete mattonellata, erano appesi dei rotoloni di carta igienica. I singoli bagni dovevano esserne sprovvisti. Dunque ognuno doveva prendere, Prima, la propria razione di carta. Si vedevano, uomini o donne, staccare qualche pezzetto appena (visto che avevano pagato…) oppure a doppio braccio arrotolarsi il nastro bianco come issassero una rete da pesca. Così messi a nudo si poteva finalmente dare risposta ad una delle domande più ricorrenti in certe case: “ma chi è che si mangia la carta igienica?” Risposto al quesito filosofico siamo tornati a prendere le valige in hotel e abbiamo preso un taxi per la stazione dei bus. Il solerte tassinaro, informato sulla nostra meta e sulla nostra scelta della compagnia di autotrasporto, ci ha convinti a cambiarla, per passare (dalla Stella Bianca) alla più professionale e comoda Stella d’Oro. La corsa in taxi era dello stesso prezzo. Forse aveva dei parenti che ci lavoravano.
Comunque, convinti, abbiamo cambiato compagnia e stazione di bus (stranamente a Cuernavaca ognuna teneva il proprio terminale, ben distante da quello degli altri). Qui la sorpresa: con questa compagnia non c’erano le coincidenze per Zihuataneco. Pazienza, saremmo dovuti rimanere ad Acapulco e poi si sarebbe visto.
Avevamo già cambiato programma dopo 5 minuti dalla partenza! Acapulco: taxi! Appena messo piede nella città, un signore ci ha accalappiati e proposto un hotel in super offerta. Due notti più una terza omaggio, in hotel a 4 stelle per un pugno di euro (50). Un po’ fatti, vista l’ora e il viaggio, abbiamo accettato e ci è andata bene.
Con la stanche membra sistemate ci siamo tuffati in questa famosa località che a Paulina non era piacuta. Non le si può dare torto.
Acapulco è abitata già dai primi anni del 500, si trova su una grande e bellissima baia protetta dalle micidiali onde del Pacifico, un porto naturale bell’e pronto all’uso, affacciato verso il vero Catai.
Dismessa la funzione di scalo, ora è un polo turistico, capace di attirare a sé la gente come un Buco Nero spaziale. Vivono lì ben 600 mila persone! Si riversano sulla costa orde di scalmanati da Città del Messico, che dista solo 5 ore di autostrada.
La zona vecchia, col porticciolo, la piazza e tutto quanto, è un formicaio di venditori urlanti, turisti compranti e mangianti a volte tuffanti nelle acque portuali o passeggianti e pieno di tassisti strombazzanti e imploranti una corsa.
Lungo la costa corre una fila ininterrotta di hotel e ristoranti, alle spalle uno stradone a doppia corsia e dietro ancora qualche hotel e poi le sterminate distese di case di quelli che lavorano per i turisti.
Le nostre 4 stelle (o direi 3) si trovavano nella zona detta Acapulco Dorata, all’altro estremo della baia rispetto al formicaio. Tutto era nuovo, hotel a 20 piani, eretti come mura sul limitare del mare, qualche Mac Qualcosa, supermercati gigante e lo stradone rumorosissimo e trafficatissimo.
Siamo usciti a sera fatta per mangiare qualcosa. Appena messo piede fuori dall’hotel, si sente: “Taxi?”. Tre tassisti pronti ad accompagnarci. “Grazie no”, dovevamo giusto girare l’angolo per andare a vedere la spiaggia. Forse la sera hanno poco lavoro, ho pensato.
Il primo impatto con la spiaggia è stato deludente. A parte le 600 mila luci della costa che punteggiavano la notte, la spiaggia pareva abbandonata e un po’ sporca, quasi male olente. Un tragico errore forse la nostra scelta?
L’indomani siamo andati a saggiare l’acqua. Appena poggiato lo zoccolo fuori dalla proprietà privata dell’albergo: “Taxi?”.
