India on my mind

INDIA ON MY MIND http://travel.webshots.com/album/562614866JUfvKi è il link per vedere alcune foto. Non sono molte, perché non sono state scattate con una digitale, scannerizzare è un lavoro lungo… “Esistono cento porte per entrare in India, ma nemmeno una per uscirne” Queste sono le riflessioni a seguito del primo dei miei due viaggi...
Scritto da: kipling
india on my mind
Partenza il: 28/07/2007
Ritorno il: 24/08/2007
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
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INDIA ON MY MIND http://travel.Webshots.Com/album/562614866JUfvKi è il link per vedere alcune foto. Non sono molte, perché non sono state scattate con una digitale, scannerizzare è un lavoro lungo… “Esistono cento porte per entrare in India, ma nemmeno una per uscirne” Queste sono le riflessioni a seguito del primo dei miei due viaggi in India, ad agosto e dicembre 2007.

AGOSTO 2007 Jammu e Kashmir, Himachal Pradesh, Punjab, Agra CONSIDERAZIONI GENERALI Tirando le somme, lo definirei un’avventura epica. E’ vero che si vedono cose tremende, estrema povertà, malattie, sporcizia, soprattutto chi, come me, non ha l’abitudine di filtrare la realtà attraverso i vetri azzurrati di un pulmann di lusso. Però è come se tutto questo, dopo un po’, ti scivolasse addosso, lasciando solo gli aspetti positivi.

Erano anni ed anni che mi preparavo psicologicamente a questo evento, pensando di non essere ancora pronta. La ex fidanzata di mio fratello, che nel subcontinente aveva vagato per 6 mesi agli inizi del terzo millennio, mi affascinava coi suoi racconti. A settembre 2006, dopo essere stata in Cambogia a visitare i campi di sterminio, dopo aver incontrato creature con mutilazioni spaventose, e sentito pesare sulle mie spalle tutta la pazzia e la cattiveria del genere umano, ho ritenuto che potevo fare il grande passo.

Come primo impatto, visto il caldo ed il monsone di agosto, ho optato per la zona “soft”, ossia l’estremo nord. “soft” fino ad un certo punto, poiché è vero che il clima è amico, ma vagabondare alle estreme altitudini non è mica uno scherzo. La cosa buffa è che io, con il Monviso a due palmi dal naso sulla terrazza, non vado mai in montagna. Tutto il mio allenamento in genere consiste nello sgambettare nei parchi cittadini, e scivolare su e giù all’infinito nella vasca turchese di una piscina, come un criceto nella sua ruota. Non è che sia del tutto una persona sconsiderata e priva di senso del pericolo, come sostiene mio padre. Per intanto, il mal di montagna non fa distinzione fra super e scarsamente allenati. Inoltre, poiché non fumo ed ho la pressione bassa, più che altro spero nella buona sorte.

Mi sento profondamente convinta nell’affermare che la cosa migliore che ho visto in India siano gli Indiani, con la loro bellezza esteriore, quella interiore, i loro occhi, i loro sorrisi, la loro eleganza. Qui ho realizzato che una donna può essere sexy anche se completamente coperta. Non avevo mai visto signore così femminili e seducenti sino al momento in cui non me ne è apparsa davanti una fasciata in un sari svolazzante. Ovviamente avrei subito voluto comprarne uno, ma effettivamente sono molto complicati da indossare, e soprattutto è problematico andarci in bagno, considerando le toilettes alla turca con dei pavimenti che, se si è molto fortunati, sono soltanto bagnati.. Eccomi quindi decidere per uno shalwar cameez, il più comune indumento femminile nel nord dell’India, mentre nel resto del paese, a quanto mi hanno detto, esso è indossato comunemente dalle ragazze, mentre le donne sposate si avvolgono nei loro coloratissimi sari.

Un aspetto che mi ha sempre deluso, viaggiando, è la mancanza di diversità, l’osservare che ovunque ormai la gente si veste allo stesso modo, beve e mangia le stesse cose. Questo ovviamente non in India. Qui la mia fame di diverso è stata totalmente appagata.

