La nostra prima India

Occorre abbandonare gli schemi occidentali, o meglio ogni schema, e lasciarsi trasportare senza fare troppa resistenza
Scritto da: artemisia59
la nostra prima india
Partenza il: 21/02/2020
Ritorno il: 03/03/2020
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
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L’India è un Paese difficile. Occorre abbandonare gli schemi occidentali, o meglio ogni schema, e lasciarsi trasportare senza fare troppa resistenza e, soprattutto, senza la supponenza tutta occidentale di voler capire.

L’India è un Paese smisurato. E questo lo sanno tutti. Basta aprire una mappa e poi una Guida per rendersi conto di quanto se ne vorrebbe vedere, e di quanto sia impossibile; specie per noi, con solo 12 giorni a disposizione (che, tolti i voli, si riducono a 10 giorni netti). Non è affatto facile stilare un itinerario, e questo rompicapo mi prende per diversi mesi. Alla fine devo arrendermi al fatto che un itinerario troppo ambizioso ridurrebbe il viaggio a una folle corsa tra aerei ed ore ed ore di trasferimenti in auto. Mi spiace certo rinunciare a città come Jaisalmer o Udaipur, o ai templi di Ranakpur, ma, dopo innumerevoli bozze, ridimensiono il viaggio chiedendomi quali siano le tappe per me veramente imperdibili, con massimo due voli interni, e trasferimenti in auto di non più di 3-4 ore. Il Taj Mahal e Varanasi sono ciò che assolutamente non voglio perdere. Itinerario definitivo: Delhi – Vrindavan – Mathura – Agra – Jaipur – Bundi – Pushkar – Jaipur (volo per Varanasi) – Delhi.

VOLI: Volo Emirates con scalo a Dubai acquistato 4 mesi prima a 515 Euro a testa. Volo interno IndiGo Jaipur-Varanasi 50 euro a testa e volo Vistara Varanasi – Delhi a 30 euro. Voli interni acquistati 2 mesi prima, ma poi ho notato che i prezzi non erano variati.

VISTO: fatto online al costo di 25 dollari per 30 giorni (in bassa stagione ne costa solo 10). Occorre servirsi del sito governativo, per non pagare commissioni aggiuntive o incorrere in truffe: https://indianvisaonline.gov.in/ La procedura sembra assai indaginosa, ma ho usato un favoloso tutorial che mi ha moltissimo semplificato le cose: https://rusalia.it/evisa-india-online/

SPOSTAMENTI: Sarebbe stato bello usare treni e bus, ma con così poco tempo, sebbene all’inizio eravamo recalcitranti, ci siamo dovuti servire di un driver. Dopo varie ricerche e mail, la scelta è caduta su Mahendra Travel. Il prezzo era il migliore, abbiamo potuto comunicare in italiano (anche per telefono) e non abbiamo dovuto versare caparre. Purtroppo pero’ Mahendra di solito accompagna i gruppi, mentre le coppie vengono portate dai suoi autisti.

HOTEL prenotati in maniera autonoma su Booking. Col senno di poi, sarebbe stato più conveniente prenotare al momento, tappa per tappa. Alcuni hotel che non erano disponibili mesi prima, lo erano al momento, e anche con prezzi più bassi.

TELEFONO – Non è stato necessario acquistare una scheda indiana, in quanto, oltre al wifi sempre presente negli hotel, abbiamo avuto il wifi in auto, e l’apparecchietto portatile in dotazione dal driver, per essere sempre connessi, anche fuori dall’auto.

VACCINAZIONI– Non ne abbiamo fatta nessuna, a parte l’antitetanica che avevamo già. Nemmeno la profilassi antimalarica, viaggiando in periodo non monsonico e senza zanzare.

CIBO – Difficile scampare alla diarrea del viaggiatore, che qui potrebbe essere anche qualcosa di più grave. Per questa ragione meglio mangiare negli alberghi, dove di solito c’è più attenzione all’ igiene; non comprare cibo per strada, se non frutta tipo arance o banane. Noi ci siamo anche portati da casa una riserva di barrette proteiche, cubetti di parmigiano e cose simili. Naturalmente acqua in bottiglia anche per lavare i denti. Nonostante ciò, io ho avuto qualche piccola “disavventura” per una mezza giornata.

21 febbraio

Arriviamo alle 19 all’aeroporto di Delhi. Mi aspettavo caos e code, invece molto rapidamente superiamo i controlli riservati ai possessori dell’E-Visa. Occorre fare molta attenzione a non dimenticare nulla in aeroporto (mio marito aveva lasciato il passaporto al banco del cambio ed è stata una tragicomica odissea), perchè una volta usciti non si può assolutamente rientrare. Si entra in tutti gli aeroporti indiani solo esibendo il biglietto del proprio volo in partenza. Quindi scordatevi di entrare e poi uscire a fumarvi la sigaretta. O dentro o fuori.