Non lavorano nemmeno di giorno! In Messico in generale, e ad Acapulco in particolare ci sono centinaia di migliaia di taxi. Almeno quanti motorini si possano vedere a Roma. Ogni tre o quattro passi lungo lo stradone si sente il clacson del tassista suonarti, o il braccio alzato dal finestrino attirare l’attenzione o per la strada appostato dietro un cespuglio balzare fuori ad offrire passaggi.”Taxi?” Scansato l’assalto abbiamo visto l’acqua: calma, calda e abbastanza cristallina. La spiaggia ripulita nottetempo ed occupata da abusivi che offrivano riparo con degli ombrelloni.
Il pomeriggio l’abbiamo dedicato a visitare il formicaio.
Ci siamo diretti alla fermata dell’autobus dove nei 2 minuti di attesa del bus, siamo stati sottoposti al fuoco nemico dei tassisti, eravamo proprio la preda pronta ad essere infilzata. Ma noi, duri, abbiamo resistito fino all’arrivo del bus.
Che altro non sono che dei taxi un po’ più grandi. Lì l’autista ha il compito di guidare nel traffico scriteriato, far salire e scendere i passeggeri, farsi pagare dando il resto, adocchiare possibili passeggeri, strombazzarli e farli salire dove capita.
Il nostro era un modello scassatissimo, senza aria condizionata. L’autista portava sulla spalla, non già un pappagallo, come si addice ad un pirata qual era, ma una pezza penzoloni per asciugarsi il sudore della fronte.
Ad accompagnarci nel tragitto, il nostro Caronte pompava a tutto volume una canzone rock anglo-spagnola. Il volume era tanto alto da far sentire le vibrazioni su tutto il corpo. O forse erano i cilindri del motore a vibrare…
Ormai sfumato Zihuataneco, passando davanti ad un rent-a-car abbiamo pensato approfittarne e andare a fare un visita alla Costa Chica, in direzione sud.
Unos sopecitos A bordo della nostra Chevy Chevrolet (una opel corsa) nuova fiammante, ci siamo diretti verso la costa sud-est in direzione dello stato di Oaxaca, verso Puerto Escondido. Appena usciti dalla baia siamo approdati a Puerto Marquez, una piccola baia infestata da venditori ambulanti. Neanche siamo scesi dalla macchina e ci siamo diretti ad Acapulco Diamante. Si tratta della zona più nuova di Acapulco, fuori dalla Baia con il mare calmo. Ci sono vari alberghi di lusso sfrenato e spiagge sconfinate, sgombre di vita umana ma con onde alte per il surf.
La spiaggia si chiama Revolcadero, che vuol dire qualcosa che ti ribalta e rigira come una frittata.
La zona è ancora poco popolata ma non so fino a quando.
La statale 200, che costeggia tutto il Pacifico Messicano attraversa un territorio molto verde e pieno di palme. Dopo un po’ si stacca dalla costa e si inoltra verso San Marcos e Cruz Grande. Due paesi di una certa grandezza.
Lungo il centinaio di chilometri percorsi, non abbiamo incontrato che pochi villaggi di poche case, la cui presenza si notava grazie ai famigerati topes che minano le strade Azteche. ( Si tratta di rialzi per rallentare il traffico, ma sono così alti che bisogna fermarsi per non sfondare la macchina).
La nostra meta era Playa Aventura, che, a detta dell’infallibile guida Lonely Planet, era praticamente i-n-c-o-n-t-a-m-i-n-a-t-a, tanto che, a sentire l’infallibile, sulle cartine risultava citata come un anonimo e poco invitante Juan Alvarez.
Che cosa si può volere di più dopo il bagno di folla acapulchense? Folgorati dalla parola magica, a capo chino ci siamo diretti alla Aventura.
Percorsi i belli e interminabili chilometri di statale 200 tra fiumi, piantagioni e palme, siamo giunti a Cruz Grande.
