La meraviglia è che anche i cani sono buddisti

Premessa: Non ero mai stato in Asia, è il primo viaggio che ho fatto in questi luoghi. Più d’ogni altra cosa, mi ha colpito la straordinaria mitezza della gente. Sarà banale, ma è la sensazione che mi pervadeva di continuo. I panorami dell’Himalaya, non hanno bisogno di commenti, valgono qualsiasi sacrificio. Il diario che segue è la...
Scritto da: enrizla
la meraviglia è che anche i cani sono buddisti
Partenza il: 24/12/2006
Ritorno il: 12/01/2007
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Premessa: Non ero mai stato in Asia, è il primo viaggio che ho fatto in questi luoghi.

Più d’ogni altra cosa, mi ha colpito la straordinaria mitezza della gente.

Sarà banale, ma è la sensazione che mi pervadeva di continuo.

I panorami dell’Himalaya, non hanno bisogno di commenti, valgono qualsiasi sacrificio.

Il diario che segue è la trascrizione delle pagine vergate sul taccuino durante il viaggio.

Probabilmente ci sono molti luoghi comuni, ma ho voluto conservare il più possibile il racconto delle emozioni dirette, forse per salvarne l’immediatezza.

Non so se ci sono riuscito.

Le informazioi “tecniche” in fondo.

NEPAL La meraviglia è che anche i cani sono buddisti… Viaggio dalla valle di Kathmandu all’Annapurna 25/12/2006 – 12/01/2007 25/12/2006 Roma – Doha Di notte, poca gente in aeroporto, tutto chiuso, faccio check-in.

Nell’aria c’è del fumo, nessun allarme e nessuna scena concitata, però Fiumicino brucia… Arrivano i pompieri, ma le procedure d’imbarco vanno avanti normalmente, sicuramente nulla di grave.

Penso: “Iniziamo bene” 26/12/2006 Doha – Kathmandu Arrivo in Qatar, sopra l’ala albeggia, sotto l’ala si sganciano i carrelli, atterriamo a dir poco dolcemente, quasi non si sente la terra arrivare.

Scendiamo, saliamo, entriamo.

Il gate è semideserto, io sono semisveglio, il passaggio al controllo bagagli è semicaotico.

Entriamo, saliamo.

Trovo una banconota da un Riyal, porterà fortuna, è bellissima.

Nel transito a piedi verso l’imbarco, un bambino di non più di un anno mi sorride, in braccio alla madre è bellissimo.

Si riparte per il Nepal, in sette ore sorvoliamo Kathmandu, non si atterra perché la pista è piena così si gira in tondo, si vede l’Himalaya, il sole splende sulle montagne.

Si atterra che è giorno, si resta in fila per diverse ore per recuperare il visto d’ingresso, si esce che è notte.

Ras ci attende con un cartello che riporta il nome, saluta da lontano, sorride come se ci si conoscesse da sempre.

Kathmandu non l’avevo calcolata così, è molto buia, lo smog la ammanta, pulsa di vita in ogni più recondito anfratto.

Thamel è il quartiere della pensione, è il quartiere commerciale, per turisti e malgrado ciò, non riesco neppure ad immaginare cosa siano tante merci esposte.

Le acquisteranno i turisti? Mah.

Le macellerie vendono pezzi di carne grigia, sbattuta su tavolacci a ridosso della strada, polli, agnelli e galline, frattaglie e teste.

Maiali punk dipinti di rosso (forse tintura di iodio) rasati di tutte le setole, ai quali è stata lasciata una graziosa cresta nera in mezzo alla testa, giacciono accoppati nell’attesa di essere venduti a tranci.

Medito subito di tornare ad essere vegetariano.

Per strada mi vedono turista, è così evidente, mi offrono marijuana e hashish, non fumo e rifiuto, anzi fingo di non intendere, ma mi scoprono subito.

Alle 21.30 la brulicante attività di colpo si ferma.

In meno di mezz’ora si spopolano le strade, risciò, venditori, spacciatori, tutti scompaiono.

Rientro alla guest-house, doccia fredda, mi precipito a letto per il sonno e il freddo; cambierei subito albergo.

27/12/2006 Kathmandu – Durbar Square Kathmandu, ore 6.00 concerto per cani, clacson, scalpelli e grida varie.

La città non è fatta per vivere di notte, è bene che il giorno inizi in fretta.

Sulla strada per Durbar Square, la piazza del Re, attacca bottone un tale, che dice di chiamarsi Micheal.

La sua prima domanda di rito è: First time in Nepal? Ignoro di dover rispondere vagamente e di non mostrarmi interessato e dico: Yeeees!!! Racconta di essere indiano e di trovarsi in Nepal per curare la figlioletta di due anni malata, poi di non essere una guida, ma di voler fare un po’ di pratica con l’inglese, così chiede ai turisti di fare due chiacchiere.

Sebbene mi chieda perché egli abbia voluto fare questa precisazione, inizio con lui una lunga conversazione.

Si offre di accompagnarmi ad uno stupa buddista di Kathesimbu poco distante e io, affatto insospettito, lo seguo obbediente.

Micheal spiega che questo stupa è particolarmente potente e mi istruisce su come fare a far realizzare le mie preghiere, mi avvisa di non rivelare mai il motivo dell’invocazione poi, collocandomi all’inizio del giro dei cilindri, mi dice di iniziare il percorso attorno allo stupa facendo roteare gli stessi.

Non ho dubbi sul fatto che le mie preghiere saranno accolte.

Anche il prodigarsi di Micheal per farci visitare monastero buddista annesso allo stupa, la scuola di Thanka (i dipinti che riproducono la vita di Siddharta) non mi fa sospettare nulla, probabilmente obnubilato dalla mitezza di queste persone.

Alla scuola di Thanka i ragazzi, che hanno illustrato con dovizia di particolari le tecniche di realizzazione, si aspettano che si compri qualche pezzo, ma restano un po’ delusi, io per ora non compro, prometto che lo farò.

Nel tentativo di congedarlo, Micheal rivela la sua vera indole, mi chiede di comprargli del latte in polvere per la figlia, oltre a farina, lenticchie olio e sapone.

Accetto, attonito, ma penso che in fondo si merita una ricompensa per il suo zelo, in fondo cosa costeranno mai farina e lenticchie? Scopro invece che sono alimenti carissimi, per il solo latte in polvere si deve corrispondere una cifra considerevole, 1500 rupie, quasi 17€.

Per tutto il resto, 2500 rupie (circa 27€), mi sembra davvero troppo. Monica mi aiuta ad uscire dall’impaccio.

Vada per il latte, consapevole dell’importanza dello stesso per la piccola figliola.

Realizzo immediatamente che è possibile che Micheal non abbia nessuna figlia alla quale serva latte, non sia indiano e forse non si chiami neppure Micheal, nome peraltro inusitato per un indiano o nepalese che sia.

Il latte sarà restituito al venditore e si spartiranno i soldi, sicuramente.

Mi ha truffato? No, semplicemente trascinato nello stratagemma di un ragazzo che, forse, non ha alternative per tirare avanti.

Da Micheal in avanti decido di ignorare le continue profferte di servizi o più in generale di attenzione.

Mi è molto difficile, non sono abituato ad essere indifferente alla gente che si rivolge a me, ma imparo, continuo a non cedere, è opportuno.

Entro in Durbar Square e affronto il nugolo di Sadhu (i santoni induisti), bambini, venditori, guide, finte guide, mendicanti, finti mendicanti, è un assedio.

Namastee! Namastee! Namastee! Namastee! How are you? First time in Nepal? Where do you come from? Sembra fondamentale per loro sapere da dove vengo, “Italia!”, dico.

Alcuni iniziano a parlare l’italiano, lo spagnolo e forse qualche altra lingua latina.

Sono sbalordito; i nepalesi a Babele non avrebbero avuto nessuna difficoltà.

Sorridono tutti, sono amabilissimi, Ho sempre l’impressione che il loro attaccar bottone sia disinteressato, mi sbaglio quasi di continuo.

Una venditrice di tascapane colorati e ricamati con un Mandala, mi chiede se voglio comprarne dieci.

Mi stupisco dell’audacia, non uno, dieci! E’ molto simpatica, oltre che bellissima. Avrà vent’anni, il suo sorriso è contagioso, sorrido anch’io parliamo, in questo modo non mi molla per un bel po’.

Di lì a poco arriva una sua compagna, più anziana, forse la madre con lo stesso bel modo di fare. Con la medesima risolutezza mi propone lo stesso pacchetto di dieci pezzi in Spagnolo, Italiano, Inglese e pure Nepalese.

Parlo anche con lei per un bel po’ dell’Italia e del Nepal, poi riprende la trattativa commerciale. La giovane abbandona il campo.

Sono estenuato, penso di averla convinta che non comprerò nulla, ma lei riesce ad affibbiarmi due pezzi a 100 rupie.

Deve avermi ipnotizzato. Ora ho due tascapane inservibili, li regalerò.

Visito la casa della Kumari, la dea bambina, scelta in base a chissà quali logiche e letteralmente rinchiusa qui, una tradizione davvero fuori dal tempo.

Alle finestre di legno intagliato sono stese delle lenzuola che dovrebbero far riflettere su quanto sia terrena la deità di questa fanciulla.

Vado a vedere i vari templi di Vishnu, Krishna di Shiva e Parvati, che costellano la bellissima piazza, poi il mascherone di Seto Bhairab e la statua di Kala Bhairab, cioè la sembianza più spaventosa che assume Shiva e via via fino al tempio di Jagannath con le sue sculture erotiche sotto al quale dormono dei pasciuti cani.

Sulla scalinata del Maju Deval ci sono bambini che giocano e mi chiedono di far loro delle foto, li accontento o meglio li rendo felici.

Pranzo veloce in un locale leggermente decentrato rispetto alla piazza, non c’è alcuna possibilità di sedersi, dicono di guardare di sopra.

Il posto è più che sporco, un bambino in un angolo lava i piatti, altri individui mangiano e guardano i turisti fuori luogo arrivati per caso.

Il soffitto è basso, più basso di me, devo stare chinato.

I nepalesi sono per lo più gente minuta e di bassa statura, dall’alto del mio metro e ottantatré mi sento un gigante.

Mi siedo vicino ad un ragazzino che consuma silenzioso Samosa e Pakora, mi scuso per l’intrusione al suo tavolo, l’unico parzialmente libero, fa un cenno con la testa. Mangio le stesse pietanze e bevo un the al latte, è tutto buono, mentre prendo appunti mi accorgo che al tavolino a fianco siedono le donne dei tascapane, ridono e mi salutano, che carine! Ricambio il saluto provocando ancora risate, dopo poco escono, salutano e ridono ancora.

Spendo un’inezia per il pasto, trenta rupie e scendo di nuovo in Durbar Square.

Alcuni bambini, poveri e malvestiti o forse solo malvestiti, giocano con un bacchettino e con un mazzetto di elastici, ridono, ma la vera gioia la si legge nei loro volti, quando un turista li fotografa e mostra loro l’immagine nel display della fotocamera, che meraviglia.

Ci dirigiamo a Freak street, la strada preferita dai fricchettoni negli anni ’60 e ’70, superando il mercato di paccottiglia e i negozi che pure vendono solo cianfrusaglie, usciamo poi dalla bolgia deviando verso il fiume Baghmati.

Nessun ulteriore turista, solo gente del luogo e cani, anzi, cani e gente del luogo, fino al fiume.

Attraversiamo una discarica a cielo aperto e vedo l’acqua che brulica di rifiuti, tutt’attorno alle rive chi raccoglie cartone, chi lattine, chi plastica, alcune persone a terra radunano della lana racimolata chissà dove e ne fa trapunte.

I cani randagi abbaiano ossessivamente verso punti indefiniti e i bambini nella polvere, ancora ridono e giocano.

Il degrado è abbacinante, la povertà è evidente. Mette a disagio.

Risorgendo verso Thamel tutto riprende a splendere. La vita che non appartiene all’irreale mondo del turista è difficile e dura, lo so benissimo, però quando la tocchi con mano rende sgomenti.

Altri venditori, altre guide, altre persone vogliono sapere chi sei e cosa farai nella prossima mezz’ora, rifiuto mille prestazioni occasionali d’opera.

Uno spacciatore mi chiede se mi piace fumare, mi venderebbe hashish.

Gli dico che non mi piace fumare e lui, come se avessi detto una cosa inammissibile, mi chiede: “So, what do you like to do?!?” Sono interdetto.

Ritorno nella pensione dove mi sta aspettando Binod, la guida che ho ingaggiato per il trekking, ci siamo dati appuntamento per decidere i dettagli della mia “spedizione” ai piedi dell’Annapurna.

Arrangio con lui la partenza e gli elenco l’attrezzatura che ho con me, lui mi suggerisce qualcosa da acquistare e si offre per indicarmi un negozio dove posso trovare tutto.

Prendiamo un buon the, mi chiede del viaggio, se mi piace Kathmandu e del più e del meno, è simpatico e premuroso, conosce benissimo l’inglese, penso che la sua preparazione linguistica agevolerà di molto il mio trekking.

Mi chiama “Sir”, gli dico che mi chiamo Enrico, usi pure “Sir” con gli Inglesi o con chi a queste scemenze ci tiene, lui sorride divertito.

Esco a cena senza fame, ho ancora il pranzo sullo stomaco, sono appena le 18,30, mangio comunque molto, troppo.

I nepalesi, sono sicuro, non lo fanno.

28/12/2006 Kathmandu – Pashupatinath – Bodhnath Kathmandu rumoreggia da subito, chi cerca di dormire cede alle sue ingombranti manifestazioni.

Alle 7 i negozi sono tutti chiusi, non si spiega quindi tanto baccano.

Thamel sembra deserto, solo donne che chiedono l’elemosina coi bambini in braccio.

Non serve trovare un taxi, sono loro che trovano te.

Si deve sempre contrattare, le prime cifre che sparano sono stratosferiche.

Io che non ho nessuna capacità di contrattazione sono sempre in difficoltà.

Pashupatinath è il sito sul sacro fiume Bagmati dove avvengono le cremazioni.