Il nostro driver sarebbe dovuto venire in aeroporto, ma con la mia mania di provare un po’ di vita locale, ho convinto mio marito ad usare invece la Metro per arrivare in Hotel. La stazione Metro è esattamente di fronte alle uscite centrali dell’aeroporto, attraversando la strada (ci si arriva anche da corridoi interni all’aeroporto, ma il percorso è più lungo). C’è un controllo di sicurezza per entrare ai treni, e il biglietto (consistente in un gettone da conservare fino all’uscita) si fa al botteghino. Se non ricordo male 60 rupie (meno di un euro) la corsa per il centro. La Metro è, come avevo letto, davvero efficiente, pulita e frequente: in meno di 15 minuti siamo alla stazione centrale di Delhi, da cui, con un moto- risciò imbroglione (ma ci sta…) facciamo un super giro in tondo per giustificare il costo di 300 rupie. E così, tra i clacson, le luci, il fragore, la tremenda confusione, finalmente ci rendiamo conto con un brivido, di essere in India. Il nostro hotel, direi piuttosto buono, è lo Stay Well Dx, a circa 500 m dalla stazione sulla strada principale. La nostra stanza è interna, poco luminosa (ha una sorta di finestra cieca), ma silenziosa. Ci sono dei lavori di ristrutturazione in corso, ma non subiamo particolari disagi.

22 febbraio Delhi

L’autista puntuale ci viene a prendere in hotel per la nostra giornata in giro per la capitale. In molti saltano Delhi per partire subito per il loro tour indiano, ma, nonostante abbiamo visto davvero molto poco, posso dire che sarebbe stata un’eresia. La prima tappa è la Moschea Mashid, imponente , monumentale e, soprattutto, colma di varia umanità. E’ necessario un abbigliamento consono (gonna fino ai piedi e maniche lunghe), altrimenti viene data una palandrana all’ingresso. Qui conosceremo anche il simpatico Mahendra, a cui vorremmo pagare la quota del nostro tour, ma lui ci darà appuntamento a casa sua a Jaipur a metà viaggio. Trascorso il tempo necessario alla visita, facciamo un giro a piedi nei dintorni, immergendoci nelle strade e nella calca della vita indiana, attenti a non perderci. Tra suoni, odori di cibo e di animali, negozi coloratissimi di meravigliosi abiti e pacchiane cianfrusaglie, ciclo risciò da scansare,ancora una volta mi ripeto che, finalmente, mi trovo in India. Non si possono non notare i parìa che lavorano raccogliendo a mani nude la melma nauseabonda dalle fognature: gli ultimi tra gli ultimi. Sono i pugni nello stomaco che l’India non risparmia.

Riusciamo a tornare al parcheggio dove il nostro autista ci aspetta, per portarci al Forte Rosso. La fila per i biglietti è abbastanza lunga, ma quella per gli stranieri scorre più rapida. I costi, rapportati al potere d’acquisto indiano sono molto elevati (naturalmente gli autoctoni pagano una cifra modesta). Il Forte Rosso, superbo esempio di architettura Moghul, mi ha incantata : superata la Porta, si accede a quello che era l’antico mercato, tuttora occupato da negozi di souvenir, per poi uscire nell’enorme parco che ospita una serie di strutture sparse e meravigliose, sintesi di arte indiana, europea e persiana. Il museo per cui si può acquistare l’ingresso cumulativo, è solo una mostra di foto del periodo della dominazione britannica e soprattutto della rivolta che portò alla liberazione. Tra i giardini del Forte, chiaramente posto di relax per molti indiani abbienti, è bello sostare sulle panchine, circondati dai simpatici scoiattoli che vengono a cercare qualche briciola.

Abbiamo camminato parecchio, è già pomeriggio avanzato e siamo stanchi , ma l’autista ci propone una visita al Tempio Sikh Gurudwara. Bianco e oro, piccola copia del grande Tempio di Amritsar; vietato fotografare all’interno. Si entra scalzi, col capo coperto da un fazzoletto giallo che viene fornito (o da ciò che avete) e ci si immerge in una spiritualità davvero toccante. Oltre la preghiera, la carità senza eccezioni della mensa riservata a chiunque. Visitiamo le cucine: simili a gironi infernali, con le enormi pentole alimentate da gigantesche fiamme , e tanta gente di buona volontà seduta a terra nell’atto di preparare chapati a getto continuo… La nostra prima giornata indiana si chiude con soddisfazione,anche se Delhi ci ha conquistati e avremmo voluto vederne ancora.

