Senegal à la carte
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L’aereo rolla sulla pista. Profumo di kerosene. Adrenalina che scorre. Che bello l’assenza di peso, il tao della levitazione, sopra le nubi, sopra le borse che crollano, anche quelle degli occhi. E’ un soffio, un attimo, non riesci neanche a mantenere un ritmo respiratorio che controlli i chackra in maniera decente. Passa sotto i tuoi occhi la carta di Google, ma non è così piatta come dovrebbe essere, sembra così vera, così autentica. Montagne coperte di neve come in un videogioco, sembra il flight simulator, pianure dai colori autunnali, poi ancora montagne e poi lontano sotto le nubi basse, una linea bianca infinita. Al di là un azzurro che si confonde infinito col cielo. Forse è un sogno e di colpo cambia il livello, sono per le strade di Lisbona, le strade larghe, quadrate, i quartieri con le facciate coperte di azulejos, i piccoli bar, le pasticcerie. Dal Rocio fino alla Piazza do Comercio che finisce nel mare. Nell’oceano, quella baia da cui partivano le navi alla conquista del mondo. Mentre il sole scende in un cielo di rame, dalle mura del castello guardi i tetti rossi sotto di te che a poco a poco diventano grigi, mentre la sera cala la sua veste di seta nera sulle stradine strette dell’Alfama, con le porticine strette da cui escono le note del fado. Profumi di bacalao e polpo asado, luci gialle e fioche che fanno ombre lunghe sui muri di mattone. E’ ora di andare, nessuno aspetta, bisogna arrivare per tempo a sentire di nuovo quel rombo soffocato, quell’odore di kerosene. Ma c’è un altro odore nell’aria, più forte. Più misterioso. Un odore che viene da lontano. Odore d’Africa.
Africa nera.
Non era solo l’odore, il senso di tamburi lontani. Un tocco di corde di balafon, il vento carico di umidità. Non sono solo sensazioni, è davvero Africa. L’Africa occidentale, quella più nera ed agitata, quella delle masse povere, ma non poverissime, che hanno voglia di lottare, di trovare una soluzione di vita, disposti a muoversi e a tentare qualcosa, anche ad ogni costo. La notte piena all’aeroporto di Dakar è popolata di figure nere. E sono grandi, grossi e tanti, tutti ad aspettare l’aereo che arriva dall’Europa e che scarica, oltre a qualche raro turista, quelli che tornano a casa, benedetti da chi li aspetta come divinità che tornano da un altro cielo, fieri delle loro esperienze, pronti a dimenticare o a nascondere le umiliazioni subite, i giorni passati a mendicare la possibilità di essere schiavi di un mondo che li rifiuta, ma li usa, gongolando. L’Africa nera senegalese ti avvolge cupa e materna come la madre antica, da cui ci siamo staccati tanto tanto tempo fa, ma che è rimasta comunque nei nostri geni malati di moderno.
L’Atlantico infinito davanti a noi, oceano, non mare, che non invita il marinaio con la sua onda di tenebra, dove le piccole barche colorate si muovono solo per gettare le reti di una pesca magra ma comunque utile. Camminare lungo le strade di terra tra le case di Niakhniakhal dove sono fiorite le piccole attività di sussistenza in attesa di un turismo fai da te che comunque riesce a dare un po’ di ossigeno ad una economia asfittica e afflitta dall’aumento della popolazione e dalla scarsità di beni che il territorio può produrre. Ma c’è un affetto straordinario ed una accoglienza commovente per chi torna in questa terra come amico già conosciuto ed apprezzato, che ti fa visitare case, ti mostra i nuovi arrivati, che ride con te e ti abbraccia felice del tuo arrivo. Voi sapete che io, come una zecca mi aggrego a chi mi concede queste occasioni di vedere un paese in modo diverso, un po’ da dentro, un po’ con la curiosità e l’interesse di del viaggiatore in cerca di capire ed anche questa volta mi sembra proprio che l’esperienza sarà piena e completa. Ma non pensate che che sia tutta sofferenza interiore. Oggi Marie, da cui siamo e che ci accudisce con amore con la sua deliziosa figliola, ci ha preparato una crudité di carote con salsa olio, cipolla e senape, seguita dalle sogliole spadellate che ha portato il pescatore stamattina. Assolutamente strepitose. Papaia e fette di pompelmo per accompagnare la birra Gazelle. Una bella soluzione per ingannare il tempo tra le bouganvillee e le palme davanti alla spiaggia. Stasera ha promesso la lotte, un altro pesce di buona cucina. Aspettiamo il tramonto, respirando l’umido aliseo, mentre la spiaggia si popola a poco a poco di ragazzi in cerca di serenità.
L’ile de Gorée
Le metropoli africane sono disperatamente uguali e terribili. Periferie sterminate che ospitano l’orrore e gli errori dell’occidente mescolandoli con la miseria africana in un cocktail micidiale e straniante. Dakar non fa eccezione. Quando tenti di percorrere le arterie principali che portano al plateau centrale, rimani immancabilmente bloccato in ingorghi colossali. Non ti muovi per ore, ma tutto intorno a te continua a vivere di vita africana, senza troppe ansie, senza nervosismi occidentali. I venditori si accalcano attorno alle auto a spingere il loro business, i mercati al bordo della strada fervono di attività, ma lenta, mediata dal calore meridiano. Lunedì sarà il Tabaskì, la festa musulmana del montone. I mercati ne sono pieni e le famiglie scelgono il loro montone e se lo portano a casa issandolo sul tettuccio dell’auto o dei piccoli bus, carichi di umanità stipata. Quanti sono gli africani, neri e bellissimi, alti, lucidi, atleti per Dna acquisito nelle savane. Le donne con un portamento regale, consce della loro bellezza superba e prepotente. L’immensa periferia brulica di gente che si sta preparando alla festa. Anche nel centro le strade sono ingombre di bancarelle di ogni tipo, cariche dei frutti poveri della campagna.
All’imbarco del battello per l’isola di Gorée, tappa obbligatoria per chi transita in Senegal, c’è poca gente, qualche routard di lungo corso, le venditrici che vanno ai loro banchetti sull’isola, un po’ di locali in gita. Le stradine dell’isola sono coperte di buganvillee. La casa degli schiavi è lì, con i suoi ricordi ed i suoi orrori, le piccole camere dove venivano ammassati gli uomini incatenati a due a due, quelle delle ragazze e delle donne, infine quelle dei bambini. Orrori su orrori che hanno segnato oltre tre secoli. Di qui sono passati 20 milioni di esseri umani e guardare la porta del non ritorno ti dà una stretta al cuore. I malati gettati ai pescecani che circondavano l’isola, quelli recuperabili ingrassati con un pastone di fagioli e farina, selezionati per forza fisica, i migliori per la riproduzione. La bestialità dell’uomo, quando si coniuga con l’avidità è davvero senza limiti e le connivenze incrociate si sposano alla perfezione. Commercianti europei con i despoti locali, con la benedizione della chiesa cattolica hanno fatto funzionare un sistema spietato e infame con buona pace di tutti. Povera Africa, così dolce e violenta, così ricca e selvatica, così povera e disperante.
L’orgoglio della bellezza
Già, la bellezza senegalese; ti assale dai mercati, dalle stradine tra le case povere, ai lati della strada, lungo i sentieri della brousse. La bellezza di questo popolo, i Wolof, alti e proporzionati, dalla muscolatura naturalmente forte ed asciutta; petti forti, ventri scolpiti, braccia e gambe potenti. Il loro nero è abbagliante, così perfetto sotto il sole delle ombre corte, che li lucida fino a farli apparire quasi blu, mentre camminano lentamente, diritti ed orgogliosi come tutti quelli che sanno di essere belli. La bellezza senegalese che permea le donne e che si mantiene anche col passare degli anni, come quella di Marie che si prende cura di noi, con l’attenzione maniacale a preparaci cibi raffinati appresi dalle suore francesi, che lava ogni verdura e sbuccia con attenzione e bolle a lungo, sapendo dei nostri delicati stomaci d’occidente. La bellezza straordinaria di Monique, una delle sue figlie, che ti pare appena scesa da una passerella di Parigi, magra e slanciata eppure perfetta, dallo sguardo buono e sereno, dalla voce bassa e dolce, che la mamma alleva assieme ai fratelli con l’intelligenza e la speranza di un futuro migliore, con la dedizione ed i progetti che solo le donne sanno fare.
