LA “DAKAR” AL CONTRARIO
LA “DAKAR” AL CONTRARIO
Testo di Marco Ronzoni – Foto di Marco Ronzoni e Paolo Ciapessoni
Sono le quattro del mattino di un normale venerdì musulmano.
Dakar dorme ancora nell’aria fresca, immersa nel buio, semivuota, soffocata dalla sporcizia e dai rifiuti. I suoi abitanti, le bianche capre e milioni di veicoli attendono di riempire i marciapiedi e le vie. Le attività di strada non hanno ancora ripreso la solita infruttuosa giornata di “lavoro” ed io sto per lasciare questo maleodorante e caratteristico angolo di Mondo per fare ritorno a casa.
Dakar
…Ma quante volte ci sono già stato in vent’anni? Dovrei mettermi a contarle mentalmente e non ne ho voglia. Di solito vi ho fatto tappa da volontario andando e tornando in aereo dalla Guinea Bissau, oppure ci sono passato scendendo su strada verso quel piccolo Paese per consegnare mezzi di soccorso a Missioni e Ospedali. Stavolta è diverso. Ho passato troppi giorni in questo bordello, attendendo di poter recuperare la mia moto spedita qui in un container navale e fare il viaggio a ritroso verso casa. Con me c’è Paolo, buon amico e motociclista incallito, sempre proiettato alle avventure, che condividerà con me questa nuova esperienza. A Dakar siamo stati ospiti di Padre Paolo e Padre Nino nella Missione di “Saint Joseph de Medina”; i due “padroni di casa”, con diversi decenni di Africa sulle spalle, sono profonde testimonianze viventi dell’impegno cristiano in questo Paese prettamente musulmano.
Fare il turista a Dakar è facile. Prendi un mezzo qualsiasi e ti fai portare ovunque, tanto sono tutti economicissimi. Si passa dagli autobus di linea, ai piccoli minibus bianchi, ai taxi gialli e neri, finendo ai furgoni multicolori, una sorta di trasporto pubblico/privato che vagano per la città, rottami ambulanti stracolmi di persone che bloccano la circolazione ogni venti metri per caricare e scaricare qualcuno. Forse è più pratico prendere il primo sudicio e malconcio taxi che passa, contrattare il prezzo facendo la radice quadrata di quello che ti spara il tassista e farti portare dove vuoi.
Tutto sommato Dakar ed i suoi dintorni offrono belle opportunità per chi, come me, ama vivere i luoghi e non solo guardarli. La Corniche (il lungo viale affacciato sull’oceano per passeggiate romantiche tra scarti di pesce e le caratteristiche barche multicolori dei pescatori), il caotico porto (centro nevralgico dell’economia), l’edificio liberty della stazione ferroviaria, il mercato, la grande Place de l’Indipendance e la Place de la Nation (con lo svettante obelisco incastrato tra spazzatura, macerie e gente che orina tra i cespugli). Dakar è un formicaio di botteghe, laboratori artigianali ed officine meccaniche. I marciapiedi sono quasi totalmente impraticabili sia per le merci esposte che per i rifiuti, per la sosta selvaggia dei veicoli e per le capre. E poi c’è la coreografia della gente. Ovunque venditori di strada che quando ti va bene ti propongono bigiotteria pacchiana, orologi appariscenti, borse e magliette “griffate” ed elettronica contraffatta o di dubbia provenienza, ma anche coltelli a serramanico lunghi trenta centimetri, sigarette di contrabbando, fumo, ecc. Nei pressi della città non può mancare una visita alla vicina isola di Goreé, leggendario luogo di partenza delle navi ricolme di schiavi ormai relegata ad attrazione turistica ma pur sempre un’oasi di curiosità con scorci di suggestiva bellezza. Si raggiunge in una ventina di minuti di navigazione con un traghetto che scarica sulla spiaggia trecentocinquanta passeggeri alla volta, per darli in pasto ai trecentocinquantamila venditori di souvenir. Un tempo l’acquisto dei biglietti e l’attesa dell’imbarco avvenivano dentro un paio di locali con poche e malandate panchine dove eri costretto a restare in piedi; ora è un grande capannone su due piani con tanto di caffetteria, dove di sedie ce ne sono fin troppe e fastidiosi uomini in divisa ti obbligano a sederti.
