La coda della volpe

A caccia dell'aurora boreale in Lapponia
Scritto da: Kingsize
la coda della volpe
Partenza il: 15/03/2014
Ritorno il: 23/03/2014
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
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Sullo sfondo, a segnare il confine delle piste di decollo, una foresta compatta di magre betulle che, infreddolite, si stringono l’una all’altra, pallide per la pioggerella prevista per oggi – la stessa che mi ha accolto una settimana fa e che ingrigia tutta la vista dai finestroni dell’aeroporto. Dietro di me, orientali cinzuttano con gusto – la Finlandia dev’essere amatissima in Asia: nel breve tratto tra il duty free e la porta del mio volo ho incrociato tre gruppi di giapponesi. La noia dell’attesa è alleviata dallo spettacolo delle preparazioni per il volo: container trapezoidali vengono fatti scivolare da un trenino di carrelli e caricati nel ventre dei nostri sigari volanti da automezzi specializzati. Tutto avviene con una semplicità e una precisione degne d’una città di Lego. E di Lego sono anche gli addetti, rotondi birilli che durante l’operazione non accennano a un movimento di troppo. Che io mi trovi qui è incontrovertibile segno che questa scampagnata sta per concludersi. Mi separano dalla Lapponia giusto poche ore passate nella civiltà, ma se non ci fossero le foto crederei che questo viaggio non sia mai avvenuto. Troppo strano. Troppo lontano. E sono riconoscente all’universo che, nonostante i miei molti anni e i miei molti viaggi, ci sia stato tempo per questo, per un salto nel mito, per la comparsa in una favola, per un saluto a Babbo Natale. Per quanto pochi siano i giorni, una settimana in Lapponia è un’esperienza a tutto tondo, in cui attività, natura e cultura locale introducono il visitatore in una realtà remota simile in nulla a quel che abbia già visto.

Se pur le lancette hanno segnato una settimana, il viaggio era iniziato molto prima, con la lettura di articoli sulle tempeste solari, i loro cicli e il picco che hanno registrato nell’inverno del 2012-13. Una buona occasione, questa, per andare a vedere l’aurora boreale, il più piacevole e fotogenico degli effetti delle esplosioni che avvengono sulla superficie della nostra stella. In internet i fotografi professionisti hanno fatto a gara per offrire il frutto della loro esperienza e, nel marasma delle contrastanti indicazioni, alcuni punti ricorrenti mi hanno offerto la base per orientarmi in questo mio primo, ma spero non ultimo, tentativo. All’intimo termico, calze, berretto e guanti avevo aggiunto al mio carrello, con totale scetticismo, i cuscinetti scaldamano che qualcuno aveva segnalato e che invece hanno letteralmente salvato l’impresa. Da una corsia, un seggiolino pieghevole m’aveva adocchiato ricordandomi, come avevo letto, che passare intere nottate in piedi nella neve, aspettando che il cielo s’illumini, non sia particolarmente piacevole. L’ho ignorato, e ho fatto bene: le cose sono andate diversamente.

