Magico Madagascar 3
Il trekking concordato inizialmente diventerà quindi di tre giorni con due notti da trascorrere in tenda. La variazione al programma è stata possibile solo ora perché prima di partire ci siamo anche allenati per un trekking di media lunghezza, ma non eravamo certi di potercela fare. E’ stato solo parlando in loco con gli addetti che siamo riusciti a renderci conto delle effettive difficoltà del programma. Sistemato l’ultimo dettaglio siamo pronti a partire. Imbocchiamo la RN7 per qualche chilometro fino a Antsirabe. La città è abbastanza polverosa e il caldo si fa soffocante, ma si tratta più che altro di una sosta tecnica, perché lungo il percorso abbiamo forato una gomma. La guida ci ha messo proprio tanto a cambiarla, forse perché non aveva l’attrezzatura adatta. Non conoscendolo ancora bene, ci siamo guardati un tantino preoccupati chiedendoci: abbiamo forato su strada asfaltata, e se succede su pista in un posto sperduto? In seguito non mancheranno le occasioni per ricrederci; la guida è molto in gamba e riuscirà a risolvere ogni intoppo con la massima calma.
Da Antsirabe prendiamo per il paese di Miandrivazo dove dormiamo all’hotel La Pirogue. Adagiato sulle sponde del fiume Tsiribihina in posizione rialzata, lo troviamo abbastanza pulito e fresco. La temperatura intanto incomincia a salire, ma è tipo una nostra primavera inoltrata. Le prime impressioni: tanta povertà nella capitale, case davvero fatiscenti e sporcizia, ma l’accattonaggio non sembra diffuso e la gente non guarda il turista con rabbia, come ci è capitato di vedere in altre parti del mondo. La maggior parte delle persone sorride o si limita ad andare per la propria strada con grande dignità. Anzi, è proprio questo grande sorriso, i saluti e la gentilezza dei malgasci che ci colpirà nel prosieguo del viaggio.
Il giorno seguente trasferiamo i nostri bagagli sul barcone che sarà la nostra casa per i prossimi tre giorni e iniziamo la discesa del fiume. Si procede con grande lentezza perché il livello del fiume è abbastanza basso e perché in fondo si tratta di un “viaggio nel viaggio”, dove l’interesse principale non è il paesaggio in se, quanto l’osservazione della vita dei villaggi e delle persone che li popolano. Per questa gente il fiume rappresenta l’unica via di comunicazione e ad esso sono legate tutte le loro attività quotidiane. Gente in piroga, gente che lava, che pesca e zebù che si abbeverano. Gente che commercia i pochi prodotti che riescono a coltivare come il tabacco. Il tutto immersi in una pace surreale interrotta solo da rumore del motore. Ad un certo punto Armando chiede della “toilette” e la nostra guida Rina gli risponde “nature”, indicandogli un banco di sabbia completamente senza vegetazone. Sceso dalla barca a gran fatica da una scaletta mancante del 50% dei pioli,si è poi arrampicato su per la sponda di sabbia arrancando fino alla sommità, dove, scalzo sulla sabbia rovente, ha dovuto espletare il suo bisogno sotto gli occhi di tutta la ciurma . Io nel frattempo mi sganasciavo dalle risate, tanto che non sono neanche riuscita a immortalare la scena. Il rientro nel barcone è stato altrettanto tragicomico, con Armando che si è quasi schiantato su un ferro arrugginito. Nel frattempo si avvistano qualche airone, qualche martin pescatore e purtroppo molte, molte colonne di fumo. Provengono dai terreni dove è praticato il Tavy (pratica di abbattere alberi e incendiare la legna per fertilizzare il terreno e ottenere carbonella per la cucina). Fa male al cuore vedere tutto ciò, ma si tratta di usanze millenarie che sono estremamente difficili da estirpare. Dopo due ore, il barcone si ferma per il bagno alle cascate. Le cascate sono carine e costituiscono una sosta rinfrescante. Tuttavia, appena si arriva, insieme ai primi lemuri del viaggio, si vede una grande roccia con sopra un graffito orribile che pubblicizza un’agenzia di viaggi. Un esempio di ignoranza che fa scempio della natura. Il fondo viscido della piscina naturale sotto le cascate è la causa di un capitombolo di Armando, che, tanto per cambiare, si ferisce ad uno stinco. Sarà immediatamente imitato anche dalla nostra guida Rina. A proposito della guida, ho purtroppo dovuto rispolverare il mio tedesco arrugginito, perché lei quasi non conosceva l’inglese e naturalmente non parlava una parola di italiano. È stato faticoso e se da una parte mi ha fatto piacere riparlare una lingua da tempo riposta in un cassetto, a lungo andare ha tolto un po’ di rilassatezza all’atmosfera della discesa. In Madagascar è abbastanza difficile trovare guide multilingue e sarebbe opportuno prima di partire studiare il francese di base per ogni evenienza. A noi la discesa è piaciuta perché si raggiungono posti fuori dal mondo, dove la gente vive come da noi 70 anni fa, ci ha dato la possibilità di renderci conto dello stile di vita dei villaggi, che come unico mezzo di comunicazione hanno il fiume, per il contatto umano con gli abitanti e per le notti trascorse in tenda sotto le stelle. La gente dei villaggi è molto tranquilla e mai pressante e è molto curiosa. I bambini sono semplicemente meravigliosi. Insomma, un popolo sereno anche nella sua povertà. All’inizio, avevamo un po’ di timore a entrare nei villaggi e ci sentivamo un tantino fuori luogo, ma presto questa sensazione svanisce di fronte a quei sorrisi. Regalare una stupidaggine o un medicamento per una ferita aperta viene percepito come una donazione immensa. L’arrivo di un barcone di “vazaha” è una festa di saluti, balli e sorrisi. Dal punto di vista