Il paesaggio era molto bello, pieno di altissime palme, mi sembrava proprio il Vietnam. Certo che il mondo è vario, ma non così tanto. In fondo in fondo queste vegetazioni tropicali sia assomigliano un po’ tutte… Mentre fantasticavo con questi profonde riflessioni sulla vegetazione dell’Indocina, Paulina, sfogliando la guida, mi ha detto: “Ma lo sai che da queste parti hanno girato Rambo?” Quando mancava ormai poco alla spiaggia i-n-c-o-n-t-a-m-i-n-a-t-a quando scorgiamo un cartello “playas” (spiagge). Che la guida non riportava. Che fare? Ci siamo avventurati. La strada era piena di buche ma asfaltata, abbiamo incrociato un furgoncino, lo abbiamo fermato per chiedere informazioni. Un bambino di 12-13 lo guidava! Pareva che non arrivasse nemmeno ai pedali, ma stava lì. Ci ha detto di proseguire, blaterando qualcosa sul monte… O sul picco… Ma non c’era una playa? Abbiamo proseguito fino ad attraversare un paesino, Chautenango, povero ma pieno di bambini in bici. Qualche chilometro di giungla vietnamita più in là ed abbiamo trovato la laguna di Chautenango.
Sul posto non c’era traccia di spiaggia. Solo una casupola con delle persone a dormire sull’amaca e una grande laguna. Subito si è avventato un giovane su di noi. Ci ha assicurato che dall’altra parte della laguna, dove si incontra con l’oceano, c’erano delle belle spiagge e un “risorante” dove mangiare. Ci saremmo trovati benissimo e ci avrebbero traghettato loro con una lancia dall’altro lato. Ci ha convinto, abbiamo lasciato la macchina sotto un cannicciato e siamo andati di la.
Dall’alto lato abbiamo trovato un posto bellissimo. Una lingua di sabbia con alcune “palapas”, capanne dotate di qualche tavolo, amache e nulla più. Nessuno in giro. Ma proprio nessuno. L’acqua dell’oceano era particolarmente tormentata, oltre alle normali onde oceaniche c’era la forte corrente di acqua in ingresso e uscita dalla laguna. Ci siamo fatti il bagno proprio nel punto in cui si univano. L’acqua sembrava non avesse le idee chiare sul da farsi, ti sballottava un po’ in tutte le direzioni.
Era veramente un bel posto.
Dopo una mezzoretta si è avvicinata una anziana signora: scusate non vi avevo visto. Come se ci fosse stato un gran via vai di gente e le fossimo sfuggiti tra la calca. Doveva essere la padrona della baracca. Subito ci ha proposto da mangiare “unos sopecitos” (che pronunciava “unosopesitos”, a bocca sdentata, mento in fuori e labbro inferiore molto vicino al naso). Lì per lì, io avevo capito che si trattasse di una zuppetta (sopa, sopasitas) ed ho immaginato la vecchia strega a rimestare in un calderone tutto il giorno un liquido ribollente. Insisteva. Forse ne aveva fatta troppa e cercava a tutti i costi di spacciarcela. Ero non poco atterrito all’idea di dover mangiare una zuppa di dubbia origine al caldo tropicale. In realtà si trattava di semplici tortillas (piadine di mais) con sopra cibaglia varia. Alla terza o quarta volta che insisteva con questi sopecitos, Paulina le ha detto di sì. Le abbiamo chiesto se avesse del pesce, ci ha blaterato delle scuse e ci ha indirizzato all’altro ristorante, quello della nipote.
Scansata la minestra, fiduciosi siamo andati ad una capanna/ristorante. C’era una signora che sonnecchiava su una amaca. Abbiamo girato tra le panche fino a che non si è svegliata e si è data subito da fare per cucinare. Ha tirato fuori un pesce fresco, col machete lo ha diviso, preparato ed arrostito alla brace. Già che c’era ha pure preparata delle tortillas.
Mentre il pesce era in cottura ne abbiamo approfittato per fare un bagno nella laguna. Acqua calma, pulita e con poca corrente. Il pesce era saporito.