Per entrarvi i turisti pagano 250 Rupie.

Di un luogo simile, in occidente, si coglierebbe solo la disperazione, qui invece spicca una mesta vivezza. La gente partecipa ai funerali affaccendata in molteplici attività tanto che la morte sembra tranquillamente accettata, quasi certamente lo è.

Dovrebbe essere così anche per noi che di continuo la rifiutiamo.

Le venditrici mi assalgono; una ragazzina al massimo sedicenne indaga sulla mia nazionalità e parte con l’attacco.

Parla un po’ di italiano, le faccio i complimenti per aver imparato una lingua che al di fuori dello stivale è inutile.

Mi dice di averlo imparato dai turisti, non ha soldi per studiare a scuola, in questo modo mi convince a comprare un amuleto che riporta gli occhi del Buddha e l’iscrizione del mantra “Om mani padme hum”.

Lo pago inconsapevolmente dieci volte il prezzo normale di vendita, mi avrebbe dovuto insospettire il suo spreco di ringraziamenti.

Nel giro di pochi minuti c’è un coro di mercantesse che mi segue cercando di vendermi qualsiasi cosa.

Evidentemente s’è sparsa la voce che c’è un pollo da spennare, per più di un’ora non mi libero del crocchio.

Per mimetizzarmi mi siedo sulla gradinata sulla sponda sinistra del Baghmati, di fronte al luogo dove sono compiute le cremazioni della gente povera.

Un ponte divide le are per le pire: a monte del ponte si bruciano i ricchi, a valle i poveri.

Ci sono degli uomini e dei bambini che cercano nell’acqua, dove vengono rovesciate le ceneri, metalli preziosi appartenuti al defunto.

Stanno preparando un rogo, depongono la salma, la coprono di paglia che hanno bagnato nel fiume.

Con una fiaccola in mano i parenti del defunto, di bianco vestiti, girano per tre volte attorno alla pira, poi appiccano il fuoco, dalla testa.

Un letto di legno per la fine, una coperta di paglia per lasciare questa vita, un falò per la purificazione. E’ ferale, toccante. Sul Bagmati l’acqua ti lava, ti purifica.

Il fuoco ti eleva, ti libera.

E’ come andarsene volando.

Volando, come hai sognato, non con le ali.

Fumo in una nuvola.

Ecco che ritornano! Infastidito dalle stoiche venditrici con le loro mercanzie, vorrei evaporare, mi muovo da qui.

Un Sadhu mi ha benedetto, mi ha segnato il terzo occhio con della polvere rossa e mi ha messo dei petali in testa, porterà fortuna, lo so.

Un omino dall’aspetto malinconico, appresa la mia italianità, mi chiede: “Vuoi che faccia da guida nel sito? Mi dai tre euro parlo, bene l’Italiano”.

Il personaggio è Dilip, ingaggiato prontamente per la curatela del percorso odierno.

Dilip è un altro prodigio delle lingue straniere, parla molto bene l’Italiano, il Francese e ovviamente l’Inglese.

Sostiene: “anche il Tedesco”, ma non ho competenze per appurarne la bontà.

Dilip colma le lacune dell’Italiano con l’Inglese e il Francese.

Fornisce delle descrizioni minuziose sulla simbologia di Lingam e Chorten, del tridente di Shiva, spiegazioni dettagliate sui rituali funebri, sul significato delle sculture zoomorfi fuori dei templi.

Fornisce un’esplicativa storia che riassume la vita ascetica dei Sadhu.

Davanti ad una scultura che raffigura Shiva con il membro in erezione, spiega che simboleggia la fecondità.

“Gli uomini”, dice, “che hanno problemi di natura sessuale o che non riescono ad avere figli, portano qui le loro offerte”, poi ride e dice: “ E’ una cosa naturale, non c’è nulla di strano”, infatti.

Anche le travi del tetto del tempio di Bacchareswari, sono decorate con intagli di scene erotiche.

Più che scene direi che sono rappresentate delle autentiche prodezze amatorie.

Davanti ad un menage a trois arditissimo, Dilip dice che, sebbene sposato, non sia mai stato impegnato in una prestazione simile.

“Nemmeno io !” aggiungo subito per confortarlo, lui ride e dice che questo ci accomuna.

Salendo la collina di fronte a Pashupatinath si parla dell’influenza del cattolicesimo nell’educazione degli italiani, dei tabù e della cosiddetta morale.

Dilip è quasi incredulo, non capisce come sia possibile condurre una vita di privazioni e rischiare comunque l’inferno, concetto che peraltro non afferra a pieno; che bellezza! Dilip sarà poco più che quarantenne, ha due figli, uno di otto e l’altro di dieci anni, la moglie è incinta e fra poco darà alla luce il terzo discendente.

Dice che in Nepal non è semplice, ma vuole dare una buona istruzione ai figli.

Attraversando i bassifondi di Kathmandu, subito al di là del Bagmati, dove si vede la miseria, quella vera, quella che non avevo mai visto, quella che non riuscivo a figurarmi, penso che Dilip abbia capito molto della vita e non riesco a trattenermi dal riferirgli penso che sia un ottimo padre.

Lui risponde che prova ad esserlo.

Mi si stringe il cuore, non so davvero che dire e resto in silenzio per un pezzo del tragitto dove guardando intorno vedo solo gente che vive dignitosamente nella mancanza.

Che fortuna sfrontata essere nati nell’altro angolo del mondo, quasi mi vergogno.

Credo che ci sia tanto da imparare da questi incontri. Non basterà il tempo.

Raggiungiamo Bodhnath il più grande stupa del Nepal, uno dei più grandi al mondo.

Sono le 15,30 e Dilip dice che è l’ora in cui arrivano i fedeli a pregare.

La preghiera è una corale passeggiata, un giro intorno allo stupa facendo ruotare i cilindri con impresso il mantra.

Gli accoliti saranno migliaia. Mi unisco alla circonvoluzione.

Dopo un po’ mi ricordo del tika che mi ha fatto il Sadhu a Pashupatinath, d’istinto mi viene da cancellarlo, non vorrei mai, da turista ottuso, offendere qualcuno.

Poco dopo entrando dentro lo stupa vedo una raffigurazione di Ganesh, forse il più popolare fra le divinità induiste e trovo conferma non dei miei timori quanto della mia ignoranza.

Posto che in Nepal le due religioni sono intimamente intrecciate, per i buddisti non importa chi sei o quale fede hai abbracciato, è importante la strada che percorri in questa vita. Devi crescere e raggiungere l’illuminazione, il resto sono quisquilie.

Sul camminamento superiore dello stupa ci sono dei bambini monaci che ripetono il gonghio, lascio loro qualche rupia e mi dirigo al monastero dalla cui comunità probabilmente proverranno per visitarlo.

Dilip è instancabile, nonostante l’ora non accenna a risparmiare aneddoti e spiegazioni, gli chiedo se sia tardi, mi risponde che oggi è libero.

Ci salutiamo, sono passate le 17,30 lo ringraziamo per tutto e ci scambiamo le e-mail, è stato così valido che di euro ne merita 10.

In taxi nel ritorno a Thamel mi addormento, il traffico è deprimente.

Chiamo Binod la guida, vuole incontrarmi per darmi una mano a scegliere l’attrezzatura che mi manca per il trekking, mi dice che mi raggiungerà in pochi minuti.

Già che ci sono chiamo la mamma, sarà in pena, lo so, non ha avuto più notizie, ma lo sa che limito i contatti allo stretto necessario.

Incontro Binod, mi porta dritto in un negozio di sua fiducia, compro più di quello che avrei dovuto e spendo una cifretta non da nulla, ma sempre meno che in Italia, le mie abilità nel trattare non sono ancora erudite a sufficienza, spero nella qualità.

Binod mi accompagna nella pensione portandomi la sporta della spesa, non c’è verso di dissuaderlo, insiste come un ossesso, così torno con le mani in tasca e lo “schiavetto” appresso.

Prendiamo un the, mi chiede due foto tessera, il numero del passaporto e mi lascia il nome e il numero dell’albergo che ha prenotato a Pokhara.

In una profusione di reciproci ringraziamenti ci salutiamo.

Cena in un ristorante tailandese, piccante, oltremodo piccante. Ritorno alla pensione con il sonno che incalza, in un momento dormo.

Che fortuna i tappi! 29-12-2006 Patan Decisone radicale:, si cambia la pensione.

Il trasferimento, non poco problematico, serve per avere un futuro più confortevole in una guest-house più centrale di Thamel.

Partenza in taxi per Patan, la città della bellezza.

Il traffico è bloccato a causa di una manifestazione contro il Re, per la democrazia; dice il tassista.

Una fila di persone è seduta a terra in strada bloccando le auto che sono ferme.

Il tassista cerca strade alternative per più di mezz’ora, ma è tutto immobile.

In qualche modo si giunge alla Durbar Square di Patan, lascio una mancia di cento rupie al tassista; il poveretto ha dovuto penare parecchio per quella breve corsa, sembra contento.

Come scendo dal taxi e sono accerchiato dai venditori/trici.

Non riesco a muovermi, corro via schivando le collanine, sono tallonato strettamente da un tizio che ha deciso che non posso vivere senza un pugnale nepalese per la cui detenzione mi servirebbe almeno un porto d’armi come quello necessario per una mitragliatrice indi, scarto di lato senza considerare le guide turistiche occasionali che devo eludere fingendo di essere sordomuto e pure affetto da una certa cecità.

Guadagno un posticino nella scalinata del palazzo reale così riesco a leggermi un po’ la guida in sacra pace.

Faccio uno schizzo del tempio di Krishna e un bambino mi chiede perché sto disegnando il tempio, rispondo che è perché dove vivo io non ci sono edifici simili.

E’ meravigliato perché non immagina un luogo dove non esistono i templi.

Racconto dunque che sì, i templi ci sono, ma sono completamente diversi.

Mi chiede di disegnargliene uno; così eseguo in un foglietto, mi ispiro liberamente alla classica chiesa con pianta a croce latina e campanile. Esulta euforico e corre a raccontare alla sorellina della scoperta appena fatta mostrandole l’immagine, torna per ringraziarmi, gli regalo alcuni pennarelli.

Da quando sono arrivato, mi sta braccando un tale che in un italiano solo comprensibile mi fa capire che vuole diventare la mia guida, adesso, al mio fianco, sorride senza motivo.

Non voglio una guida e sarà dura liberarsene, come di consueto è molto simpatico, i nepalesi sono splendidi, anche quando ti rompono le palle.

Con il mio quadernetto attiro di nuovo l’attenzione della gente, dei Sadhu e, me misero, di nuovo dei venditori.

Persino un guardiano del museo mi informa che se voglio posso fare un giro all’interno dell’edificio e possibilmente, approfittare del ristorante interno.

Con un ringraziamento universale cerco di nuovo di svincolarmi e mi metto in cammino verso il tempio d’oro.

Sulla strada, vicino ad un negozio dove ho preso te e spezie, un gruppetto di donne chine lava dei mattoni, un gruppetto di uomini costruisce una casa e un gruppetto di bambini corre tutt’intorno.

Sbaglio strada, due bimbe salutano: “Hallo!”. Rispondo: “Namastee” Mi chiedono una penna, do anche a loro dei pennarelli e mi faccio promettere che li condivideranno con fratelli sorelle e amici tutti.

Arrivano improvvisamente altri bambini, non ho più pennarelli, così offro biscotti anche ai più timidi. Un anziano signore osserva divertito la scena.

Finisco nel tempio Hindu di Kumbeshwa dove una puzza di escrementi mi accoglie.

Decadente è l’aggettivo giusto, frequentato da tante persone, nessun turista, cani e anche capre.

La liturgia induista prevede dei ripetuti passaggi dinnanzi alle statue ora di Shiva, ora di Parvati, Ganesh, Krishna, suoni di campane e campanelli, offerte di cibo, incenso e fiori.

Davanti a Shiva i fedeli toccano la statua, poi prendono un fiore portato in offerta e se lo mettono fra i capelli le donne, sulla testa gli uomini.

Incontro di nuovo una delle bambine di prima, la più intraprendente del gruppo, mi chiede se mi ricordo di lei.

E’ convinta che sia spagnolo e le rispondo “Seguro!”, domando poi se sa dirmi la strada per il tempio d’oro, lei spiega poi esclama: “Hasta la vista!”, ci salutiamo definitivamente con un “Hasta luego”.

Il tempio d’oro è buddista, ma è colmo di simboli Hindu, qui salta agli occhi come in Nepal le due religioni siano fuse l’una nell’altra, si trovano raffigurazioni di Shiva e Ganesh lungo il percorso delle ruote di preghiera piuttosto che offerte di fiori all’illuminato o Lingam sparsi qua è là.

Se hai scarpe di pelle devi toglierle per entrare, io non tolgo nulla, indosso solo derivati del petrolio…

Uscito dal tempio accettiamo la prima offerta di una corsa in taxi, direzione Bhaktapur.

Purtroppo il tassista chiede dodici dollari, la cifra è spropositata, va bene essere generosi ma inizio a sentirmi un po’ troppo babbeo. Si pagheranno cinquecento rupie.

Arrivo a Bhaktapur che è già buio ed entrare così, nell’antica città è un po’ triste.

L’illuminazione pubblica, dove esiste, è sommaria, è tutto scuro e i venditori affatto scoraggiati non tardano ad apparire.

30/12/2006 Bhaktapur Dal tetto della guest-house la vista su Taumadhi Tol Sqaure è strepitosa.

La colazione è finalmente buona e ancor meglio era la stanza, peccato dormirci per solo una notte.

Il mercato ha iniziato a far chiasso alle 5 ed è stato un crescendo.

A Bhaktapur si respira un’atmosfera d’altri tempi, è chiusa al traffico ed è molto piacevole passeggiarvi senza il trambusto di Kathmandu.

Il Nepal è sempre stato funestato dai terremoti e i segni, ancora adesso si vedono molto bene, la catena himalayana del resto è la conseguenza del corrugamento terrestre, la superficie del pianeta è inquieta da queste parti.