paesaggistico, la discesa non ci ha entusiasmato più di tanto, ma forse le nostre aspettative erano troppo alte. Forse, due giorni e mezzo sono eccessivi ma, bisogna ammettere, che di tramonti così belli non ne vedremo più per tutto il viaggio. In barcone abbiamo mangiato abbastanza bene eccetto per un pollo un po’ duro e poco cotto. Per il resto il cibo è stato abbondante e veramente ottimo. Nel barcone non c’è il bagno ne’ acqua per lavarsi, quindi prima di partire fare scorta di salviette umidificate. In Madagascar trovare la corrente elettrica in molti posti è una rarità e caricare gli apparecchi elettronici è spesso un’impresa. Quindi ricaricare tutto il ricaricabile prima di partire e svuotarsi la vescica ogni volta che se ne presenta l’occasione. Appena arrivati a Belo sur Tsihiribihina dove ci aspetta la guida, partiamo alla volta degli Tsingy di Bemahara, patrimonio Unesco. Prendiamo una pista davvero brutta, che in 80 km e più di 4 ore oltre a un guado su di una chiatta spinta a mano, ci porta a Bekopaka, dove alloggiamo in una struttura veramente grande e bella. Quello cioè che non ti aspetteresti mai in un luogo così sperduto e così mal collegato. Qui però incomincia a far davvero caldo e non c’è uno straccio di ventilatore. L’ho appena chiesto alla reception pensando che non ci fosse per sbaglio, ma mi rispondono che non è previsto. Ok,ma Armando sta male. Non gliene frega un accidente. Ah…perché Armando ha il cagarellone. È da stanotte che fa avanti e dietro nel bagno ed ha forti dolori al basso ventre. Noi sinceramente ce lo aspettavamo e ci siamo anche portati tutto l’occorrente, ma non ci volevamo credere!! Stamani saremmo dovuti alle gole del Manambolo in piroga e poi ai piccoli Tsingy, ma si rimanda tutto alle nove per vedere cosa succede. Alle 9.00 Armando è ancora in coma e non c’è aria di miglioramento, anzi prende anche una tachipirina per scongiurare la febbre, mentre io decido di mangiarmi un panino per pranzo. Rimandiamo i piccoli Tsingy alle tre del pomeriggio, ma dubito che il moribondo possa migliorare. Infine si decide di saltare il tutto e di spendere il pomeriggio in piscina. Purtroppo il caldo è bestiale, l’acqua della piscina sfiora i 32 gradi e Armando sembra uno zombie. Alle cinque anche il mio intestino viene attaccato, ma al contrario di Armando non ho dolori atroci. Il tutto si risolve con qualche scarica e due pasticche di Immodium. Sul tardi andiamo a fare i biglietti per i grandi Tsingy (quelli da visitare con l’imbragatura per intenderci) e paghiamo la nostra guida. Mi raccomando con la guida che sappia almeno l’inglese,ma poi l’indomani scopriremo che sarà una scelta pessima. L’ingresso costa Ar 25.000 e la guida Ar 20.000.
Il giorno dopo partiamo alle 6.20, preleviamo la guida (già mezza addormentata), e percorriamo km 23 per raggiungere il parco. Vediamo i primi lemuri(tre sifaka bianchi è un lemure fulvo)e iniziamo il percorso di 4 ore(scopriremo che la durata dei circuiti e’ un po’ esagerato). Il parco è stupendo, il percorso abbastanza sportivo ma non troppo, ma la guida è un disastro. In tre ore ha praticamente detto tre parole, inviato una decina di sms e ci ha indicato solo dove poggiare i piedi. Della storia geologica e dei micro ambienti, niente di niente. Mi ricordo solo radici incredibilmente lunghe e piccole foreste intrappolate tra queste formazioni spettacolari. Quando si dice sfiga. Mi sono ripromessa di informarmi su internet al ritorno per non dimenticarmi le immagini, ma vattela a chiappa’ la connessione Wi-Fi in zona. Soltanto a Morondava, otto ore di sballottamenti dopo, riusciremo a avere una micro-micro connessione sotto una lampada vicino alla reception dell’hotel. Ovviamente accumulo tante di quelle punture di zanzare malariche da fulminare un rinoceronte. Lungo la strada per Morondava abbiamo visto una quantità di baobab di ogni forma e grandezza e il famosissimo viale, che però è stato fotografato con la luce sbagliata perché siamo partiti prima e siamo arrivati troppo presto. Pazienza, non avevamo voglia di passare li tre ore per aspettare il tramonto. Scopriremo in seguito che i baobab del viale non sono niente in confronto alle foreste di baobab che incontreremo nel prosieguo del viaggio. Alla sera, passeggiata al tramonto per la lunga spiaggia di Morondava, che al contrario di quanto ci aspettassimo, non è niente male. Essendo italiani puri, a coronamento della giornata, non poteva mancare una bella “magnata” di pesce e crostacei presso Chez Alain. Qui, nonostante i prezzi esposti siano stati maggiorati nel conto, nonostante i camerieri abbiano simpaticamente preteso un corso accelerato di italiano, abbiamo mangiato di tutto rispetto. Ma ogni cosa ha il suo prezzo… il cagarellone di Armando è ricomparso in tutto il suo splendore! Il fattaccio getta il poveretto in uno stato di grande prostrazione e riduce pericolosamente e ulteriormente le nostre già esigue scorte di Immodium. Si decide che per i prossimi giorni LUI mangerà malgascio: cioè riso x 3 volte/die. Per lo meno stanotte non si soffoca dal caldo..la camera è grande e ben climatizzata(una rarità da queste parti), ma ahimè sono costretta a girare con la lampadina da minatore perché l’impianto elettrico è un po’ approssimativo. Insomma non si vede un tubo. Ma siamo o no viaggiatori con la V maiuscola? Ora incomincio a capire perché la nostra guida c’è lo sottolinea sempre più spesso. In Madagascar queste sono delle sciocchezze e costituiscono il piccolo prezzo da pagare per avere il privilegio di godere delle sue meraviglie.