Invece di giocare a bocce
Ci sono tanti modi e tutti ugualmente possibili. Puoi passeggiare sulla spiaggia, facendo crocchiare la sabbia rosa mista alle conchiglie corrose, ai gusci spezzati, ai residui dei pasti dei cormorani, che di tanto in tanto si lasciano cadere tra le onde come frecce spezzate per riemergere subito dopo con un pesciolino nel becco; oppure puoi rinchiuderti al di là della siepe del resort, sul bordo di una piscina a godere il colore delle bouganvillee, l’ombra del ventaglio delle palme, gli uccellini gialli che si posano sui rami del tamarindo, oppure puoi fermarti ad ascoltare delle storie. Tante storie che circondano i resort, scivolano lungo le spiagge, corrono nei villaggi dietro le dune, dove l’ombra è poca e non rinfresca, tra gli orti spelacchiati, le casette non finite fatte di muri grigi e già in rovina prima di aver raggiunto il tetto, magari perché Abdu non ha mandato più soldi dall’Italia o quest’anno arrivano così pochi turisti. Storie di vite difficili, di speranze tradite, di sogni impossibili, un piccolo banco di drogheria varia al mercato o che mancano i soldi anche per l’affitto della baracca. Così ci sono anche delle persone che senza volere fare niente di particolare, si affezionano e cercano di dare un piccolo aiuto, cercando di organizzare un progetto fai da te per permettere ad un po’ di bambini di andare a scuola, perché magari con un po’ di istruzione, aumenta un poco anche la speranza. Con una piccola cifra questi bambini possono pagare la retta della scuola, i libri e i quaderni e magari rimane anche qualche cosa per aiutare la famiglia. Così negli anni, per un gruppo di amici si è creata la consuetudine di venire da queste parti, andare a trovare le famiglie con cui si è creato un rapporto stabile seguendo i progressi dei vari bambini, vedendo le pagelline e tutte quelle cose fanno dei contatti e delle amicizie, una rete di affetti. Paola è una di questi amici e dandomi il privilegio di accompagnarla in questo viaggio, mi ha dato l’opportunità di conoscere tante storie, a volte dolorose, a volte delicate e piacevoli, magari ve ne racconto qualcuna.
Il villaggio Peul
La macchina corre a fatica nella brousse. Si fa largo un poco tra l’erba alta, un poco aggirando le fosse di sabbia e di terreno più morbido per non incagliarsi. Il motore asfittico ansima quando prima del dosso, Moussa cerca di dare un po’ della potenza che non possiede più. Di tanto in tanto un piccolo carretto trainato da un cavallino piccolo e magro, percorre il sentiero in senso inverso col suo carico umano, generalmente una famiglia al completo che va al mercato di Mbour. Ancora qualche faticoso chilometro in questa pista contorta, poi al di là di una grande pozza fangosa, residuo delle piogge di ottobre, un gruppetto di capanne emerge tra i cespugli. Indovini i tettucci conici coperti di paglia seminascosti dai rami ormai secchi, disposte a raggiera attorno ad un grande albero. La pista finisce nelllo spiazzo al centro del villaggio semideserto. Gli uomini sono in giro col bestiame, i grandi zebù bianchi che di tanto in tanto si vedono all’orizzonte. Le donne vanno al mercato. Sono Peul, una etnia di pastori che arriva dal sud del Mali, spinti ancora più a sud dall’avanzare del deserto e dalle difficoltà di vita.
Alti, magri, più chiari dei Wolof e dai lineamenti bellissimi, sono nomadi orgogliosi e restii a farsi omologare nelle periferie disumanizzate delle megalopoli africane della costa. Un piccolo gruppo di ragazze è seduto sotto il grande albero, intente alla cura della propria persona. Le piccole annodano le treccine alle più grandi con cura maniacale. Distribuiamo un po’ di cose comprate al negozietto del paese vicino e i sorrisi si allargano. I bimbi si affastellano attorno al display della macchina fotografica per guardarsi e riconoscersi ridendo. Una bimba mi prende per mano e mi porta a vedere la sua capanna, spoglia se pur fresca, dalle pareti in terra cruda. Su dei sostegni le bacinelle e gli strumenti per la mungitura e la cagliata per fare inacidire il latte, loro nutrimento basico. Usciamo dal villaggio accompagnati da una donna con una bimba nata da poco appesa alla schiena che dorme placida. Sale con noi, le daremo un passaggio fino al mercato. Si chiama Ily, ed è molto curiosa. Il mento tatuato le trema un poco ridendo, di noi credo, così pallidi e dai lineamenti così brutti, secondo la logica Peul. Non parliamo poi di chi è in sovrappeso. La bellezza, il fisico asciutto e slanciato, è una parte molto importante nella loro cultura. La sua ricerca riveste una predominanza fondamentale rispetto ad altre cose, come la convenienza economica.
Tra un gruppo di immensi baobab, una piccola mandria di zebù pascola tranquilla l’erba scarsa tra la sabbia. In piedi all’ombra, in equilibrio su una gamba, appoggiato al lungo bastone, una figura simile alle tante statuette dei baraccotti di souvenir. E’ Sambà, un giovane pastore che mostra le sue bestie con occhio soddisfatto. Lo rende fiero il candido mantello degli animali, perfetto e senza macchie e soprattutto le immense corna, proporzionate e incurvate da un bel movimento armonico. Anche lo sguardo degli animali è orgoglioso, come di chi sa di essere bello. Certo producono solo pochi litri di latte al giorno, una miseria con cui si fatica a vivere. Non è uno sprovveduto Sambà, ha sentito delle vacche pezzate bianche e nere, che vengono da lontano. Ha potuto vedere anche quelle immense e sproporzionate mammelle che sembrano fontane di latte. Ma che orrore quelle bestie, brutte e sgraziate, con piccole corna stortagnole, senza orgoglio nei timidi occhi bovini. Ride Sambà. Quale Peul vorrebbe avere quegli orribili animali al posto dei suoi stupendi zebù. Nemmeno per tutto il latte del mondo.
Il mercato di Mbour
L’Africa è il mercato. Attorno al mercato nasce la vita e la comunità, dal mercato si costituisce la città, la comunicazione, ogni rapporto umano. Il mercato di Mbour è l’Africa viva, con la sua energia, prorompente, quella forza che nonostante tutto la fa crescere nonostante tutti i suoi problemi. Infilarsi nella folla non è facile, tutti ti stringono e penetrare questo muro di umanità è difficile e faticoso. Il caldo calcina gli odori, che si fanno insopportabili solo in qualche punto particolare dove la materia si dissolve e fermenta. Prima il mercato della frutta e della verdura, ricco di colori che fanno a gara a confondersi con i vestiti che avvolgono queste statue di ebano nero, con le treccine infinite avvolte da grandi foulard in tinta. Poi sbuchi tra le vie e arrivi di fronte al mare. La grande spiaggia è tutta coperta dalle barche colorate dei pescatori appena tornati a riva. Cumuli di pesce di ogni tipo hanno invaso ogni angolo della rena. Divisi, catalogati, separati per specie e pezzatura ed i commercianti si aggirano per aggiudicarsi le partite migliori. Un mondo di lavori accessori si affanna attorno a questo grande sabba dove ognuno svolge compiti, ognuno copre il suo ruolo. Ogni capannello, una barca, un carretto per caricare la merce, di qua uomini che si affannano a contrattare, di là altri che riposano stanchi, finito il lavoro. Ancora gente che si affanna, che grida, è l’Africa che urla la sua voglia di vivere.
Il parco di Bandià
Potete dire quello che volete, ma quando si pensa al’Africa, la prima cosa che ci viene in mente sono gli animali liberi e selvaggi che si aggirano per boschi e savane come nel paradiso terrestre. Così se vuoi incantare il viaggiatore, devi metterlo su una 4×4 e scorrazzarlo da qualche parte a vedere le bestie e a fotografarle soprattutto. In Senegal, questa condizione di selvaticità, tra clima e insediamento umano se ne è già andata da un pezzo, ma diciamocelo per accontentare il turista non ci vuole moltissimo. Eccoci dunque a bordo del nostro mezzo, penetrare la riserva faunistica di Bandia. Eh ragazzi, potete dire quello che volete, potrete aver già visto un sacco di ambienti e situazioni simili, ma l’emozione è sempre la stessa.
Quando ti muovi lentamente nella brousse, tra cespugli ed erba alta, giri attorno ai grandi baobab cercando di spiare qualche movimento tra il fogliame e poi d’improvviso ti appare davanti un branco di antilopi, che ti guardano all’unisono con gli occhi cerchiati di bianco, prima di levarsi lentamente e girare le groppe per andarsene, non riesci che a rimanere incantato. Intanto uno struzzo con le due compagne corre attraverso il sentiero, le impala saltano lontano e un grande Kudu, dopo pochi metri alza al cielo le corna ritorte, maestoso e regale. E’ l’emozione della caccia, forse, quel cercare attento che conduceva i nostri antenati a cercare la preda in attesa della lotta finale. Un rinoceronte si muove nel fango circondato da un gruppo di grossi facoceri, ci dà un’occhiata, prima di muoversi con la sua velocità di crociera verso il folto del bosco. Ancora zebre e le elegantissime giraffe che appena si accorgono di noi. E poi ancora uccellini di ogni colore, tucani e scimmie che avvisano del tuo arrivo con grida stridenti. La grande mandria di bufali sta a guarda dello stagno dove i coccodrilli aspettano la sera con la bocca aperta. Che meraviglia. Lasciatemi godere fino al fondo questo momento, mentre il sole tramonta dietro la selva di baobab che stendono i loro rami grassi e contorti, ormai resi neri dalla note che cade di colpo, verso il cielo viola.