Il governo tedesco ha elargito denaro e redatto un progetto per il recupero di Bhaktapur, così molti degli edifici storici della città sono stati o sono tuttora oggetto di restauro.

Spesso si è provveduto a vere e proprie ricostruzioni, non so se filologiche, ma che certamente conferiscono un aspetto raggiante alla città.

Il prezzo d’ingresso a Bhaktapur è di dieci dollari ed è denaro speso benissimo, infatti, chiedendo, sono riuscito a capire che con una parte del ricavato della vendita dei biglietti, si finanziano progetti di recupero degli edifici.

Un posto stupendo è la piazza delle ceramiche ci sono vasai che lavorano l’argilla al tornio e sistemano i vasi ad asciugare al sole in file ordinate.

Anfore, salvadanai, vasi e scodelle riempiono l’intera piazza, quando raggiungono il giusto grado di asciugatura finiscono nei forni attigui, tutto come mille anni fa, forse duemila o più.

Patteggio anche qui con i venditori un armistizio, è più facile che altrove, non sono così combattivi, solo un mendicante resiste, vuole che gli cambi un euro in rupie. Gli applico un cambio vantaggioso.

Bhaktapur è rinomata per l’arte dell’intaglio del legno, sono molti i negozi che commerciano questo genere di artigianato.

Dalla mensola di una di queste botteghe scorgo una sculturetta della dea Tara, il corrispettivo femminile del Buddha.

Giuro che per un momento ho pensato che la statua, con lo sguardo, mi cercasse, raramente un oggetto mi colpisce in questo modo.

La figura scolpita non è nulla di così eccezionale, ma come ad interpretare un segno del destino, decido di comprarla.

E’ un po’ cara, so però che ne vale la pena, in più starà benissimo in qualche nicchia a casa! La trattativa è lunga, concludo l’affare nel modo che in Nepal si reputa il più giusto cioè quando sia cliente che negoziante sono soddisfatti.

La visita va avanti al palazzo reale con il suo grande e suggestivo lavatoio circondato da due cobra in pietra che si guardano l’un l’altro.

Di nuovo a Taumadhi Tol mi siedo di fronte al tempio dedicato alla dea Siddi Lakshmi. E’ il più alto della valle di Kathmandu.

E’ molto bello rimirare il suo quintuplice tetto sormontato da un puntale dorato.

I bambini giocano sulle coppie di sculture collocate nella scalinata del tempio, non c’è più tanta gente così mi siedo lì di fronte, il mercato ormai è stato smontato e immagino di essere lasciato un po’ tranquillo se mi metto a fare qualche scarabocchio.

Mi sbaglio, il turista è sempre oggetto di attenzioni, raduno subito il gruppetto di bambini, che prontamente iniziano con l’interrogatorio.

Mi viene la malvagia idea di usare l’espediente “palloncini” portati dall’Italia, per liberarmi della gradevole, ma non desiderata, compagnia.

Ne gonfio alcuni ed è la catastrofe; i bimbi si accalcano, si spingono, si pestano pur di prenderne uno.

Non serve a nulla che dica che ne ho per tutti, è un delirio.

Mi saltano addosso per prendermeli dalle mani, dalle tasche: quel che è peggio, però e che in questa maniera finiranno per farsi male.

Mi impongo con la forza, in qualche modo capiscono che se ne vogliono altri dovranno calmarsi e lo fanno.

Finita la distribuzione dei palloncini la piazza è un enorme campo da gioco, le decine di fanciulli giocano e ridono, ridono e ridono.

Alcuni ragazzini di nove o dieci anni mi persuadono, dopo aver vinto tutte le mie resistenze, a regalare loro un dizionario Inglese-Nepali.

Costa cinquecento rupie, mi spiegano che potranno usarlo insieme a scuola per imparare l’inglese.

Glielo compro in società con Monica, convinta anch’essa della giusta causa.

In realtà sono certo che lo riporteranno indietro al cartolaio non appena sarò sparito dalla loro vista e rifaranno lo stesso scherzo al prossimo turista.

Tuttavia ho preteso che ognuno di loro giurasse che il dizionario sarà usato per continuare a studiare.

Li ho anche minacciati che tornerò a Bhaktapur per, personalmente, verificare che ne abbiano fatto buon uso. Ridono come matti, questo basta.

Cercando un taxi per tornare a Kathmandu scelgo una strada secondaria. Appena fuori, dove il turismo non passa più, le scene sono le più inverosimili.

Evito così l’attacco delle guide, ma subisco quello della coscienza.

Si ritorna nella Kathmandu dei clacson, degli ingorghi e del disordine, familiare disordine.

La super guest-house pur avendo trattenuto il bagaglio non ha riservato la stanza, pazzesco. Si dirotta su un albergo lì vicino. C’è l’acqua calda.

31/12/2006 Kathmandu – Pokhara Sveglia alle 5.30 devo ridurre al minimo il mio bagaglio per il trekking. Alle 7.00 si parte alla volta di Pokhara.

Non voglio portare troppo, anche se ho un portatore.

Binod, la guida, mi ha esortato a prenderlo. Ho insistito dicendo che potevo tenermi lo zaino da solo dacché abituato, ma lui crede che darei un’opportunità di lavoro ad una persona e il mio trekking sarebbe infinitamente più confortevole.

Non voglio comunque che il portatore sia oberato dalle mie inutili magliette di ricambio o dalle mie “mutande in più che non si sa mai”.

Ritengo di essere stato bravo, ho ripartito il peso in due zaini, entrambi di qualche chilo, più il sacco a pelo che, a questo punto, darò al portatore, sono leggeri ma enormi.

Vado a piedi verso la stazione degli autobus vedo donne vestite degli usuali veli che spazzano le strade nell’oscurità più totale, è buio pesto.

Queste nei loro abiti sono sempre bellissime, nonostante il freddo, nonostante il pattume e tutto il resto.

Si parte in ritardo, il bus dovrebbe essere super lusso, forse lo è, ma non si vede è uno scassone.

Non che mi importi viaggiare in prima classe, anzi, però il tizio dell’agenzia che mi ha venduto il biglietto ha enfatizzato molto questo fatto…Bah! Altri standard.

Dalla periferia di Kathmandu si vedono solo povere case, povera gente e raggiunte le prime colline, povera gente, povere case.

I freni della compagnia di lusso urlano sui tornanti a strapiombo sulla valle.

I freni della compagnia pubblica probabilmente piangono.

Il viaggio è lungo, la strada è in condizioni pietose, come le persone che la popolano, il bus si ferma diverse volte e alle 11.00 per il pranzo.

Mangio il piatto tipico newari, Dal Bhat, in altre parole riso, lenticchie, curry di verdure ed erbe stufate, come sempre senza fame.

Arriviamo alle porte di Pokhara e un ingorgo ci blocca per più di un’ora.

Pokhara appare subito graziosa.

E’ animata da musica e tanta gente che affolla il lakeside, il lungo lago, per una festa che durerà due giorni.

Alle 17.00 fanno capolino le montagne dalle nuvole e s’illuminano di rosa.

Meraviglia! Incontro Binod all’albergo, sembra provato, come me.

Mi dice che ha preso un autobus pubblico, il viaggio per me è durato otto ore, per lui più di dieci.

Domattina alle 8.00 verrà con una macchina che ci porterà all’inizio del trekking.

Salutandomi dice che dovrà provvedere a farsi la barba…La mia è lunghissima… 01/01/2007 Pokhara – Naya Pul – Tikhedhungga Binod alle 7.30 si sta già aggirando per l’albergo.

Preparo gli zaini, ho inserito in più solo dei calzini acquistati ieri sera, ma mi sembra già di aver preso troppa roba.

Binod si è presentato con il portatore, un omino piccolo e sorridente.

Il suo nome è Binal; Binod la guida, Binal il portatore.

Il portatore ha un’età indefinibile, a ben guardare, però sembra giovane, di sicuro ha meno di trent’anni.

L’incontro è un po’ imbarazzante. Mi vergogno ad oberarlo del mio zaino, però la sua mitezza e mutezza, mi aiutano.

Chiedo a Binod se lo zaino per il portatore è troppo pesante, sarà sei, massimo sette chili.

Binod ride, dice qualcosa in nepalese, ridono tutti e due.

Forse sono abituati a pesi molto maggiori; non chiariscono.

Saluto Catia e Monica, loro resteranno qualche giorno a Pokhara poi si dirigeranno al parco del Chitwan nella regione del Terai al confine con l’India.

Saliamo su di una Suzuki Santana che in Nepal si chiama Bolero, viaggiamo un po’ dentro Pokhara fino all’ufficio ACAP (Annapurna Consevation Area Project) che rilascia i permessi per il trekking poi, per un’ora e mezzo, su per tornanti fino a Naya Pul.

Da qui inizia tutto…La “prova”!.

Incrocio un gruppo di italiani, saluto con un ciao, probabilmente ci rivedremo.

Il sentiero si apre con una leggera discesa verso il fiume Modi Khola e dopo pochi minuti a Birethanti, c’è la prima tappa.

Da quando i maoisti hanno firmato un accordo con l’attuale governo, non si corre più il rischio di essere taglieggiati nell’area dell’Annapurna, più semplicemente ci si ferma direttamente nel “posto di blocco” dove si paga un dazio.

Mi rilasciano addirittura una ricevuta dell’avvenuto pagamento, Binod mi suggerisce di non buttarla fino alla fine del trekking; un cimelio simile non lo butterei neppure se ne andasse della mia vita! Camminiamo per poco più di mezz’ora, forse quarantacinque minuti e facciamo tappa per la colazione, per me, credo pranzo per loro.

Anche se non ho faticato affatto, saranno ormai le undici e sono ancora digiuno.

Ci fermiamo in un posto delizioso, sporco ma delizioso.

Io prendo te nero e pane chapati con la marmellata ovvero un blob gelatinoso di un tono rosa shocking, dal gusto diabetico. Ottimi chapati e te.

Binod e Binal aspettano che io finisca prima di ordinare Dal Bhat.

Mangiano tutto con le mani.

Non sono l’unico avventore del ristorante. C’è una ragazza sola, molto giovane, direi europea, in compagnia della sua guida. Ci salutiamo: “Hi”, “Hi”.

Si conclude l’eloquio.

Riprendiamo il sentiero, c’è il sole, si sta bene ed è stupendo, quando la gente lancia il suo “Namastee” già da lungi prima di incrociarti.

Guadiamo un torrente di fondovalle poi iniziamo una dolce salita, attraversando villaggi di legno dipinti di colori sgargianti in un paio d’ore arriviamo in un villaggio nel quale facciamo tappa per il mio pranzo.

Sono le 13,45 e ordino chapati e Noodles.

Binod e Binal invece prendono un beverone a base di latte o burro di yak, acqua calda e chissà cos’altro.

Sembra la cagliata per fare la ricotta, mi invitano a non berlo perché, dicono, potrebbe essermi indigesto.

L’idea di fare un esperimento simile non mi aveva neppure sfiorato.

All’ombra è freschetto, al sole si sta da dio.

Consumo il mio pasto e apprendo, con sorpresa, che sono già arrivato a Tikhedhungga, cioè la tappa di oggi. Sono le 14,20 e non c’è più strada da percorrere, così esamino con Binod l’itinerario.

Decido di variare il percorso discusso precedentemente, proseguendo sul tracciato del campo base dell’Annapurna, benché non sia nelle mie intenzioni raggiungerlo.

Mi piace l’idea di avvicinarmi il più possibile alle montagne.

Binod dice che il vantaggio di essere da soli è quello di poter essere flessibili, è vero! Binod è sempre molto disponibile, si preoccupa in ogni momento che mi rimpinzi di cibo, ma vorrei davvero evitare.

Passeggio un po’ per Tikhedhungga, ci sono diversi turisti che sembrano tanti se si considera per la dimensione del paese davvero minima.

Gioco con qualche bambino curioso e guardo i muli passare carichi.

Si fanno le 16, guida e portatore sono scomparsi, presumo schiaccino un pisolino, arrivano gli italiani favellanti, anche loro faranno tappa qui.

Non ho fatto subito la doccia, primo errore, perché ho continuato a guardare una frana, grosso orrore, ha travolto e ucciso 28 persone ed è ancora in movimento, infinito orrore.

Nel suo distacco ha tranciato la connessione alla piccola centrale idroelettrica installata sul fiume nel fondovalle. Il paese da diversi mesi è al buio.

Ci sono degli uomini sul versante che stanno ricostruendo la linea elettrica, saranno una decina e sollevano dei tubi con le sole mani.

Si sentono le urla di incitamento che precedono lo sforzo di sicuro sovrumano.

Le docce sono occupate dai sopraggiunti trekkers, così osservo ancora un po’ le case, sotto un piccolo porticato pendono pannocchie di granturco messe a seccare.

Il granoturco si asciuga si secca.

Appeso ai tetti.

Dentro e fuori casa si asciuga dentro e fuori.

Si secca tutto, fuori e dentro.

Deve farlo.

Serve che lo faccia, lo farà.

Familiarizzo con due ragazzi tibetani che vendono braccialetti e collanine fuori del lodge, mi affibbiano due oggetti di metallo molto graziosi, ma del tutto inutili. Scambio qualche battuta con dei portatori nepalesi per nulla loquaci quando ricompare Binod.

Con lui che fa da interprete la conversazione decolla e scopro che i portatori sono sì taciturni, ma anche molto curiosi.

Vogliono sapere un sacco di cose, chi sei, cosa fai, dove vai, quanto, quando, come, perché, insomma un sacco di cose.

Si ride molto, o meglio, si sorride tanto che Min-gi, una simpaticissima ragazza Coreana, mi chiede se possiamo farci una foto insieme.

Mi dice che le piace che io stia sorridendo da quando sono entrato nel ristorante del lodge, così vuole un ritratto con me.

Accetto volentieri; nessuno mai mi ha detto di essere rimasto colpito dal mio sorriso.

Come di consueto, la foto mi ritrae con un’espressione raccapricciante, forse Min-gi è cieca…O forse ha detto che le fa ridere la mia faccia e io non ho capito, dovrò migliorare l’inglese, assolutamente.