Al mattino si visita il mercato del paese, che è come tutti i mercati molto bello e folcloristico. Abbiamo fatto caso che, nonostante la miseria, molte donne hanno intere fila di denti d’oro, addirittura con motivetti come cuoricini incisi. La guida ci spiega che è di gran moda. Questo, insieme ai funerali e alle esumazioni, sono esempi di spese pazze a cui la gente si dà pur essendo poverissima. Facciamo incetta di manghi e banane ad un prezzo ridicolo e partiamo per la nostra lunga tratta di trasferimento di sette ore con destinazione finale Manja. Sappiamo già che il villaggio non offre niente, ma che è solo una tappa tecnica, quindi evitiamo di arrivare troppo presto. Lungo il tragitto dovremo guadare quattro fiumi. Siamo arrivati al primo e già vediamo un camion carico di sale impantanato. Stanno cercando di issarlo su per la sponda con un trattore. Si sceglie di guadare da un’altro punto. Il fiume Ankabatomena, come anche gli altri fiumi, è impossibile da guadare da dicembre a marzo e in questo periodo purtroppo queste regioni rimangono isolate. In seguito si guada un corso d’acqua asciutto e infine il fiume Mahaivo. Il tutto rigorosamente con le ridotte per non insabbiarsi. Il quarto guado viene fatto sul fiume Napolo dopo aver pranzato con la frutta in un hotely di un sperduto villaggio tra la curiosità dei locali. Vanno pazzi per le foto, e per la loro felicità, le faccio con l’ipad, così possono rivedersi in grande. Siccome qui passano e si fermano pochissimi turisti, veniamo tenuti sotto stretta sorveglianza e qualsiasi nostro gesto genera grande curiosità e ilarità. Il massimo si raggiunge quando distribuisco qualche palloncino; non riesco neanche a mostrare come funzioni che mi viene strappato dalle mani e gelosamente nascosto. Mi viene il dubbio che qualcuno in questi posti sperduti non ne abbia mai visti. Una ragazza non riesce a capacitarsi di come il nostro mango sia maturo,visto che in questa regione manca ancora un mese perché possa essere mangiato. E’ come se la loro concezione del mondo inizi dalla sponda del fiume, che in effetti li divide dal resto del paese. Mi chiedo in continuazione cosa pensano di noi i bambini e come spiegano la nostra presenza qui. Sta di fatto che i loro sorrisi scaldano il cuore e forse in fondo ci vedono come persone che vivono talmente male da cercare un po’ di felicità in questi luoghi dimenticati da Dio. Fatte queste considerazioni filosofiche, proseguiamo con il viaggio. Nel frattempo si arriva a Manja (che significa bello). Siamo partiti con il preconcetto di trovare il posto più sfigato del viaggio e invece siamo rimasti piacevolmente sorpresi nel constatare che così terribile non è; anzi, ci siamo anche divertiti un sacco, perché la domenica sera c’è addirittura il karaoke e quindi un grande movimento e azzarderei dire anche baldoria. Neanche le terribili immagini dell’unico hotel, il mitico “Hotel Kanto”riescono a scoraggiarci. E tutto questo movimento si sta svolgendo proprio sotto le nostre sudatissime chiappe. Va bene così, perché non abbiamo alcuna intenzione di andare a dormire ora con i trentacinque gradi della nostra camera. Quando siamo arrivati in stanza non sembrava così caldo e siamo rimasti sorpresi delle pale al soffitto, ma è bastato un giro nel paese di un’ora al tramonto per ritrovarci in un forno crematorio. E allora al diavolo le zanzare malariche, al diavolo le finestre chiuse e via a letto ignudi come vermi. Naturalmente accompagnati dal Sanremo malgascio sino alle due di notte. Prima di coricarci abbiamo mangiato zebù con pommes frites niente male e ora siamo in pace con il mondo. Domani si parte all’alba per la tappa più lunga del viaggio fino Andavadoaka. Saranno 220 km per nove ore di viaggio complessive con un passaggio in chiatta. Ormai siamo abituati allo sterrato e non ci mette più paura niente e nessuno. Mahery è sempre più sciolto e simpatico, tanto che penso con dispiacere al momento in cui ci lascerà tra una settimana. Ormai si è creato un feeling e il viaggio non ci sembrerà più lo stesso. Partiti da Manja alle 6.00 prendiamo la strada verso la costa attraversando il fiume Mangoky con la chiatta. Qui, forse per la prima volta, le persone chiedono “argent”. In attesa che arrivi la chiatta (l’autista ha dovuto chiamare) sono stata sommersa da richieste in francese. La gente qui non vede l’ora di scambiare qualche chiacchiera con i pochi turisti di passaggio. Il letto di questo fiume è enorme e di un bianco accecante. Abbiamo sofferto non poco per risalire sulla sponda opposta a causa della sabbia molto soffice. L’autista sudava come una belva e non aveva libertà di manovra perché sulla chiatta c’erano altre due jeep. I ragazzi intorno chiedevano soldi per spingerci e nel frattempo manomettevano i blocchi delle ruote anteriori per metterci in difficoltà. Ma la nostra guida alla fine ha avuto la meglio. Dopo un po’ sorge un problema con il servosterzo. Ma lui resta comunque sempre calmo e impassibile. Quando si dice conoscere il proprio lavoro. Proseguiamo in direzione Morombe’. Ho parlato troppo presto, perché all’altezza del villaggio di Ambaikily (per fortuna) la batteria muore e nonostante i grande sforzi del nostro autista, non ne vuole sapere di rimettersi a funzionare. Dopo un iniziale attacco di panico, troviamo quattro “spingitori”, così noi ripartiamo e loro se la cavano con una bibita tutti contenti. La strada mezza asfaltata è tutta in rovina e cosparsa di veri e propri crateri, ma ai suoi lati si innalzano bellissime euphorbie giganti. Le poche strade asfaltate sono opera dei francesi, ma risalgono a più di 50 anni fa, e da allora non è più stato fatto alcun lavoro di manutenzione , quindi immaginatevi un po’. A Morombe’ non c’è niente di interessante, ma nei suoi immediati dintorni esploriamo un habitat salmastro regno delle mangrovie. Abbandonata l’etnia dei Sakalava, ci inoltriamo nelle terre dei Vezo, un popolo di pescatori che vive in capanne fatte con una canna di acqua salata. Il dislivello tra alta e bassa marea è notevole e scandisce la vita degli abitanti. Quindi, per esplorare questi posti in sicurezza, è necessario conoscere l’orario delle maree. In certi punti cresce la Salicorna, un alga di un rosso brillante, usata anche come ingrediente per l’insalata. Sembra di vedere la fioritura di Colfiorito.
Dopo aver visto diverse foreste di baobab, di cui la più impressionante è quella dei baobab “rasta”, finalmente arriviamo ad Andavadoaka. Il Coco Beach è direttamente sul mare e il nostro bungalow, spartano e piuttosto piccolo, sovrasta l’acqua. Siamo arrivati piuttosto tardi, ma il mare sembra bello e ci sono diverse formazioni rocciose. Abbiamo atteso con ansia il tramonto, ma la sfiga vuole che il sole all’ultimo sia coperto dalle nuvole. Stai a vedere che proprio al mare il tempo cambia. Cerchiamo di pensare positivo e “assaggiamo” l’acqua. E’ meravigliosamente calda. Speriamo che anche il cibo sia ok perché stasera abbiamo una fame da lupo. Purtroppo le porzioni sono un po’ risicate e allora chiedo una porzione di patatine in più, ma non mi rendo conto che qui è tutto misurato, esattamente come la corrente elettrica e l’acqua. Anzi, acqua dolce proprio non ce n’è. È piuttosto un’acqua dolce salmastra. Alla fine ci sentiamo esattamente come Robinson Crusoe e Venerdì.