La storia di Awa
Awa era una bambina bellissima. Veniva sulla spiaggia a giocare e le piaceva fermarsi per stare vicino a qualche toubab, quegli stranieri con la pelle così rosa che dopo un giorno o due diventava rossa vermiglia come il nastro che teneva per fermare le sue bellissime treccioline. Fece amicizia con una famiglia a cui quella spiaggia sembrava un sogno meraviglioso e che andandosene decisero comunque di ritornare prima o poi solo per gli occhi meravigliosi di quella bambina. Passò qualche anno e la bambina era diventata una ragazza molto bella dalla pelle di ebano e dal portamento regale. Continuava a venire sulla spiaggia per tentare di vendere qualche collanina o qualche statuetta, ma la vita era molto difficile. Una sera però, quando i turisti se ne erano andati tutti nello loro belle case sulla spiaggia e la notte era scesa di colpo come accade qui, né la sua bellezza, né le sue preghiere bastarono per fermare la furia di possesso di un ragazzo che da qualche giorno le stava appresso con insistenza. Se ne tornò a casa piangendo, come già a molte sue amiche era accaduto, con la sola speranza che quel giovane tornasse a sposarla per evitarle la vergogna. Ma lui tornava solo ogni tanto per averla e quando ebbe la bambina, sparì per un po’. Era troppo per la famiglia, che come si fa in questi casi la cacciò di casa, con la bambina a cercare rifugio in una baracca vicino alla spiaggia. Sapeva che il suo futuro sarebbe stato terribile come a tante altre la cui colpa era quella di essere state violate perché troppo belle.
Ma la ragazza era intelligente e decisa. Per la sua bambina avrebbe fatto qualunque cosa. Cominciò a proporre ai turisti di fare loro le aragoste alla griglia sulla spiaggia, sapeva che questo piaceva molto. Si faceva anticipare i soldi, andava al mercato dei pesci di Mbour e tornava alla spiaggia dove vicino alla baracca le cucinava, per loro. Forse piangeva cullando la sua bimba, quando accadde una cosa talmente imprevedibile da non potere essere neppure sognata. Davanti alla baracca passava proprio quella famiglia che anni prima l’aveva conosciuta ed amata. Si riconobbero subito come se qualche cosa avesse preparato con cura quell’appuntamento. La aiutarono e poco a poco riuscì ad avere un localino dove accogliere i bianchi che venivano, dopo averla conosciuta sulla spiaggia. La aiutarono poi a costruire una piccola casa e avendo ormai recuperato credibilità sociale si sposò ed ebbe altri figli. Adesso le cose vanno bene, il localino fa sempre le meravigliose aragostine alla griglia assieme alle brochettes di pesce con un riso e cipolle da sballo ed anche il negozietto di souvenir, sembra marciare bene. Oggi Awa è serena, con la sua famiglia senegalese e con la sua famiglia italiana. Quella sua prima figlia è adesso una stupenda ragazza di 16 anni, che parla un italiano quasi perfetto e ama moltissimo gli spaghetti e quando sorride ti riempie il cuore di gioia. Adesso il sole è alto nel cielo e non ci sono ombre nei suoi occhi.
L’albero dei griot
Se esci dalle città e dalle loro periferie sovrappopolate e polverose, l’Africa riprende la sua natura ancestrale, il senso di pace e di assenza di tempo della campagna. Girando lungo le piste polverose e rosse, la piana senegalese è punteggiata dai rami contorti dei baobab, innaturali nei loro grassi tronchi grigi che li fanno apparire come alberi piantati al contrario con le radici al cielo. Tra i campi secchi, rimane solo qualche stoppia del miglio raccolto o delle piante di arachidi senza foglie. Sul bordo della pista, quattro capanne seminascoste tra alberi bassi, una piccola comunità Sehrer.
Al centro dello spiazzo di terra battuta, una donna sta pestando nel grande mortaio una massa di foglie secche di baobab. Serviranno per dare sapore al couscous di miglio. Tutto è silenzioso attorno, anche i bambini giocano senza fare rumore, lo spessore dell’aria è rotto soltanto dai colpi del pesante pestello di legno duro, che affonda ritmato. Un gruppo di ragazze portano l’acqua dal pozzo. Una anziana, all’ombra di una capanna è circondata dai bambini che la ascoltano rapiti. L’anziano che racconta le storie. Ecco una delle costanti africane. La credibilità ed il rispetto per i vecchi che detengono il sapere reale e il ricordo della storia. La figura del griot è ancora fondamentale nella vita africana. Il cantastorie che gira per i villaggi a raccontare le vicende del passato o della fantasia, le mitiche avventure dei grandi imperi africani, da Sundiata Keita a Kankan Musa che donò tanto oro durante il suo viaggio attraverso il deserto per arrivare alla Mecca da farne crollare il prezzo per una generazione. La storia ed il mito ad un tempo, la cultura orale e la sua importanza in un mondo in cui pochissimi sapevano e sanno ancora scrivere. Le sue frammistioni con l’animismo. I Griot venivano sepolti nei baobab, per sottolineare la sacralità della loro figura e quando arrivi al gran baobab, il più grande del Senegal, albero immenso al centro della pianura, puoi capirne il mistero e la forza. Da un piccolo buco si accede al centro dell’albero che può contenere anche 50 persone. Qui era sepolta la saggezza di un continente.
L’isola delle conchiglie
La costa senegalese è un seguito di spiagge magnifiche e di zone umide, paradiso per i migratori che stanno arrivando dall’Europa. Le distese di mangrovia si alternano ai canali fangosi. Migliaia di trampolieri dalle dimensioni minute razzolano sulla superficie lucida becchettando qua e là con vigore. La strada si insinua tra le sabbie fino alla lingua di Joal, un grande villaggio sulla costa. Poi un lungo ponte di legno dove a piedi puoi raggiungere Fadiout, una cittadina di case basse e colorate che pare spuntare nella laguna. L’isola è formata unicamente da una massa di conchiglie che si sono accumulate nei millenni. Le viuzze tra le case basse sono strette e contorte e conducono a delle piazzette coperte dove gli anziani del paese si radunano a parlare. Nugoli di bambini e ragazzini di ogni età giocano della sabbia rosa formatasi con l’erosione dei gusci. In mezzo alla laguna i granai rotondi, sono difesi dai topi e dagli incendi dal fatto di essere circondati dall’acqua. Poi un altro ponte di legno conduce ad un isolotto separato. Il cimitero.
Tra gli alberi, mentre il sole tramonta tra le dune lontane incendiando il cielo, è tutto un susseguirsi di croci e di tumuli mussulmani. Eh sì, perché qui il cimitero è comune, come del resto sull’isola, stanno a fianco la grande chiesa cristiana e la moschea. Qui in particolare, ed in generale anche nel resto del paese, mussulmani e cristiani vivono serenamente affiancati e senza contrasto apparente. Forse è l’abitudine alla convivenza di razze diverse, Peul, Bambara, Sehrer, Wolof , Fulani e tante altre minori, unite da un senso di tolleranza che forse è propria in molti paesi dove rimane fondamentale il rispetto per gli anziani e l’affetto infinito per i bambini. Oggi forse, molti amici cattolici andranno a trovare gli amici mussulmani per la grande festa del Tabaskì e mangeranno con loro il montone; in giro non c’è più un’anima viva, la festa è cominciata e non si vede più nessuno in giro, almeno fino a stasera quando si comincerà ad uscire per andare, secondo il rito, a trovare i vicini per chiedere loro scusa delle offese che ci si è rivolti durante l’anno. E’ rimasto aperto solo un baracchino alimentari, dove andiamo a comprare il pane. Non abbiamo dietro neanche i soldi per pagare. Lasciamo un puffo di 600 Cfa. Lui dice di non preoccuparci, si fida. Forse non ha capito che siamo italiani. Con lo spread a 490 non ci avrebbe fatto più credito neanche lui. Forse il prossimo anno se gli amici torneranno qui, troveranno qualche famiglia locale che ha preparato per loro quaderni, biro e caramelle.