E come non citare il Lago Rosa, chiamato così per il colore delle sue alghe, punto di arrivo del celebre rally “Dakar” fino al 2007… Ok, bella Dakar e bello il Senegal, ma ora è giunto il tempo di partire. Mi aspettano gli oltre 3600 chilometri che mi separano dal porto di Tangeri Med, dove tra sei giorni mi imbarcherò su un traghetto per l’Italia. O almeno così spero. Sarà di certo un lungo viaggio in cui non avremo tempo per goderci il panorama e dove affideremo tutto alle nostre moto. Così, dopo tre giorni di incazzature feroci e parecchi soldi buttati tra uffici con targhe altisonanti ed individui poco raccomandabili, recuperiamo le nostre fedeli BMW R1150GS dal container e finalmente i boxer bicilindrici ricominciano a suonare pieni e confortanti.
Viaggeremo con un permesso eccezionale della Dogana per attraversare il Paese e raggiungere la frontiera di Rosso distante trecentosessanta chilometri per poi entrare in Mauritania. Tutto questo per poter tornare a casa; figuriamoci cosa avremmo dovuto fare per restare in Senegal… Si parte! È buio pesto. Usciamo da Dakar con qualche difficoltà e corriamo in autostrada fino a Thies.
Lentamente viene giorno e con lui la luce che serve per vedere qualcosa in più attraverso la visiera nera dei nostri caschi. Perché abbiamo visiere nere? Perché non abbiamo dato retta a chi ci consigliava le comuni visiere trasparenti, dato che non era certo nostra intenzione viaggiare col buio. E invece, diavolo se ci avrebbero fatto comodo… Va beh, passato Louga, puntiamo verso Saint Louis, ad un centinaio di chilometri dalla frontiera e da lì verso Richard Toll (che non è un cantante folk ma una città…). Arriviamo davanti al grosso cancello della dogana di Rosso verso le 11:00. Il solito tipo in borghese viene subito a chiedere passaporto, documenti delle moto e soldi. E’ il tipico faccendiere che bisogna “assumere” per poter sbrigare le formalità e che per ogni passo che fa e per ogni parola che dice ti estorce denaro a manetta, ignorato se non protetto da tutti i vari personaggi in divisa che girano in zona. Ed eccomi davanti al Capo della Dogana seduto dietro una grossa scrivania in un ufficio esageratamente grande, manco fosse il Presidente del Senegal. Gli presento tutte le carte avute a Dakar e col mio francese inventato cerco di spiegargli chi siamo. Ovviamente non gli basta leggere; chiama al telefono il suo omologo della capitale ed alla fine della telefonata mi sorride soddisfatto e cortese. Perché ho la netta sensazione che mi stia fregando? Mi riconsegna le carte dopo averle timbrate ed essersene tenute una parte, ma quando sto ossequiosamente lasciando l’ufficio, mi blocca dicendomi che vuole vedere le moto. Ok, guarda pure le moto, basta che ci lasci andare.