Stavo parlando prima di quanto attraenti appaiano gli indiani, ma questo è nulla in confronto alla loro attitudine verso la vita e gli altri esseri umani. Intendo empatia, compassione, curiosità, humour, spiritualità. Ciò che mi ha sorpreso molto è che la maggior parte di essi non è per niente timida. Piace mostrarsi in foto, e piace fotografare gli stranieri. Questo ovviamente è fantastico, perché il problema di come avvicinare una fotogenicissima persona nel suo fotogenicissimo vestito non esiste, diventa semplicemente uno scambio.

La seconda buonissima ragione per apprezzare l’India è il cibo, gustoso, sano, economico.

Se soltanto si hanno poche rupie in tasca si può star certi che non si soffrirà la fame. Gli autobus lungo i loro tragitti effettuano frequenti pause per permettere ai passeggeri di mangiare nei mercati o nei dhaba, le trattorie “da camionista”, sui treni i venditori sfilano in continuazione lungo i corridoi proponendo qualunque sostanza commestibile uno stomaco possa desiderare. La cosa che più trattiene i turisti è la paura di beccarsi qualche intossicazione dovuta alla scarsità di igiene. Non so se sono stata fortunata, ma posso vantarmi di essere una delle poche persone che è rientrata dall’India più pesante di quando ci fosse arrivata, e forse l’unica che ha dovuto servirsi di un lassativo! Inoltre, è il paradiso per i viaggiatori single come me, perché i prezzi sono davvero irrisori, ma anche perché non ci si sente mai soli. Una specie di enorme ospedale psichiatrico, che ammette chiunque, senza nemmeno un colloquio preliminare, e chiunque cerca amorevolmente di curare. Come nella Divina Commedia, ecco che ci si presentano davanti i differenti gironi, gli irresponsabili, i tossici, i fuggitivi, i disperati, i dispersi, i depressi, i delusi, i disincantati, e via discorrendo… E’ come se Dante avesse ambientato il Purgatorio in India, in una versione più freak e fumata.

L’aspetto positivo: sembra che il tema costante del viaggio sia “che tipo di vita sto cercando?” “è questa la vita che davvero voglio?”. Si incontrano così tanti stranieri alla ricerca di se stessi che, anche se ci si reputa individui in pace col mondo, viene naturale farsi queste domande, ed ovviamente cercare delle risposte.

Viaggiare in India obbliga a pensare.

Ed ora la parte negativa, quello che ho davvero odiato. Le paurose o non esistenti condizioni igieniche in cui molta gente è obbligata a vivere, l’aspetto terribile di alcuni ospedali, la mancanza di acqua potabile. E’ triste vedere in giro così tanti mendicanti affetti da poliomielite, e pensare che sarebbe bastata una puntura per dar loro l’immunità. Non è degno del genere umano, in un paese che spende milioni di dollari in guerre coi paesi confinanti.

Il mio viaggio è durato 4 settimane.

A Malpensa le signore in tiro in coda al check-in verso destinazioni tipo USA e Carabi mi guardano con un’espressione di commiserazione, quasi pensassero “poveretta, se si concia sempre così sarà difficile che trovi un fidanzato che l’accompagni nei viaggi”.

C’è da ammettere che pure i miei concittadini, più che altro montanari il cui più sublime concetto di eleganza consiste nell’indossare pantaloni a quadretti Think Pink, mentre ero ferma in attesa per il bus per Torino mi squadravano incuriositi.