Il giorno del tabaski
Anche la spiaggia oggi è deserta, solo qualche toubab color aragosta che si aggira qua e là sulla battigia come sperduto, non capacitandosi di non essere circondato da qualche venditore di collanine. Oggi è Tabaski, la più importante festa mussulmana, quella che ricorda il sacrificio di Abramo. Sono giorni che in giro c’è una eccitazione incredibile. I mercati ed anche i bordi delle strade dove di norma stazionano pochi venditori di ortaggi e frutta, sono invase da mandrie di montoni. Eh,sì, il problema è proprio questo. Ogni capofamiglia degno di questo nome, ha l’obbligo morale e materiale di acquistare un mouton il più possibile bello e prestante, che il mattino del tabaski, dopo la cerimonia in moschea verrà sgozzato nel cortile di casa dal capofamiglia stesso, tra il giubilo dei bambini che aspettano solo di impossessarsi delle viscere per andare a lavarli sulla riva del mare. Le donne di casa intanto preparano il riso e le verdure che accompagneranno la solenne grigliata. Naturalmente tutti devono essere dotati di vestiti e scarpe nuove, e al limite anche i tessuti e le tende di casa dovrebbero essere nuovi. Il prezzo del mouton è comunque il problema topico. Non si discute d’altro fino alla vigilia. I prezzi sono molto variabili a secondo della bellezza e del peso dell’animale da 20 a 500 euro e sale o scende a seconda della disponibilità all’avvicinarsi della festa. Ieri, Moussa, che non aveva ancora comperato, mentre ci guidava nella brousse a vedere i villaggi Sehrer, era continuamente tenuto al corrente via cellulare, dal cognato, dell’andamento dei prezzi che non accennavano a mollare anche se la sera si avvicinava. Giunti a casa, ha preso la decisione di acquistare stamattina prima della cerimonia in moschea, momento in cui se c’era ancora disponibilità, i prezzi erano destinati a crollare.
Domani sentiremo come è andata. Il fatto è che un uomo per dirsi degno di questo nome e per assolvere i suoi doveri di padre e marito decente verso le diverse mogli, non può non acquistare il suo mouton. Sarebbe davvero il segno di una disfatta sociale, una vergogna per la famiglia, un dichiararsi fallito davanti a mogli e figli, per non parlare delle suocere. Così son due giorni che ogni venditore che si avvicina, non fa che pregare disperato di potere fare almeno una piccola vendita che gli mancano ancora tot soldi per l’acquisto del famigerato mouton. Chi non ce la fa, lo vedi subito da lontano. Il formaggiaio ci ha detto chiaramente: “Come faccio a dire ai miei figli che non posso comprare il mouton? Stamattina mi hanno chiesto come mai non ce l’abbiamo ancora in casa.” E se ne è andato con la testa bassa. Anche la guardia ha chiesto un piccolo aiuto e dopo averlo ottenuto era felice come un bimbo ed ha fatto con piacere il turno di notte. Ma questa mattina, mentre si apprestava a correre dalla famiglia per fare le abluzioni prima di andare in moschea, finito il turno, ecco che arriva il pacco. Il cambio non è arrivato e non si è fatto trovare al telefono; scappato in moschea e poi a casa a sgozzare il suo animale. Il povero Abdu, si aggirava nella sua guardiola come un animale in gabbia, con gli occhi gonfi di sonno, cercando qualcuno che lo aiutasse a risolvere la situazione, col telefonino che continuava a suonare, forse la moglie che lo cazziava chiedendogli come mai non fosse ancora a casa a fare il suo dovere e la schiera di figli che chiedevano ma perché papà non torna. Essendo già stato aiutato nell’acquisto del mouton, volgeva di tanto in tanto verso di noi uno sguardo disperato, in cerca di un aiuto morale, scrollando la testa e borbottando”c’est pas serieux”. Il cambio è arrivato solo verso mezzogiorno e Abdu è corso a casa, ma per quest’anno, la festa se la è perduta. Il suo mouton, per fortuna però, glielo ha ammazzato il fratello.
La storia di Djallo
Mica tutti son proprio dei poveracci da queste parti, c’è anche qualcuno che sta decentemente, con una specie di tetto sulla testa, anche se magari a voi sembrerebbe un tugurio. Djallo era un gran bel ragazzo, diciamo uno sciupafemmine e nonostante questo suo skill che spesso non depone a favore di altre doti era anche un ragazzo molto intelligente, che riusciva a campare senza troppi problemi, anche se aveva un lavoro piuttosto sfumato. Diciamo che era un “coordinatore” di servizi ai turisti che passavano dal suo villaggio. Si era sposato con Djenaba piuttosto presto, potremmo dire per interesse, avendo lei una casa a disposizione. Un matrimonio combinato dalla madre, che però non poteva soddisfarlo completamente. Infatti poco dopo incontrò Aline, una Wolof di folgorante bellezza e la prese subito come seconda moglie. All’amore non si comanda. Direte voi, beh comoda la vita mussulmana, situazione quasi agiata, una moglie che vende collanine ai turisti, l’altra con un banchetto al mercato, casa in ordine di giorno e notti bollenti assicurate, ce n’è da essere sereni. No, no, non è così semplice. Già quando si apriva con gli amici italiani, si vedeva che il menage era complesso e stressante. Le ragazze dovevano essere continuamente blandite e tenute a bada, diversamente litigavano come cani. Da buon mussulmano e da ragazzo intelligente sapeva che doveva continuamente giostrarsi tra i due fronti con grande circospezione; guai a mostrare una preferenza, guai a portare un regalino o dare il boccone migliore ad una delle due, subito l’altra piantava una grana infinita. Così toccava mangiarseli lui, cosa tra l’altro anche giusta essendo l’uomo di casa. Altra grana i figli.
Appena una delle due era incinta, l’altra diventava una furia ed entro pochi giorni doveva esserlo anche lei. I nove figli che erano venuti fuori (4 e 5 rispettivamente) erano bravi ragazzi e con l’aiuto degli amici italiani andavano anche a scuola ed erano bravissimi, intelligenti come il padre, ma anche qui bisognava fare molta attenzione a non fare differenze. Un vero inferno insomma in cui barcamenarsi, ma con estrema circospezione. Per esempio le notti erano un altro bel problema, per fortuna le due donne stavano nelle due camere estreme ed opposte della casa, più erano a distanza e meglio era. Finanziariamente le cose non andavano neanche male, addirittura era riuscito ad avere un piccolo televisore in bianco e nero che troneggiava nello spazio centrale davanti al cui schermo tremolante, i 9 figli si radunavano nella mezz’ora al giorno a cui veniva loro consentito. La corrente andava e veniva e i collegamenti erano piuttosto provvisori come dappertutto qui in Africa. Però quei fili volanti spelacchiati che infilava nella presa provvisoria erano davvero troppo e l’amico italiano gli propose di fargli un buon collegamento fisso e non pericoloso. Assolutamente impossibile. Djallo spiegò il problema con molta comprensione. Ogni sera, infatti, con perfetta meticolosità, il nostro bravo marito, prendeva il televisore sottobraccio e andava nella stanza di una moglie a trascorrere la notte. Quella successiva, toccava all’altra sposa, senza eccezioni o scuse se no guai e quando si beccò il paludismo, non fu facile tenere botta. La vita se pure stressante sembrava trascorrere serena, poi un giorno Djallo si beccò una infezione ai denti. Lo portarono in ambulanza fino a Dakar. Mori in pochi giorni. Adesso le due vedove, vivono ancora assieme sotto il governo della suocera, che forte del potere dell’anziana saggia le tiene a bada. Il televisore, però, non si sposta più dallo spazio centrale.
Il cappello di Mbaaya
Il nastro d’asfalto malandato che va verso nord a Saint Louis è una retta infinita che taglia la brousse come uno di quei confini tracciati con la riga sulle carte delle potenze coloniali. Ad ogni chilometro si rarefanno le piante già secche e striminzite e tra i cespugli radi si fa largo il seccume e la terra rossa, quasi senza accorgersene, diventa sabbia. Il sahel è terra di confine ed il soffio rovente dell’Harmattan da nord ti ricorda che il sahara non è poi così lontano, anzi ad ogni anno si mangia qualche chilometro in più come un buco nero vorace che inghiotta stelle e pianeti, paesi e capanne. Incroci camion malandati che arrivano dalla Mauritania, macchine sbilenche cariche di una umanità varia che si trascina verso non luoghi nascosti tra gli orizzonti fluttuanti dei saliscendi della strada. Anche se c’è l’asfalto, la necessità di evitare le buche improvvise e traditrici rende più sicure le strisce di sterrato ai fianchi, così è sempre polvere quella che vedi, quella che senti, sulla pelle, negli occhi, tra i denti. La distanza è scandita da piccoli abitati anonimi annunciati da un cartello scolorito o reso quasi illeggibile dalla ruggine. Ecco tra due scheletri di alberi secchi: Mbaaya.