Le luci dell’aeroporto di Ivalo nel mezzo di questo niente sembrano un miracolo. Una breve corsa attraverso il paesaggio innevato e, dopo cena, la prima d’una serie di escursioni serali alla ricerca dell’aurora. Occorre uscire dall’abitato e dal suo inquinamento luminoso per trovare un cielo perfettamente uniforme, del colore blu scuro che usa qui – diverso dal nero distante che vediamo alle nostre latitudini. Le stelle ci son tutte, ma delle luci del nord nemmeno l’ombra. Insaccati nello speciale abbigliamento termico, stivali antigelo e casco, potremmo essere un gruppo di palombari decisi a portare a galla un galeone, o un manipolo di astronauti in partenza per Asterion. O, visto il paesaggio scarno, su Asterion appena sbarcati. Le previsioni davano buone probabilità di avvistamenti – ma l’aurora boreale avviene a circa 100 km di altezza e, trigonometricamente parlando, ha un raggio di visione limitato: stasera avrà deciso di fare il suo spettacolo da un’altra parte. Qualcosa sappiamo di lei, ma tanto resta ancora misterioso. Sappiamo quando: i mesi più geomagneticamente attivi sono marzo e ottobre: è un mistero, ma è certo che l’aurora preferisce gli equinozi. Sappiamo cosa sia: energia luminosa emessa dallo scontro tra le particelle che le esplosioni solari ci sparano contro e gli atomi di ossigeno e di azoto presenti nella nostra atmosfera. La forma del campo magnetico della Terra devia la traiettoria delle particelle solari verso i poli, col risultato che l’aurora è visibile solo dalla fascia di territori compresa approssimativamente tra i 60 e i 65 gradi di latitudine, sia nord che sud. Maggiore è l’attività solare, maggiore è l’ampiezza della corona circolare di visibilità attorno ai poli, e più a sud (o a nord, nell’emisfero australe) l’aurora può essere vista. Si racconta che nel ’700 alcune navi al largo nello Stretto videro il cielo rosseggiare e si affrettarono a riva, pensando che Singapore stesse bruciando – una leggenda senz’altro, visto che Singapore è vicinissima all’equatore, ma che rivela quanto questo fenomeno accenda la fantasia.

Il cielo immoto della prima notte non mina il morale: ci siamo dati una settimana, ogni sera cavalletto e telecomando saranno pronti per la foto del secolo da mostrare ai nipotini. Ma le giornate qui sono altrettanto attive e gli italiani, sorprendentemente numerosi, partecipano con gusto. Non che non conosciamo la neve, ma per noi è associata alle montagne, non alle distese piatte della Finlandia. Il lago ghiacciato riluce al sole e i riflessi della neve vergine corrono accanto alla mia slitta, trainata da una muta di cinque huskies dagli occhi color acquamarina. I cristalli sembrano precedermi, affiancarmi, superarmi, e nel bianco Swarovski del paesaggio li distinguo color d’argento, verde smeraldo e rosa bacio: corrono e cadono come le tessere d’un domino. E i cani! Con quanta foga aspettano che il gruppo dei turisti si avvicini per la corsa! In quel momento si leva al cielo il grido: “Io! Io! Prendi me!” di tutti gli huskies del canile, ma non tutti vengono scelti. Son bestie che conoscono una sola marcia: avanti a tutta!, e si può solo rallentarli aumentando l’attrito premendo collo scarpone il freno sul ghiaccio. Occorre avere le mani ben salde sul manubrio della slitta, che nelle curve rischia di andare fuori pista tanta è la foga. A differenza di quelli islandesi, questi huskies sono amichevoli e, una volta terminata la corsa, non è pericoloso accarezzarli. Nella muta c’è una gerarchia precisa, il cui rispetto viene assicurato con inequivocabili avvertimenti diretti ai trasgressori. Il capo non scherza, e il responsabile del canile, un giovinotto dalla lunga esperienza che deve sentire per questi animali un’affinità elettiva, ricambiato, nella considerazione canina, dal riconoscimento del suo ruolo di duce supremo, è pronto a separare eventuali risse in corsa e a punire duramente eventuali insubordinazioni una volta rientrati nei recinti. Gli animalisti certo obietterebbero alle maniere forti che a volte occorrono, ma questa è la legge della natura, che non è solo gigli bianchi e teneri miagolii, ma anche zanne acuminate e duelli all’ultimo sangue. Gli huskies corrono fino ai 10-11 anni e, sebbene ci siano eccezioni, sono animali gregari, che soffrirebbero in isolamento. Tanto che hanno un rituale sociale per momenti particolari della mattina e della sera: il coro. Non è un ululato, e la parola “canto” non è fuori luogo: se si può immaginare un cane cantare, ebbene, gli huskies “cantano”, ed è un’espressione collettiva così spontanea e partecipata che l’umano avverte chiaramente di trovarsi davanti a qualcosa che è più della somma delle parti. Anche senza parole il messaggio è chiaro: la creatura canta come può all’universo che l’ha generata e ai propri simili, coi quali condivide habitat, condizione e comunità.