Tra il meticoloso controllo dei mezzi e dei libretti, la verifica della corrispondenza del numero di telaio con i dati riportati sui documenti (ma di chi vuoi che siano ste moto?) e l’assicurazione per poter circolare in Mauritania, se ne va il tempo sufficiente a far sì che il ferry sul fiume Senegal, linea di confine tra i due stati, si stacchi dalla sponda senegalese e si porti verso quella mauritana senza di noi. Sono le 12:30. Ritornerà alle 17:30… Cinque ore sotto il sole, seduti per terra a guardare l’orologio ed il ferry fermo dall’altra parte del fiume. Quando finalmente sbarchiamo in Mauritania ricomincia il carosello tra fetidi uffici pieni di mosche e corridoi maleodoranti, schivando escrementi, pozze di urina, rifiuti e personaggi in uniforme che dormono sdraiati a terra. Timbri, carte e soldi a raffica. Quando il peggio sembra passato e finalmente riusciamo a risalire sulle moto, il buon faccendiere ed alcuni suoi compari si mettono minacciosamente davanti a noi impedendoci di partire e chiedendoci ancora denaro come “mancia” per l’ottimo lavoro svolto. Assolta l’ultima rapina, finalmente il cancello mauritano si apre e possiamo uscire da quell’incubo, maledicendo tutto e tutti quelli che ci stiamo lasciando alle spalle. Vorremmo raggiungere entro sera Nouakchott, la capitale, distante circa duecentoventi chilometri, ma l’ora si sta facendo tarda. Ci serve subito cambiare un po’ di CFA senegalesi con Ouguiya mauritani e, anche se abbiamo taniche di benzina supplementari, fare prudentemente il pieno alle moto perché tra qui e Nouakchott non c’è altro che sabbia. Facciamo quindi benzina subito fuori dalla dogana, nell’unica pompa arrugginita semisepolta dalla sabbia. Mentre la benzina, o quello che è, scorre dentro ai serbatoi, veniamo accerchiati da una decina di persone che toccano noi, il bagaglio, il manubrio, le borse. Paolo tiene d’occhio i presenti per evitare di essere derubati ed io mi occupo di pagare. Chiedo “l’addition pour l’essence” ma il tipo risponde in modo incomprensibile. Al terzo tentativo, non sapendo cosa dargli, gli allungo la banconota di Ouguiya più grossa che ho ed aspetto il resto, ma il tipo sorride come un idiota e si tiene tutto “pour la fatigue”. Mi viene in aiuto uno dei presenti che riesce a farmi dare indietro qualche soldo che metto via senza nemmeno guardare. Accendo il motore ma, ingranata la marcia e lasciata la frizione, la moto si spegne. Riprovo con lo stesso risultato, finchè capisco che il bastardo benzinaio, sempre ridendo, teneva schiacciato il pedale del mio freno posteriore col suo piede. Vabbè, alla fine ci leviamo da quell’impasse e iniziamo la lunga risalita verso nord. Purtroppo tra una balla e l’altra ormai sta diventando buio. La strada, o quello che resta, fin da subito è terribile; buche enormi e grosse lingue di sabbia la invadono totalmente. E la notte cala in fretta. Guidiamo con la nera visiera alzata e con gli occhi che si riempiono di sabbia ad ogni passaggio di altri veicoli, mentre l’asfalto ritmicamente scompare sotto dune che si materializzano davanti a noi per ricomparire più avanti. La sabbia è soffice e profonda, segnata dalle tracce delle ruote dei mezzi che l’hanno affrontata e che ci indicano la direzione da seguire. Dopo qualche decina di chilometri, alla luce dei fari appare uno sperduto posto di blocco dell’esercito; i militari, in mimetica verde scuro con le teste avvolte nel caratteristico copricapo “tagelmust” che lascia libero solo lo sguardo, agitano piccole torce che sembrano gli occhi di un animale notturno. Sono molto cortesi e dopo un rapido controllo alle fiches ci consigliano di non proseguire e di fermarci per la notte nel loro campo ripartendo l’indomani. Decidiamo che forse quella è la cosa migliore da farsi. A Naouakchott mancano ancora centoquaranta chilometri e la strada è troppo pericolosa. Una caduta od un guasto sarebbero un disastro. Montiamo così il mio igloo sulla sabbia, proprio di fianco alla grossa tenda che ospita il drappello dei militari, facendo attenzione alle acuminate spine doppie delle acacie che potrebbero bucare gli pneumatici delle moto o trasformare il giaciglio in un letto da fachiro. Un soldato mi mostra la “toilette” del campo, un buco nella sabbia circondato da tre muri in mattoni completamente invaso da insetti dentro il quale si raccomanda di fare “seulement liquides”; per “le solide” c’è tutto il deserto… Passiamo così la notte dormendo vestiti, svegliati in continuazione dai rumori esterni e dai pensieri.