Il momento delle abluzioni è drammatico, non c’è più acqua calda, viene prodotta coi pannelli solari ed è finita.

Lavandomi mi si solidifica il sangue nelle vene arterie e capillari.

Fuori è già scuro, sono ormai le 18,15 e Binod mi sottopone il menù per decidere della cena.

Ordino riso e verdure e rice pudding, Binod insiste perché prenda altro, ma non lo assecondo, intanto si accendono le candele.

Mentre aspetto faccio conoscenza con gli italiani, sono un gruppo de “Avventure nel Mondo”. Faranno in parte il mio stesso percorso, circostanza per nulla bizzarra dal momento che è uno dei trekking più battuti.

Della serie com’è piccolo il mondo, due di loro, Denise e Daniele, sono di Forlì, è quasi incredibile.

Ma sono ancor più sbalordito quando Daniele mi dice: “Io credo di conoscerti, ma che scuola hai fatto?” Beh, insomma, scopriamo di essere coetanei e di aver frequentato la stessa scuola. Sono senza parole, anzi le uniche che mi vengono in mente sono “Carramba che sorpresa!” Confrontiamo i nostri trekking, domani faremo la stessa tappa a Ghorepani, il 3 gennaio invece per loro sarà mortale, per me solo faticoso, credo.

Rientreranno l’otto gennaio e dovranno visitare anche il parco nazionale del Chitwan, nelle pianure del Terai, dovranno sgambare. Mi servono un ciclopico piatto di riso e apprendo che il pudding altro non è che un’ulteriore gamella di almeno otto etti di riso cotto nel latte con zucchero e cardamomo. Buonissime entrambe le pietanze, ma con questo cibo si sfamerebbe tutto il Burundi per un mese, non posso ingerirne che una parte.

Binod e Binal attendono che io termini il pasto per iniziare il loro, questa storia dovrà finire molto presto, come quella del “Sir”.

Stiamo a lungo in silenzio, credo che nei prossimi giorni andrà meglio, la lingua un po’ mi limita, ma anche la timidezza del non conoscersi non giova.

Nell’incomprensibile nepalese ordinano ancora Dal Baht. Binod afferma che loro mangiano sempre questo piatto, lo fanno da quando sono nati è una tradizione.

I portatori e le guide del gruppo di avventure nel mondo parlano un italiano divertentissimo, rimescolato all’inglese e forse anche a qualche altra lingua fa morire dal ridere.

Insistono che prenda una fetta di torta di banana che hanno preparato per i loro ospiti.

Davanti ai dolci non mi faccio mai pregare, ma oggi non ho davvero più fame, sono pieno che esplodo. Insistono talmente tanto, oltre a tutto sostenuti dai miei connazionali, che devo prenderne un pezzo che mangio più per educazione che per gola.

C’è un istante di silenzio nel quale colgo una sorta di apprensione, come se attendessero il giudizio inoppugnabile di un oracolo, così dico che è buona e tutti sorridono distesi, è buona davvero.

Alcuni del gruppo sono preoccupati per i 1400 metri di dislivello da superare domani scalando i tremilatrecento gradini menzionati sulle mappe, più l’ulteriore sentiero in salita.

Io faccio un’esternazione circa la nostra fortuna di essere lì, in uno dei posti più belli al mondo e non avere il problema di arrabattarsi nel tran tran delle feste natalizie, “Saremo ripagati di ogni fatica”, dico retorico, credo che in molti concordino.

La serata sembra volgere al termine, sono le 21, ma va bene così.

Mi accordo con Binod per l’orario di partenza di domani: 7,30 partenza, 7,00 colazione quindi 6,30 sveglia.

Faccio sentire la sveglia meccanica del mio orologio russo, il ronzio della molla fa ridere tutti.

Alle 21.30 sono nel sacco a pelo, le pareti delle stanze sono effettivamente di cartone, si sente tutto.

02/01/2007 Tikhedhungga – Ghorepani Alle 6.30 è già pieno giorno, si sentono tutti i rumori della cucina che si è alzata molto prima di me.

L’operazione “gabinetto” è complessa, non c’è maniera di pulirsi…Ovviamente ci sarà, ma non la conosco.

Mi sembrerebbe d’uopo non servirsi della carta come si usa da queste parti, confesso che ho paura, vorrei essere radicale, ma così “vicino alla terra” è difficile, finisco per consumare un altro po’ di mondo.

Scendo ai lavelli dove ci sono già guide e portatori che paiono volersi sbrigare a finire di sciacquarsi prima dei turisti, tutti, però mi sorridono.

L’acqua è gelata: ghiaccio allo stato liquido, fredda in un modo vitreo.

Scende Binal che inaspettatamente mi saluta in inglese e mi chiede se ho dormito bene con il suo largo e rasserenante sorriso.

Dopo la colazione partiamo, in ritardo sulla tabella di marcia concordata: sono le 8,20.

Percorro i primi mille gradini in poco tempo, riesco a dire in scioltezza.

L’aria è molto fresca e preferisco continuare per un po’ prima di fermarmi.

Binod è abituato a fare molte soste, non credo per se stesso, quanto piuttosto per i turisti che usa accompagnare.

Mi dice che possiamo anche rallentare, ma credo che prenderei solo freddo, così proseguiamo.

Raggiunta Ulleri, in cima ai tremilatrecento gradini, in compagnia di alcuni del gruppo di italiani prendo un te caldo, è diverso da tutti gli altri bevuti fino ad ora, è dolce e speziato, squisito.

Da qui la vista è già strepitosa, si vede la cima dell’Annapurna Sud, c’è un po’ di foschia, strepitosa foschia.

Alle 10.30 a Banthanti, gli italiani si fermano, attenderanno che il loro gruppo si compatti e i cuochi-portatori cucineranno il pranzo.

Io proseguo, la salita è divenuta più dolce, ma di salita trattasi, entriamo in un tratto del sentiero dentro la foresta di rododendri.

Facciamo due soste per riprendere fiato, una in mezzo al bosco e una in una baracca di legno che è tea-house, ristorante, minimarket, tutto in una baracca.

Una ragazza al massimo ventenne con un bimbo in fasce appeso alla schiena la gestisce.

Compro un pacchetto di biscotti che si riveleranno scaduti da oltre un anno. Non ha il resto da darmi per 100 rupie, ne spenderei 35.

La fatica che fanno gli sherpa per portare le merci fin qui non vale proprio nulla.

Raggiungiamo Nanggethanti a 2430 ml s.L.M. Dove il sole scotta, ma l’aria è fredda.

Pranzo con l’astro allo zenith, come le lucertole.

C’è anche la ragazza incontrata ieri a colazione, stavolta andiamo oltre il basilare “Hi” e scopro che ha 19 anni, viene dal Regno Unito e lavora a Kathmandu come insegnante di inglese in una scuola elementare, che dire? Le faccio i complimenti.

Ripartiamo subito dopo il pranzo, la salita fino a Ghorepani è dura, c’è un’altra serie infinita di gradini, man mano che si sale il freddo è sempre più pungente.

Ghorepani è formata da due zone abitate, una alta e una bassa, Binod mi spiega che la parte bassa è occupata dai “locali”, mentre in quella alta ci sono i lodges per i turisti.

In quindici minuti arriviamo in Ghorepani Deurali, la parte alta, dove c’è il nostro lodge.

Nel momento in cui entro nel villaggio una bimba di tre anni mi accoglie con un tenerissimo “Namastee”, poi si fruga nella tasca, tira fuori un fiore e me lo porge.

Lo prendo emozionato, farfuglio un “danneban”, non ho idea di come si scrive, ma in nepalese suona come “grazie”.

Le regalo un palloncino e s’illumina.

Sono a quota 2900 e anche al sole si gela, Binod mi ha riservato una sorpresa, una “suite di lusso” con bagno privato! Aveva accennato a qualcosa circa il lodge di oggi, ma non ci avevo dato troppo peso, si chiama Sunny Guesthouse, molto grande, molto vuoto, e come fa supporre il nome è splendente, fuori, un po’ meno dentro.

Sono alloggiato in una casetta separata dal resto dell’edificio, una sorta di bungalow.

La stanza è francescana, ma dalla finestra c’è una vista scenografica sulla cima sud dell’Annapurna, in più è molto pulita e c’è l’acqua calda! Meraviglia delle meraviglie! Mi avvalgo di tutto il comfort e la privacy per espletare le funzioni corporali con un gusto inedito. Inoltre la provvidenziale doccia calda mi rinfranca considerevolmente.

Dopo la sudata memorabile fatta oggi, non potevo sperare in qualcosa di meglio.

Mi asciugo in modo approssimativo per sopravvivere al freddo, anche dentro la stanza è inverno.

Vestito di abiti asciutti esco di nuovo in paese, per quanto mi trovi nella zona per turisti, ci sono molte persone del villaggio, forse una ventina.

Alcune donne sono sedute a conversare al sole e gli uomini si divertono con un gioco mai visto.

Approfitto per riprodurre a penna qualche vista del paese, le nuvole offuscano il sole e il freddo immediatamente cresce, la mano destra sta perdendo la sensibilità.

Gli abitanti sono per lo più scalzi o in ciabatte, caldamente mi salutano, rispondo.

Una bimba per giocare mi da un pugno, poi scappa via ridendo.

Arrivano altri bambini che forse hanno saputo dei palloncini, ne regalo un paio ad ognuno di loro.

Ci sono anche dei ragazzi olandesi che si trattengono qualche minuto, vogliono sapere da dove vengo, poi mi chiedono se abbia per caso visto un posto dove poter giocare a biliardo.

Che esigenza, quantomeno bizzarra, in questa località! Mentre nel sentiero si avvicendano asini, portatori smisuratamente carichi e radi turisti che cercano attenti il proprio alloggio, ritornano in massa i bimbi che vociando incomprensibili lemmi, vogliono che provi a gonfiare i palloncini che hanno giustappunto provveduto a far scoppiare.

Sono impegnato nel difficile tentativo, quando approda Min-gi, la coreana, ci salutiamo felici di rivederci.

Vuole a tutti i costi che faccia un disegno sul diario, mi chiede di aspettarla, andrà a posare il suo bagaglio.

Un crocchio di persone mi attornia, il disegno è un magnifico linguaggio, è chiaro a tutti, non necessita di spiegazioni e faccio amicizia all’istante, sempre.

Min-gi torna e mantengo la promessa.

Il freddo cresce esponenzialmente man mano che imbrunisce.

Il sole le tramonta dietro disnebbiando il cielo. L’Annapurna sud si mostra in tutto il suo splendore.

La luce ocra del tramonto è magica. Salgo la collina per avere una visuale migliore.

Sono di fronte ad una bellezza commovente che si può solo contemplare.

Ci sono ancora contadini che lavorano negli orti, anche se ormai è sera.

Raggiungono il paese anche i ragazzi italiani ci si fa festa reciprocamente.

Immagino che Binod mi stia cercando, così ritorno alla Guesthouse.

Salgo al ristorante, nell’edificio centrale.

Un nutrito gruppetto di turisti, portatori e guide cerca conforto vicino alla grande stufa al centro della stanza.

Mi fanno posto, ma per ora il freddo m’è passato, la corsetta su e giù per le scalinate del paese è stata corroborante, perciò mi siedo in un divano profondissimo.

Due turiste inglesi, ma che per ragioni che ignoro, vivono in Oman, sono incuriosite dal mio diario, ormai è affare di stato! Spiego che prendo appunti per ricordare i momenti salienti, ma il loro occhio è caduto sugli “sketches” e vogliono vedere.

Parlando con loro sbaglio: un present continuous, tutti i passati, molte terze persone e vari plurali, un disastro.

Loro, care, meramente per educazione mi tranquillizzano sostenendo che sono solo piccoli errori, che stile! Alle 18.30 ho già cenato, stavolta con tanta fame, Binod è sempre molto premuroso, si assicura che sia sempre a mio agio.

Non credo che i miei, “Don’t worrie” e “I’m ok! Really!” servano poi a molto.

Più tardi sarò contento di andare a trovare i ragazzi italiani che alloggiano…In un altro “quartiere”, dall’altra parte del paese.

Fuori la notte è rischiarata dalla luna piena, per terra ci sono un po’ di neve e di ghiaccio, corro attraverso le stradine per scampare il gelo, spero di non rovinare al suolo scivolando, a questa latitudine non sarebbe proprio il caso rompersi un osso.

Patrizia la ragazza di Bologna del gruppo di italiani, la più preoccupata di non riuscire nell’impresa, è arrivata relativamente tranquilla.

A letto presto, logico, vestito di tutto punto dentro al sacco a pelo.

03/01/2007 Ghorepani – Poon Hill – Tadapani La sveglia è suonata adesso che sono le 5.30, sono sveglio dalle 4.

Esco dal bozzolo isolante, indosso due paia di calzini, calzamaglia, sotto-pantalone felpato e pantalone poi cinque tra maglie e giacche oltre al piumino e guanti e berretta.

Si sale a Poon Hill per ammirare l’alba sulle cime.

E’ buio, con la torcia illumino i miei passi. Così vestito sull’erta, ho subito caldo, caldissimo, levo qualche strato.

Si intuisce che in cima il panorama sarà stupefacente, la luna piena disegna il profilo delle creste. Alle 6.30 inizia ad albeggiare.

Il respiro è contiguo al cielo.

C’è un momento nel quale la luna non è ancora calata e il sole non ancora spuntato; il sole fa l’amore con la luna, come diceva De Gregari, anche se lui parlava di un tramonto, ma questa e un’altra storia… Servirebbe un obiettivo a 270°. Non ce l’ho, forse non esiste,così non faccio foto, meglio guardare.

Di Poon Hill è inutile dirne la magnificenza, non ci sono parole, io non ne ho.

Ci si ritrova tutti: le inglesi, le coreane, gli olandesi incrociati ieri e naturalmente i compagni di viaggio italiani, ormai sono tali.