Due costruzioni appena iniziate ed abbandonate a metà, forse da anni con i ferri storti e rivolti al cielo, poi qualche recinzione di mattone crudo bassa, dietro cui intravedi baracche a un piano spoglie e all’apparenza deserte. Un largo spiazzo abbandonato di terra polverosa e qualche banco lungo la strada con poche cose, qualche banana, batate, frutti di baobab, fasci di legna. In uno, accanto a qualche stoviglia, alcuni cesti di paglia intrecciata, l’unica nota colorata in mezzo all’ocra polverosa. Tra questi un cappello peul a cono, come ho visto in testa a qualche pastore che seguiva la sua mandria bianca dalle alte corna. Passa un camion lasciandosi dietro un’altra nuvola di polvere che stenta a posarsi. La donna avvolta nella sua lunga veste bianca sembra non accorgersene. La trattativa è breve, prendo il cappello e risalgo in macchina in fretta riparandomi il viso. Ce ne andiamo anche noi. A Mbaaya, immobile nel tempo, è rimasto tutto esattamente come prima.
Il parco di Djoudj
Il delta del fiume Senegal è immenso. Ad ogni braccio che scavalchi, è palude e poi ancora fiume, di cui non vedi l’altra sponda, che scorre lento e maestoso tra le dune lontane, massa d’acqua incongrua in questa terra assetata. La pista si inoltra su un terrapieno rosso fuoco e il mezzo procede a fatica sulla tole ondulée che fa tremare le lamiere e la plastica come se l’auto si dovesse sfasciare da un momento all’altro. Tutto intorno stagni, pozze d’acqua, canneti. Il parco di Djudj è una immensa area umida al confine con la Mauritania. A novembre, milioni di uccelli che nel nord Europa cominciano ad avere freddo, se ne vengono a sud e questo luogo fatato è uno dei primi che incontrano sulla lunga via del sud, migratori al contrario lungo le rotte millenarie del cielo che non ha barriere, che non sente confini o divieti per questi eterni clandestini padroni del mondo. Quanta vita attorno ai sottili strati di acqua fangosa attorno ai quali sguazzano grufolosi, piccoli gruppi di facoceri neri, enormi e tranquilli, non tesi ed attenti al pericolo come tanti loro colleghi di altre parti di Africa, là sempre vigili nel terrore dell’agguato dei grandi felini e forse per questo più piccoli e magri. La grande piroga ti porta lungo un braccia secondario del delta, facendosi largo nelle vie d’acqua laterali prima di lanciarsi nel grande fiume tra assembramenti di uccelli che appena sembrano disturbati da questo passaggio.
Sulle rive, occhieggiando tra l’erba, grandi aironi cinerini, contendono i pesciolini alle egrette, ai più piccoli aironi bianchi, alle diverse anatre. Le spatole erano rimaste nelle distese paludose poco lontane assieme ai cavalieri d’Italia a zampettare sulle lunghe aste rosse, mentre col becco curioso scavano nella fanghiglia del fondo. I cormorani che pescano, invece sono uno spettacolo da gustare in silenzio, godendo del volteggiare nell’aria, quasi inquieto, seguito dall’affusolamento di tutto il corpo in un attimo di immobilità, prima di lasciarsi cadere in verticale come una lancia acuta che saetta la superficie scura e poi riemergere quasi con lentezza, con il grosso groppo che scende a tratti nella gola sottile, così orribilmente gonfia da sembrar di scoppiare per l’ingordigia. Ma lo spettacolo più incredibile arriva quando, dietro le erbe alte compare d’improvviso un piccolo rilievo nascosto dall’ansa del fiume. Sopra, ammassati come se una condanna li avesse costretti a rimanerne prigionieri, centinaia di migliaia di pellicani hanno fissato il loro luogo di riproduzione. Il loro roco gugolio, forma un rumore di fondo gracchiante che riempie l’aria. I becchi gialli si agitano e sbattono con un rumore secco. La piroga si infratta nell’erba e tu rimani a guardare, incredulo quello che la natura ti ha preparato.
Saint Louis
Saint Louis è la vecchia capitale dell’Africa occidentale francese. Sul delta del Senegal, ai margini del deserto mauritano da un lato e dall’Africa nera dall’altro, rappresenta il concetto del colonialismo ottocentesco. Le strade ordinate coprono completamente l’isola scandendo la basse case ad un piano, alcune residuo di un passato portoghese con i loro colori rossi e gialli, le altre coi piccoli balconi a cui si affacciavano le signoras, le bellissime ragazze creole che sposavano qualche europeo e rimanevano padrone incontrastate del campo e degli affari. Affari brutti, commercio di schiavi e altro, terreno noto in questa terra povera dove le sole ricchezze sono sempre state oggetto di razzia e predazione. Su un calesse, al ritmo lento dell’Africa, è dolce muoversi nei vicoli e sui lungo fiume. Forse non molto è cambiato in un secolo, solo ai di là dei ponti che collegano l’isola alla terraferma, la città è mutata trasformandosi con tutti i problemi delle città africane. Sul pontile al di qua del ponte di ferro che sbarra il fiume alle navi, un vecchio vapore carica gli amanti del passato per una crociera senza tempo. Una settimana d’antan a risalire il fiume coi ritmi del passato fino ai forti al limitare del deserto. La langue de Barbarie invece, è una striscia di sabbia tra l’isola e l’oceano, dove si sono ammassati i pescatori che facevano ricca questa città.
Le lunghe piroghe oceaniche, sono piene di colori e di segni che il mare ha scolpito nei loro fianchi duri. Le une a fianco alle altre, ammassate sulla riva coperta di detriti. Dietro l’infinita serie di banchi dove viene seccato e affumicato il pesce. Un odore insopportabile ti definisce l’area anche da molto lontano, prima ancora che tu riesca a capire, dove sono stese le reti, dove si ammucchiano le baracche di questi uomini neri come il fumo che conserverà il frutto del loro lavoro. Un groviglio di gente, uomini seminudi, donne in vesti colorate e brillanti, uno stuolo infinito di bambini razzolanti in un terreno ricoperto di residui e di immondizie. Tutti qui hanno quattro mogli, glielo consente il profeta e il numero di figli diventa così esponenziale. Su ogni agglomerato famigliare almeno quattro piccole antenne televisive, perché non si devono fare differenze ed alla sera le tre che devono aspettare, devono pur fare qualche cosa senza litigare. L’altro lato della lingua di sabbia finissima e farinosa è occupata da bungalow dove gli europei ricercano una atmosfera, nel languore del sole che cade nell’oceano. Al centro dell’isola, il vecchio Hotel della Posta, dove sostavano i piloti degli aerei postali che facevano questa strana linea costiera fino a Capetown. Atmosfere di altri tempi ai margini del deserto, in attesa dell’arrivo di carovane lontane.
Scuola e comunicazione
Forse qualcuno dei miei attenti lettori si sarà chiesto come mai, nonostante abbia dichiarato di essere in terra d’Africa e più precisamente in Senegal, continuino a fioccare in questo spazio una serie di note di “viaggio”. Addirittura qualcuno si sarà spinto ad ipotizzare che io sia in realtà seduto a casa mia e cerchi di appagare la mia brama di sensazioni con acido lisergico o altre soluzioni virtuali. Sarebbe stata una bella idea ma voglio disilludere tutti, non solo sono in loco, ma addirittura sto tornando, anzi scrivo queste righe proprio mentre, con rammarico, lascio questa terra, anche se per un’altra magia elettronica, compariranno solo domenica mattina quando io (spero) starò già consumando l’acido lattico accumulato nella mia dolce tana, coccolato dai famigliari che mi attendono con “ansia”. Dunque in un paese “selvaggio” la comunicazione è così semplice? Pensate che alcune sensazioni sono state postate in diretta sul bordo polveroso di una strada di qualche paesotto senza nome mentre i camion transahariani passavano nella loro nuvola di polvere che li segue come la bava delle lumache. Il fatto è che qui si è pensato che la possibilità di connettersi fosse un punto importante per lo sviluppo del paese e il wifi è quasi dappertutto e gratuito. Accanto a questo che, assieme alla telefonia mobile, percorre il paese prepotentemente facendo, grazie ai suoi costi minimi, forse saltare una fase intermedia dello sviluppo, come in tanti paesi del terzo mondo, bisogna considerare che questo è un paese giovanissimo grazie al fatto che nessuno che si rispetti ha meno di cinque figli. Il problema della scuola è quindi uno dei più importanti e sentiti. E’ importante sottolineare che tutte le persone con cui sono venuto in contatto a partire dalle più umili e disagiate, pongono al primo posto assoluto la necessità di fornire a qualunque costo, una istruzione adeguata ai propri figli.