E torna il buio. Stanotte a caccia di aurore andiamo con le motoslitte. Contro il chiarore dei fari, bardati come siamo, un passante inconsapevole potrebbe pensare di trovarsi sul set di un film di fantascienza degli anni ’50. Il cielo è sgombro, ma anche stasera le luci hanno scelto un altro palcoscenico per la loro esibizione e non resta che familiarizzare con gli altri cacciatori di luci, una platea veramente internazionale di fotografi, di curiosi, di sposini in viaggio di nozze e di pensionati abbienti abituati a scorrazzare per il mondo.

Altro giorno, altra escursione: una passeggiata con le racchette da neve. Già, perché camminare sulla neve con ai piedi soltanto gli scarponi può essere pericoloso, oltre che assai faticoso, dato che la spianata del paesaggio è solo apparente: col prossimo passo nella neve il piede potrebbe affondare fino a mezza gamba, e col successivo all’anca e, una volta caduti, cercare un punto d’appoggio colle mani neppure serve: è come trovarsi in mare dove non si tocca, e senza saper nuotare. E’ stato il vento a soffiare la neve fino a livellare il territorio in morbide dune candide: come sia il terreno sotto, non si sa. Seguiamo la guida: la foresta è rada, i pini stessi assomigliano a vecchi che hanno avuto una vita difficile: rami mancanti, molti un po’ spelacchiati, tutti assembrati in ordine sparso come una folla del Terzo Stato che chiedesse migliori condizioni di vita. Sotto il celeste del cielo tersissimo, sulla neve vergine rimangono leggère le impronte del gironzolare notturno di lepri, cani, renne, forse volpi. Nella vasta pianura deserta, illuminata dalla luna, la loro sensazione di padronanza del territorio dev’essere assoluta, come anche l’impressione di libertà che debbono provare nel loro volubile percorso. Noi, invece, andiamo dritti perché anche una salita modesta risulta disagevole con le ciaspole ai piedi. Vicino al tipì dell’agenzia, il pranzo era già stato recapitato da una motoslitta: dal contenitore escono pane in cassetta, sottilette, würstel, ketchup, senape, succo di mirtilli, acqua, caffè e tè. Un coltello affilato lama i ciocchi lasciando i riccioli attaccati e la nostra guida s’esibisce, con una punta d’orgoglio, in una sua prodezza: accende il fiammifero con una mano sola, tenendolo tra pollice e indice. I ricci di legno stagionato prendono subito fuoco, e il nettare bollente, a questo punto, più che un piacere è una necessità. Al giro del succo fa seguito quello dei panini e del caffè: sorprendentemente, i finlandesi sono in testa, e di gran lunga, nella lista del consumo di caffè – ne bevono più del doppio di noi italiani.