23 febbraio Vrindavan e Mathura

Si parte per Vrindavan, a cui vorremmo dedicare una mezza giornata prima di arrivare a Mathura, che sarà la nostra tappa serale. Uscire da Delhi è piuttosto impegnativo, e il nostro autista, nonostante lo preghiamo di non correre, ha una guida abbastanza spericolata. Come niente veniamo tamponati e a nostra volta tamponiamo, ma nessuno se ne fa un problema. Finalmente imbocchiamo la superstrada per Agra, molto rapida e poco trafficata. Poco prima dell’arrivo a Vrindavan l’autista ci chiede se vogliamo fare una sosta in una specie di area di servizio. Diciamo di no, ma si ferma lo stesso. Pazienza, ma il problema è che poi sparisce per quasi due ore, e noi, ormai entrati nel mood indiano, non ci diamo pena. Ma questo ci costerà una bella fregatura: i templi di Vrindavan chiudono alle 12 e riaprono alle 16, per cui riusciremo a visitare solo l’antico tempio di Radha Govindaji (costruito nel punto dove si crede che il dio Krishna abbia incontrato la moglie Radha). In arenaria rossa, pieno di decorazioni, era alto 7 piani, ora abitato da tantissime scimmie. Vrindavan è una cittadina disseminata di templi, che appunto per chiusura riusciremo a vedere solo da fuori. I templi di Vrindavan pare siano addirittura 5000, ed è città sacra, come Mathura, anch’essa sul fiume Yamuna. Resteremo poco più di un paio d’ore, ma ci rendiamo conto che questa sarebbe stata una tappa assai interessante. L’atmosfera cittadina è rarefatta e tranquilla: le persone sono sorridenti e non mancano di salutare con un “Hari Krishna”. Solo le scimmie sono davvero prepotenti, ed una mi assale strappandomi via gli occhiali dal collo e facendoli a pezzi con i denti. Credo che ce l’abbiano con me perché capiscono che non mi piacciono e mi creano ansia.

Ripartiamo verso Mathura, la città natale di Lord Krishna: una quindicina di km tra campi di patate e piccoli villaggi davvero di un’altra epoca. L’autista ci lascia all’hotel che abbiamo prenotato all’ingresso della città: il Madhav Muskan Residency. Personale gentilissimo e accogliente, buon ristorante e belle camere finalmente con una ampia vetrata ( naturalmente non apribile) che ci fa soffrire meno di claustrofobia.

Usciamo subito e ci avviamo verso il centro della città, le rive del sacro Yamuna e i Gath, seguendo il fiume di gente e di risciò. Un fiume rumoroso, denso e gioioso. Si, perchè fra tutte Mathura è stata la città dove più si respirava la gioia. Tra fumose bancarelle di cibo di strada, animali, mezzi a due, tre e quattro ruote, ghirlande di fiori, processioni colorate, arriviamo ai templi e al fiume. Mathura è detta “la piccola Varanasi” per i templi e i Gath lungo i quali ogni sera ha luogo la cerimonia delle preghiere e puja. Facendoci strada, come sempre, tra le scimmie (saranno la mia dannazione) accettiamo l’offerta di un giro in barca, al costo irrisorio di 100 rupie a persona. Il barcaiolo ci trasporta sull’altra sponda, per visitare un colorato tempio naturalmente dedicato a Krishna. Per arrivare al tempio bisogna percorrere una strada sterrata che attraversa dapprima una sorta di villaggio, dove si ha l’idea di cosa significhi la povertà totale: case di lamiera o legno e stracci, dove lo spazio si condivide con gli animali. Bambini ci inseguono per centinaia di metri per qualche rupia, trascinando ad esempio macchinine costruite con un collo di bottiglia e quattro bottoni… Eppure qui ammetto che il mio sentimento, da pena iniziale si è trasformato rapidamente in invidia. Oltre l’ovvia invidia per la capacità di godere e approfittare di ogni cosa, un’invidia per la pacata inerzia indiana rispetto all’ineluttabilità del destino, che mi ha accompagnata per tutto il viaggio.

Dopo la sosta, la barca torna verso i Gath della sponda principale, facendoci godere del brumoso tramonto sul fiume. E qui, da brava turista, non posso perdere la cerimonia della puja, assistita da un bramino che mi fa pronunciare la lunga litania delle incomprensibili parole sacre, con posa in acqua del lumino adorno di fiori, e conseguente mancia.

24 febbraio- Agra

Il giorno più atteso; quello che mi porterà ad Agra per la realizzazione del mio sogno: ammirare il divino Taj Mahal.

Partiamo di buon’ora, perché proprio oggi c’è un intoppo assai particolare, che intaserà le strade intorno ad Agra e bloccherà l’accesso al Taj Mahal per tutta la giornata: la visita ufficiale di Trump. E così il mio sogno dovrà essere spostato di qualche ora.

Per forza di cose , arrivati ad Agra iniziamo la visita non con il Taj, ma con un’altra tomba e un altro giardino funebre : quelli voluti per l’imperatore moghul Itimad-ud-Daulah, dalla figlia Nur Jahan. E’ un complesso in marmo di rara raffinatezza, custodito da un delizioso giardino. Meno visitato certamente del Taj (infatti siamo quasi i soli visitatori) ma sicuramente meritevole.

Proseguiamo con il Forte Rosso, i cui imponenti bastioni racchiudono una grande varietà di edifici di varie epoche e vari stili, dal XVI al XIX secolo: sale, cortili, giardini, harem, moschee… Da qui, lontana tra la foschia, si affaccia l’inconfondibile sagoma del Taj Mahal.