La fidanzata di mio fratello, che non è quella sopra citata, mi ha prestato un sacco a pelo della Ferrino adatto all’alta montagna. Ovviamente ha il suo involucro protettivo, ma poiché già immagino i bagagliai con cui entrerà in contatto, ho pensato bene di avvolgerlo in strati e strati di sacchi neri della spazzatura, per proteggerlo. Questo bozzolo è legato in qualche modo sopra lo zaino, con dello spago, insieme ad una giacca a vento. Questo è il periodo migliore e più caldo per visitare il Ladakh, ma le condizioni atmosferiche alle alte quote possono variare repentinamente, ed è quindi meglio premunirsi!! Tanto per ritornare al concetto dei gironi danteschi, a Helsinki, all’imbarco della coincidenza per Delhi, ne individuo almeno cinque. Ci sono gli alpinisti provetti, con piccozze, corde ed abbigliamento tecnico, quelli tipo me, inesperti, con gli scarponi Quechua del Decathlon che nel trekking non intendono investire più di tanto, i figli dei fiori, vestiti in abbigliamento tipo Woodstock, e che erano giovani ai tempi di Woodstock, altri figli dei fiori abbigliati alla foggia indiana, e poi giovanotti e giovanotte tipo grunge o punkabbestia, senza muta di cani, ovviamente.

DELHI Il volo Finnair Milano-Delhi e ritorno lo pago 640Eu (450Eu più tasse), prenotando a febbraio su internet con un largo anticipo (partenza fissata a fine luglio) L’aeroporto voli nazionali di Delhi è un casino allucinante, e neppure quello internazionale scherza! Mentre aspetto la mia coincidenza per Srinagar (70usd con Spice Jet) agonizzando per 8 ore su una seggiola di plastica già penso “ma dove ca**o sono finita, sarà peggio di Phnom Pehn”, ed è tutto dire… per fortuna mi distraggo ad osservare i braccialetti e i magnifici vestiti indossati dalle donne. Il volo è in ritardo, non ho niente da mangiare e da bere, e praticamente a Srinagar ci atterro che sono uno straccio. SRINAGAR Se avevo pensato che l’aeroporto di Delhi fosse allucinante, non saprei trovare un aggettivo per descrivere quello dove mi trovo a sbarcare, direi “da panico”; non c’è un nastro trasportatore, le borse vengono buttate in gran confusione su un rialzo di cemento e tutti ci si fiondano sopra come cavallette. Chi non è mai stato in India deve imparare a sue spese che là il concetto di spazio personale non esiste. Se anche tu ed un altro indiano foste gli unici esseri umani in un parco di centinaia di ettari con milioni di panchine, puoi star certo che questo viene a posare il suo deretano sulla stessa che hai scelto tu, e per giunta a 2 millimetri di distanza dal tuo. Con questo spero di aver reso l’idea. Ed è per questo, a proposito, che prima andavo pontificando che in India non ci si sente mai soli… Sull’aereo, nuovo ed in perfetto stato (difatti sono molto stupita) incontro due signore olandesi, in viaggio d’affari. Sorprese nel constatare che non ho nulla di prenotato, mi conducono in un posto che conoscono loro. Trascorro quindi tre rilassantissimi giorni su una casa-barca galleggiante sul lago Dal, in mezzo ad aquile, uccelli vari, fiori di loto, un’ambientazione davvero suggestiva. Stare sul lago è una cosa, anche se si è vittima della mafia dei guidatori di shikara (le gondole locali), vivere in città è un’altra, vale lo stesso discorso dell’aeroporto, il traffico è terribile, pericoloso e disordinatissimo, le case della zona vecchia, tutte di legno, marciscono affacciate sui canali. Srinagar è la Venezia dell’India, infatti quando la situazione era un po’ più tranquilla, gli Indiani abbienti ci venivano in viaggio di nozze. Piccolo particolare, ai miei genitori non ho detto che sono in Kashmir, per non farli stare in pensiero. Poiché però non sono il tipo che racconta palle, ho onestamente dichiarato che i primi 3 giorni del mio soggiorno indiano si sarebbero svolti a Srinagar, sicura che essi non si sarebbero presi la briga di indagare più di tanto su dove questa città si trovi.

La casa-barca sui cui mi trovo si chiama Mashal, il prezzo, mezza pensione è di 1400 rupie, una fortuna, ma a Srinagar funziona così, perdere o lasciare.. Infatti, soggiornare in uno degli alberghi affacciati sul Boulevard, ossia la strada incasinatissima e panoramica che costeggia il lago, sarebbe una tortura. I turisti ovviamente preferiscono le house boats, dove i pasti, cucinati dalle padrone di casa, sono immensamente migliori di quelli offerti dai ristoranti, che risultano quindi vuoti. Ma questo ovviamente la prima sera non posso saperlo, per cui eccomi cenare da sola in un’atmosfera deprimente, davanti ad un cameriere arrogante, e a del cibo pessimo.