E dato che gli amici che mi hanno dato questa opportunità, si interessano proprio di questo aspetto, il giro di alcune delle scuole frequentate dai bambini seguiti dall’associazione, è stato di particolare interesse. Chiariamo subito che qui la riforma Gelmini è già in atto da tempo e vedere queste classi di 50 – 60 bambini guidate da inflessibili maestri, mostra un mondo antico che avevamo dimenticato, in cui i problemi dei bambini non sono lo zainetto firmato o il diario con la griffe, ma averli i quaderni e le matite, oltre ai soldi per pagare la retta, anche se bassa, per quelle famiglie che devono pensare a mettere tutti i giorni qualcosa da mangiare nel piatto. Certo ci sono scuole migliori e altre meno, ma bisogna pensare che questo è uno sforzo titanico per un paese molto povero e senza risorse, anche se questa mancanza è compensata dall’assenza di grandi predatori e di guerre e disordini che hanno accompagnato le altre aree “ricche” di questo disgraziato continente. Quindi una mano anche piccola è sempre benvenuta anche se apparentemente sembra una goccia nel mare, sempre utilissima e spesso risolve problemi familiari anche gravi con poco. Ecco perché sono davvero grato a Paola, Rosanna e Bruno per avermi dato l’opportunità ed il privilegio di poter conoscere queste situazioni da vicino e grato anche per aver potuto incontrare tante persone che anche solo in pochi giorni mi hanno dato molto. Adesso è il momento di assorbire tutto quello che ho visto, di assorbirlo ed assimilarlo.
La storia di Anjèl
Mica ci sono solo storie tristi in Africa. Anjèl, per esempio, era una bella ragazza Serer, alta e dal portamento fiero e regale come tante altre della sua etnia, con quel delizioso colore della pelle, non completamente scuro come i Wolof e neanche chiaro, un po’ slavatino, come le donne Peul. Si innamorò di un ragazzo cattolico, ma per lei, mussulmana, in un paese che fa della tolleranza religiosa un dogma, non fu un problema. Si convertì e si sposarono con una bella festa. Lui faceva il maestro in un istituto di suore francesi e lo stipendio, molto basso come quello di tutti gli insegnanti del mondo, bastava appena per mantenere la famigliola ed i bambini che nel frattempo arrivavano. Tuttavia si poteva vivere dignitosamente in quel pezzettino di terra recintato, fuori dal paese su cui erano costruite due camere su un pavimento di terra, che era così faticoso mantenere pulito dalla sabbia e dallo sporco. Anjèl spazzava, spazzava e gli sembrava sempre di non fare abbastanza, invidiando un po’ quelle case ricche dei primi occidentali che compravano, vinti dalla bellezza della costa senegalese, che aveva visto andando a fare qualche servizio. Era anche un po’ timida e timorosa della suocera, così, quando stava per nascere il primo figlio, non osò chiedere aiuto ma, ai primi dolori, se ne andò fuori dal paese, si inginocchiò sotto un grande baobab e lo fece dentro la bacinella di alluminio che portava con sé, poi se la mise in testa e tornò a casa cercando di non disturbare nessuno. Dopo il quinto figlio accadde quello che in questi paesi ti può sbattere da una vita povera ma tranquilla, nel baratro dell’indigenza. Il marito morì in pochi mesi di un male che non lo avrebbe risparmiato neanche in un paese più ricco. Ma Anjèl non era soltanto bella, era anche molto intelligente e caparbia e non volle arrendersi.
Le suore la presero con loro e nelle loro cucine imparò facilmente ed in fretta l’arte della cucina franco-senegalese, con le sue salse ed i suoi gusti così gradevoli e non aggressivi e intanto andava nelle case dei vacanzieri europei, dove oltre ai servizi, forniva anche le sue doti culinarie. Usava senza problemi, lavatrici, forni a microonde, frigoriferi e centraline dell’aria condizionata, tutte quelle diavolerie così complicate a cui gli stranieri non erano capaci di rinunciare, non accontentandosi della bellezza della spiaggia e del sole africano. E intanto ammirava quei meravigliosi pavimenti di piastrelle, i carreaux, così facili da pulire, bastavano due colpi di straccio umido. Alla sera tornava dai suoi cinque bambini, a cui la madre badava durante il giorno ed al suo pavimento di terra, su cui dormiva, stanca, le poche ore che la separavano dal giorno successivo. Non voleva far mancare niente ai figli, soprattutto l’istruzione che sapere essere la sola possibilità di affrancamento. Ne parlava certo ogni tanto, con qualcuno dei tubab, quelle persone dalla pelle bianca che aveva conosciuto, e qualcuno cominciò a darle una mano. Così i figli andavano a scuola ogni giorno e portavano a casa quei quadernini così costosi e tutti pieni dalla loro scrittura minuta e attenta. Tutti apprezzavano Anjèl, per le sue capacità e la sua serietà e soprattutto anche per la sua salsa dolce alla cipolla con cui condire il pollo yassa o le sue brochettes di lotte così tenere e gustose ed in effetti cominciava a portare a casa dei bei soldini. Con il suo occhio lungo, ogni volta che una sommetta le cresceva nel portafoglio, comperava un po’ di mattoni, quei grandi mattoni crudi e grigi che facevano a mano in fondo al paese o qualche bacchetta di ferro e li metteva nell’angolo del cortile.
Prese anche un grosso cane per evitare che di notte qualcuno glieli fregasse, mentre lei continuava a spazzare il suo pavimento di terra. Poi, a poco a poco, cominciò a costruirla, la casa, quella casa che sognava da sempre assieme al marito ingrandendo le due camere dal pavimento di terra. Adesso i ragazzi sono cresciuti, tutti bellissimi come lei naturalmente. Il più grande è professore di inglese in Casamance, il secondo sta per diventare ufficiale dell’esercito, il piccolo studia ancora, ma è molto bravo. Una delle due ragazze è all’ultimo anno della scuola da infermiera e l’altra sta frequentando la scuola alberghiera e già aiuta la mamma, nei tanti compiti fiduciari che ha ormai assunto per i tubab italiani. Ogni volta che arriva qualcuno dall’Italia, una sera, si va tutti a casa di Anjel a fare festa, si suonano musiche africane e si balla e anche la vecchia madre di Anjèl si scatena. Con preveggenza, però, nella grande e bella casa circondata dal recinto coperto di buganvillee colorate col cancello di ferro battuto, ha lasciato sul tetto le bacchette di ferro che spuntano, così da poterla rialzare senza problemi, man mano che la famiglia si allarga. Già una camera in più se l’è fatta il professore. E’ felice adesso Anjèl e la sua serenità te la comunica col un largo sorriso, con la bonomia allegra della sua razza quando ti abbraccia sincera e ti chiama “mon petit Tonton”. Però, se vai a casa sua, la prima cosa che vuole farti vedere, non è il frigorifero o la televisione, ma il pavimento. Tutti quei bei carreaux, grandi, lucidi e perfetti, allineati senza errori che si puliscono in un attimo, basta passare uno straccio.
La storia di Pourì
Quella di Pourì è una storia più dura, anzi si fa anche un po’ fatica a raccontarla, anche se in fondo è piuttosto frequente in questa parte del mondo. Certo non è facile capire cosa c’è dietro il sorriso triste di questa ragazza, che parla poco e non ha la stessa esuberanza allegra delle altre venditrici di collanine che popolano la grande spiaggia. La percorre ogni mattina avanti ed indietro, avvicinandosi agli scarsi turisti seduti davanti all’Oceano, con una specie di ritrosia non insistente e inconsueta e davanti ai dinieghi se ne va adagio, affondando i piedi nella sabbia umida quasi con fatica. E non certo a causa del fagottino che porta appeso alla schiena, due occhietti semichiusi di bimba che indovini dalle corte treccioline fermate da pallini colorate, che appoggiano due guanciotte piene sulla sicurezza della schiena materna. Ha sempre gli occhi tristi Pourì. E’ quasi come se portasse un peso, di cui non ci si riesce a liberare mai, una sofferenza subita, resa ancor più dura dal fatto che non se ne può parlare. Pourì è una fulana magra, ma non così alta come lo sono di solito le donne peul, dalla pelle color nocciola chiaro e dal mento appuntito, reso scuro dal tatuaggio consueto presso la sua gente. E’ cresciuta in un villaggio di pastori, in mezzo alla brousse, di quelli con poche capanne che intravedi al di fuori della pista, quasi sempre semideserti, popolati di bambini e qualche vecchio, mentre le donne sono in giro a prendere l’acqua e gli uomini lontani, anche per mesi, con le loro mandrie di bianchi zebù dalle corna immense.