L’autista ci lascia infine in hotel : il Ray of Maya, vicinissimo all’ingresso del Taj, con vista dal tetto. Solo che sul tetto ci sono solo mobili rotti e un’unica sedia lurida: ce la facciamo bastare. In camera abbiamo anche un balcone, ma, come di solito succede, non è accessibile (porta bloccata) per via delle scimmie. Grande nota a favore dell’hotel, una doccia finalmente comoda e con vetrata anti allagamento.

Tutte le sere Mahendra, l’autista titolare dell’agenzia, ci scrive o telefona per sapere come sia andata la giornata. In effetti il nostro autista non è proprio impeccabile, fa un po’ di testa sua e non è nemmeno gentilissimo, ma non vogliamo fare gli italiani rompiscatole e non ne parliamo.

Nel pomeriggio non possiamo che ingannare il tempo passeggiando per le strade non particolarmente attraenti di Agra, incappando nella manifestazione per la partenza di Trump e la sua delegazione, e venendo pure ripresi dalla TV. Finalmente domani potremo effettuare la visita ad uno dei Monumenti più famosi al mondo, la cui storia di simbolo estremo d’amore è talmente conosciuta, che non vale ripeterla.

25 febbraio – Agra-Keoladeo Park-Chand Baori- Jaipur

Prima del sorgere del sole siamo pronti e ci avviamo finalmente alla biglietteria del Taj Mahal, non trovando alcuna fila. L’ingresso costa 1500 rupie (20 euro), comprendenti bottiglietta d’acqua e copriscarpe. C’è però da dire che se si inizia da questo monumento, si può acquistare il biglietto combinato, che comprende anche il Forte Rosso e altre attrazioni, risparmiando. Noi invece, non avendo potuto iniziare da qui, abbiamo dovuto pagare ogni ingresso separatamente. Ma qualsiasi prezzo vale l’emozione che si prova varcando il portale in arenaria rossa del giardino: ecco il miraggio, l’India del sogno, la bellezza assoluta, quella che ti fa piangere. Meraviglia del Mondo a pieno titolo.

Dopo un paio d’ore o più, non saprei, in questa dimensione fiabesca, dobbiamo uscire e ripartire con il nostro autista verso Jaipur. Abbiamo in programma alcune soste, ma dobbiamo fare una scelta, perché questa visita mattutina ci ha fatto slittare con gli orari. Decidiamo di saltare Fathepur Sikri, convinti di essere sazi di monumenti, e preferire qualche ora nella natura. Durante il percorso, nel solito traffico indescrivibile, sappiamo di aver fatto la scelta giusta. Così ci fermiamo al Keoladeo Park, riserva ornitologica protetta. Il parco ha un’estensione di 29 km quadrati, zona paludosa attraversata da sentieri ciclabili . Ed infatti noleggiamo due tremende, pesantissime biciclette per 50 rupie. Sono così pesanti, da non riuscire nemmeno a raggiungere la gente a piedi, pur pedalando come ossessi… Come si fa a non pensare a chi con queste biciclette trasporta turisti e non, per sopravvivere? Hasari Pal, nel libro “La città della gioia” è il simbolo indimenticabile di questa fetta di umanità. E anche qui nel parco, per chi è più pigro, non manca tale tipo di trasporto, oltre ai mezzi a motore.

Ma i risciò non possono inoltrarsi nei sentieri più sconnessi e interni, dove gli animali (non solo uccelli, ma anche le antilopi asiatiche) si avvicinano appena si fa silenzio. Bellissimo sedersi sulle panchine e finalmente ascoltare solo il respiro della natura: quanto sono lontani lo strombazzare dei clacson, le urla, le ondate di smog e le zaffate di ogni fetore! L’India svela un’altra delle sue infinite facce. Purtroppo non possiamo che rimanere poche ore, ma sarebbe stato molto bello poter fare qui una giornata intera, e, ancora meglio, dormire (finalmente al silenzio!) nell’eco lodge che vedo al centro del parco.

Si riparte di nuovo sulla superstrada per Jaipur, ma deviando poi per una breve sosta al Pozzo Chand Baori nel villaggio di Abhaneri .La deviazione è minima, ma troveremo un traffico completamente fuori controllo, anche per la presenza tra le auto di numerosi e rumorosi cortei matrimoniali. Un vero, gioioso delirio.

Il pozzo è fotogenico al massimo, con quella particolare geometria ipnotica da quadro di Escher, ma io rimango delusa, perché credevo scioccamente che sarei potuta entrare e scendere lungo i vari piani. Era una specie di gioiello nascosto fino a qualche anno fa; ora è diventata un’attrazione piuttosto frequentata e l’ingresso costa 400 rp. Facciamo anche una breve visita al piccolo tempio di fronte al pozzo, dopodiché ci rimettiamo in auto per Jaipur senza più soste. Stasera siamo anche stati invitati a cena da Mahendra, e in quell’occasione pagheremo la nostra quota.