Sta diventando chiaro quando usciamo dalla tenda. Fa freddo. Lungo la strada i soldati non hanno mai smesso i controlli. A pochi metri da noi alcuni uomini stanno scaldando del te su un piccolo braciere, mentre altri due stanno sgozzando un grosso bue con un lungo coltello. Fumanti fiotti di sangue schizzano dal profondo taglio della gola finché la bestia lentamente muore. I due macellai la decapitano, la sventrano, la scuoiano, la fanno a pezzi e la appendono in bella vista ai “clienti” del posto di blocco… Riposizionati i bagagli sulle moto, partiamo. Oggi vogliamo attraversare tutta la Mauritania e raggiungere la lontana Nouadhibou, sia perché abbiamo un visto di soli tre giorni, sia per essere pronti domattina ad affrontare il confine con il Sahara Occidentale. La strada fino alla Capitale continua ad essere piena di buche e di sabbia trasportata da un forte vento trasversale, ma mentre i chilometri passano anche l’asfalto migliora. Siamo circondati dal deserto con dune rosse macchiate da bassi cespugli verdi. Ovviamente da lì a poco l’idilliaco momento finisce quando dobbiamo lasciare la strada e deviare su una pista laterale per una decina di chilometri di sabbia e polvere. Tra Nouakchott e Nouadhibou ci sono quattrocentoottantacinque chilometri e lì in mezzo solo sparuti gruppi di casupole e baracche, placidi dromedari ed una solitaria stazione Total a circa metà strada dove una sosta è praticamente obbligatoria. Ci sgranchiamo gambe e braccia e travasiamo nelle moto parte della benzina che abbiamo nelle taniche che portiamo con noi da Dakar perché qui c’è solo gasolio; la benzina è finita. Ne approfittiamo per rifocillarci con due barrette energetiche e per farci trattare come lebbrosi da un paio di stronzi cui chiediamo di venderci dell’acqua. Dopo l’intermezzo riprendiamo di buona lena a macinare chilometri. Ormai è buio quando affrontiamo la penisola su cui giace Nouadhibou, una quarantina di chilometri lungo i quali veniamo fermati da diversi di posti di blocco. Dopo seicentotrenta chilometri di tensione, entriamo in città lungo un ampio viale, caotico, disordinato, sporco e pieno di sabbia. Troviamo una camera in un albergo già visitato in passato; finalmente facciamo una doccia e mangiamo qualcosa che si possa definire cibo.
Nel silenzio del primo mattino, il rumore delle nostre moto sta svegliando tutto il quartiere. Di nuovo in sella filiamo dritti verso la frontiera col Sahara Occidentale, ora Provincia interna del Marocco. Oggi è domenica e non ci dovrebbe essere il solito casino. Dalla parte mauritana in un’oretta riempiamo i moduli e ci facciamo timbrare i passaporti senza sborsare nemmeno un’Ouguiya. Tanto per non farmi mancare nulla, mentre risalgo sulla moto il cavalletto laterale cede nella sabbia e nel tentativo di tenerla in piedi mi stiro dolorosamente un muscolo della coscia. Tocca ora ai circa cinque chilometri della “terra di nessuno” tra i due Paesi. Pneumatici e sospensioni delle moto sono messi a dura prova da pietre acuminate, sabbia e buche abissali, col contorno di bestemmie sussurrate nei caschi. Giunti alla frontiera d’ingresso nel Sahara Occidentale ricominciano i controlli; cambiamo gli Ouguiya rimasti con Dirham locali ed anche questa volta varchiamo il confine in un’oretta e senza richieste di denaro. E’ mezzogiorno. Per l’equivalente di “soli” sessanta euro a moto facciamo le assicurazioni per dieci giorni ed entriamo in Marocco. Basta strade bombardate o insabbiate, basta preoccupazioni di rapimenti, banditi o terroristi e basta benzina di