La sera, affrettandomi per la cena, sono fulminato da un’apparizione: sopra la cima dei pini che definiscono l’orizzonte, una luna enorme, color rosso sangue, si leva lentamente come lentamente si alza un assassino dal cadavere della vittima. E’ grande, gonfia come un pallone e mi pietrifica come lo sguardo della Medusa. Più tardi la trovo vagare nel cielo, pallida come se nulla fosse stato e tornata alle dimensioni abituali. Altri pure ci hanno fatto caso, tanto che in un museo ho letto che è solamente un’impressione, e che l’evidenza fotografica prova che la dimensione del nostro satellite non cambia. Io invece giurerei che c’è scappato il morto. Questa sera, il cielo serba un’altra sorpresa. Nel rifugio dove, acceso il fuoco, stiamo aspettando, il telefonino della nostra guida ci avvisa che là fuori lo spettacolo è iniziato. Con un salto siamo tutti fuori, sulla sponda del lago gelato. Monto il cavalletto sulle doghe del molo e seguo i movimenti nel cielo. Dev’essere Dio che, al telefono, un po’ annoiato dalla conversazione, ha preso a scarabocchiare: una linea qui, che si allunga, che si sbaffa, che s’attorciglia, mentre un’altra gemella le si pone affianco, e una terza. Raccomandavano obiettivi grandangolari, i professionisti, e ora capisco perché. Le luci possono interessare porzioni diverse del cielo, con diverse intensità e durate. Scatto un fotogramma appresso all’altro. Chi non sta dietro ad un cavalletto è rimasto impalato cogli occhi fissi al cielo, come ipnotizzato. Nel grande bloc notes del cielo i ghirigori si susseguono, lenti, ma rapidamente cambiando forma e luminosità. Gli scatti impacciati della mia fotocamera si perdono nel silenzio religioso, perfetto, nel quale siamo immersi. E’ un’attività vagamente blasfema, come quotare un dipinto di Van Gogh a centimetro quadrato di superficie: non è la dimensione, è l’ispirazione. E’ come analizzare lo spettro delle frequenze del canto d’un usignolo o esaminare le parole della Commedia di Dante: non è la vibrazione, è il gorgheggio; non è l’espressione, è la visione. Ed è anche un’attività vagamente inutile, come la spiegazione del trucco d’un mago. E’ un fenomeno chimico che si legge in incanto tanto quanto un movimento di muscoli si legge in sorriso. Presto lo spettacolo termina, restano giusto pallidi chiarori, ma la soddisfazione è grande: dopotutto non siamo arrivati sin qui per nulla. Silenzio, dicevo. Sì e no. Di giorno, nel biancore della neve, il silenzio è una presenza quasi tangibile. Di notte, il silenzio è addirittura penetrante. Ma ogni tanto sembra di avvertire un brontolìo, un boato sordo, soffocato, uno sparo ad una frequenza non udibile. Sì, non è un’impressione: sono i tronchi che si spaccano, sono le lastre di ghiaccio del lago che cercano un nuovo equilibrio. Minime ma enormi variazioni. Ci son poche cose a misura d’uomo, qui.

E, per quanto improbabile possa sembrare, l’uomo ha sfidato le condizioni così ostili di queste terre, riuscendo a sopravvivere alla neve che s’insedia a settembre per sparire solo a maggio e traendo il massimo dai pochi animali presenti. Le renne, in particolare, sono così utili che non ce n’è una che non abbia padrone. Vivono in libertà per buona parte dell’anno: nella foresta trovano più di duecento erbe di cui nutrirsi – una varietà di cui, se fossero allevate in recinti, non potrebbero beneficiare. Per tutto l’anno le corna crescono, rivestite di un velluto che, arrivato l’autunno, stagione degli accoppiamenti, s’inaridisce e cade, lasciando i palchi dei maschi (così si chiamano, posto che non sono propriamente corna) ossificati e pronti per i duelli con gli altri aspiranti all’accoppiamento. L’obiettivo, che troverebbe approvazione presso molti umani, è di creare un harem d’una dozzina e più femmine. Animali pacifici e semiaddomesticati, è bene evitarli in quel paio di mesi – anche in questo mostrando che, bipedi o quadrupedi, i maschi sono tutti uguali. Ma… a cosa possono servire le corna, più piccole ma che crescono anche al gentil sesso? A una suadente ma convincente spinta alle terga del compagno quando, dopo aver scavato la neve e trovato il lichene, che le renne trovano delizioso, il cavaliere dimentica che le signore hanno sempre la precedenza ed è ora di ricambiare il favore lasciando a lei il boccone del prete. Finita la luna di miele, un periodo fuori di testa non soltanto per gli ormoni a mille ma anche per i funghi settembrini di cui le renne hanno fatto scorpacciate, le corna cadono e la storia ricomincia, magari cambiando nome: čearpmat è una renna al suo primo inverno, vuonjal al secondo, áldu al terzo… I cowboy Sámi, che hanno lasciato i loro animali liberi tutta l’estate, a fine ottobre le radunano: un lavoro che può durare fino a Natale e che si fa più difficile via via che i giorni si accorciano. Gli animali sono tutti marchiati, ma non bisogna mai chiedere quanti capi formino la mandria: sarebbe come da noi chiedere la consistenza del conto in banca. I capi migliori andranno ai pascoli invernali, gli altri non sfigureranno sulle nostre tavole: la loro carne è ottima. E il resto pure è utile: oggetti, corde, otri, vestiario… non c’è parte della renna di cui i Sámi non sappiano far uso. Noi ci accontentiamo di ripararci sotto una morbida pelle, e via per una placida escursione su una slitta come quella volante di Babbo Natale.