Una infanzia serena, fatta solo di gioco e di aiuto ai lavori femminili, seguendo madre e zie attorno alle capanne quadrate dal tetto di paglia. Un giorno, la madre la prese per mano e disse che l’avrebbe portata a diventare grande, come devono fare tutte le brave ragazze, così avrebbe potuto trovare un bravo marito. Camminarono fino ad un piccolo villaggio vicino sotto il sole pesante dell’estate del sahel, ma Pourì non sentiva la fatica, era abituata a camminare a lungo quando accompagnava la madre al pozzo ed era anche un po’ incuriosita per quanto sarebbe successo. Quando arrivarono alla capanna di frasche, era ormai passato mezzogiorno e la vecchia le fece entrare oltre la tenda. Accadde tutto in fretta. La madre ed un altra donna entrata alle sue spalle la tennero ferma con forza dopo averla stesa a terra e liberata della fascia di stoffa che ormai portava lunga fino ai piedi. La vecchia si mise tra le sue magre gambine tenendo nelle mani una scheggia di vetro con il bordo tagliente come un coltello. Sentì un dolore fortissimo mentre la vecchia la mutilava con cura. C’era sangue dappertutto, ma Pourì non si ricorda quasi nulla di quanto successe poi, quando le venne la febbre alta per l’infezione che per poco non se la portò via. Né del tanto dolore che venne dopo, specialmente quando arrivò sua figlia e alla fatica che fece per farsi strada in quei poveri tessuti induriti e cicatrizzati malamente. Ricorda solo il tradimento delle parole della madre e che, quando le chiese perché, le rispose: “Non vorrai essere una bikaloro, una donna priva di ogni maturità, come dicono i Bambara”; ma all’amica italiana con cui è riuscita a confidarsi, ha promesso, con una piega amara che intristiva ancora di più il suo piccolo viso: “Non lo farò mai alla mia bambina:”
Le fromager
Questo è il tempo in cui noi panciapienisti giriamo di qua e di là alla ricerca di chicche gastronomiche da delibare ghiottamente con la bocca a cul di gallina. Ce lo possiamo permettere e ce la godiamo assai, inventandoci i vari saloni del gusto, terre madri e figlie e cibi sempre più lenti meno che per il portafogli, disposti a pagare cifre insolenti per quella piccola differenza, a volte insignificante che spesso divide la normalità dall’eccellenza. E’ un mercato anche questo ed è intelligente sfruttarlo, basta che poi non venga fatto passare come la soluzione per l’agricoltura del mondo. Dove la gente ha bisogno di mangiare, deve prima di tutto essere messa in condizioni di produrne, non con le chiacchiere ma con della sana agrotecnica. Però anche in posti lontani come l’Africa c’è spazio per le nicchie di questo tipo, basterebbe poi poterci arrivare alle vetrine come quella torinese, non soltanto per épater les bourgeois con colori del terzo mondo, ma nell’interesse di quei tizi che qualcosa di valido lo producono. Che poi richiamarsi alla tradizione è sempre la cosa che premia in questi casi. Ma, dopo questo lungo pippozzo, veniamo a noi. Nell’Africa Occidentale Francese ed in Senegal in particolare, i colonialisti francesi fin dall’ 800, avevano impiantato tradizioni transalpine di un certo spessore. Infatti non potendo rinunciare, e come non capirli, alle delizie casearie di casa propria, avevano trovato il modo di utilizzare il latte locale per produrre ottimi formaggi che venivano affinati e conservati in scatole di legno di un albero locale detto arbre fromager.
La cosa è andata avanti nel tempo e recentemente dalle parti di Mbour, un francese incaponitosi di una statua d’ebano locale mozzafiato, per starle vicino e controllarla meglio, aveva impiantato una piccola produzione di formaggio che ormai si può definire di tradizione franco-senegalese, tanto per sbarcare il lunario. Ma si sa che le belle cose finiscono e con gli anni la bellezza un po’ sfiorisce. Anche l’infatuazione non durò a lungo. Il tizio dunque se ne tornò a casa, ma lasciò sul posto le poche attrezzature di cui si serviva al ragazzo che gli dava una mano, lasciandogli anche qualcosa di più, i saperi (parola molto di moda nel campo) e le conoscenze di quel lavoro. Così il nostro Maniang, giovane di buona volontà, diventò le fromager de Mbour. Comprava un po’ di latte per volta dai pastori peul delle campagne vicine e col suo piccolo frigo, produceva i suoi tondini di chevres e dei gustosi brebis, che affinava nelle sue brave poste di legno e portava poi ai tanti toubab che ormai vivono da quelle parti e che sentono la nostalgia di Europa. Ragazzi, vi assicuro, una vera delizia. Caprini freschissimi, con quel loro gustino acidulo che riempie la bocca; affondi il coltello nella morbida pasta che un po’ si sbriciola, su una baguette fresca (anche questo hanno lasciato i francesi) e ti scrocchia subito un bocca al primo morso effondendo sapore, più mordente nelle varianti al pepe o all’aglio, più suadente se avvolto nel prezzemolo o ancor meglio nella sua splendida e virginale purezza dei piccoli tondini bianchi.
Oppure i piccoli panetti rettangolari di brebis, così burrosi e grassi, sapidi ma perfettamente armonici nella loro completezza. Vi assicuro una delizia. Se capitate in vacanza a Saly, dategli un colpo di telefono a Maniang, allo 00221 77 49 385 13, che lui arriva con la sua bicicletta cigolante e la sportina frigo piena di delizie. Ma c’è un problema. Il nostro Maniang (ha iniziato anche un piccolo sito internet, magari gli potete scrivere una mail a fromagedemaniang@gmail.com ), che ce la mette davvero tutta ed è pieno di idee e di voglia di fare nel suo microlaboratorio (che vi assicuro, per averlo visto di persona, è più a posto di molte malghe di montagna delle nostre parti), con quello che ricava, riesce appena a mantenere la solita numerosa famiglia, mentre avrebbe una richiesta ben maggiore di prodotto da tutti i vari villaggi di turisti e alberghi della vicina costa, anche se tendono a pagare con un certo comodo. Lui, anche correndo tutto il giorno come un matto in bicicletta, consegna a domicilio porta a porta compresa, non può incrementare la produzione. Certo i pastori glielo darebbero anche il latte a credito, ma gli serve un frigo industriale vero, non il frighetto che ha adesso e che sembra quello che avevo sul camper. Un frigo vero costa 400 euro, dice con l’occhio triste, e io non li avrò mai, eppure il business è così facile se hai voglia di lavorare e sai cosa fare. E se ne va con la schiena un po’ ingobbita e i pedali della bicicletta che cigolano, con la sportina frigo attaccata al manubrio, altro che Salone del Gusto! Magari si potrebbe fare qualcosa.
Un po’ di cucina
Mi accorgo, che parlando di Senegal, ho trascurato un aspetto che in questo spazio avrebbe dovuto avere una attenzione particolare e provvedo oggi, promettendo che poi chiuderemo il capitolo (ma non sarà che trovo continuamente scuse per ritornarci anche se ho visto scarso interesse da parte vostra? Quando qualcosa ti colpisce, non riesci a togliertelo dalla testa con facilità). Dunque che si mangia da quelle parti? Premettiamo che in tutta la zona costiera è il pesce a farla da padrone, possiamo dire che il connubio franco- africano si è ben sposato da queste parti, dando una proposta non troppo esotica e quindi gradita anche a palati tradizionalisti poco inclini alla sperimentazione, pur conservando note ingentilite di questo continente. Gli altri ingredienti fondamentali sono il riso, i fagioli, gli ortaggi locali, cipolle, patate, batate, insalate, aglio e così via, tutta roba ben conosciuta che non dà luogo a grosse sorprese. Trascurando intanto il montone, grigliato e in umido del tabaski, vi concentrerete su tutte le orte di pesci che vi verranno proposti, orate, cernie, Sanpietro, barracuda, lotte, gamberoni e chi più ne ha più ne metta, tutta roba nobile, debitamente agliata, servita alla griglia, fritta, in deliziose brochette e in particolare col riso tipo pilaf che è il metodo tradizionale.