Le rimanenti cene, sulla house boat, invece, sono perfette, la prima consiste in un pasto tipico del Kashmir, a base di carne di montone; la seconda un thali. Decisamente, meglio quest’ultima, un po’ perché più leggera, un po’ perché anche a casa non mangio molta carne, un po’ perché girando in città sono passata davanti ad una macelleria… Bevanda degna di nota è il thè del Kashmir, a base di zafferano e cardamomo, ottimo per il corpo e anche per la mente, assicura il mio padrone di casa.

Impiego una giornata semplicemente a dormire, per riprendermi dal viaggio intercontinentale, passeggiare in città, prendendo informazioni su come raggiungere Leh, assaggiando specialità locali nei vari chioschetti sul Boulevard, e conversare con i padroni di casa e la loro famiglia. Jammu & Kashmir è soltanto un nome su una cartina geografica e, come spesso accade, tiene unite realtà completamente diverse. Il Kashmir presenta un paesaggio alpino dall’aspetto tipicamente svizzero, in Ladakh pare di essere sulla Luna. Il Kashmir è mussulmano sciita, il Ladakh buddista, il Jammu induista. In Kashmir i vari gruppi etnici hanno caratteri somatici afgani, central-asiatici, curdi, in Ladakh prevalentemente tibetani. Gli uomini hanno visi affascinanti, barbe curate, denti candidi, pelle ambrata e occhi bellissimi, con improbabili sfumature che vanno dal turchese al verde smeraldo al colore del thè. Non posso fissarli più di tanto, mentre ci parlo, perché è un comportamento sconveniente, secondo le usanze locali. Le poche donne che vedo hanno il burqa, o il niqab (il velo nero che lascia scoperti solo gli occhi).

E’ evidente l’avversione e la mal sopportazione verso l’esercito di stanza nella regione, mentre volano frecciatine velenose nei riguardi degli hindù in genere, considerati un popolo di burocrati parassiti e corrotti, chiassosi e nullafacenti. I soldati, effettivamente, sono disseminati ovunque, ogni 10 metri sul Boulevard. Mi fanno una certa impressione, così impettiti e con le mitragliette spianate, ma comunque, a parte scroccare qualche sigaretta, nessuno di essi si cura minimamente dei pochissimi stranieri che girano lì attorno, che invece sono letteralmente assaliti da ogni tipo di venditori.

Per la seconda giornata invece ho in serbo un giro in shikara (1500 rupie) visitando le bellezze di Srinagar: dapprima i giardini botanici, Shalimar Bagh, dove vengo mitragliata dai flash dei gitanti indigeni, e in seguito altri scorci panoramici dei laghi Dal e Nagil, e della città vecchia, come già accennavo un po’ malmessa.

Per arrivare a Leh ci sono due opzioni. Un autobus pubblico, che ci impiega due giorni, sostando a Kargil, e i taxi collettivi che partono alla mattina presto e che di ore ce ne mettono dalle 14 in su, dipende dalle condizioni meteo. Non c’è bisogno di prenotare, basta presentarsi alla stazione a loro dedicata per tempo; partono quando sono pieni. Il costo è 1200 rupie.

Prima di partire, al momento di decidere l’itinerario di massima, mi sono interrogata se fosse meglio raggiungere Leh da Manali, visitando prima l’Himachal Pradesh, oppure da Srinagar. Ho seguito diversi forum sull’argomento. Evito quindi di passare prima di Manali perché la strada è molto più alta, si deve infatti passare il Taglang La, a 5359 mt, mentre invece da Srinagar si passa attraverso il Fotu La che è “solo” 4108 mt. Inoltre, i bus dal Kashmir fermano per la notte a Kargil, che è a 3600 mt, e per di più è un paese vero e proprio, con tanto di pensioni e dhabas, mentre quelli dall’Himachal fermano a Sarchu, a 4100 mt, dove non c’è niente, se non tendopoli, posti di blocco, e taniche di benzina vuote abbandonate a marcire. Alle 7.30 del giorno 2 agosto eccomi quindi seduta sul sedile anteriore di una jeep, insieme ad altri passeggeri, indigeni, più un altro turista francese che si fermerà a Lamayuru.