Santa Claus, si sa, vive in Lapponia, ma non tutti sanno che si è recentemente trasferito a Kakslauttanen. Ha costruito lì casa e laboratorio perché nel fiume di quel paesino si trova l’oro. Son tutti paesini, qui, grandi che se trovi un supermercato come quello del tuo rione ti pare già esagerato. E le pepite ci sono davvero, tanto che ci sono state due corse all’oro: nel 1868 e nel 1945. Ora l’estrazione, se qualcosa è rimasto, avviene con procedure meccaniche e il piacere della scoperta della pagliuzza lucente nel setaccio è prerogativa dei turisti. E’ una delle attività che il selvaggio Nord finlandese offre assieme a sci, snowkiting, trekking, mountain bike, canottaggio e pesca, oltre alla soddisfazione di poter contare solo sulla propria inventiva, determinazione e capacità di adattamento. L’aria pura di qui soffia una ventata di pulizia anche tra i pensieri, lontani da intrighi, manipolazioni, politica e violenza ed ebbri invece di solitudine. La condizione per accettare l’invito di questa natura così rigida è rispettare gli obblighi della posizione dell’uomo nell’ordine naturale, che ricambia elevandoci a cieli straordinari: il sole di mezzanotte d’estate e, d’inverno, l’aurora boreale. Alla mia domanda se, dove ci trovavamo, ci fosse un punto privilegiato d’osservazione, m’è stata indicata una collinetta. Quella sera, dopo tre notti di caccia, mi son lasciato vincere dalla stanchezza e dall’incertezza, immaginando di dover aspettare la tarda notte per avere qualche probabilità di vederla, ma l’aurora, ho saputo poi, era giusto dopo cena in piena attività in un cielo senza nubi – condizione da non dare per scontata. La sera dopo, nonostante l’avanzamento di una perturbazione e una corsa infruttuosa di una quarantina di chilometri, mi sono incamminato verso la cima della collina lungo la pista dei toboggan. La luna non era ancora sorta e nel buio ombre silenziose armeggiavano accanto ai loro treppiedi. Ed ecco la coda della volpe, localizzata a Nord-Nord-Ovest: una scia verde sembrava venirmi incontro, variando intensità e velocità, danzando con grazia per darmi il benvenuto. Armare il cavalletto non è agevole, ma togliermi le due paia di guanti che mi riscaldavano le mani avrebbe significato perdere la sensibilità per parecchi minuti, ed era escluso: ogni secondo è prezioso. Le luci d’una casa lontana radicano l’inquadratura, poi includo una sequenza di alberelli per dare proporzione e prospettiva. Per tre quarti d’ora registro tutti i movimenti della cangiante coda della volpe, che i Sámi dicono l’aurora sia. Altre tradizioni offrono diverse interpretazioni, tutte fantasiose: vecchie zitelle al ballo, morti venuti a salutare i parenti o spiriti intenti a giocare a palla con un teschio di foca. Fotografo anche la luna che intanto è uscita a spiarmi e scopro che, dando un tempo sufficientemente lungo, una foto colla luna piena risulta illuminata come dal sole. Colla soddisfazione di un lavoro ben fatto, ritrovo il mio letto, e domani sia quel che sia. Il giorno dopo trovo che la perturbazione ha chiuso il cielo d’un grigio compatto, spegnendo tutto. Ma questo è il giorno della battuta di pesca sul lago gelato: indosso la tuta termica, gli stivali e i guanti, e via sulla motoslitta verso il lago. Proviamo con un trapano a perforare i trenta centimetri di ghiaccio per raggiungere l’acqua, e quando la punta del trapano non riesce a raschiare, facciamo un buco coll’ascia – che faticaccia! Anche se riuscissimo a pescarlo, quel pesce non ci restituirebbe le calorie spese per scavare il buco. Nevica, e scopro a cosa servano le croci di Sant’Andrea che marcano i lati delle piste: quando le tracce scompaiono sotto le neve fresca, non c’è altro per orizzontarsi. E se la nevicata si fa più intensa, l’innocuo paesaggio invernale diventa un deserto bianco. Stringo forte il manubrio della motoslitta per evitare – non sempre con successo – di arenarmi contro un alberello. Sotto il casco, mentre mi faccio strada nel turbine bianco, invece di imprecare, penso che questo è uno dei più bei paesaggi dove mi sia mai trovato: non posso fotografarlo ma rimarrà per sempre vivido come una rivelazione.