Purtroppo abbastanza presto siamo dovuti andare via, il nostro Caronte è venuto a riprenderci coi sui baffi messicani ed abbiamo dovuto lasciare la bellissima spiaggia “Pico del Monte” Recuperata la macchina ci siamo diretti verso la spiaggia incontaminata. A dispetto di quanto diceva la guida, c’erano dei bei cartelloni che indicavano Playa Ventura (e non Aventura), c’erano un bel po’ di costruzioni, ma nel complesso rimaneva un posto rustico. Lì mancava la laguna, e l’oceano era veramente molto agitato. In alcuni punti della costa le onde si alzavano in modo preoccupante. Incontaminata o no, la playa era molto bella. A differenza di altre spiagge, aveva degli scogli di granito rosato, che lasciavano una sabbia dorata.
A testimonianza della natura rustica del posto ecco una foto del raffinato bagno di un bar. Dice: Uomini – Per favore buttate l’acqua nella tazza.
Siamo ritornati nottetempo ad Acapulco, io un po’ triste per aver lasciato uno dei posti più belli che abbia visitato.
Zacatecas, bel suol d’amor Dopo una mattinata di sole e relax nella piscina dell’hotel, il piano prevedeva una ritirata strategica a Zacatecas, la città di Paulina.
Così in sole 15 ore di autobus siamo arrivati nella meravigliosa città patrimonio dell’Unesco. La ricchezza delle miniere d’argento ora la si ritrova nella bella architettura barocca delle chiese del centro, nelle strade circondate da case costruite in “cantera”, una bella pietra rosa.
In questa città abbiamo trascorso la maggior parte del mio tempo a disposizione. Ho anche avuto modo di partecipare ad un matrimonio messicano. Non avendo un vestito adatto e non avendo il tempo di comprarne uno, lo ho affittato. Nella sartoria spacciavano soprattutto abiti per cerimonie particolari, ad esempio lauree. Preparavano delle toghe con tanto di cappello con cima quadrata. Ma affittavano anche, non so bene per quali cerimonie, dei vestiti da cadetto, con delle belle spade pronte da sguainare. Per fortuna avevano anche un vestito “normale”. Mi hanno preso le misure e in poche ore hanno approntato l’opera. Mi calzava perfettamente, se non fosse stato per la camicia con il collo troppo grande (mi sentivo col decolleté) ed i pantaloni un po’ troppo stretti. Per fortuna non si è mangiato molto.
Curiosità. A festa inoltrata gli sposi sono passati per la sala con una grossa busta in mano. Distribuivano a tutte le donne delle pantofole con le loro iniziali (Raul e Xochitl). L’idea, del tutto originale, pare, sembrava al momento una mezza cafonata. In verità tutte le donne, di ogni età, le hanno calzate ed hanno proseguito a ballare molto più comodamente. Lo sport nazionale messicano è la Charreada, non potevo permettermi di perderla. Si tratta di una serie di scontri di uomini contro tori, vitelli e cavalli. Devono afferrare in vario modo queste bestie: con le mani, con il lazo, a piedi o a cavallo. Oppure devono cavalcare queste bestie inferocite. Devono inoltre dimostrare padronanza del cavallo, facendolo piroettare, impennare e, addirittura, scivolare sulle zampe come se fosse su ghiaccio!! Un’altra manifestazione famosa di Zacatecas è Las Morismas. Una ricostruzione storica di un assalto e riconquista dei Cristiani di un castello preda dei Mori. Cose di tempi di Carlo Magno in terra di Spagna. Las Morismas consiste, in pratica, in un raduno di centinaia di volontari, vestiti da Cristiani che si assiepano sulla cima di una collina. Da lì, dopo aver formato una grande croce umana, recitato delle preghiere e pronunciato minacciose frasi di rito, si lanciano giù a valle fino al castello dove altri volontari Mori sono disperatamente asserragliati. Qui si continua ad inscenare la battaglia fino alla capitolazione della fortezza ed al lugubre taglio della testa del Moro!
Real de Catorce Tra le attrattive dei dintorni di Zacatecas, c’è la città di Real De Catorce. Si tratta di una antica città mineraria fantasma, abbandonata da quando le vene di argento si sono esaurite. Oggi rivive una seconda giovinezza. È stata infatti riscoperta da alcuni artisti che, spinti dalla voglia di isolamento, o dalla penuria di fondi per l’acquisto di una casa propria, o attratti dai funghi allucinogeni peyote che qui crescono, sono venuti a riabitarla occupando le case lasciate vuote. Al momento attuale il paese è in gran fermento, gli artisti ed i turisti hanno cominciato ad attrarre sempre più gente, più che altro venditori di souvenir, e svariati registi che vi hanno girato alcuni film.