uno strano colore marrone che non si sa mai se e dove la troverai. Il paesaggio cambia. Guidiamo ancora avvolti dal deserto, ma qui la sabbia e le dune sono solo coreografiche e non più invadenti. Spesso ci avviciniamo alle maestose scogliere sull’Atlantico e l’azzurro dell’oceano col bianco delle sue onde rende tutto più sereno. Le città continuano ad essere divise da centinaia di chilometri, ma i punti di ristoro e di rifornimento sono ben cadenzati. Un incessante freddo vento trasversale ci fa procedere sbandando e la temperatura è sorprendentemente bassa. Passiamo il bivio di Dakhla e proseguiamo verso nord. La sera arriva in fretta ed anche il buio. A circa duecento chilometri da Boujidour, l’unico centro abitato in cui poter trovare una sistemazione, cala la notte. Guidiamo a centoventi all’ora affiancati per chilometri in uno scenario affascinante, con la luce dei fari che illuminano a fatica l’asfalto davanti a noi. Sappiamo che l’Oceano è lì alla nostra sinistra ma non si distingue più, nascosto da un profondo buio nonostante una magnifica stellata. L’ultimo posto di blocco ci dà il benvenuto in città lungo un vialone illuminato a giorno da ordinati lampioni. Dopo settecento chilometri, l’albergo è poco più di una stamberga ma ce lo facciamo andare bene e riusciamo anche a recuperare qualcosa da mangiare. Cosa vogliamo di più?
Fino a Laayoune la strada fila dritta come un righello, sempre circondati dall’hammada, il deserto pietroso. L’oceano è sempre vicino ma il cielo è coperto e fa davvero freddo. Giunti nei pressi della splendida spiaggia atlantica di Tarfaya, il sole si decide a scaldare l’aria anche se un forte vento riprende a disturbare la guida. Facciamo una sosta nel nulla per rabboccare i serbatoi con quello che è rimasto nelle taniche ma il vento soffia benzina dappertutto; ricorriamo così ad un imbuto ricavato da una bottiglietta d’acqua vuota, tagliata e capovolta. Stiamo ormai lasciandoci alle spalle i lunghi chilometri dove davanti a noi e negli specchietti si vedeva solo la linea dell’orizzonte. La solitaria strada del sud lentamente si trasforma in una rete viaria capillare ed efficiente. Le città non sono più separate da centinaia di chilometri, ma diventano sempre più vicine e numerose. Siamo a Tan Tan. Continuiamo con poche soste e tanti controlli di Polizia. Poi, finalmente il piatto procedere si anima di curve e salite. Mentre valichiamo il passo tra Guelmim e Tiznit cala la sera ed inizia a piovere. La temperatura, mite durante le ore di sole, cala di nuovo ma ormai Tiznit è raggiunta. Sono le 19:30. Oggi quasi settecentocinquanta chilometri. Il “solito” buon albergo col suo ottimo ristorante ci riporta alla civiltà.
Una bella sensazione ci accompagna alla partenza odierna. E’ una fresca e bella giornata di sole e non sentiamo più l’angoscia di dover affrontare centinaia e centinaia di chilometri pericolosi ed impegnativi. Ci infiliamo nel traffico che scorre verso Agadir che raggiungiamo in un’oretta e mezza. Da qui non resta che imboccare la lunga autostrada che sale costeggiando l’Atlante, la spina dorsale montuosa del Paese. Certo che, calata la tensione, questa parte del viaggio ci appare monotona, ma essere arrivati fin qui e sapere che ormai è solo questione di raggiungere Marrakech, Casablanca e da lì Rabat ci conforta pienamente. Dopo seicentoventi chilometri arriviamo nella splendida Capitale. La sera ci vede passeggiare finalmente sereni come turisti. Il più è fatto. Domani gli ultimi trecento chilometri. Il ferry non ci scappa…
Game over.