Stupore assoluto per la città di Jaipur, che si rivela una vera e propria metropoli: non si arriva mai, attraversando una enorme periferia piena di grattacieli, su una superstrada dove circolano anche tante macchine lussuose, anziché i catorci a cui eravamo abituati. Finalmente arriviamo e conosciamo anche un’altra coppia di italiani, mentre i rispettivi autisti, in linea con le regole di casta, attendono fuori per ore. Chiacchierando con gli altri turisti ci rendiamo conto di aver sbagliato a non fare presenti le piccole difficoltà riscontrate con il nostro autista, che, oltre ad essere stato scorbutico in alcune occasioni, ha sempre dimenticato di farci trovare acqua fresca in auto e di ricaricarci l’apparecchio per il wifi. A noi sembravano cose veniali, ma Mahendra ci comunica che ci cambierà autista. Dobbiamo solo tenerlo anche l’indomani .

Oggi la giornata è stata lunga, e finisce al nostro albergo nel centro di Jaipur. Per arrivarci passiamo vicino al Palazzo dei Venti illuminato, ed è davvero un’emozione fantastica: la città che ci aspettavamo brilla finalmente nella notte. Non vediamo l’ora che venga il mattino per iniziare l’esplorazione. L’hotel Rawla Mrignayani Palace è ospitato in un vecchio palazzo che rispecchia l’architettura Moghul del City Palace e del Palazzo dei Venti, e dove veniamo accolti da lanci di petali di fiori. Doveva essere bellissimo molto tempo fa, e potrebbe essere bellissimo se fosse ristrutturato o almeno curato nelle cose basilari, ma siamo in India e stiamo parlando di inutilità occidentali. Del resto volevamo hotel indiani, non strutture all’europea senza personalità, quindi combattiamo per aprire il solito lucchetto di un quintale , spingendo poi in due la porta che non si vuole richiudere, quindi rischiamo la vita per numerosi fili scoperti, e lottiamo con i soliti 10 interruttori messi in fila, che non si sa bene a cosa servano (anche perchè il più delle lampadine sono fulminate), ma di sicuro fanno partire un ventilatore che non serve e non si riesce a fermare. Nel complesso pero’ la stanza non è affatto male e soprattutto è enorme; su ogni piano dell’hotel c’è un’area esterna con fontana, piante e tavolino. I matrimoni intanto continuano fino a tarda notte, con fuochi d’artificio e musica assordante. Volevo l’India, e adesso ci sono!

26 febbraio – Jaipur

La visita inizia, su consiglio dell’autista per evitare le ore più calde, dall’Amber Fort, a pochi km da Jaipur, lungo il fianco della montagna. In realtà io avrei voluto riservare questa visita al pomeriggio, anche perchè sapevo della apertura anche dopo il tramonto, ma l’autista ha fatto di testa sua. Non sapremo mai se avesse ragione. In ogni caso, semplicemente spettacolare il panorama dal Forte, e ancora più spettacolari le sale interne, dislocate come sempre su vari livelli. La salita all’ingresso principale, dove c’è la biglietteria, anche senza percorrerla a dorso di elefante è breve e fattibilissima. La visita occupa parecchie ore, e riscendiamo oltre le 13 verso il centro di Jaipur. Qui commettiamo un errore, visitando l’Osservatorio Astronomico Jantar Mantar, stupefacente esempio del livello di conoscenza nel XVIII secolo, ma poco comprensibile se non si ha una Guida a disposizione. Errore in quanto ci fa slittare l’orario delle altre visite. Tutti i monumenti chiudono alle 17, con riapertura serale del City Palace dalle 18.30 alle 20 e dell’Amber Fort dalle 18.30 alle 21.15. Non posso perdermi il Palazzo dei Venti, icona di Jaipur. Avevo letto che la visita interna è inutile, perchè le stanze sono spoglie e poco interessanti. Niente di più falso: le stanze sono sì nude, ma affacciarsi tra quei pizzi di finestre, da cui le prigioniere dell’harem sbirciavano il mondo, e salire lungo le strette scalinate fino ad ammirare pinnacoli e sculture sinuose che si affacciano sul cortile interno e la città, è certezza di scattare foto meravigliose. Per risparmiare sugli ingressi, conviene partire da qui con le visite, in quanto c’è la possibilità del biglietto combinato, che come al solito è fattibile solo partendo da una determinata attrazione.

Usciti dal Palazzo dei Venti, ci dirigiamo al City Palace, ma è ormai tardi per l’ingresso: il Palazzo sta per chiudere, e riaprirà alle 18.30 per la visita serale, che pero’ non comprende le sale reali. Il costo del giro completo (quello che si può fare solo fino alle 16) è di 3000 rupie(circa 40 euro) Un vero ladrocinio, considerando anche che il costo per gli indiani, a differenza di ogni altro monumento, non differisce di molto: 2500 rp. Forse non si vuole far vedere ai meno abbienti come si viveva e si vive alla corte del Maharaja? L’ingresso serale, quello di cui ci accontenteremo, costa 1000 rp: anche qui eccessive, vista la pochezza della visita, che si limita ai due musei e un paio di sale di rappresentanza. Non si possono nemmeno ammirare i cortili e l’esterno dei palazzi, per la pochissima illuminazione. La visita termina con una proiezione sulla storia di Jaipur e della dinastia reale. Il tutto nel cortile di fronte al Chandra Mahal, il palazzo di 7 piani in cui tuttora vivono l’attuale Maharaja e la sua famiglia.