Per il giorno dopo concordiamo un’uscita in piroga alla barriera corallina per fare snorkeling. Peccato non poter fare immersioni, ma il diving di due italiani, che una volta si trovava qui, si è spostato a Nosy Be tre anni fa. L’uscita è bella, il mare anche e belli sono anche i coralli. Peccato pochini i pesci. Appena svegli il tempo era nero che più nero non si può: allora panico allo stato puro.. chi glielo dice ora che con questo tempo non si esce più? Pian piano però si è rasserenato tutto ed è emerso un mare dai colori splendidi. Quindi abbiamo preso il largo con una piroga dalla vela quadrata tipica dei pescatori Vezo. Certamente, navigare a zigzag con la sola spinta del vento è stata una nuova esperienza per me molto piacevole e molto “mora mora”. Bellissima la sensazione. Al ritorno (Ariary 40.000 + mancia), pranzo miseretto e stupende passeggiate al tramonto su spiagge deserte. La sera, finalmente, una splendida stellata e tutti a testa in su alla ricerca di stelle cadenti. Ad un certo punto Armando mi chiede “che sono quelle cose nere?”indicando delle macchie sulla sabbia. Io rispondo “cacche” e lui di rimando “cacche che si muovono?” Si tratta dei primi mini-paghuretti con cui abbiamo condiviso i nostri spazi. Il giorno dopo facciamo visita a una scuola di un villaggio sperduto di nome Nefandefa. Non vi descrivo la baraonda alla distribuzione dei biscotti e del materiale scolastico portato da Mahery. Giocando con i bimbi che sembrano divertirsi un mondo con questi strani vazaha, mi becco anche qualche pizzicotto e graffio. D’altronde siamo una vera rarità da queste parti.
Il giorno seguente cambiamo zona e anche ristorante; visitiamo il Manga Lodge, sicuramente una struttura meno basic e più curata con una bellissima spiaggia. Le strutture in queste zone isolate e difficili da raggiungere per la mancanza di strade sono piccole e con un limitato numero di sistemazioni. Quindi è molto difficile trovare posto se non prenotando con largo anticipo. È forse questo il motivo per cui non siamo andati qui in primo luogo. Al ristorante di questo piccolo gioiellino però abbiamo consumato il pranzo a base di pesce migliore della vacanza. I simpatici proprietari francesi ci hanno servito un “capitaine” semplicemente divino.
Il mattino seguente ci mettiamo in marcia verso la misteriosa località di Ambatomilo, tanto decantata da Mahery. Purtroppo il tempo non è dalla nostra parte. Il cielo pian piano diventa lattiginoso è un vero peccato non poter ammirare i colori del mare nel loro pieno splendore. Tira uno strano vento da nord che peggiora la situazione. La pista ora è totalmente sabbiosa e si arranca a fatica tenendo una media di 10-15 km/h. Poi dal nulla sbuca una casetta ricoperta da Bouganvillee: è il Coeur de Pirate Amoureuse. Martine, la dolce proprietaria francese, ha deciso di trasferirsi qui in mezzo al nulla tanti anni fa, e affitta qualche stanza e solo due bungalow ai pochi turisti di passaggio. Non esiste linea telefonica né corrente elettrica e l’energia necessaria viene ricavata dai pannelli solari e viene erogata soltanto per poche ore al giorno. L’acqua dolce proviene da un pozzo scavato dal suo defunto marito tempo fa e ci viene fornita in quantità limitata per le nostre esigenze personali. Noi trascorreremo due notti in un bungalow con veranda molto spartano ma bellissimo, con bagno e servizi esterni. Siamo veramente lontanissimi da tutto e è difficile descrivere a parole la bellissima sensazione di isolamento e di puro contatto con la natura che si vive. Qui abbiamo anche ammirato la più bella stellata del viaggio e visto una stella cadente gigantesca.
Il giorno dopo ci avviciniamo in maniera discreta al villaggio Vezo poco distante e ammiriamo le piroghe colorate adagiate sulla battigia. Bisogna pensare che in questi luoghi non cresce quasi niente e la gente vive soltanto di pesca e di qualche patata dolce. Camminiamo lungo immense spiagge deserte, praticamente cosparse di conchiglie di tutti i tipi e ci dimentichiamo del resto del mondo. Il mare ha dei colori mai visti e delle sfumature di turchese incredibile. È un sogno. Alla sera per cena si aggregano un ragazzo francese con la compagna ceca che stanno risalendo la costa in piroga in direzione nord. Purtroppo per loro il vento soffia in senso contrario e sono costretti a fermarsi in attesa che cambi direzione. Con nostro immenso piacere, li riincontreremo dopo ben due settimane nel parco di Andasibe e ci racconteranno che il vento non ha mai cambiato direzione e che sono addirittura stati costretti a compiere parte del tragitto a piedi e a cambiare piroga. Incognite di un viaggio avventuroso! Con nostro gran rammarico il giorno seguente partiamo per la tanto sospirata(e tanto pubblicizzata) Salary Bay. Questa è anche l’unica località dove potremo fare le tanto agognate immersioni. A Salary piove a dirotto ed è la fine. Ci viene da piangere e siamo travolti dai complessi di persecuzione. Ma perché dopo tanta fatica per raggiungere questi posti viene giù il diluvio universale, quando in questa stagione non piove mai? Anche Mahery è dispiaciuto per noi e, suo malgrado, ammette che in tanti anni di lavoro non gli è mai capitato di veder piovere in ottobre. Ambatomilo e’ stata un esperienza fuori dal mondo nella capanna dello zio Tom con bagno e doccia nature e zero corrente elettrica, ma qui nel turisticissimo complesso di Salary Bay ci piove addirittura dentro il bungalow! Alle tre vengono a cambiarci le lenzuola zuppe di pioggia e questo non fa che rafforzare la nostra convinzione che qui durante la stagione turistica(cioè adesso) proprio non piove mai. Altrimenti avrebbero costruito delle tettoie resistenti all’acqua. Allora siamo noi che portiamo sfiga? Abbandonarsi allo sconforto non serve a niente e quindi pensiamo positivo! Per nostra