L’emozionale atmosfera è lievemente corrotta dalla folla, meno male che è bassa stagione, non ho voglia di fare la foto di rito con le montagne alle spalle o il cartello “Poon Hill 3210 m”. (non amo molto le foto che mi ritraggono in vacanza, quindi normalmente non le faccio, ma adesso che riscrivo gli appunti mi mangerei le mani!!!) Tutti gli strati di vestiti sono stati necessari. Stando fermi si congela.

Scendo con gli italiani, faccio qualche foto dal basso, quando l’Annapurna è in piena luce e non si sono ancora alzate le brume.

Lascio l’e-mail a Paola per condividere questi scatti. Alle 8.10 sono in albergo Binal si sta scaldando vicino alla stufa e mi chiede se ho visto le montagne.

Dico: “Woooooonderful, Marvellous, Fantastic” e altre cose simili.

Faccio colazione, ad ogni boccone ho mal di pancia, speriamo bene.

Ricominciamo a camminare alle 9.30 in direzione Tadapani, gli italiani si son già avviati da più di mezz’ora.

Saliamo su di un passo che ha la stessa quota di Poon Hill dove un gruppo di americani è impegnato a fare mille foto di gruppo con l’autoscatto.

La vista effettivamente vale, così mi faccio convincere da Binod a farmi fare una foto con lo spettacolare sfondo. (Per fortuna, almeno questa) Pretendo però che nella foto ci siano anche lui e Binal, accetta, così chiedo ad un turista. Il sentiero è un susseguirsi di interminabili salite di gradini e di discese ripidissime.

Riguadagno il distacco con gli italiani. Mi piacerebbe condividere un ulteriore tratto del percorso con loro.

Prendiamo un altro te insieme, Binod e Binal sembrano divertiti dalle chiacchiere in italiano, percorriamo un pezzo insieme parlando dei parchi nazionali italiani, di immersioni subacquee e di quanto sia bello camminare in posti simili.

Il gruppo purtroppo è costretto a ricompattarsi e fermarsi per il pranzo, sosterei anch’io, ma Binod mi dice che è meglio proseguire, manca poco a Tadapani, l’arrivo di oggi.

Un po’ a malincuore accetto la sua proposta, del resto io gli ho detto che preferisco pranzare sulle 13.30 in più è da stamattina che non lo considero troppo, non vorrei s’offendesse, sarà uno scrupolo stupido, ma tant’è.

Con non poca fatica giungo a Tadapani.

Binod mi propone di fermarmi per il pranzo, poi di proseguire per Ghurjung nel pomeriggio.

Ci sarebbe tempo, è passata da poco l’una, ma la domanda mi viene posta in un momento in cui sono talmente spossato che decido di restare qui per la notte, in fondo la vista è stupenda.

Pranzo al sole indossando il piumino.

Binod e Binal giocano ad un gioco nepalese su di una tavola di legno dove è disegnato uno schema stellare, una specie di dama; imperscrutabile.

Resto a fissare le montagne per un periodo indefinito di tempo e scorgo da lontano, in un’altra pensione, la ragazza inglese insegnante in Kathmandu.

Ci salutiamo con la mano.

Sulle 15 arrivano gli italiani, loro proseguono fino a Ghandruk, ne avranno ancora per un paio d’ore pur di discesa. Non li invidio.

Stavolta è il commiato. Restiamo d’accordo di rivederci in Italia, perché no? Vado da Loren la ragazza inglese, così, tanto per fare conversazione.

Loren, è di Londra Parla un po’ di nepali language ed è diretta al Campo Base dell’Annapurna.

Le chiedo se è attrezzata, incontrerà neve e ghiaccio sopra i 3500 m, io ho già freddo qui.

Lei mi dice che ha degli abiti caldi e molto tempo a disposizione, quindi la possibilità di aspettare anche di acclimatarsi al freddo.

Il padre lavorava in Nepal e tornerà a trovarla in febbraio con la madre e le sorelle, lei cercherà di rientrare a Kathmandu entro l’ultima settimana di Gennaio.

Le dico che è coraggiosa, lei ribadisce: “I just have time” Molti degli impedimenti umani effettivamente sono causati dalla mancanza di tempo, io non ne ho mai avuto abbastanza, è lampante che sbaglio approccio.

Saggia Loren, giovane e saggia, oppure giovane e fortunata, credo ambedue le cose…Saggia e fortunata intendo, dato che giovane è un dato di fatto.

Arrivano anche le due Anglosassoni residenti in Oman, sarà il lodge degli inglesi? Iniziano a parlare stretto stretto, capisco un terzo di quel che dicono, forse meno.

Mi limito quindi, di quando in quando, ad assumere un’espressione inebetita da un inutile sorriso.

Mi rivolgono qualche domanda, credo per educazione, così saluto e ritorno nel mio lodge a cento metri.

Loren mi dice di tornare nella serata per una visita.

Alle 18.30 è pronta la cena. Ultima delle mie necessità: mangiare.

Nel lodge sono ospitati una coreana di mezza età e un tedesco che viaggiano soli oltre ad una coppia di austriaci, tutti accompagnati da relative guide e porters.

Siamo tutti taciturni tranne Austria e Germania che, avvantaggiati dalla lingua, abbozzano una conversazione che risuona monotona nella sua durezza.

La tavolata mi annoia repentinamente e accetterò l’invito di Loren.

Ritorno alla stanza molto presto, leggo un po’ del libro che mi son portato, dormo in pochi minuti.

04/01/2007 Tadapani – Jhinu Danda Mi sveglio di nuovo alle 4; l’orologio biologico si deve essere danneggiato.

Temperatura molto bassa, non ho nessuna voglia di andare in quel gabinetto.

Mi rigiro nel sacco fino alle 6.15, quando suona la sveglia, vado in quel gabinetto.

E’ buio serve la torcia, anche per centrare il bersaglio, mi lavo la faccia e vado in ipotermia.

Faccio le scale balzelloni per riscaldarmi, ma sono troppo poche.

Alle 7.10 scendo nella sala da pranzo già vestito. Non v’è traccia di Binod e Binal.

Come potranno pensare di partire alle 7.30?! Approfitto delle prime luci per qualche foto, mentre la coreana, appena scesa dalla stanza, fa stretching.

Esce anche il tedesco che attacca a fumare come un turco.

Finalmente i miei due assistenti si fanno vedere, sono le 7,40 e ordino la colazione.

Mangio poco e bevo molto, grosso errore.

Alle 8.20 incominciamo il giro scendendo una discesa a picco che dai 2600 metri di Tadapani porta ai 1700 del fondovalle.

Binod sbaglia strada e siamo costretti ad allungare il percorso al massimo di un chilometro in tutto durante il quale si consulta ripetutamente con Binal.

Inizia una cerimonia di scuse esagerata, mi dice che si vergogna che non sa come farsi perdonare.

Sono confuso, gli dico di non preoccuparsi, che non c’è problema, in fondo se non avesse dichiarato nulla, probabilmente non me ne sarei accorto.

Sembra che si sia fatto una ragione, quando scivolo in una scarpata per qualche centimetro, mezzo metro ad esagerare.

E’ la tragedia, Binod compie un gesto inconsulto, si tuffa prono per “salvarmi”.

Visto che non sono riuscito neppure a cadere il suo tuffo per recuperarmi è stato davvero esagerato, mi vien da ridere e gli dico: “Ehi! Tranquillo, non è successo nulla!” E’ mortificato, sono entrambi mortificati, è imbarazzante. Non voglio pensare se fossi caduto per terra cosa sarebbe potuto succedere, forse dopo essersi flagellato avrebbe fatto harakiri?! Il trekking prosegue in silenzio fino al fiume, non so che dire, gli sono molto riconoscente per tutta questa premura, ma neppure i miei genitori si sono mai preoccupati tanto della mia incolumità! Tutto ciò mi spiazza.

Dal fiume si sale per due interminabili ore fino a Chhomrong, dove dovremo dormire stanotte.

Nella salita ho le allucinazioni forse per il poco cibo solido della colazione. Il succo di frutta lo bruci subito.

Pranzo con una porzione pantagruelica di curry di verdure con riso e pane chapati al formaggio, rispettivamente insipido e buono.

Volendo usare un eufemismo, posso dire che le stoviglie sono luride, ma non importa molto c’è un solicello tiepido e la vista sui monti è ancora superba.

Comunico a Binod che oggi forse sarebbe il caso di proseguire ulteriormente, sono solo le 13, la trattativa è breve, arriveremo a Jhinu Danda.

Ripeto per l’ennesima volta a Binod che non mi dispiacerebbe dividere i pasti con loro, lui ride, finalmente, ma non aggiunge altro.

Da Chhomrong prosegue il sentiero per il campo base dell’Annapurna a giudicare da questo sole sembra invitante proseguire nella salita, ma non è nei progetti iniziali e non voglio trovarmi in difficoltà perché non adeguatamente attrezzato.

Magari la prossima volta…O la prossima vita.

Iniziamo una discesa di oltre 400 metri di dislivello nella quale incontriamo trekkers che arrancano nella direzione contraria.

Per oggi noi abbiamo già dato e in souplesse scendiamo migliaia di gradini, in meno di un’ora siamo a Jhinu.

Jhino è bellissima, microscopica e bellissima.

Alberghiamo nel Namaste Hotel. I nomi degli alberghi mancano sempre di fantasia; tutti, nessuno escluso.

Doccia calda anche qui, che gioia! Anche Binod cede alle lusinghe di una consolante doccia, si accerta in nepalese se c’è acqua calda, distinguo, infatti, un “tato pani” che so che significa acqua calda: è anche il nome di una località sulla via per Jomson dove sono presenti delle sorgenti termali, acqua calda appunto.

Ho lavato la biancheria e i pantaloni e li ho stesi al sole, i materiali a rapida asciugatura mi consentiranno domani di ripartire pulito! Sono solo in tutto l’hotel. Uscendo dal percorso del campo base in bassa stagione ci sono pochissimi turisti.

Prendo un succo di frutta e mi siedo ad un tavolo del lodge, tira un vento piuttosto fresco, ma il sole picchia forte si sente che siamo sotto i duemila metri.

Starnutisco e tutta la famiglia nepalese gestrice mi osserva, mi studia.

Anch’io osserverei, ma non voglio essere maleducato.

L’Annapurna svetta bianca e alta sul villaggio, lo protegge o forse lo minaccia.

La padrona del lodge non ha penne da vendere, immagino che qui non sia un genere di largo consumo, ma la mia si è scaricata.

Faccio qualche passo per Jhinu. Vicino al torrente a fondovalle ci sono delle piscine con acqua calda.

Mi incammino in quella direzione, ma sono altri scalini, forse non vado, ho anche già fatto la doccia.

Risalgo la scalinata che porta nella parte più alta del villaggio, un “locandiere” mi saluta e mi chiede se sto cercando una stanza.

Gli dico che a dir la verità sto cercando una penna. Lui ne ha da vendere.

E’ una biro, ma ha l’inchiostro liquido, costa trentacinque rupie.

E’ migliore di quella che speravo di trovare, posso continuare a scrivere! Vado alla fine con Binod alle “hot spring”; me lo aveva chiesto poco fa e non ero voluto andare, ero indeciso, ma ora mi ravvedo, non voglio farmi mancare niente! La discesa che porta al fiume è lunghetta. Adiacente alla sponda destra ci sono tre vasche rivestite con lastre di pietra e dei cartelli indicano la temperatura in gradi francesi.

Non faccio il bagno, non ho nulla per asciugarmi e l’acqua nella migliore ipotesi è solo tiepida.

Risaliamo, io e Binod parliamo di automobili, lui non ne ha una, ma se la sua attività crescerà dovrà dotarsene.

Io racconto che dove vivo non se ne può fare a meno, sono rassegnato mentre lo dico.

Quando torno al lodge c’è una coppia tibetana che racconta ai proprietari del viaggio che hanno fatto in india per incontrare il Dalai Lama.

Binod poi mi parla di quando era pastore e di come ha imparato a suonare il flauto gurung, mi fa sentire qualche pezzo, è bravo, gestori e tibetani ascoltano compiaciuti.

La conversazione declina quindi sulle NGO (Ong) e sulla possibilità dell’occidente ricco di salvare il resto del mondo. Si fa ora di cena.

Alle 18.00 si cena, entro nel ristorante mentre fuori accendono il fuoco.

Finito la cena Binod mi invita ad uscire e sedermi con loro davanti al fuoco che è “così caldo”, afferma.

Mi pare un controsenso: fuori al freddo, ma accanto al fuoco, sarà che dentro si stava benissimo.

Davanti al fuoco ci sono tutti, la coppia tibetana, i proprietari con i figli e Binod e Binal, arriva anche un bizzarro personaggio che si siede di fronte a me nelle panche disposte tutt’intorno, si ascolta insieme il crepitio della legna che arde, quando qualcuno dice che il Dal Bhat è pronto.

Restiamo io e il figuro anzidetto, noto che non ha una mano e subito la mia immaginazione compie un viaggio iperbolico sull’incidente che ha causato la perdita della parte anatomica.

Di sorpresa farfuglia qualcosa che ovviamente non capisco. Quasi trasecolando sorrido, sorride, sorridiamo.

Il muro della lingua è invalicabile: si resta così a percorrerlo lungo il suo perimetro, magari con la stessa intenzione, ma senza potersi in alcun modo incontrare.

Trovo, però sempre una breccia, il sorriso onnipresente della gente che ti scalda il cuore, nessuno esita a regalartene uno.

Ho l’impressione che non ci siano barriere, che nell’essenza siamo vicini e forse è tutto quello che importa.

Tornano fuori Binod e Binal, e spariscono tutti gli altri, tiriamo tardi vicino al fuoco parlando delle produzioni del cinema indiano di Bollywood.

Con magno gaudio di Binod ho argomentazioni da spendere, è valso a qualcosa sorbirsi quelle tediose proiezioni di musical zuccherosi, quando è capitata l’occasione.

Binod va pazzo per tutto ciò che è bollywoodiano.

Binod è molto intelligente e preparato ma non sa nulla dell’Europa, mi chiede se in Italia ci sono le tigri.

Gli prometto che gli farò avere delle nozioni esaurienti sul vecchio continente.