Torniamo a piedi in albergo, attraversando strade piene di vita: cortei matrimoniali, traffico, merci di ogni tipo , vetrine di gioielli e mendicanti che dormono ai margini della strada. Jaipur riunisce tradizione, modernità, miseria e opulenza forse più di altre. I cortei per i matrimoni sono davvero pazzeschi: si passa dagli sposi meno abbienti semplicemente (si fa per dire) trasportati su di un carro trainato da cavalli, seguiti dal rumoroso corteo e festeggiati da lanci di fuochi d’artificio e musica. Poi ci sono i più ricchi, che addirittura hanno un corteo di elefanti! Per non parlare dei festeggiamenti veri e propri, che possono durare anche settimane, in giardini e sale da matrimonio che fanno impallidire Bollywood. Pare che il giorno delle nozze venga deciso a seconda della congiunzione astrale favorevole, calcolata sulla base delle date di nascita degli sposi, e non si ammettono deroghe.

Di certo Jaipur avrebbe meritato almeno un’altra giornata, ma domani il nostro nuovo driver Raj ci aspetta per portarci a Bundi, e conoscendolo capiremo subito cosa significa avere un autista meravigliosamente impeccabile. Eppure, forse stupidamente, ci sentiamo quasi in colpa per aver svelato le magagne e messo in cattiva luce il precedente. Infatti non gli negheremo certo una buona mancia salutandolo.

27 febbraio- Bundi

Ormai questa è una località che sempre più si sente nominare dai backpapers come meta alternativa, ancora vergine rispetto al superaffollamento turistico delle città del Rajastan più tradizionali. Credo sia ancora vero, ma probabilmente bisogna sbrigarsi. Quello che salta subito all’occhio è la gentilezza degli abitanti, e la mancanza della vera e propria aggressione al turista, da parte di guide improvvisate o procacciatori e mendicanti di vario genere.

Arrivati in paese, il driver si scusa, ma non può accompagnarci fino al nostro hotel, perchè le buche lungo la strada sono vere e proprie voragini: tubature esplose, lavori in corso, fogne a cielo aperto. Bundi mi sembra indietro di una cinquantina d’anni, rispetto a ciò che abbiamo visto finora, con i bambini che giocano per strada, le scimmie che saltano dai tetti delle case senza ritegno, facendo cadere a terra perfino le moto parcheggiate, le porte delle case spalancate, la povertà che sembra più dignitosa.

Con i nostri zaini in spalla, dopo un paio di centinaia di metri, un grosso e colorato elefante in cemento, ci indica che siamo arrivati al Bundi Inn, accogliente haveli riconvertita in hotel, che offre anche un buon servizio di ristorante. Ma soprattutto, dal terrazzo da cui si accede all’hotel, si ha una bellissima vista sulla fortezza, che non vediamo l’ora di visitare.

Dopo un rapido spuntino, ci avviamo verso l’ingresso per il Garh Palace, affrontando una breve salita. La visita si svolge su vari livelli, dal Bundi Palace, del XVII secolo, al Taraghar Fort., costruito nel 1354, capolavori dell’arte Rajput. Si entra attraverso un’affascinante portale con due elefanti dalle proboscidi intrecciate, e si viene catapultati in un altro mondo. Lo stato di conservazione non è dei migliori, ma le pitture, l’architettura degli archi e delle stanze, ne fanno un luogo davvero da fiaba. Non ci sono indicazioni: bisogna solo salire scale buie e maleodoranti, infilarsi anche in corridoi che sembrano non portare da nessuna parte, per poi trovare dei veri tesori. Aggiungiamo che i visitatori sono pochissimi, e che i panorami sul lago e sulla città blu di Bundi sono impagabili. Non si può pero’ non notare che una tale patrimonio, che nulla ha da invidiare ad altri più famosi, andrebbe tutelato per non venire perduto. Non basta sfruttarlo per farsi pagare il biglietto dai turisti…Riuscendo dal portale e continuando a salire lungo una strada sconnessa e abbastanza faticosa, si arriva infine sulla cima della collina, alle rovine del forte Jait Sagar, a proprio rischio e pericolo. Così almeno dice il foglietto che ci viene pigramente consegnato da due addetti che stanno guardando video comici al cellulare. Non si capisce bene quale sia il pericolo: animali selvatici? Rovine pericolanti? Arrivati in cima, a fianco di uno dei tanti pozzi a gradoni che si trovano a Bundi, anche questo tenuto come discarica più che come monumento, c’è l’ingresso, con un portone semichiuso, che ci azzardiamo a scostare. La vegetazione si insinua tra le antichissime costruzioni, la puzza di escrementi è forte, e grossi insetti ci inseguono. Ma non è questo il problema: infilandomi in uno dei tanti cortili interni, mi affaccio e vedo sedute su un muro di cinta una ventina di grosse scimmie che mi guardano minacciose. Del resto abbiamo invaso il loro territorio, per cui ci conviene fare dietro-front. Ho poi saputo che a volte ci sono dei ragazzi che si offrono come guide per questa zona, armati di bastoni per scacciare gli animali.