Il viaggio è spettacolare. La zona montuosa del Kashmir sembra la Val d’Aosta, l’aria è frizzante, i prati verdi, pieni di abeti, ed i torrenti impetuosi. Alcuni operai, con travi di legno stanno costruendo piccoli ponticelli artigianali temporanei per attraversare i corsi d’acqua. Le più elementari norme di sicurezza sono un optional. Sostiamo un paio di ore a Sonamarg a causa di un corteo di protesta; i dimostranti, che urlano come dei pazzi, hanno incendiato dei copertoni in strada, e, armati di bastoni, impediscono il passaggio a chiunque. Poiché lì attorno è pieno di ombra e di erba dove sedersi, alla fine non mi pare un grosso problema. Se non per il fatto che il transito dello Zoji La è a senso unico, e se non si riesce a raggiungerlo entro una certa ora del pomeriggio, mi pare le 13, si resta bloccati.

Lo Zoji La, a 3528 mt segna il confine naturale con il Ladakh; la strada, tortuosa, strettissima, in molti tratti non asfaltata e ovunque senza protezione dalla parte degli strapiombi, fa paura (in effetti ho letto che il passo è chiuso un giorno a settimana per manutenzione) soprattutto quando si cerca di sorpassare i coloratissimi camion che trasportano merci in tutto il subcontinente. Le loro fiancate dipinte sono veri e propri monumenti alla fantasia, sul parabrezza uno striscione indica lo stato di provenienza. Il valico è un vero e proprio spartiacque, nel senso che davvero, oltrepassatolo, il paesaggio cambia in modo repentino, diventando sempre più desolato, le diverse caratteristiche morfologiche del terreno stratificato conferiscono alle rocce mille sfumature di colore, dall’ocra al viola, al grigio. E’ stupendo quello che mi scorre davanti agli occhi su questa carreggiata sconnessa. Ho un mal di testa insistente, non so se per la stanchezza, o per l’altitudine. Il viaggio prosegue in silenzio. La sosta pranzo, alle due, viene effettuata a Drass in un dhaba dove il francese non ha il coraggio di entrare. Effettivamente, non vince l’oscar per la pulizia. Il pasto però è buono, e soprattutto guadagnerà il record di più economico della vacanza, 12 rupie. Questo perché mando uno dei miei compagni di viaggio ad ordinare e pagare al posto mio. Dopo pranzo l’atmosfera in macchina è più distesa, io ed il transalpino veniamo bersagliati di domande, a lui toccano quelle su Materazzi e Zidane, a me quelle più imbarazzanti, tipo quanto guadagno, quanto pago di affitto, ecc ecc.. Poi si passa alla politica, tanto infervorato parlare, tutto riassunto nella frase “il Kashmir è Kashmir, non è India e non è Pakistan. A proposito di Pakistan, la magnifica strada che stiamo percorrendo, a 20 km dal confine, è territorio conteso dai due stati e teatro di guerra nel 1999. Ai bordi si scorgono cartelli inquietanti della serie “vietato far foto, vietato spionaggio” ecc ecc. Veramente me ne fregherei del divieto, ma anche volendo è impossibile fotografare, perché il percorso continua ad essere piuttosto dissestato, e la jeep procede a balzi. Frequenti i posti di blocco. Gli stranieri devono scendere e registrarsi. Una cosa che mi colpisce sono dei poveri disgraziati, nerissimi, un po’ per via del bitume, un po’ per via del sole, che lavorano per le imprese di manutenzione delle strade, che, viste le avversità del tempo, necessitano di cure continue. Sono immigrati delle regioni più povere, tipo Bihar, Uttar Pradesh, o addirittura Nepal. Ricoperti di stracci lerci, vivono in condizioni disastrose in accampamenti costruiti coi sacchi dell’immondizia e altri teli di recupero, vicino alla strada, con le loro famiglie. Spaccano pietre, trasportando pesi enormi sulle loro misere gambette ricurve. Li pagano 50 rupie al giorno, quando li pagano. Hanno occhi immensi, e volti scavati. Il loro sforzo e la fatica che percepisco sarà una delle sensazioni più forti che mi porterò a casa.