05/01/2007 Jhinu Danda – Landruk Il percorso di oggi sarà più breve e meno pesante di quello dei giorni scorsi, così la sveglia sarà alle 7.30.

Colazione con Gurung Bread, una sorta di piadina fritta, pesa ma ottima.

Sulle 9,00 ci mettiamo in marcia. Il sentiero precipita vertiginosamente fino al fiume quindi altre migliaia di gradini, poi si distende per poco per finire ancora verticale.

Passo in mezzo a pascoli e terrazzamenti fino ad una cresta al di là della quale cambiano i colori.

Il paesaggio è verdissimo, il frumento ha ceduto il posto al riso, si Vede Ghandruk.

Ripetizione di discese e salite abissali per raggiungere il più grande villaggio dell’etnia Gurung.

Poiché abbiamo camminato spediti e ci abbiamo messo poco più della metà di quanto pronosticato, Binod è preoccupato che io non sia sufficientemente soddisfatto.

In realtà lo sono e molto anche, ma non trovo più espedienti per dimostrarlo.

Sono le 11 e vorrebbero che mangiassi, non ho fame e aspetto un po’.

L’albergo è un immenso edificio di muratura che avrà almeno cinquanta stanze, ha fattezze simil-coloniali, nulla a che fare con i lodges abitati finora, immagino che bolgia potrà esserci in primavera.

Alle 12.00 ancora senza fame ordino curry di pollo e riso, tutti mi aspettano e Binod, malgrado le mie preghiere, non mangia mai prima di me.

Sti nepalesi! Ghandruk è smisurato, se si confronta con la dimensione della media dei villaggi delle montagne, ordinato, pulito e molto popoloso.

E’ deserto di turisti per via della bassa stagione. Si susseguono per le stradine lastricate alberghi lodge e guest-house, tutti chiusi.

Chiedo a Binod del museo Gurung del quale ho visto la targa, dice che non vale la pena vederlo, ma insisto, quando ci torno?! Così andiamo.

Fuori dell’ingresso quattro uomini giocano a carte e una donna li osserva, spiegano che non c’è la corrente e quindi va visitato al buio, pago trenta rupie e mi danno una torcia che non funziona.

Fortunatamente ho tenuto la mia, che funziona e posso guardare.

Entro nel museo più piccolo e buio che abbia mai visto.

Una “stanza etnografica” di quattro metri per tre, all’interno della quale sono accatastate decine e decine di oggetti tradizionali Gurung, in un buio assoluto.

Vale la pena vederlo, checché ne pensi Binod.

Si riparte da qui alla volta di Landruk, una scalinata, l’ennesima a perpendicolo sul fiume.

Ogni gradone richiede controllo della forza per evitare di sovraccaricare le ginocchia o di perdere l’equilibrio, il rischio di cadere è concreto.

Nei tre quarti d’ora che impiego a scendere sono superato da torme di bambini alti al massimo un metro che procedono correndo, sono usciti da scuola e raggiungono le case a tre quattro gradini per volta, volano, cosa non fa l’abitudine! Binod sottolinea che ogni giorno devono percorrere la stessa strada, andata e ritorno, poracci! Landruk, la destinazione di oggi, si trova nella montagna di fronte a Ghandruk, più o meno alla stessa quota. Ricominciamo quindi a salire.

Il sole alto picchia e scalda, faccio una fatica titanica, alle 15.00 entriamo in paese, pochi passi ancora e siamo alla Sherpa Guesthouse.

Landruk non ha nulla a che vedere con Ghandruk, è visibilmente più povera, meno luoghi per turisti, mi colpisce subito una torretta su di un lodge dall’improbabile architettura che sfida tutti i principi della statica.

La camera che mi assegnano ha il bagno privato, pregustando già una doccia calda, prima lavo nuovamente pantaloni e softshell perché domani non siano fetidi.

Non sapevo cosa volesse dire “fare una doccia fredda” davvero non ne avevo idea.

Tutta l’acqua saggiata finora era ad una temperatura di gran lunga superiore a questa.

Intanto l’Annapurna Sud ha indossato un’aureola di nuvole.

Faccio quattro passi nel paese, scatto foto, ho con me una scatola di gessetti colorati, con alcuni bambini disegno degli animali sulle lastre che pavimentano il sentiero, poi fiori, soli e montagne.

I più piccoli avranno tre o quattro anni: disegnano forme inverosimili, le più straordinarie.

Alle 17.30 è già tempo di ordinare la cena.

Mentre aspetto, Binod mi avvisa che domani i maoisti mi chiederanno la ricevuta che mi hanno fatto a Naya Pul, mi istruisce su cosa dovrò dire al maoista che mi interrogherà.

Non capisco tutto, sicuramente sbaglierò e…Ci fucileranno! 06/01/2007 Landruk – Dhampus Ultimo giorno intero di trekking, domani, infatti, ne avremo solo per qualche ora.

Ultimo giorno con l’Annapurna bene in vista, ultimo giorno.

Sono un po’ triste, non mi va di lasciare le montagne, ma partir bisogna.

Resto in silenzio per un lungo periodo.

Cammino per tre ore lungo un saliscendi affatto difficile, la foresta è sempre scura e fresca.

Ancora villaggi, pascoli e risaie, Tolka, Pitam Deurali e in fine Pothana che doveva essere la meta di oggi, inizio a credere che Binod pensasse che fossi tetraplegico.

A Pothana il paesaggio è ancora stupendo.

Ordino ancora curry di verdure e riso, finalmente buono se pur insipido.

Salando copiosamente la pietanza tutti mi guardano straniti, ma non sanno che io voglio un’arteriosclerosi di qualità.

Le vette alle mie spalle si sono velate di nuvole.

E’ come se volessero definitivamente decretare il distacco, ora e per sempre.

Vorrei chiamare a casa, ho fatto degli strani sogni, vorrei controllare l’e-mail, vorrei dormire fuori del sacco a pelo senza congelare, vorrei mangiare qualcosa di diverso da riso e lenticchie o curry, vorrei un gelato! Eppure la malinconia mi affligge, mi vien da piangere pensando all’esperienza che volge al termine, pensando a quanta bellezza mi ha riempito gli occhi.

Binod mi dice che potevamo anche arrivare al campo base dell’Annapurna, non avremmo avuto problemi, l’ha visto da come cammino.

Non gli credo, ma tornassi, seguirei il suo consiglio, magari nella zona dell’Everest…Tornerò.

Passa il portatore che stamattina a Tolka zoppicava gravato da una valigia di un gruppo di giapponesi di dimensioni mai viste.

Gli ho offerto una crema analgesica che ho con me, mi ha fatto pena, lui ha rifiutato dicendo di aver già messo un unguento sul ginocchio dolorante, qui mi saluta.

In una casa a fianco del ristorante si sta svolgendo una cerimonia induista, almeno credo. Alla fine del rito una donna offre frutta fresca, non ne prendo per precauzione, non vorrei farmi sei ore di autobus per tornare a Kathmandu con la diarrea.

Forse ho commesso un errore, dopo la frutta, infatti, la donna passa a fare un tika sulla fronte di ognuno, saltandomi a piè pari.

Forse non avrei dovuto rifiutare l’offerta, stavolta non son stato benedetto.

Arriviamo a Dhampus in mezz’ora sorpassando di corsa una carovana di asini che trasportano tronchi a valle.

Il paese è spalmato in un’area molto ampia, nulla di così pittoresco.

Vedo prima una motocicletta poi due auto, due vecchie Toyota corolla degli anni ’70, realizzo in un attimo che è finita, la magia è finita.

Cena alle 18.15 poi Binod mi insegna un gioco a carte, per un’oretta e, anche con Binal, giochiamo.

Alle 20.30 si va a letto.

07/01/2007 Dhampus – Phedi – Pokhara Sveglia naturale alle 7.00 mi lavo di nuovo con del ghiaccio.

Mi vesto in fretta di mille strati e scendo per vedere la luce crescere.

Ci saranno tre gradi, ma sono tutti scalzi, bambini compresi.

Tutti afflitti da sintomi da raffreddamento, ma nessuno che si copra.

Faccio colazione, mi costringo a sorridere a Binod e Binal, son pronto a partire.

Binod sostiene che impiegheremo due ore a piedi per raggiungere Phedi e un’ora per tornare a Pokhara in auto.

Ci mettiamo rispettivamente un’ora per il tratto a piedi e venticinque minuti di auto.

I tempi in Nepal devono essere dilatati anche nei pensieri.

Scendo il sentiero senza infamia e senza lode, si iniziano a sentire i rumori delle auto e degli autobus, non ho più motivazione.

Sobbalziamo fino a Pokhara sul taxi e ivi giunti pranziamo in un ristorante di fronte all’albergo, poi do appuntamento a Binod nel pomeriggio per un giro turistico nella città, non faccio in tempo a salutare Binal, lui vive a Pokhara e s’è già dileguato da un po’.

Per prelevare denaro dal bancomat esco sul lungolago e mi dirigo alla cash-machine, la quale ingoia la mia tessera, devo così andare dal direttore della banca a farmela restituire.

Incontro Binod alle 14.00 è in compagnia del fratello di Binal, il cui nome mi sfugge, assomiglia molto al fratello, solo più vecchio, stesso sorriso mite.

Parla bene l’inglese. Gli raccomando di portare i miei saluti a Binal.

Con Binod noleggiamo una bici e andiamo a vedere le cascate Devi.

La cascata è formata da un fiume che precipita in un crepaccio, molto simile ad un rift islandese.

Nulla di sensazionale, delle brutte transenne verdi consentono di individuare il punto del salto, disseminati dappertutto cartacce e rifiuti.

Ci spostiamo poi in un ipogeo poco distante dal quale si può vedere la cascata dal basso, è buio umido. Il passaggio per arrivare al punto ipo-panoramico è assurdo, un percorso da fare carponi, scivolosissimo e in discesa, l’ideale per fratturarsi le ossa facciali cadendo a pesce.

L’antro della cascata, nero come la pece, consente di vedere una striscia di luce che è la spaccatura della roccia dove passa l’acqua.

Nulla di veramente degno di nota.

Andiamo poi al museo della montagna, pedaliamo per un bel po’, è piuttosto decentrato, per trovarlo serve un GPS o…Un Binod! Come nel mio caso.

Il museo anzi, il Museo con la M maiuscola, è da non perdere.

E’ incredibilmente ricco, bello, interessante, curato, qualcosa al di fuori degli standard nepalesi.

Sono menzionate e descritte tutte le spedizioni sulle vette e sono citati gli alpinisti più illustri Messner compreso, che hanno battuto i sentieri nepalesi.

C’è una raccolta dei costumi tradizionali di tutte le etnie e una ricchissima collezione di materiali proveniente dalle spedizioni degli anni ’50 fino ad oggi.

Puoi vedere i calzini degli spedizionieri francesi che per primi tentarono l’Annapurna I°, le gavette, i sacchi a pelo, i guanti e quant’altro.

Una larga sezione è poi dedicata alla flora e alla fauna selvatica dell’ACAP.

Dopo quattro ore riconsegniamo le bici spendendo una cifra ridicola.

Prima di congedare Binod lo invito a cena per la sera, gli chiedo di invitare anche Binal, fosse libero mi farebbe piacere salutarlo.

Accetta lieto. Ci diamo appuntamento per le 19,00 davanti all’albergo.

Mentre aspetto chiacchierando con il ragazzo che riordina le stanze, arriva prima Binal in moto, poi Binod a piedi.

Faccio scegliere a loro il locale e finiamo nel ristorante che scegliemmo a caso la prima sera a Pokhara, sarà il migliore della città? Ceniamo e stavolta, forse travolto dalla musica tradizionale suonata e ballata dal vivo, ordino Dal Bhat, loro no.

Alle 20.30 ce ne andiamo, camminiamo fino all’albergo, ho un nodo in gola.

Li ringrazio di tutto, Binal mi stringe la mano calorosamente, poi mi dice “Goodbye”, in un secondo abbranca la moto e scompare.

Binod lo giustifica: “È molto timido”.

Addio o arrivederci, forse sarà la prima, ma sarebbe bella la seconda ipotesi.

Devo saldare il conto con Binod, ma dice di non voler più denaro perché il trekking s’è concluso con un giorno di anticipo.

Rifacciamo bene i conti e deve avere ancora venticinque che insisto molto perché prenda, poi gli do una mancia di trenta, spero di essere stato giusto.

Ci salutiamo, che magone.

Vuole rivedermi a Kathmandu, per darmi un piccolo regalo, dice.

08/01/2007 Pokhara Ormai mattiniero alle 7.00 sono già in piedi, vestito e lavato.

Faccio un giretto per Pokhara deserta dove tutto è ancora chiuso.

Alcuni locali dove si può fare colazione aprono attorno alle 7.30, prendo un te nepalese al latte e un croissant.

Mi dirigo al molo dal quale partono le imbarcazioni per il tempio induista costruito sull’isola in mezzo al lago Phewa Tal.

Le donne delle bancarelle si affaccendano per preparare le offerte per gli dei che compreranno i fedeli.

Desto curiosità da unico turista, ancora qualche irriducibile mi offre hashish e marijuana, rifiuto ridendo.

Le montagne sono velate e stanno salendo anche delle nuvole più consistenti, anche da lontano non le rivedrò.

Passo la mattina a bighellonare per i negozi del lungolago, compro troppe cose siccome economiche e poi esco dal percorso dei turisti.

Per una strada secondaria un padre col suo bambino mi saluta, vuole conversare, parliamo finché non arriva davanti alla scuola dove lascerà il pargolo.

Non c’è che dire, i nepalesi sono adorabili.

In riva al lago cerco un po’ di solitudine invece mi avvicina un soggetto che racconta di essere un agricoltore che fra pomodori cavolfiori e patate, tiene ad informarmi, coltiva anche marijuana.

Non me ne offre, ma ritengo che possa essere una seccatura così, per intimorirlo, intavolo un discorso sulla cosmogonia.

Fatto imprevedibile, gli interessano le mie argomentazioni fasulle e resta a parlare con me per più di un’ora.