In una settimana abbiamo visto e fatto di tutto. E questo è l’aeroporto, questa la pioggerella che annebbia la compatta foresta delle magre betulle sullo sfondo delle piste. Fortunatamente, la bellezza di Helsinki, più di un’ora di volo a sud, ha ammortizzato l’impatto colla civiltà. Anche lei troppo strana, troppo lontana dal nostro medioevo e dal nostro barocco, ninfa delle acque dalle raffinate curve déco che infiorano, con infinite volute vegetali, i segreti custoditi dagli impavidi palazzi schierati lungo strade assorte nel loro silenzio. Gli ingressi, costruiti con un peculiare gusto per la pietra rozza, hanno l’aspetto di antri, di portali verso un mondo di leggenda, accessi ad una nordica saga di cui sono nobili custodi i quattro telamoni vichinghi scolpiti ai fianchi della stazione. La spoglia ma maestosa cattedrale luterana, l’esauriente Museo Nazionale camuffato da chiesa dell’età dei draghi e delle donzelle, il sinuoso museo d’arte contemporanea Kiasma, tutti indurrebbero a credere che Helsinki si giochi tutto sull’architettura, ma l’atmosfera urbana della piacevole sauna pubblica completa di piscina, i bar affollati di giovani alla moda che cicalecciano degli argomenti del giorno e quell’aria compresa ma scanzonata che si respira per le strade spostano l’accento sul tratto dei finlandesi, composto ma divertito. Nell’orbita di nessun centro di potere, alla periferia degli imperi economici, Helsinki si bea della serena libertà di aprirsi al moderno, forte delle sue radici, di avere migliaia di alberi e di laghi alle proprie dipendenze e, dal suo cantuccio, attenta a scegliere per sé il meglio, Cenerentola non più. E – muoia la falsa modestia – all’Ateneum Art Museum una completa panoramica di Tove Jansson celebra i 100 anni della creatrice dei Moomin: ci poteva essere un finale più finlandese di così?

Tu, Luna romana, salita stasera anzitempo nel cielo a sorprendermi, bianca d’innocenza, ancora ti manca il coraggio di guardarmi in faccia. Distogli gli occhi e la tua bocca aperta soffoca un grido: conosco il tuo segreto e ancora vedo il tuo enorme volto paonazzo che esce tra i pini vicino agli huskies, allontanandosi quatto come nulla fosse successo. Io so, ma non parlerò. Erano astronauti? O asteroidi? E fu insostenibile, tormentosa gravità, fatale magnetismo o mortali venti lunari? Ma tacerò se mi riaccompagni alla stellata sulla volta color oltremare di Ivalo, se avverti le tue amiche volpi del mio arrivo, che vengano, dopo il tuo ennesimo misfatto, a spazzare colla loro coda il cielo dei tuoi delitti, davanti a me, davanti a me.

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