consolazione, dopo il nubifragio assistiamo ad un tramonto stupendo, dai colori che vanno dal giallo all’arancio, al rosa e poi al verde ed il giorno seguente, questa località e tutta la costa a seguire, si rivelano in tutto il loro splendore. Parlare di splendore e’ diminuitivo; posso soltanto dire che una tale varietà di colori in mare non l’ho mai vista in tutta la mia vita. Percorrendo la pista, stretti tra la foresta spinosa e il mare, abbiamo visto scorci uno più bello dell’altro e non so dire quante foto abbia scattato. Non esagero se affermo di essere stata presa da una sorta di “frenesia del fotografo”. Alla fine di questo caleidoscopio di colori di circa 25 km approdiamo all’Ankasy Lodge, un vero gioiello di architettura e arredamento d’interni. Forse un po’ troppo lussuoso per i nostri standard,ma decisamente bello. Anzi,decisamente enorme. Mi spiego meglio: il Lodge dispone di soli cinque bungalow, ma ogni bungalow è di 100 mq. Forse la posizione del Salary Bay merita di più, ma il fascino di questo posto è indubbio ed i colori del mare indescrivibili. Poi si mangia meravigliosamente bene e di notte diventa un vero “paghuraio “. Nel nostro bungalow/appartamento stanotte abbiamo anche un ospite; si chiama Dino e è il nostro geco. Domani trascorreremo mezza giornata in questo eden per poi passare l’ultimo giorno di mare a Mangily, dopodiché inizierà la nostra avventura alla scoperta dei parchi. Dopo tante emozioni speriamo di avere ancora energie a sufficienza per affrontare i trekking che ci aspettano. Chiudiamo l’esperienza da sogno con una buonissima mangiata di cicale di mare. Niente da eccepire, ma siamo un po’ tristi per il fatto che tra un po’ questi stupefacenti colori scompariranno per sempre.
Arriviamo a Mangily al Chez Cecile cotti come due calamari. Non ci capacitiamo di come, dopo diversi giorni di riposo al mare e dopo sole tre ore di strada pessima come al solito, possiamo sentirci così acciaccati. Speriamo che non si tratti di qualche malanno. La spiaggia sulla laguna e’ abbastanza anonima, ma questo lo sapevamo già. D’altronde, nulla potrebbe reggere il confronto con quanto visto tra Andavadoaka e Ankasy. Ma ora l’importante è riposare, fare il punto della situazione e programmare bene i prossimi giorni, perché a Tulear, la guida ci affiderà a suo fratello. Fatta la conoscenza di Fenu, che si rivelerà simpatico e affidabile quanto Mahery, facciamo scorta di provviste per affrontare il trekking del Parco dell’Isalo. Poi contattiamo la nostra guida del parco di Isalo, Coco’. Ci spiega che domani faremo un giro di circa sette ore, sarà caldo, e ci saranno diversi tratti da fare al sole. Al tramonto la guida ci accompagna alla famosa finestra dell’Isalo dove ci sbizzarriamo a fare mille foto. Il paesaggio e’ molto bello e sembra di stare nell’ovest degli Stati Uniti. Le rocce assumono delle bellissime sfumature dorate con il passare dei minuti e non c’è una nuvola in cielo. Col senno del poi, anziché fare due uscite distinte con ritorno all’orribile Ranohira, avremmo potuto fare un unico trekking di due giorni con una notte in tenda sotto le stelle. Così ci saremmo risparmiati una notte e un pomeriggio intero in questo bruttissimo villaggio e soprattutto in questo albergo sfigato. Eppure la guida diceva a chiare lettere “evitare di dormire a Ranohira “. E ci credo: qui non c’è assolutamente niente se non un camion ammassato sull’altro, una gran puzza di gasolio e l’impossibilità di starsene tranquilli nel silenzio. Al contrario abbiamo luci sparate negli occhi, gran casino di vociare e una gran puzza. Obiettivamente, le camere de L’Orchidee de l’Isalo non sono male, ma sono tutte affacciate su un cortile interno dove stanno facendo anche dei lavori per la costruzione di una piscina(oltretutto in posizione orribile), ma manca un terrazzo o una qualche zona comune. Pensando alle altre belle strutture nel parco (La Reine de l’Isalo, Satrana Lodge, Isalo Rock Lodge, Isalo Ranch), ieri non riuscivo a prendere sonno e me la sarei data a gambe. Vale la pena spendere qualcosa in più, ma non dormite a Ranohira. Credetemi perdete tutta la magia de l’Isalo.
Il trekking del primo giorno è stato bello e la guida brava e esauriente; abbiamo visto tanti lemuri catta ma non i sifaka, scorpioni, serpenti e vari camaleonti. Bellissimi i corsi d’acqua, le piscine naturali e le cascate che si incontrano inoltrandosi per i sentieri. Ma purtroppo il giro nei canyon del giorno successivo sinceramente ci è sembrato una forzatura, perché abbiamo fatto ben 17 km su strada abbastanza dissesta per raggiungere due canyon dove la risalita dei torrenti era a tratti difficile e rischiosa e il gioco non valeva la candela. Inoltre la guida sapeva già che non avremmo trovato animali. Forse ce ne erano anni fa, ma a causa di un incendio o a causa dell’uomo, ora non ce ne sono più. Fortuna vuole che io credendo di vedere una orchidea selvatica, ho toccato per sbaglio dei “leaf buds “. Si tratta di insetti che in una fase della loro vita assomigliano a dei veri e propri fiori….che si muovono su minuscole zampe! Veramente strani. Al ritorno, pur di riempire la serata, ci siamo fatti accompagnare all’Isalo Lodge per cena. È vero, si trattava di cambiare solo il ristorante, ma dopo cena ci siamo sbizzarriti a ammirare i numerosissimi esemplari di piante e alberi endemici del Madagascar, che facevano parte del giardino della struttura. E tutto sotto un cielo stellato in un silenzio spettrale. A Ranohira la scelta del ristorante spaziava tra ben due “locali”; quello dell’albergo che assomigliava a una mensa ospedaliera dove la cameriera aveva l’espressione di una che sta per assumere una dose di cianuro e l’altro accanto, perennemente vuoto, dove quasi supplicandoci, ci volevano rifilare pesce o gli “spaghetti alla bolognese”.