Per arrivare al paese abbiamo dovuto percorrere più di 250 chilometri. Prima lungo uno stradone di 150 chilometri nel semi-deserto di Zacatecas, sulla “carrettera” per Saltillo, di fatto priva di curve, che attraverso la linea del Tropico del Cancro in un punto segnato da una palla gigante. Poi abbiamo preso una strada secondaria dove per 40 chilometri non abbiamo incontrato anima viva. Abbiamo avvistato un uccello che assomigliava ad un’aquila ed un “corre camino”, o in inglese “road runner”. Quella specie di struzzo che si fa beffe di Wile E. Coyote. Si tratta di una specie di gallinaccio con le zampette lunghe e strette, alto 40 centimetri, con una cresta di gallo in testa. Ne abbiamo avvistato uno che io prontamente ho riconosciuto essere una upupa. Poi Paulina mi ha illuminato.
Infine per giungere a Real de Catorce, c’è l’ultima penitenza: 24 chilometri di strada acciottolata! 24 eterni chilometri di forti vibrazioni lungo una vallata che sale verso la meta tra cactus di varie forme, qualche rovina abbandonata di convento o palazzo.
L’ingresso alla città avviene attraverso un tunnel con un semaforo vocale. Un paio di addetti si chiamano per interfono e fanno passare le macchine nello stretto budello lungo 2300 metri.
Il fantasma dal paese era fuggito via, sfrattato dai nuovi inquilini. A testimonianza di ciò basti pensare all’internet point presente pure qua.
Nelle zone circostanti Real de Catorce si trovano ancora molti indios di stirpe Huichol. Nel paese ho fotografato una bambina col fratellino a “cavacecio”.
Real de Catorce è stata un po’ una delusione, non era né abbandonata né recuperata, una via di mezzo senza grande senso. A concludere la giornata ci ha pensato un bel temporale, figlio di qualche uragano che flagellava la costa, che ci ha tenuti sotto una tettoia più di un ora. Poi ci siamo decisi a non attendere oltre e siamo andati alla macchina sotto la pioggia battente. Il paese era tutto un saliscendi, le piogge forti avevano creato dei fiumi in piena lungo le strade. Uno di questi fiumi passava sotto la macchina di Paulina! Con un po’ di acrobazie sono riuscito a guadare la strada senza ficcare i piedi nell’acqua ed ad uscire con la macchina dal fiume per poter tornare a casa.
Aguascalientes
Una vera sorpresa per me è stata Aguascalientes. Una città industriale a sud di Zacatecas, a circa un’ora e un quarto d’automobile. Il centro brulica di vita, la piazza centrale (con chiesa e palazzo governativo) è grande e bella, ordinata e pulita. Ci sono persino i cestini per la raccolta differenziata organico-non organico! Qua e là fiori e piante ed un grande ordine e pulizia.
Nel palazzo governativo, ex-casa privata signorile, c’erano diversi murales molto ben fatti. Il solito tema della storia del Messico, ma anche scene di vita quotidiane e tocchi di realismo.
Abbiamo visitato un paio di chiese e abbiamo passeggiato in alcuni bei quartieri prima di tornare verso Zacatecas Chilangos
Il mio viaggio è giunto al termine. Ho passato la mia ultima giornata a Città del Messico visitando il Museo della Rivoluzione dove una guida pittoresca ha illustrato il confusionario periodo tra il 1910 e il 1920 con i suoi continui golpe e contro golpe. Quindi sono passato per un museo che mostra l’enorme e famoso murales di Diego Rivera “Sogno di un pomeriggio domenicale” in cui illustra una folla di personaggi che hanno fatto la storia del Messico.
–oOo– Per vedere anche le immagini di questo resoconto: http://xoomer.Alice.It/gerardoguida/mex06/Messico2006.Html