La danza del fuoco

Viaggio nel triangolo di Afar: 2000 chilometri di piste e fuori strada, visita al parco Awash, escursione all'Erta Ale con bivacco ai piedi del vulcano e in quota, Dallol, altopiano del Tigray, Wukro, Makele, Addis Abeba
Scritto da: bgmeetafrika
la danza del fuoco
Partenza il: 07/02/2014
Ritorno il: 17/02/2014
Viaggiatori: 5
Spesa: 3000 €
La Dancalia non è un posto per tutti e per andarci non basta avere un forte spirito di adattamento, bisogna andare oltre. Le condizioni igieniche degli hotel, se così si possono definire, sono scarse, anzi inesistenti e in alcune città non c’è scelta. È preferibile dormire per terra col sacco a pelo nelle capanne ai piedi del vulcano. Si rischiano colpi di sole e disidratazione anche quando le temperature sono sotto i 40 gradi. Le scorte della polizia sono necessarie, addentrarsi da solo in una zona tanto inospitale è rischioso. Noi avevamo Gilbert come guida con lui siamo stati benissimo, i miei timori sono scemati in pochissimi minuti. Non è una passeggiata dunque, ma il fascino dei luoghi prevale su ogni disagio e si rimane strabiliati di fronte alla potenza degli elementi naturali. Nonostante il tour fosse già organizzato da esperti e quindi più sicuro, prima di partire mi sono documentata a fondo non facevo altro che leggere i soliti pareri negativi sui siti che trovavo in rete, ma quello che ci è capitato poi sul volo ET702 è stato molto peggio.

10 febbraio 2014

Il gracchiante canto del muezzin mi risveglia agli albori di un giorno che nasce senza sole, il caldo è soffocante e il condizionatore gracchia più del cantore. Una leggera nausea mi invade, la reprimo trattenendo il respiro e penso alla sera precedente. Seguivo dal balcone un gruppo di ragazzi seduti all’esterno della moschea dipinta di verde, schiene appoggiate alla parete mentre leggevano versetti del corano, le loro preghiere sono come le litanie recitate da mia nonna quando sgranava il rosario nelle sere d’inverno davanti al camino. Cerco di riprendere sonno ma l’assordante cantilena blocca ogni tentativo, chiudo gli occhi e rivedo il giorno del nostro arrivo. Ingarbugliati nel caotico viavai di Addis Abeba con l’insopportabile puzza di smog avanziamo nel traffico a passo di lumaca lasciandoci alle spalle la città tra il bailamme di pneumatici e clacson. Altalenanti ricordi si mischiano al presente e rendono irriconoscibile il passato. “Un progetto interminabile” lo definisce il conducente della nostra jeep. Gli effetti del progresso sconvolgono, le capanne circolari ai bordi della vecchia strada che corre verso sud hanno lasciato il posto a baracche di legno e tra le acacie impolverate emergono resti di pareti in fango sulle quali intravedo decorazioni tribali. Lì, timide e belle ragazze avevano bimbi aggrappati ai seni e si erano messe in posa per una foto. Ora ci sono mezzi pesanti che vanno e vengono asportando materiali, lasciando una lunga ferita nera sul terreno. Rivedo il fine pomeriggio nel parco in riva al fiume Awash, gli spruzzi della sua ampia cascata inumidiscono i nostri capelli e alcuni coccodrilli se ne stanno a bocca aperta per riscaldarsi agli ultimi raggi di luce. L’alba del secondo giorno è grigia e si riprende la marcia verso Gibuti, la strada è una stretta piatta corsia a doppio senso, intasata di camion, mandriani, mucche, asini, biciclette. Sfilano lenti oltre la cornice dei finestrini i venditori di carbone, nomadi, villaggi fatiscenti, mucchi di bottiglie di plastica, mezzi ribaltati e abbandonati tra le sterpaglie, mendicanti bagnati dalla pioggia. Il progresso come sempre fa molto discutere. Cambiano solo le strade ma la storia è sempre la stessa.