Rifacciamo il percorso a ritroso e torniamo ai piedi delle Fortezze, per visitare la colorata città. Ma ancora non ho fortuna con gli animali: vorrei fare una foto ad una mucca, ma lei se ne ha a male, mi incorna e rischio di cadere nel canale di scolo che limita la strada. Pazienza. Bundi è una cittadina che offre parecchio da girare, e noi giriamo senza meta fino a trovarci nella zona più chiassosa e trafficata del mercato, nei pressi di altri due pozzi a gradoni adiacenti, e ancora usati come discariche. Un vero peccato. Un pozzo di raccolta, che ci hanno detto molto bello è il Raniji Kii Baori, che pero’ non faremo in tempo a visitare.

Chiuderemo la serata con una romantica passeggiata lungo il lago, tornando prima che il buio pesto ci faccia cadere in qualche voragine della strada. Il fascino di Bundi sta in questo suo limite: cose meravigliose tenute in uno stato indecente, che se recuperate la farebbero diventare come tante altre città più turistiche. Se esiste una via di mezzo, sarebbe da percorrere.

28 febbraio – Pushkar

Prima di Pushkar, chiediamo al nostro autista una piccola deviazione ad Ajmer. Costeggiando il lago e una quantità di templi e monumenti, ci rendiamo conto di quanto avrebbe meritato questa città, ma il tempo è tiranno. Vorremmo visitare la Moschea Sharif Dargah, e ci avviamo a piedi lungo la Dargah Bazar Road, già affollata di pellegrini musulmani di religione sufi, che vanno ad omaggiare la tomba di Moinuddin Chisti. Il problema è che il fiume umano diventa sempre più compresso man mano che ci si avvicina alla meta, e , considerate le raccomandazioni non troppo velate del nostro driver circa i pericoli dell’affollamento eccessivo, preferiamo tornare indietro. Prima del parcheggio dove il nostro autista ci aspetta, entriamo per una manciata di rupie nel tempio jainista Nasiyan, sulla strada principale. All’interno un’incredibile architettura dorata che rappresenta il diorama del mondo.

Pushkar rappresenta forse la via di mezzo tra tradizione e recupero: una città ancora integra, ma con un minimo di tutela dei suoi monumenti. Una città dove ci si sente improvvisamente in uno stato di pace. Solo sedersi sulle sponde del lago sacro, magari aspettando il tramonto sui Gath, ti riconcilia con la vita. E qui c’è allegria: ragazzi e ragazze gioiosi, anziani turisti seduti con un libro in mano , musicisti di strada, hippies nostalgici… Resteremo per forza di cose solo mezza giornata a Pushkar, ma sarà davvero rigenerante per raccogliere le forze in vista della prova più attesa e più dura. Se l’India va affrontata senza difendersi e senza lottare, come fosse un sogno, pensando a Varanasi c’è l’attimo di brivido in cui si sente il pericolo che il sogno possa trasformarsi in incubo, solo aprendo l’ultima porta…

29 febbraio, 1, 2 marzo – Varanasi

Il driver ci accompagna all’aeroporto di Jaipur in circa 3 ore e lì ci saluteremo. Più che doverosa la mancia, per la quale Raj ci ringrazia con una marea di inchini. Dopo svariati controlli, ci imbarchiamo sull’aeromobile della Compagnia IndiGo, davvero nuovissimo e confortevole.

A Varanasi, il cui aeroporto dista più di 20 km dalla città, abbiamo concordato con l’albergatore del Marigold Guest House, il trasferimento per 800 rupie (poco più di 10 euro). Per percorrere questi 20 km, tra un ingorgo e l’altro, c’è da considerare almeno un’ora.

Scendiamo dal taxi, e un ragazzo dell’hotel ci sta aspettando per inoltrarci tra le stradine (o dovrei dire cunicoli?) della vecchia Varanasi. Ecco che il sogno vira verso l’incubo: animali, spazzatura, motorini che ti urtano, odori di cibo che si mischiano con quello delle fogne a cielo aperto e degli escrementi degli animali, nel buio delle stradine troppo strette affinchè passi almeno un raggio di sole. L’ingresso della nostra Guest House naturalmente non è invitante, tra cani, scimmie e un odore nauseabondo. L’abbiamo scelta perché molto vicina al Gath centrale, anche se ora ci chiediamo come faremo ad uscire da qui e ritrovare la strada in questo dedalo infernale. La camera è passabile, con un balcone piuttosto inutile, visto che affaccia su un muro, e comunque è recintato con una griglia, per evitare che le numerosissime scimmie entrino in camera.