Su tutto la deliziosa e abbondante salsa yassa di accompagnamento, costituita da cipolla lungamente brasata, che ben si sposa anche con il pollo (il pollo yassa sarà uno dei piatti più comuni che troverete in ristoranti di ogni categoria fino alle più infime bancarelle del mercato). Il condimento delizioso che accompagna invece tutte le verdure e insalate fredde (non fatevi mancare gamberi e pompelmo) è una salsina a base di cipolla dolce finemente sminuzzata con olio, sale, pepe e senape a cui qualcuno aggiunge qualche goccia di lime. Non mancano gli altri residui di cultura gallica come le onnipresenti baguettes e le crepes, magari con salsa di mango (attenzione che sono alquanto lassative). Torniamo tuttavia al piatto nazionale la Tiboudienne o Tiebou Dieune, il famoso riso e pesce. Fatto a pezzi un bel pesce tipo cernia o similare, lo si fa friggere rapidamente, poi, nello stesso olio, si prepara una salsa con cavolo, abbondante cipolla, prezzemolo aglio, pepe in grani, sale e concentrato di pomodoro allungando con acqua. Una parte di questo impasto deve essere anche precedentemente inserita all’interno dei pezzi di pesce.
Aggiungere poi fagioli bolliti, pezzi di melanzane e peperoni dolci e piccanti, verdi e rossi (pochi), qualche pezzo di pesce secco, passata di pomodoro e un dado da brodo. Sarebbero necessarie anche cose locali come il gombo (una specie di zucchina) e il bissap bianco, ma potrete farne a meno anche se mancherà il tocco esotico. Togliere il pesce secco e mettere la salsa nel riso bollito abbondante a metà cottura e continuare per un quarto d’ora. Servire mescolando i pezzi di pesce e qualche verdura intera (i peperoni) per decorazione. Per quanto riguarda le bevande, oltre alle birre locali ottime e leggere come la Gazelle, non vi perderete il Bissap, un infuso dolce e spesso (meglio allungarlo con un po’ d’acqua) molto simile al Karkadé, fatto con fiori rossi carnosi simili all’ibisco. Dalla pasta dei frutti del baobab si ottiene il pain des seinges con cui si ricava il jus de bouye, una sorta di latte di mandorla con potenti effetti di blocco per quando avrete problemi intestinali (è detto anche l’Imodium du Senegal). E con questo chiudiamo il mese di novembre quasi interamente dedicato a questa terra coinvolgente.
Altre istruzioni per l’uso
Veniamo dunque, come promesso, a qualche consiglio per tutti quelli che sono interessati a dare un’occhiata a questo paese. Sfatando il mito che l’Africa sia particolarmente difficile per i viaggiatori fai da te, il Senegal, che potremmo considerare un po’ come la porta per l’Africa nera, consente il viaggio dei singoli con una certa facilità ed anche a costi contenuti.
1. Periodo. Direi di evitare i periodi climaticamente peggiori che creerebbero anche problemi di logistica a causa delle piogge e concentrarsi nel periodo tra novembre e marzo. Tenete conto che avrete sempre la sensazione di essere circondati da zanzare o altri insetti di ogni tipo, dunque abbondate con Autan et similia senza farvi troppe paranoie. I luoghi indicati dispongono sempre di ottime zanzariere per la notte e alle finestre.
2. Aree da vedere. Per un periodo limitato alle due settimane, consiglierei di rimanere sulla costa nel tratto tra confine mauritano e Gambia, dove tra l’altro si assommano la maggior parte degli interessi. Per un soggiorno più lungo si può prendere in esame l’attraversamento della Gambia (informandosi prima di partire sulla necessità di visto, ora non richiesto agli italiani e la vaccinazione per la febbre gialla, a volte richiesta al rientro in Senegal) giro della Casamance (che ora sembra avere concluso le sue turbolenze separatiste) e della parte est del paese, in particolare il parco Niokolo-Koba e i villaggi Bassari sulle colline orientali.
3. Il viaggio può anche assumere la forma di vacanza marina (senza aspettarsi Caraibi). Ma i punti di interesse rimangono comunque:
a) i parchi acquatici dei migratori, in particolare quello di Djudj e il Siné-Saloum, ricchissimi di uccelli di ogni specie; la riserva di Bandia, benché artificiale, con la sua ricchezza di erbivori di ogni tipo, darà un’ottima idea del wilderness africano.
b) le memorie storiche legate al colonialismo ed alla vicenda della schiavitù, con l’Ile de Gorée a Dakar e la città di Saint Louis, antica capitale dell’Africa Occidentale Francese.
c) il paesaggio africano della brousse, costellato di baobab, con le sue piste che a poco a poco conducono ai sentori predesertici del Sahel.
d) ma la cosa più interessante sarà sicuramente l’incontro ed il contatto con la gente, sia quella in apparenza più invadente della costa, dalla cui esuberanza non dovrete sentirvi infastiditi, che dagli incontri che non dovrete farvi mancare girando nelle campagne e fermandovi nei villaggi di poche capanne, dove portando qualche piccolo dono (thé, zucchero, farina) potrete venire a contatto con uno stile di vita reale e di particolare interesse. Potrete conoscere le diverse etnie presenti nel paese ed apprezzarne l’attuale mancanza di attrito, così come appare anche la convivenza tra mussulmani e cattolici.
e) la città di Dakar invece è particolarmente priva di interesse, se non per poter apprezzare la confusione, l’affollamento, la povertà delle periferie ed il traffico impossibile, specchio delle varie megalopoli africane.
f) Tenete conto che essendo un paese civile, in Senegal, troverete quasi ovunque il wifi, veloce e gratuito.
Per i dettagli pratici, il volo si trova facilmente su internet tra i 500 ed i 600 euro. Per la tappa a Saint Louis, per chi ama la spiaggia va molto bene l’Hotel Mermoz con ogni comfort (camera attorno ai 60 euro) sulla Langue de Barbarie o per chi preferisce stare in centro città, l’Hotel de la poste, sulla piazzetta dopo il ponte. Da qui per chi vuole c’è la possibilità di una crociera di 7 giorni sul fiume Senegal su un battello Bou el mogdad, alla Agatha Christie, sollazzo di altri tempi. Partendo da questa piazza, farsi un paio d’ore in calesse in giro per l’isola ve la farà apprezzare con calma (5 euro a testa). Da non perdere la parte dei pescatori con le centinaia di barche sulla riva del fiume sempre che riusciate a resistere alla puzza dei pesci messi ad essiccare. Occhio, come da ogni parte, ai borseggiatori, ma ve lo ripeteranno tutti fino alla nausea. Dell’Ile de Gorée abbiamo già detto; dedicatele un paio d’ore se avete fretta; tenendo conto che un traghetto parte alle 11 e torna alle 14, questa è la soluzione più comoda. Il lago rosa, punto di arrivo della Paris-Dakar sarà un po’ deludente, ma il viaggio per arrivarci, nel paesaggio saheliano sarà comunque interessante. Per il Desert de Lampoul, dune sulla costa, occorre una 4×4. A sud di Dakar bella spiaggia a Popenguine, ricordandovi di far coincidere il tramonto con l’attraversamento nella vicina foresta dei baobab. L’isola di Fadiout vi affascinerà, con i suoi granai in mezzo all’acqua ed il cimitero comune mussulmano e cattolico, con la sua mescolanza di chiese e moschee. Mbour, autentica città africana, in cui usufruire del suo spettacolare mercato, sia quello del pesce che tutto il resto (guida obbligatoria, 5000 Cfa, che vi libererà anche da ogni altro disturbo) che vi darà un saggio vero di vita africana, se non vi disturba troppo la folla. Non fatevi mancare la visita di qualche scuola dove vi accoglieranno volentieri.
Come punto di appoggio da cui girare nell’area di cui abbiamo detto, suggerisco senz’altro nella zona di Saly, la residence Les Amazones, sufficientemente fuori dalla zona turistica, dove potrete affittare a settimane o più, appartamenti da 2 a più posto a prezzi molto convenienti. Potete prenotare direttamente da Giacomo in Italia 0339 3385074035, o da Marie 00221 774311763 in Senegal, che potrà a cifre infime accudirvi e nutrirvi amorosamente (cucina franco senegalese tutto pesce e non solo). Qui potrete anche convocare il cambista direttamente a casa, per evitare qualunque rischio di strada (1 Euro= 650 Cfa). Per i trasporti potrete usufruire di Moussà Kamarà Senegal Taxi et Tourisme, 00221.776422228, che potrà anche venirvi a prendere all’aeroporto (50.000 Gfa, il pulmino fino a Saly). Le tariffe variano a seconda del mezzo (4×4, auto, pulmino) e dei km da fare, da 30.000 Cfa per la mezza giornata ai 60.000 Cfa tutto il giorno. I prezzi dei trasporti sono abbastanza elevati considerato che la benzina costa come in Italia. Affidabilissimo, prudente (cosa inusuale da quelle parti) puntuale e ottima guida, vi saprà tutelare in ogni luogo preoccupandosi anche di assoldare le varie guide obbligatorie, cosa che vi libererà dell’assalto al turista. La prudenza e le varie cautele sono sempre d’obbligo, come in ogni parte del mondo ma non fatevi assillare dalla paranoia, meno cose avrete con voi, comunque meno ve ne potranno essere rubate.