Come al solito il mio giudizio affrettato era sbagliato.

E’ un ex insegnante che ha deciso di cambiare vita ed è tornato alla terra.

Fa delle considerazioni molto acute sulla modernità e dice una frase banale, ma che mi stamperò nella memoria, perché nel contesto del suo ragionamento sull’uomo, echeggia come una cannonata; “People don’t even understand that life is so short”.

Come ha ragione! Mi chiede se ho mai meditato o meglio fatto meditazione, gli rispondo no, o almeno non credo quella che intende lui, mi incita ad iniziare a farlo perché mi consentirà di vedere lontano.

Che bello avere tempo per oziare e fare chiacchiere, non mi succedeva da anni.

Ci salutiamo, mentre arriva un ragazzo che si siede nella panchina, dicendo di non far caso a lui e scusandosi, naturalmente.

E’ un po’ nuvoloso, la temperatura è quanto di più gradevole, venti o forse 22 gradi, inerte guardo dei ragazzini che pescano su di una roccia che affiora dall’acqua.

Sono circondato da pacifici cani.Teorizzo che in Nepal anche i cani sono buddisti.

Questa è la vera meraviglia.

Aijaz, suona più o meno come Isac, è il nome del ragazzo che s’è seduto nella panchina poco fa, è del Kashmir e incomincia ad enunciare tutte le bellezze della sua beneamata terra, manco gliele avessi chieste.

E’ meravigliato che io sappia collocare geograficamente il Kashmir, questo è sufficiente perché mi elegga suo nuovo amico.

Mi attacca una pezza insostenibile che dura due ore, per fortuna che sedendosi si era scusato di esistere.

Insiste per scrivere il suo indirizzo telefono e e-mail nel mio taccuino, mette anche il nome del padre, volessi mai recarmi in Kashmir e lui non fosse a casa.

Gli do un po’ corda, stando in un certo modo al gioco, ma diventa pedante.

Tutto quello che c’è al mondo è orrendo se paragonato al Kashmir, perché tutta la beltà del globo terracqueo è finita là.

La gente migliore al mondo? Si trova in Kashmir naturalmente.

Quando andrò in Kashmir, me ne renderò conto, dice quasi minaccioso.

Vuole condividere la sua casa, il cibo e la sua vita intera, “perché è questo che si deve agli amici” continua delirando.

Considerando che l’ho conosciuto su una panchina pubblica in riva ad un lago artificiale in Nepal, escluderei un legame così solido, per me sarebbe impegnativo, direi pretenzioso.

Mi libero di lui con la mossa strategica del “qualcuno che mi aspetta”.

Riesce tuttavia a scucirmi l’indirizzo e-mail e la promessa di passare da Mama, sua zia, che in Pokhara gestisce un negozio di stoffe, per vedere le foto del Kashmir.

Fino ad oggi il Kashmir era una regione dell’India che mi affascinava.Non andrò mai da Mama…Per l’amor del cielo! Tornando all’albergo compro una pashmina per la mamma, l’ho notata già ieri.

Anche questo venditore viene dal kashmir e vuole che lo vada a trovare in patria, inverosimile.

Contratto e compro due pezzi per la metà del prezzo iniziale.

“Per gli amici questo ed altro!” fa il venditore…In Kashmir sono squilibrati è la sola conclusione plausibile.

Alle 18.00 ormai è sera e approfitto della luce per scattare qualche foto nella zona a monte del lungolago.

Camminando per la strada mi fermano delle donne tibetane. Immagino mi vogliano vendere le ennesime collanine e bracciali, così spiego che non posso da solo salvare tutti gli esuli tibetani comprando da loro chincaglierie.

Ma queste non vogliono vendere nulla, vogliono sapere se per caso ho degli abiti usati che non uso più.

Sono interdetto, ma, in effetti, non ho nulla che butterei e dico a malincuore di no.

Mi salutano comunque gioviali con dei sorrisi sinceri.

In albergo decido che la felpa verde, indossata solo due volte in questo viaggio e che il povero Binal ha portato sulle spalle per una settimana, può essere più utile alle donne tibetane che a me, così come i pantaloni di pile nuovi, indossati solo per salire a Poon Hill con non poco intralcio perché troppo spessi.

Non mi piace fare la carità o lavarmi la coscienza con un’offerta di oggetti che in fondo a me non sono utili, ma era essenziale un gesto per dimostrare la riconoscenza per quei sorrisi.

In albergo controllo l’e-mail, non è un bisogno impellente, ma ho tempo e sono curioso, così ne leggo una che mi fa arrabbiare, ben mi sta, non ci penso su rispondo scorbutico e polemico senza ponderarne bene le conseguenze.

Alle 20.00 vado al ristorante, forse al più cool di Pokhara, ma anche qui, all’insaputa.

E’ enorme ed enormemente vuoto, una moltitudine di camerieri provvede a sistemarmi e fare in modo che tutto sia di mio gusto, ordino una pizza italian style, non avrei mai pensato di poterlo fare.

Amo provare le cucine straniere e biasimo chi cerca i sapori di casa in giro per il mondo, ma un’inaudita malinconia per la dieta mediterranea mi pervade.

In sala musica internazionale, James Blunt credo, arrivano alla spicciolata un turista, una famiglia chiassosa e qualcun altro che non resta.

La pizza di italiano ha solo l’aspetto, mi portano anche ketchup e salsa chili verde, da mettere sopra, evito.

Il sapore non è malvagio, ma è un surrogato rattristante, lo sapevo, che stupido turista sono! In filodiffusione scorrono intanto Enya e Madonna, i camerieri preparano con un blender variopinti cocktail, forse per i figli alcolisti della famiglia sopraggiunta, gli adulti stanno bevendo birra.

La musica declina su Celine Dion, mio Dio! Shiva! Budda! I camerieri continuano ad allestire bicchieri proteiformi e non capisco per chi.

Non so se è la birra trangugiata a stomaco vuoto per la gran sete, ma qualcosa mi da alla testa, mi sento oppresso, claustrofobia! Robbie Williams è l’ennesimo cantante di musica occidentale inutile, devo chiedere immediatamente il conto, non ne posso più di star qui.

Mentre arriva il cameriere col piattino del conto è il momento di Anastacia, fuggo a gambe levate.

09/01/2007 Pokhara – Kathmandu alle 6.30 preparo gli zaini e parto a piedi per l’ufficio della compagnia di autobus, è sul lungolago, ieri ci ho messo al massimo venti minuti camminando.

Per strada mille tassisti si offrono di trasportarmi ovunque, rifiuto sempre.

Uno mi informa sibillino che l’autobus dell’autolinea presso cui ho prenotato il biglietto non partirà, non gli credo e proseguo.

Aveva ragione, la corriera di ieri non è mai arrivata da Kathmandu, di conseguenza oggi non potrà partire.

Il titolare dell’agenzia vuole accompagnarmi in moto alla fermata delle altre compagnie, gli mostro gli zaini, come potremmo? Opto savio per un taxi, una volta al parcheggio mi chiede di scegliere fra un minibus Toyota che pare nuovo e un mastodonte arrugginito da cinquanta posti, probabilmente risalente al periodo dei Malla.

La scelta è obbligata, naturalmente non sarà la migliore, ho questo presentimento.

L’autista è un pazzo furibondo a piede libero. Il pulmino è sovrappopolato come il Bangladesh e la donna seduta davanti a me continua a vomitare dal finestrino e a mangiare immediatamente dopo, ah il Nepal! Facciamo tappa per la colazione in un ristorante dove vengono serviti hamburger vegetali variopinti, rossi verdi o gialli guarniti con verdure cipolle e ricche salse.

Ancora, opto savio per un te al latte, non vorrei fare la fine della mia dirimpettaia.

E’ impressionante come le tazze siano sporche, il te è buonissimo, inizio a pensare sia lo strato di lerciume a renderlo così profumato.

Si riparte e si fa un’altra tappa a distanza di poco tempo, ne ignoro completamente la ragione, il pulmino è assalito da venditori di ogni sorta di frutti e cibi.

Altra tappa alle 12 per il pranzo, ci separano solo cinquantacinque chilometri da Kathmandu che percorreremo in 2 ulteriori ore.

Vengo scaricato in un viale della capitale senza avere la più pallida idea di dove sono, fortunatamente non mancano mai i taxi, pare che siano oltre diecimila.

Torno nel caravanserraglio che è Thamel ed è frustrante dopo il trekking.

Lo sguardo è subito ostacolato da un edificio, una folla, una bancarella, il traffico, non può più spaziare e correre lontano.

Cerco ad istinto la strada dell’albergo e la trovo al primo tentativo, deposito le zavorre ed esco, la stanza è occupata dal personale che riassetta anche se sono le 16 passate.

Per strada, siccome è facile incontrarsi anche in una grande città, vedo Monica e Catia, ci scambiamo baci e abbracci.

Stanno tornando in albergo dove ci aspettano le mamme dei due bambini “sponsorizzati”, come dicono qua, da Catia.

Beviamo te e chiacchieriamo un po’, la conversazione è asciutta, non c’è molto da dire.

I bimbi accettano i regali degli occidentali, per così dire, ricchi. Sono imbarazzati e grati insieme.

La sera cena in un economicissimo locale che serve piatti nepalesi e indiani, sostenendo con la sua attività anche un orfanotrofio, mangio cibo indiano a quattro palmenti.

A letto alle 23 dopo giorni di libera e appagante vita ritirata, stanco.

10/01/2007 Kathmandu – Swayambhunath – Budhanilkantha Stamattina la colazione si fa in un locale trendy di Thamel, torta al coccolato e te al latte, costa come la cena di ieri sera è per turisti e non c’è nessun nativo.

Subito fuori un tassista aspetta, Monica e Catia lo conoscono, ci hanno già discusso i giorni scorsi a seguito della disonesta condotta nella trattazione di una tariffa, ora il prezzo per Swayambhunath, il tempio delle scimmie, lo facciamo noi, lui non discute nemmeno.

Ci facciamo scaricare alla base della scalinata del tempio, non convinti di essere nel posto giusto facciamo un giro per capire se esistono altre salite, mar ritorniamo esattamente al punto di partenza.

E’ necessario smarcarsi dal solito campionario di persone che, per differenti ragioni, desidera denaro dai turisti.

Nel sito, un bello stupa centrale e una costellazione di templi e tempietti induisti.

Non c’è tanta gente. I più son qui per pregare, altri lavorano, alcuni, come me, semplicemente guardano.

Ci sono delle donne, frequentemente dedite a lavori di fatica, che stanno trasportando su per i trecento e passa scalini dei mattoni e della sabbia, probabilmente per una ristrutturazione.

Fanno una sosta dopo essersi sgravate delle pesanti gerle per riprendere fiato.

Sono interessate al mio disegnino dello stupa, guardano un po’ poi, serene, riprendono le ceste e ripartono per un altro viaggio.

Non mancano chiaramente le scimmie, dispettose e aggressive.

Scendendo le scalinate che sono opposte all’ingresso principale, non si può fare a meno di notare la sozzura imperante in tutta Kathmandu.

Ogni angolo sembra buono per gettare immondizia. Ciascuno si libera dei rifiuti gettandoli dove capita, sia esso bambino o adulto, monaco, mendicante, venditore e così via, una costante davvero fastidiosa.

Da qui ci si dirige verso il tempio induista di Budhanilkantha dove si ammira Vishnu disteso.

C’è una statua di cinque metri nel grande mare cosmico, cioè in una vasca.

Un serpente policefalo con undici teste protegge Narayan (Vishnu) che in mano regge i simboli che lo caratterizzano, conchiglia mazza chakra e il fiore del loto.

Nella guida leggo che è il santuario induista più importante di tutto il Nepal, non è il più spettacolare.

L’ingresso è permesso solo agli induisti, ma si può guardare e scattare foto attraverso le larghe aperture della recinzione, non ci sono turisti, forse fin qua ne arrivano pochi.

Dopo un te in un locale disadorno dove una bimba di una decina di anni ce lo serve per il corrispondente di pochissimi centesimi di euro, prendiamo un taxi per tornare in Durbar Square, per vederla di notte.

Passaggio interessante in Asan tole, dove si trovano i negozi per gli autoctoni, solito disordine ma generi diversi, più vicini alle esigenze della vita.

Fra verdure e pentole, acquisto un cappellino tradizionale, come quello che usano gli uomini nepalesi, forse solo i più anziani.

Questa compera comporta lo scatenarsi dell’ilarità collettiva di tutti gli ambulanti al constatare che non esiste una taglia per la mia testa.

Ne provo a decine, nessuno che calzi davvero bene. Avranno tutti la testa più piccola; compro il meno stretto.

A Durbar Square sta calando la sera, la venditrice di tascapane, con cui dieci giorni fa ho fatto “affari”, mi riconosce e mi saluta, che tenera.

A causa di black-out programmati Durbar square è illuminata per metà.

In pochi minuti è un buio tenebroso, il commercio, affatto limitato da questa evenienza, prosegue imperterrito, su carretti e bancarelle spuntano torce, lampade e candele.

Telefono a Binod per invitarlo a cena. Accetta volentieri…Sarà l’addio.

Più tardi, dopo aver prodigato generoso il suo aiuto per risolvere il problema di Monica che pensava di aver perso passaporto, denaro e tutto il resto (fortunatamente ritrovati nell’hotel) e dopo essere corso con la moto su e giù per le stazioni di polizia per denunciare la perdita, per farla breve: dopo mille peripezie, sceglie il ristorante. Finalmente si cena.

A tavola mi consegna un trofeo, su una base di legno c’è una targa con il mio nome e cognome, l’iscrizione delle date e il nome del trekking che ho affrontato.

Il tutto è sormontato da due pugnali nepalesi che si incrociano e dalle bandiere delle nostre nazioni.

E’ qualcosa di veramente kitsch, ma che mi riempie di gioia.

Ancora una volta sono colto alla sprovvista dalla generosità dei nepalesi, ancora una volta mi commuovono.

