Madagascar, terra di lemuri, natura selvaggia e sorrisi indimenticabili
Antananarivo (o Tana, come la chiamano affettuosamente i Malgasci) sembra dormire al mio arrivo: la mia jeep sfreccia accanto a risaie che attendono, pazienti, la stagione delle piogge e casette di mattoni ancora fumanti con tetti di paglia e foglie di palma. E’ un inverno freddo, Tana, adagiata caoticamente su una lunga e stretta cresta rocciosa, dall’alto dei suoi 1200 mt di altezza circa, sembra attendere l’alba per riprendere la sua vita multicolore e profumata di spezie.
Il mio viaggio in Madagascar, alla ricerca di occhi cui sorridere e di storie da ascoltare, inizia subito; un caffè al volo, un frettoloso cambio di soldi, e si parte alla volta degli altipiani.
Raccontare il Madagascar è come leggere un libro di storie, ogni luogo ha i suoi colori caratteristici, le sue tribù con storie e tradizioni millenarie che ancora sopravvivono, la sua natura peculiare e i suoi animali unici ed indimenticabili.
Mi accompagna nella mia avventura Mahery Rajaona (maheryt@yahoo.fr), un amico malgascio che della sua terra ha i colori ed il sorriso amichevole e mi spiega che il popolo malgascio vive ‘mura mura’, cioè piano piano, con ritmi lenti e scanditi dalla luce del giorno e dalla notte.
Il viaggio inizia sulla RN7, una delle poche strade asfaltate del Madagascar, che attraversa la centrale regione montuosa dell’Isola Rossa, e che ti consente di conoscere il popolo dei Merina, di origine indonesiana, che vive in casette a due piani di legno, con piccole finestre colorate e tetti di paglia, ed immerse nell’alta e gialla erba piumosa. I Merina, il più grande gruppo tribale del Madagascar che ancora oggi onora i propri morti con la cerimonia del famadihana, per secoli hanno dominato l’Isola Rossa, tanto che la loro lingua è quella ufficiale.
Attraverso il magnifico viale del Baobab e supero, con un’improbabile chiatta, il fiume Tsiribihina, tra i giochi dei bambini ed i sorrisi delle donne e finalmente giungo lungo la costa sud ovest del Madagascar, che mi accoglie con un oceano in tempesta ed una cena a base di gamberi al cocco. I giorni successivi sono avventura pura, nel maestoso Parco dello Tsingy, dove la mia guida locale mi chiede, in rispetto della sacra montagna, di non indicare alcunchè con l’indice e mi conduce nei tre chilometri più avventurosi mai percorsi, attraverso cunicoli stretti, feritoie nelle rocce, grotte buie, ponti sospesi, magnifici canyons… e finalmente, dopo un’arrampicata abbastanza impegnativa, sotto un sole rovente, nel mentre piccoli camaleonti verdi si celano alla vista dei più, arrivo in cima a godere dei maestosi Tsingy, e così comprendo perché l’Unesco li ha dichiarati Patrimonio dell’Umanità: i frastagliati pinnacoli calcarei di colore grigio scuro, che dall’alto dominano la montagna ed i canyons, così modificati dal vento e dalle piogge, sembrano un quadro di un pittore surreale.
L’avventura continua nel poco conosciuto Kirindy Reserve, il paradiso dei lemuri, ove di giorno saltellano da un albero ed un altro, e di notte, si infilano in scavati tronchi di alberi, mentre gufi ti scrutano giudiziosi ed i fossa si acquattano per cacciare.
Salutato il popolo della costa, i Sakalawa, di origine africana, il cui potere si basa sul numero di zebù posseduto, la loro cucina un po’ creola, le loro casette di legno con tetto di foglie di cocco essiccate, mi dirigo verso la costa sud-est, attraversando di nuovo gli altipiani, dal profumo dei fuochi dei mattoni e salutando il popolo dei Betsileo, famosi per le coltivazioni di riso e per le loro capanne a due piani color ocra e riconoscibili dai loro cappelli di feltro e dalla coperta colorata che con eleganza portano su una spalla.
Finalmente Fianarantsoa, una pigra città di montagna, che scopro, con un giovane studente malgascio, che, tra una storia ed un’altra, mi conduce tra le viuzze del delizioso centro storico ricostruito da poco e che godo, dal balconcino del Surprise Betsileo, un ristorantino gestito da un malgascio che, dopo aver fatto la guida, innamorato della cucina e dell’Italia, ha aperto il suo ristorante ove piatti malgasci incontrano la tradizione italiana.
E l’avventura malgascia continua, da Fianarantsoa fino a Manakara, verso la costa ed il Canale de Panganales, nel treno più vecchio, lento, rotto e sporco in cui io abbia mai messo piede, ma è quello che mi resterà nel cuore per sempre. Sarà per i villaggi dimenticati ed isolati dal mondo, per le foreste di banani e mango che si alternano e circondano le verdi risaie, per i ponti che sembrano fatti di burro e pronti a crollare, per le cascate che mi avvolgono ad un certo punto, per i panorami infiniti che improvvisamente vengono inghiottiti da lunghe e buie gallerie per poi riesplodere più infiniti che mai, per i sorrisi dei bimbi che incrociano la mia vista e diventano un mondo a sé, per l’avventura matta di essere seduta davanti la locomotiva o sulle scalette degli accessi (ormai senza più alcuna porta!), per ciò che posso comprare lungo il tragitto (cibo, bibite, banane, caffè, collane, arachidi, frittelle) e per ciò che posso donare (sapone, bottiglie d’acqua vuote, palloncini, ma anche solo sorrisi e due chiacchiere), per i profumi che mi inondano (la terra umida, la frutta matura, i fuochi dei villaggi), per le storie di vita che incrocio… un treno unico ed indimenticabile!
E così un giorno di riposo lungo il Canal de Panganales, una via d’acqua artificiale, che consente la navigazione fluviale lungo la costa orientale del Madagascar e che io navigo pigramente, tra pescatori di gamberetti e villaggi formati da palafitte di legno, al suono di canzoni allegre malgasce.
Attraverso Ranomafana, dove il safari notturno alla ricerca di lemuri e camaleonti mi emoziona, e tra una storia sui popoli della foresta, gli Antanala, e una bibita al succo di cocco, arrivo nel parco dell’Isalo, dove godo di cascate e di piscine naturali, dove i lemuri mi saltellano intorno e una guida della tribù dei Bara, una tribù poligama malgascia, mi racconta della loro montagna sacra, dove ancora oggi vengono seppelliti i loro morti e lì protetti, anche con fucili e ronde notturne, dai ladri di ossa, che ancora oggi esistono.
E finalmente arrivo al mare, da Tulear viaggio per circa cinque ore, lungo una costa da sogno, tra le risatine dei bimbi Vezo, una popolazione dedita alla pesca ed alla coltivazione della manioca, e i racconti delle donne, che mi spiegano che per proteggere i loro visi dal sole, amano cospargerlo di una crema colorata.
Salary Bay mi accoglie col suo oceano infinito, con la sua barriera corallina che protegge una costa dalla sabbia bianchissima, con le balene che migrano pigramente da sud verso luoghi più caldi, con un cielo stellato indimenticabile e con i canti allegri delle donne Vezo nel ristorante boungalow di Francesco&Claire, sulle bianche dune.
Ed ora….tornata a casa? Non mi resta che dire… ‘Veloma’, che in malgascio vuol dire arrivederci… perché sì, è solo un arrivederci!