Usciamo poco dopo, ed eccoci dopo un centinaio di metri al Dashashwamedh Gath, nel pieno della cerimonia Aarti, in un vortice trascinante di musica, luci, colori,fiori, persone. Una spiritualità che mi sembra di poter toccare, direi più carne che spirito.

Il mattino successivo, prima dell’alba torniamo al Gath per aspettare la luce del giorno e fare il classico giro in barca sul Gange, da dove vedremo i fuochi delle cremazioni che rompono il buio.

Varanasi è un luogo che non assomiglia a nessun altro, dove paradiso e inferno si fondono senza soluzione di continuità, e dove tutti gli aspetti della vita sono presenti , senza alcun pudore. Tenevo molto a vederla e ad immergermi in questa realtà che somiglia molto ad una lucida follia. Qui davvero si fanno i conti con i propri limiti. Passeremo i due giorni che ci siamo ritagliati qui, oltre che facendo un giro per la città, principalmente camminando sulle rive del Gange, percorrendo i circa 6 km lungo cui si incontrano i numerosissimi Gath. Qui l’India mi ha presentato il conto. Sono assolutamente favorevole alla cremazione, che reputo un atto di grande civiltà, ma passeggiare e avere continuamente sotto gli occhi questo rituale, coi corpi che bruciano, i cani che frugano, le mucche che masticano i soliti cartoni, col fumo denso che ti brucia gli occhi, e un odore che mai avevo sentito, ti trasporta in una assai strana dimensione.

Morire a Varanasi, la città più sacra dell’India, farvisi cremare e finalmente interrompere il ciclo delle reincarnazioni per raggiungere il Nirvana, è il massimo del desiderabile. Gli indiani più abbienti vengono a vivere qui gli ultimi anni della loro vita, mentre i poveri e i malati, semplicemente aspettano la fine lungo le rive del fiume. I Gath dove avvengono le cremazioni sono almeno 3; si riconoscono dalle cataste di legna alle loro spalle e dalle bilance per pesarla. 24 ore al giorno, per tutti i giorni, i rituali si susseguono allo stesso modo: arrivano i familiari del defunto, solo maschi e rasati a zero, portando a spalle la portantina di canne, su cui giace la salma ricoperta di ghirlande di fiori. Poi la salma viene immersa nel Gange, quindi spogliata dei fiori e deposta sulla pira col solo sudario, da cui si scorge il viso. Si fanno dei giri intorno alla pira, che simboleggiano il ricordo di tutti gli elementi, infine, dopo l’aspersione con unguenti, viene dato fuoco. Quando tutto è consumato, le ceneri vengono poste in una sorta di pentolone e disperse nel fiume. E questo sotto gli occhi di chiunque passi o si sieda a guardare, semplicemente. Non lo dimenticherò mai.

Provo di nuovo invidia: tutto qui è normale, dal mendicante storpio al santone col corpo dipinto, dai fedeli che si bagnano o lavano i panni nelle acque putride del Gange, a chi le beve. Tutto è vita, anche la morte, e qui davvero il cerchio perfettamente si chiude.

Ripartiamo da Varanasi senza desiderio di restarci ancora, così come crediamo che, per ora, questa breve avventura indiana sia stata temporalmente per noi sufficiente.

Il taxi prenotato dall’hotel ci riaccompagna in aeroporto, da dove con un perfetto volo Vistara torneremo a Delhi. Ora siamo pratici della Metro, per cui con solo una fermata arriviamo al nostro hotel per l’ultima notte: fermata Aerocity, Hotel Airport Plazzo. Consigliato per la pulizia, la gentilezza del personale, e la facilità di raggiungerlo (anche a piedi) dalla Stazione Metro.

3 marzo

Di solito il volo di ritorno è quello della tristezza, invece sono felice di volare verso casa.

Mi sono sempre detta che in ogni posto del mondo mi sarei sentita a mio agio e avrei potuto trovare la mia dimensione, ma ora so che non è così. Non in india. Per una volta ho sentito che le mie radici sono altrove; le radici che credevo di non avere, e che l’India ha il grande merito di avermi fatto scoprire. Tutti parlano dell’essere o meno pronti per questo viaggio, ma io credo che ci si debba chiedere se si è pronti per guardarsi dentro. Per noi l’India è un grosso ostacolo emotivo, ma all’India di noi non interessa proprio un bel niente.

E’ stato un viaggio breve,ma che pure ci ha regalato un turbinio di emozioni. Emozioni che già da sole potrebbero bastare a stabilire se questo Paese così strano e smisurato ci chiamerà ancora, oppure se decideremo di cancellarlo dalla lista dei viaggi futuri. Ma prima queste emozioni tanto forti quanto discordanti e confuse, vanno assimilate, e ci vorrà del tempo; pero’ ammetto che già ora, dopo più di un mese dal ritorno, un lontano richiamo iniziamo a sentirlo.

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