Adesso sono qui a lottare contro l’insonnia, mi alzo, il muezzin continua la sua rauca preghiera, gli fa eco un gallo, odore di fumo ed attimi sospesi alla finestra tra le tende malconce, fermo immagine fallito del primo passante mentre spinge una carriola. Preparo lo zaino si riparte. Il cielo di Semera è cupo sopra le case in costruzione già sporcate dal vento, varchi di grigio chiaro tra le nuvole di piombo, un uccello prende il volo da un sasso, i bambini ci ricorrono ai lati dell’asfalto che ora si snoda sui campi di lava e poi si interrompe nella sabbia. A Dodom trattative con il capo villaggio per ottenere il permesso di sostare nella zona vulcanica. Caldo, laghi salati dai colori cangianti, movimenti impercettibili sui ruvidi sentieri, teste ricciute, gente che sale e gente che scende, bivacchi, uomini armati in difesa al confine, fumarole solforose, passi scricchiolanti e bocche che vomitano lapilli. Incessante è la danza del fuoco, non ti permette di staccare lo sguardo, ipnotizza. Luna piena e mentre il giorno rinasce tra i bagliori rossastri del vulcano prepariamo la discesa. Una corsa travagliata verso Amdhila, un pugno di capanne al centro di una distesa sassosa spazzata dal vento, qui l’esistenza da sempre è regolata dal cielo. La sequenza a questa storia ci ribalta in un girone dantesco. Noi qui, fotografi spettatori paganti per pochi minuti, scortati da guardie del corpo siamo testimoni di una realtà in questo inferno dalla luce accecante dove uomini lavorano come dannati in un’infinita bianca distesa e si sudano lacrime di sale. Orizzonti disegnati da lunghissime carovane, cammelli e somari allineati per raggiungere distanze lontanissime. Saranno forse le ultime e in un futuro prossimo questi uomini perderanno la priorità di guadagnare un tozzo di pane, già c’è miseria, non oso immaginare cosa succederà quando i TIR diventeranno padroni delle piste. Io qui, ad incitare la fuga di un capretto legato al palo nella capanna di fronte alla nostra, bela, strattona il legaccio che lo avvinghia, sembra un pianto il suo verso, sentirà che è giunta la fine della sua breve vita e tra poco sarà servito come pasto ad un gruppo di turisti. Sangue, polvere e intanto la notte si fa stellata. Cattedrali di sale, depressioni, aridità, soffioni, zampilli bollenti si riversano in geometriche piscine nelle quali si riflettono pinnacoli dai colori sgargianti, l’aria è satura di vapori pungenti. Il terreno scorre davanti a noi con rilievi a forme ottagonali creazioni di elementi in movimento sotto alla crosta terrestre.

Salire sull’altipiano significa subire un dislivello notevole, poco meno di un giorno per passare dall’inferno al paradiso. Il percorso è un susseguirsi di cambi scenografici, in alcuni tratti è apparente desolazione e in altri è animato da carovanieri. Le mani rilassate appese ad un bastone appoggiato di traverso sulle spalle alla base del collo camminano molleggiando sulle ginocchia, i passi cadenzati sollevano impalpabile polvere color cipria, le sciamma attorcigliate lungo il dorso e ai piedi sandali usurati di plastica, la loro meta è Berahle la città avamposto della regione Afar. I pastori spostano le greggi per lasciarci passare e ci salutano gli operai che costruiscono la strada. Risaliamo tra montagne giallo oro striate di zafferano, pirite e verde rame, alberi punteggiano il fondale in secca del canyon. Al valico le coltivazioni a terrazzi spiccano sul panorama ocra, al posto delle capanne ci sono le case con i muri variopinti e donne vestite di bianco escono a gruppi dalle chiese, le gonne ampie ondeggiano, caratteristici ombrellini le riparano dal sole. Mucche passeggiano libere tra la gente al mercato locale, un sacerdote impartisce la benedizione a chi la chiede, è seduto su un sacco di granaglie e scaccia le mosche con un bastone alla cui estremità c’è un lungo ciuffo di pelo caprino. In cielo non c’è nemmeno una nuvola, il pensiero che questa avventura è giunta quasi al termine mi appiattisce, mi secca la gola, mi procura capogiri. Che strana sensazione! Da Makele il volo verso la capitale è breve come un salto alla corda, spendiamo le ultime ore a girovagare per la città. Non si vorrebbe mai, ma le vacanze non sono interminabili e così si sale sull’aereo che ci riporta a Roma. “Non c’è il due senza il tre” – penso, “Etiopia ci rivedremo” ma la strana sensazione non mi molla.

17 febbraio 2014

Le maschere dell’ossigeno scendono con un colpo secco, tra il frastuono la voce isterica di chi è al comando sembra urlare: “I’ll kill you all” in un istante siamo presi da scossoni, stiamo precipitando. Mio marito mi abbraccia e mi dice: “è finita”- “sappi che ti voglio bene”. Io mi sento morire, con gli occhi chiusi aspetto il momento dell’impatto, tremo come una foglia e non riesco a proferire una parola, mentre altri urlano, imprecano e piangono, io tremo, stringo le mani di chi mi è accanto e bisbiglio “non voglio morire, non voglio morire”. Mi sento bruciare dentro. È un brutto sogno? Incollata al sedile con gli occhi fissi nel vuoto sono senza respiro credo di essere già morta. No, sono sveglia non è un brutto sogno sono dentro un incubo durato sei ore. Come è andata a finire poi lo ha saputo tutto il mondo. L’epilogo positivo (“Fortuna?”) mi permette di raccontare questa terribile storia, mi sarà difficile metterla nel dimenticatoio ed io non so se avrò ancora il coraggio di volare. Conservo nei ricordi i colori della Dancalia e l’amichevole accento francese di Gilbert che mi dice: “Stai sempre così col tuo sorriso, come luna piena non smettere mai di sorridere”, i suoi ragazzi che ci seguivano passo dopo passo, la gente incontrata strada facendo e i nostri compagni di viaggio.



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