Prima di lasciarci mi lancio in ripetuti ringraziamenti che in Inglese saranno suonati certamente ridondanti e, forse violando le norme del buon comportamento, abbraccio Binod come un fratello per l’ultimo saluto, non ho sufficienti parole di gratitudine.

11/01/2007 Changu Narayan – Sankhu Ultimo giorno in Nepal, ultimo giorno che si vedrà qui.

Partenza per Changu Narayan, antica cittadina nella valle di Kathmandu, una piccola Bhaktapur.

Usciti dalla strada statale il paesaggio diventa un susseguirsi di fornaci per mattoni.

Lo scenario è post-bellico, decine di ciminiere fumanti rendono il cielo livido, intorno campi desolati e case crollate o che stanno per farlo.

Gli uomini che lavorano qui riempiono a mano degli stampi con l’argilla, sformano i mattoni e li mettono ad asciugare al sole, saranno successivamente cotti.

La strada è disastrata e la Maruti, il taxi, non può in alcun modo evitare le buche.

Rimbalzando fra queste arriviamo alla località.

Changu Narayan sorge su di una collina, è un piccolo paese Newari che conserva ancora costruzioni in terracotta risalenti al V° e VI° secolo A.C.

La vetta della collina è sormonta da un tempio Hindu dedicato a Shiva e vari altri.

Nelle case più vecchie, crepe enormi solcano le pareti e minano la stabilità delle strutture, tuttavia abitate.

Si paga un biglietto per entrare, ma non si vede nessun turista, per tutta la mattina.

Passeggiamo tranquillamente per il tempio e diventiamo l’oggetto dell’attenzione dei bambini intenti a cavalcare i leoni di pietra custodi di Shiva.

A pochi chilometri da qui c’è un’altra località chiamata Sankhu, si può raggiungere a piedi per mezzo di una stradina che ben presto diventa un sentiero fra le risaie.

Molti contadini sono impegnati a zappare gli appezzamenti di terra che saranno allagati.

Nei terrazzamenti i tumuli di terra preparati per la semina del riso sembrano enormi pettini che si succedono giù fino al fiume.

Incontro molta gente, tutti salutano.

Attraversato il fiume senza bagnarsi data la poca acqua, inizia un viottolo in salita che converge in una strada asfaltata, ormai certo di essermi perso chiedo informazioni, siamo a Sankhu, ma non c’è nulla… Procedendo dubbioso scorgo una pietra miliare con su scritto Sankhu 0 km, ci siamo.

Si entra nella piccola città attraverso una brutta porta monumentale. E’ decadente sporca e vetusta, assolutamente affascinante.

Nei vecchi palazzi ci sono finestre di legno riccamente scolpite e decorazioni architettoniche che richiamano antichi fasti.

Un tempo Sankhu era una città sontuosa perché importante centro per i commerci che si svolgevano fra Kathmandu e Lhasa, la città proibita del Tibet.

La visita si esaurisce in fretta, resta solo da compiere l’ultima scalata al sito di Vara Jogini.

Il tempio sorge nella vetta della collina che sovrasta le case, si raggiunge in 45 minuti di gradini.

Scimmie scimmie e scimmie scorrazzano sulle pagode, qualche guardia si aggira annoiata fra gli edifici.

Pochissimi fedeli, un po’ triste il complesso pur notevole.

Ritornando a Sankhu mi fermo incuriosito da una strana processione che si sta svolgendo nella piazza principale.

Due ragazzi vestiti di bianco con una brocca tenuta sulla testa da una corona di paglia, procedono mani giunte, come pregando.

Una ventina di donne, vestite di rosso lo seguono recitando una specie di mantra.

Un altro ragazzo vestito con tonaca e turbante sempre bianchi, si rotola a terra, come a preparare il cammino del gruppo.

La processione si svolge in questo modo fino ad un grande albero, dove alcune donne compiono dei gesti rituali.

Non sono certo, ma si tratta di un rito che ha a che fare con la morte di qualcuno.

Dura parecchio, non vedo la conclusione del rito, ma bisogna sbrigarsi per riuscire a prendere il microbus che ritorna a Kathmandu.

Il veicolo è dotato di 10 sedili più una panca per 3 adulti o 4 bambini, rimane il posto solo lì in fondo e mi siedo pensando che al massimo potranno salire diciotto persone, compresi quelli in piedi, di più non può contenere, alla fine saliranno almeno in25. Non riesco ad incunearmi correttamente, servirebbero altri venti centimetri per far stare i miei femori nella seduta, sono obbligato comunque a stringermi.

In una posizione innaturale, sbattendo con la nuca sul tetto del pulmino e incastrato col resto del corpo fra la panca e lo schienale del sedile davanti, mi avvio ad una lenta agonia; ogni sobbalzo è un bernoccolo.

Il mio vicino di seduta, decide poi di mettermi bel bello una mano sul ginocchio, lì per lì penso sia per l’accalcamento, ma poi è recidivo, anche quando non sarebbe necessario la mantiene in posizione.

Ho visto spesso uomini camminare mano nella mano, ma questo gesto non ha il significato che potrebbe avere da noi, non so quindi se dire qualcosa o tacere.

I casi sono due, o è normale il gesto e quindi non devo preoccuparmi, oppure ho beccato il nepalese gay che fa la manomorta.

Stabilisco che se si fermerà lì sul ginocchio non proferirò verbo, diversamente sarò esplicito.

Arriviamo a Bodhnath, dobbiamo scendere e prendere un taxi.

Il tizio leva la mano, non è andato oltre, io cerco di insinuarmi fra le persone, ma sono troppo grosso, devono spostarsi.

Come un tappo da una bottiglia di spumante esco dal bus sulla strada.

Taxi per Thamel, ultimi acquisti prima di tornare in albergo e poi via verso l’ultima cena…In Nepal.

Si ritorna nel locale pro orfanotrofio, ordiniamo pietanze come per allestire un banchetto luculliano che non riusciamo a finire.

12/01/2007 Kathmandu – Doha Lasciamo l’albergo alle 6,30. All’aeroporto c’è una fila lunghissima già per entrare.

I controlli sono meticolosi, sia sul bagaglio che sulle persone, una due tre volte.

Ancora fila per il check-in, ci sono molti europei che sono venuti ad adottare dei bambini, conto cinque coppie, due sono italiane.

I bagagli sforano di qualche chilo il peso consentito, non dovrebbero esserci problemi, ma l’assistente aeroportuale sfrontato domanda una mancia per chiudere un occhio.

Le procedure sono lente, non più che a Fiumicino, i controlli però paiono più seri.

Timbro sul passaporto per l’uscita dal paese.

Sono enormemente triste, penso alla gente del Nepal che sorride, non ho visto mai nessuno arrabbiarsi.

INFO TECNICHE.

SPESE VOLO: Qatar Airways ˜ 980,00 € Roma Fiumicino –Doha –Kathmandu, e ritorno, comprensivo di tasse.

Si può trovare anche da 800,00 €, basta essere flessibili con le date.

VISTI: Quello d’ingresso consta 30 USD o 24,00 €; richiede tempo la procedura, ma consiglio di farla una volta arrivati.

Quello d’uscita costa 22 USD o 19,00€.

TAXI: i taxi costano pochissimo, la corsa media in città costa circa 200 Nepali Rupies (NpR) che equivalgono a circa 2,20€ Per i siti più lontani si può spendere di più, ma la corsa più cara, lunga circa 15 km è costata 600 Npr, cioè 7,00€ circa.

Se si vuole risparmiare sugli spostamenti si possono usare i mezzi pubblici, ma è d’uopo armarsi di santa pazienza.

Le corse anche lunghe sui bus pubblici costano poche rupie, 20 o 50 Npr (0,25 – 0,60 €), ma non è sempre facile servirsene a Kathmandu, dove sono tantissimi e difficilmente si riesce a capire da dove, parta cosa.

Si possono usare per esempio per tornare a Thamel dalle località della valle.

Raramente gli autisti parlano Inglese.

ALBERGHI: da un posto all’altro possono esserci enormi differenze, a parità di prezzo si trovano sistemazioni differenti.

Io ho dormito nel turisticissimo Thamel, dove è tutto ad uso e consumo del turista stupidotto, ma dove c’è tanta scelta.

Tuttavia penso che a Kathmandu sia piuttosto comodo soggiornare in questo quartiere.

L’albergo delle prime notti in Kathmandu costava 15 USD per la camera tripla, 5 dollari a testa.

Era una topaia, anche se l’accoglienza ottima e calorosa.

Ci siamo spostati poi in un albergo più centrale, dove c’era l’acqua calda!!! Costava 22 USD la tripla a notte.

La colazione normalmente non è compresa, ma tutti gli alberghi, anche i più infimi sono dotati di cucina.

A Kathmandu inoltre è possibile fare colazione con te, torte e brioches a poche centinaia di rupie, 1-2 euro.

INGRESSI: si pagano gli ingressi a Durbar Square in Kathmandu e Patan, rispettivamente 250 e 200 rupie (2,80 e 2,20€) A Bhackthapur si pagano 10 USD o 750 NpR per entrare nella città che è chiusa completamente.

Gli ingressi nei musei variano, ma non superano mai i 3-4,00€ PASTI: si può spaziare da 0,30€ in su.

Non escludendo l’eventualità che si possa mangiare meglio con 0,30€ che con 10 dollari.

Si trovano un sacco di ristoranti in Kathmandu, Patan e Bhackthapur.

Fuori dei giri più turistici può capitare che non ci siano posti dove poter mangiare a tavola, ma sicuramente si può trovare qualcosa da mettere sotto i denti.

In tutto il viaggio non ho mai avvertito la fame…Poi si sa in Asia tutti mangiano sempre.

TREKKING: Ho fatto il trekking da solo con la guida e il portatore, spendendo 35 USD al giorno.

In un primo momento non mi sembrava così a buon mercato, forse non lo è, ma quello che ho ricevuto in cambio non ha prezzo.

La guida è stata la persona più disponibile al mondo, simpatico, preparato, pronto a rendere il trekking indimenticabile, non esagero.

Nella spesa ovviamente era tutto compreso, il permesso per l’accesso al trekking, i passaggi in auto Pokhara-Naya Pul e Phedi-Pokhara, il soggiorno nei lodges, tre pasti al giorno, bevande calde ai pasti, te nelle soste e dovunque lo volessi, il portatore e l’assicurazione per guida e portatore.

Quest’ultima non è obbligatoria, ma se non ce l’hai e succede qualcosa sono dolori! Birra, coca cola, fanta e amenità simili si pagano a parte, devono essere portate sulle spalle e il vetro pesa.

Ho preso un succo di frutta extra un pomeriggio caldo e ho speso 150 NpR (1,80€).

L’acqua minerale in bottiglia è giustamente bandita in alcune zone dell’area di conservazione dell’Annapurna, le bottiglie di PET sono rifiuti che creano un grosso problema per quanto concerne il loro smaltimento.

Le bottiglie da 1 litro costano dalle 100 alle 200 Npr (1,10-2,20€).

Si può acquistare acqua bollita e filtrata che è sicura, costa meno e si risparmia all’ambiente immondizia che in Nepal, come in tutto il resto del globo, è un grosso problema.

Del resto si beve tranquillamente il te che non è fatto certo con l’acqua minerale.

Partendo da Pokhara avevo quattro bottiglie d’acqua, che una volta terminate, ho schiacciato e portato con me nello zaino fino al ritorno.

Penso che sia importante non lasciare rifiuti, specialmente di plastica, che il più delle volte sono bruciati all’aria aperta con tutte le conseguenze del caso.

Il cibo durante il trekking è sempre stato buono, oltre al riso e lenticchie del Dal Baht, si trovavano sempre nei menù spaghetti, maccheroni, curry di pollo e/o verdure, pizza e a volte piatti incredibili come le lasagne.

Non ho sperimentato che il riso e la pasta, devo dire non come la nostra, ma più che dignitosa.

Ottimi anche i curry e i vari pani: chapati, gurung, naan ecc.

Le stanze nei lodges sono spesso molto spartane, ma ho sempre dormito su di materassi con le lenzuola pulite.

Se avessi voluto avrei potuto chiedere anche le coperte e fare a meno del sacco a pelo, ma dentro al proprio sacco ognuno è più tranquillo.

Credo sia molto comodo avere un po’ di biancheria a rapida asciugatura, chiunque faccia trekking lo sa benissimo.

Prepararsi a docce gelate e convincersi che il freddo è uno stato mentale. (almeno in inverno e per gente freddolosa come me) Non serve portarsi troppi indumenti durante il trekking, nei villaggi nessuno si scandalizza se i pantaloni sono un po’ impolverati o sporchi.

Certamente non serve un cambio elegante! Inutile dire che gli scarponi devono essere comodi e già collaudati, sarebbe drammatico trovarsi con le vesciche ai piedi e giorni di cammino davanti.

Consiglio in ultimo, di prendersi tutto il tempo per il trekking, è molto piacevole, si riesce a riposare quindi non è mai sfiancante, sono pentito di non aver fatto un percorso più lungo.

Penso che il trekking sia l’esperienza migliore in Nepal, meglio approfittarne al massimo.

SHOPPING:se serve qualche articolo per il trekking, sia a Kathmandu che a Pokhara si può trovare, eventualmente anche a noleggio.

Non credo valga la pena cercarlo in Italia.

Si trova tantissimo artigianato artistico davvero pregevole anche se a prezzi non proprio popolari.

Il legno intagliato credo che sia il migliore acquisto anche perché anche l’occhio meno esperto è in grado di riconoscere quello lavorato a mano.

Tantissimi Thanka la cui qualità e prezzo variano a seconda del tipo di pigmenti usati per la pittura.

Sono molto belli, ma sceglierne uno di qualità non è semplice.

Comunque non ci si rovina, al massimo se ne acquista uno che col tempo scolora.

Credo valga la pena di comprare del te e delle spezie, sono sempre ottimi.

Il “Masala Tea” è un te speziato assolutamente da provare e portare a casa.

Pashmina morbidissimi ed a buon mercato faranno felici le donne.

In totale ho speso 1700 euro senza stare propriamente attento al budget.

Enrico Pantieri. enrizla@libero.It



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