Lasciamo Ranohira e seguendo la RN7 attraversiamo il territorio dei Bara, allevatori di zebù, e lasciamo le loro capanne basse per inoltrarci nei territori dei Betsileo, coltivatori di riso e ingegnosi artigiani, con le loro costruzioni a due piani. Il paesaggio da savana secca diventa piano piano più verde e incominciamo a vedere i bellissimi Flamboyant dal rosso accesissimo e gli alberi di frangipane. Sì vedono all’orizzonte i primi massicci montuosi. La particolarità dei Betsileo è che parlano con la “s” di Ferrara e molto, molto lentamente. Non si occupano di allevamento e di commercio di Zebù, ma li utilizzano come mezzo di trasporto e per il lavoro nei campi. I terreni riarsi e incendiati cedono il passo a vaste risaie e si notano anche timidi tentativi di rimboschimento da parte del governo. Facile percepire che tuttavia, qualche albero piantato di qua e di la non è sufficiente a ricreare quell’incredibile foresta che se ne è andata per sempre. Il governo ha tentato di limitare l’usanza distruttiva del tavy anche con la prigione, ma questo è risultato nel fatto che, ad un certo punto, tutti i capofamiglia sono finiti dietro dietro le sbarre. Non rimane che provare a sensibilizzare la popolazione. Distruggere le foreste significa rendere meno attraente il paese agli occhi dei turisti. Il turismo, infatti, specialmente negli ultimi anni, quando sembra finalmente raggiunta una certa stabilità politica, sta diventando una innegabile risorsa del paese. Lungo la strada fortunatamente si vedono imponenti alberi di mango. Sono veramente giganteschi e forse non vengono abbattuti per i migliaia di frutti che regalano. All’orizzonte si staglia il profilo del Pic Boby “Imarivolanitra”(che significa “vicino al cielo ” in malgascio) e da cui prende il nome il nostro trekking. Arriviamo nel punto concordato per l’incontro con la nostra guida e il cuoco. Ma di loro non c’è traccia. Oltretutto non c’è linea per il cellulare e il nostro driver non sa che pesci prendere per rintracciarli. Purtroppo dovevano arrivare in “taxi-brousse”, ma gli orari di questo simpatico mezzo di trasporto pubblico malgascio sono piuttosto elastici. Tra la confusione varia, panini che ci vengono lanciati come pranzo, agitazione per l’ organizzazione del trekking, ce la facciamo finalmente a partire per la nostra avventura e ci inoltriamo nella bellissima valle dello Tsaranoro. Qui sembra davvero di trovarsi nello Yosemite National Park con l’Half Dome che fa bella mostra di se’ e il paesaggio e’ bellissimo. Non ci saremmo mai aspettati di trovare in Madagascar uno spettacolo pari alle nostre Alpi e siamo elettrizzati al pensiero di affrontare questo trekking. Il paesaggio diventa surreale quando ci vediamo scorrere davanti agli occhi questi picchi di granito costellati di palme e di animali esotici. Superato il Camp Catta, ci inoltriamo nella valle e dopo circa cinque ore passate a salire infiniti gradini e tante soste per riprendere fiato, arriviamo al primo campeggio. Situato proprio accanto a uno dei numerosi corsi d’acqua limpidissima, passeremo qui la prima notte sotto le stelle. Mentre il cuoco prepara la nostra cena sul fuoco, noi ammiriamo un tramonto stupendo. Siamo a circa 1.500 metri di altezza e il paesaggio circostante ci ripaga pienamente delle nostre fatiche. Riusciamo anche a perdonare la mancanza dell’organizzatore del trekking Adrien: si è dimenticato di includere nell’equipaggiamento anche il telo esterno della tenda, e se a quest’altezza ancora si può sopportare, a 2.000 metri tollerare l’umidità sarà tutta un’altra storia. Adrien e’ un personaggio un po’ “traffichino” di Ambalavao, che ha un certo fiuto per gli affari e una gran chiacchiera, ma prima di partire per un trekking con due notti all’addiaccio, controllate che l’attrezzatura vi sia tutta. È estremamente importante per la buona riuscita dell’avventura. Qui nella regione intorno a Fianarantsoa, si parla solo francese e noi purtroppo non conosciamo la lingua. Per questo motivo, alla guida Locale Alexandre, parlante appunto solo francese, abbiamo dovuto ingaggiare anche una guida parlante inglese: Fernanderich. Il nostro gruppo pertanto era composto da un portatore a testa, un cuoco e due guide. Il tutto, comprensivo di pasti e tenda, ci è costato 320.000 Ariary. Eccetto l’incidente di cui sopra, posso dire che siamo rimasti pienamente soddisfatti. Di seguito, senza nulla togliere agli altri componenti della “spedizione”, do gli estremi di entrambe le guide, perché sono state molto brave e decisive nella riuscita della nostra impresa: Fernanderich67@yahoo.fr (+261332827952) e Alexandre Ragafimandimby Fanambinatsoa (National Park Morarano). Nei momenti più “bui”, mosse a pietà, si sono caricate in spalla anche i nostri zaini, con nostra grande vergogna ma anche con nostro estremo sollievo.
Il secondo giorno abbiamo continuato a salire, ma il trekking e’ stato meno duro, perché la salita si alternava a tratti pianeggianti e perché il cielo era parzialmente coperto. Il paesaggio si faceva via via più “lunare” e l’ansimare di Armando si diffondeva in ogni dove, tanto era il silenzio. Per pranzo ci siamo fermati nei pressi di un idilliaco corso d’acqua , che formava una piscina naturale dalle sfumature verdi e rosse. Non ci fosse stata quell’arietta pungente dei 2.000 mt e il sole che andava e veniva, mi sarei fatta una bella nuotata invece di immergermi parzialmente. Dopo circa 7 ore siamo giunti al secondo campeggio, dove abbiamo trovato la compagnia di due francesi, una decina di australiani e un’altra coppia. Qui il tramonto e’ stato meno bello a causa dei nuvoloni, ma sul tardi si è aperto tutto e abbiamo potuto ammirare una stellata bellissima.
Alle tre di notte vengo svegliata per intraprendere la salita al Pic Boby, per assistere al sorgere del sole e ammirare il bellissimo panorama, tempo permettendo. E invece, già da ieri cantava il cuculo, e quindi secondo la guida sarebbe anche potuto piovere. In fondo mi è andata bene, perché:
1) sono riuscita ad arrivare in cima (quasi 700 mt di dislivello in un’ora e mezza, ma con lo zaino portato da Alexandre)
2) ho visto sotto di me una bellissima distesa di nubi mentre in cima c’era il sole pieno.
Armando mi ha abbandonata la sera prima, dicendo che non se la sentiva, ma forse ha fatto bene così, perché in certi tratti era molto ripido e ci si arrampicava sulla nuda roccia. Dopo un meritata sosta panoramica abbiamo iniziato la discesa e alle 9.40 abbiamo raggiunto il campeggio. Con i piedi in fiamme, sono ripartita con il resto del gruppo per scendere dal versante opposto nella valle di Namoly, dove ho visto uno dei paesaggi più belli della mia vita. Risaie verdissime che si stendevano all’infinito incastonate tra roccioni granitici, cascate, corsi d’acqua e piscine naturali. Il tutto circondato da montagne e colline dalle forme più bizzarre. Insomma, un mondo fatato abitato da semplici contadini al lavoro con i propri zebù. Camminare attraverso i piccoli villaggi che circondano Ambalavao e’ un’esperienza magica difficile da descrivere a parole.
Questi tre giorni sono stati duri ma veramente meravigliosi e ne siamo rimasti estasiasti. Bisogna anche aggiungere che, con la scusa del consumo di energie, siamo stati letteralmente imbottiti di cibo, anche molto buono. Insomma un’esperienza assolutamente da non perdere. La discesa si conclude davanti al Gite, una specie di rifugio di montagna, dove ci aspetta l’autista per condurci a Ambalavao. Il nostro autista si presenta con una vettura diversa da quella dell’andata, diciamo molto più rustica e “vissuta”. Una volta imboccata la “strada” capiamo il perché del cambio del mezzo e anche del perché il Parco di Andrigitra è così poco frequentato. Non penso di aver mai pregato così tanto in tutta la mia vita! E’ impossibile descrivere le pessime condizioni della strada da questo versante, ma ancora più difficile è descrivere le condizioni estremamente precarie dei vari ponti, rigorosamente in legno e rigorosamente malfermi, che abbiamo dovuto attraversare. Ho capito ben presto che, per evitare il collasso, mi sarei dovuta guardare intorno e mai in basso. Tolto questo particolare del tutto trascurabile, il paesaggio che si attraversa è splendido.
Ambalavao e’ una cittadina di frontiera che segna “le porte del sud” del Madagascar e ha un certo fascino. Costituisce anche il principale centro malgascio del commercio degli zebù, e qui ogni mercoledì e giovedì si tiene il più grande mercato dedicato. Peccato non averlo potuto vedere. Se si pensa che i malgasci percorrono a piedi centinaia di chilometri per comprare o vendere anche un solo capo, sarebbe stato uno spettacolo anche solo assistere all’arrivo della gente con le proprie bestie. Abbiamo dovuto così accontentarci di visitare la riserva d’Anja il giorno dopo. L’esperienza è stata però una sorpresa, perché in questo parco privato abbiamo potuto vedere tantissimi lemuri Catta in libertà in un ambiente fatto di caverne, massi granitici e sentieri immersi nella foresta, davvero molto, molto bello. Lasciato Ambalavao puntiamo verso l’Est’ popolato dai Betsimaraka. Questa etnia vive in case basse di legno a stretto contatto con la foresta pluviale. Superata Atsirabe in direzione Ambostra ci dedichiamo a una carrellata di spese e spesuccie spesso obbligate nei vari laboratori di artigianato, in direzione di Andasibe. Nel frattempo finiamo i soldi e siamo costretti a farceli prestare dal driver,perchè le banche sono chiuse di sabato e domenica. Sappiamo però che a Moramanga, immediatamente prima della foresta pluviale, potremo acquistare Ariary. Arrivati alla prima banca ci dicono che si sono finiti i soldi, alla seconda lo stesso, e anche il bancomat ci risponde picche. Poi la guida si ricorda che è giorno di paga e che in giro non si trova più un solo Ariary. Che polli! Ma il bello del Madagascar e’ che si trova sempre una soluzione in extremis, e cosi’ i soldi ci vengono cambiati dall’albergo presso cui alloggiamo. Il Feon n’Ala e’ veramente stupendo e praticamente immerso nella foresta. I bungalow sono un tantino umidi, ma la vista, è sopratutto l’udito, non deludono. Poco dopo essere arrivati, ci siamo per caso affacciati dal piccolo balcone che dà sulla foresta e dopo neanche un minuto sono arrivati uno, due, tre, venti lemuri fulvi. Ho subito pensato che fossero abituati ai turisti e che aspettassero il cibo, ma poi ci hanno detto che il fatto costituiva un’eccezione. Lemuri che scendono a terra e che si avvicinano tanto ai bungalow e’ davvero un fatto strano. Purtroppo però il giorno dopo, causa mancanza di posto per la seconda notte, dobbiamo spostarci al Grace Lodge. Pazienza!
Alle 18.15 partiamo per la passeggiata notturna con la nostra brava guida Alberto, e avvistiamo ben tre Microcebus (lemuri topo), uno dei quali appena spiaccicato da una macchina sull’asfalto, vari gechi, camaleonti e insetti(mantide). Passeggiare lungo la strada che circonda i parchi mi dava un po’ la sensazione di “finto”, ma a volte è facile avvistare animali perché sono attirati dal calore dell’asfalto. In ogni caso, ci siamo anche addentrati nella foresta che circonda un laghetto, dove abbiamo avvistato il primo lemure notturno. È incredibile come queste guide riescono a localizzare gli animali con il solo uso delle torce. Quando vengono investiti dal fascio luminoso, i loro occhi, indipendentemente dalle dimensioni dell’animale, diventano fluorescenti. Dopo due ore di camminata siamo ritornati alla base per la cena e una volta in camera ho messo la sveglia alle 5.00 per non perdermi nemmeno un richiamo degli Indri-Indri. È per vederli e sentirli che si arriva sin qui. E puntualmente, dopo una mezz’ora, incominciamo a sentire un gran casino. Io mi aspettavo qualcosa di simile al verso delle scimmie urlatrici, ma questi suoni sono qualcosa di più simile a lamenti di varie tonalità. Alle 8.00 partiamo per l’escursione vera e propria per avvistarli. Nel parco vivono diverse famiglie che vediamo in tutte le pose ascoltando i loro “concerti” dal vivo, ma incontriamo anche lemuri del bambù, lemuri fulvi e sifaka dorati. Un’escursione davvero molto bella se non si tiene conto di qualche “ingorgo di turisti armati di macchina fotografica” verificatosi nel circuito più breve. Per ovviare a cio’, optiamo per l’Adventure Circuit di circa sette ore. E a ragione, perché ci sono pochissimi turisti, avvistiamo altri lemuri meno abituati alla presenza umana e incontriamo tanti altri animaletti e piante interessanti. Al termine di questo passeggiata davvero molto lunga, ci sistemiamo nell’altro alloggio, un tantino fuori mano, ma assolutamente grazioso. La struttura è gestita da una famiglia malgascia e Henriette è simpaticissima. Ci spiega con rammarico che i malgasci sono brava gente, ma che purtroppo non capiscono quanto sia bella e preziosa la loro terra. Ecco il perché del grande incendio proprio accanto al lodge. La foresta viene incendiata per rendere più fertile il terreno grazie alla cenere. Ma questo terreno, trasformato in risaia viene usato una sola volta. La terra diventata più dura viene abbandonata e si passa a incendiare un’altra porzione di foresta. E con questa pratica illegale se ne vanno ettari di foresta primaria.
Il giorno successivo visitiamo la riserva privata del Vakona Lodge. Si tratta di una specie di zoo al pari del Madagascar Exotic, e in verità non ci entusiasma molto. Dobbiamo però ammettere che qui possiamo vedere animali quasi impossibili da scovare in natura, come il fossa, la rana pomodoro, diversi camaleonti e gli stranissimi gechi foglia. È incredibile notare il grado di mimetismo raggiunto da certe specie endemiche del Madagascar. Al ritorno, costeggiando il villaggio di Andasibe quasi inghiottito dalla foresta che lo circonda, abbiamo notato una moschea enorme. In un paese in cui la maggioranza è cattolica protestante ci è sembrato strano. Fenu ci spiega che è stata costruita dagli arabi che qui lavorano per costruire le condotte collegate alla miniera. Originariamente era una miniera di grafite, ma i canadesi, cinesi e non si sa bene quale altro paese, hanno trovato più proficuo abbandonare l’estrazione di grafite per trasportare direttamente la terra in condotte forzate fino al porto di Tamatave. Qui la terra viene direttamente caricata sulle navi per essere setacciata all’estero alla ricerca dei tanti materiali preziosi e semi preziosi che contiene. Così, in cambio di qualche mazzetta, il corrottissimo governo consente anche lo sfruttamento indiscriminato delle viscere della sua terra. Madagascar depredato. E intanto si incrociano camion con accatastate tonnellate di legname prezioso. Oggi per strada si vedono dei gran gruppi di persone vestite a festa. Le “strade” del Madagascar sono sempre affollate di gente che si sposta a piedi, ma oggi è il primo novembre, la loro festività dei morti. Molte persone che lavorano fuori ritornano nel loro villaggio nativo per riunirsi, fare festa e mangiare insieme in ricordo dei loro cari estinti. Qualcuno arriva a piedi anche da molto lontano e impiega settimane per raggiungere il suo villaggio. E oggi per strada c’è una vera folla. Qualcuno barcolla, ma il nostro autista ci dice ridendo, che è usanza assaggiare il rhum fatto in casa e talvolta non ci si rende conto di quanto sia forte. Il tragitto a ritroso verso la capitale e’ stupendo; montagne ammantate di vegetazione, cascate e prati di un verde intenso ovunque. Domani è il nostro ultimo giorno e vorremmo spendere la mattinata a visitare la capitale scendendo dalla “haute-ville” alla “basse ville”. Ammesso che imbocchiamo le strade giuste, dovremmo impiegarci un’ora e mezza.
Metto la sveglia alle cinque e già alle 5.50 siamo in strada con tutti i malgasci che ci guardano come marziani. Ci inerpichiamo per le ripide salite fino a raggiungere il Rova, il palazzo della regina. Un tizio vuole subito offrirsi come guida dicendoci il prezzo del biglietto ma noi non abbocchiamo. Come facciamo a pagare l’ingresso se il luogo apre soltanto alle 9.00? Si gode di un bel panorama su tutta la città da lassù, peccato un po’ di foschia o soltanto lo smog. Dalla città alta riscendiamo verso la città bassa alla ricerca del lago Anosy e del mercato coperto. Inutile dire che non troviamo nessuno dei due. Dopo aver fatto colazione in una pasticceria, dove i croissant non sanno di nulla, ci avviamo verso la grande via dell’indipendenza e assistiamo al lento risveglio delle città. Bello camminare senza una meta fissa, ma bisogna fare attenzione ai giganteschi tombini lasciati aperti senza il relativo coperchio. Per poco non ci finivo dentro! Di ritorno in camera, con un po’ di tristezza facciamo gli ultimi preparativi per la partenza in attesa del nostro chaffeur. Prima di arrivare in aeroporto, ci facciamo portare al mercato dell’artigianato di Ivato, dove spenderemo più o meno bene i nostri ultimi Ariary. La merce, purtroppo, sembra tutta uguale e di sospetta provenienza cinese, ma pur di far guadagnare qualcosa ad un malgascio compriamo anche l’inutile. E poi il bello di tutto questo è il gusto di contrattare con loro.
Il viaggio è giunto alla fine, ma noi ci sentiamo così pieni di emozioni da scoppiare. Il Madagascar ci ha regalato molto di più di quanto avremmo mai potuto immaginare. Questo paese possiede una natura superba e un popolo splendido, un mix di Africa e oriente assolutamente unico.bPurtroppo, scelte politiche sbagliate e corruzione non consentono al turismo di decollare tanto quanto il Madagascar meriterebbe, e se da un lato questa relativa inaccessibilità garantisce il mantenimento dell’ autenticità del paese, dall’altro ne limita lo sviluppo. Così il Madagascar (ad eccezione di Nosy Be e poco altro) diventa quasi una destinazione esclusiva o meglio una destinazione riservata a quei turisti che non si curano molto degli inconvenienti derivanti da una mancanza cronica di infrastrutture. Per quanto ci riguarda, le bellezze del Madagascar e del suo popolo sono di gran lunga superiori ai pochi disagi sopportati e meritano senz’altro un altro viaggio. In un prossimo futuro, chissà che non si decida di visitare il profondo sud o la selvaggia costa orientale.
Un arrivederci da Armando e Maria Pia