Il panorama continua ad essere scarno e brullo, eppure incantevole.

I fondovalle sono verdi e ricoperti di alberi di albicocche, piccole e dolcissime. Esse prosperano in tutto il territorio. A Kargil arriviamo verso le 17 del pomeriggio e ci fermiamo per una piccola sosta. La calda luce del sole di questa ora crea straordinari contrasti di colore e di ombre fra le montagne ed il cielo azzurrissimo.

A Mulbekh, primo avamposto di Ladakh vero e proprio, è in corso un festival, preannunciato a distanza da suoni di corni e trombe. Attraversiamo il paesino fra ali di folla festante lungo la strada. Scorgo alcune donne che indossano i tipici copricapi a forma di cobra, ornati di pietre preziose, i perak. Rimango imbambolata a osservarne una che mi si para improvvisamente di fronte al finestrino, io fisso i suoi orecchini, lei fissa i miei. Ho come la sensazione che il suo sguardo mi stia letteralmente scannerizzando. La curiosità evidentemente è la stessa! Il tutto ovviamente avviene nella frazione di pochi secondi.

L’attraversamento del Fotu La, poco prima di Lamayuru, è abbastanza traumatico. A parte il mal di testa, mi apparto per far pipì, e faccio davvero una immensa fatica a riguadagnare il mio posto sulla jeep. Quando fa buio siamo già tutti amiconi, mi fanno cantare canzoni tipicamente italiane, a mia scelta, e loro mi insegnano canti tipici del Kashmir Siamo a Lamayuru verso le 21.30, e a Leh arriviamo verso la 1 di notte. Durante il tragitto, uno dei passeggeri mi prenota una stanza nella sua stessa guesthouse.

LEH ed il LADAKH A differenza di Srinagar, Leh è invasa dai turisti. La mia guesthouse, (Barhat Guesthouse) gestita da una famiglia di Ladakhi, cosa abbastanza inusuale, è a fondo paese, ai piedi di una salitina (Fort Road) che a 3505 mt risulta faticosissima da percorrere. E’ recente, con dei bagni enormi, dotati di finestra e piastrellati con delle belle mattonelle a colori abbinati (una rarità, nei posti economici) e acqua calda. Anche la stanza è grande, ed ha ben due finestre! Il costo è 450 rupie, con la colazione compresa. Altro particolare da non sottovalutare, in un posto economico, la biancheria odora di detersivo. Infatti, nei giorni seguenti, noterò che hanno una lavatrice, la usano, e stendono i panni al sole. Fare il bucato a Leh è fantastico, il sole splende quasi perenne, l’aria è secca, la roba asciuga subito. Il mal di testa non mi abbandona (durerà due giorni), ma almeno riesco a mangiare bene, e non soffro né di nausea né di vomito, che invece affliggono molti altri nuovi arrivati. La padrona di casa è una cuoca eccezionale, alla mattina mi riconcilia con il mondo con la sua favolosa marmellata di albicocche.

Il primo giorno, comunque, appena alzata mi dirigo in paese per trovare un internet point e comunicare ai miei che sto bene. Davanti alla tastiera, mi rendo conto che faccio fatica a connettere. A colazione, avevo problemi a capire cosa mi dicevano gli altri ospiti in inglese, e non ero più in grado di pronunciare una frase di senso compiuto! La prima cosa che mi colpisce è la grande quantità di negozi e mercati, ristoranti, alberghetti, agenzie di viaggio. C’è più di quanto si possa desiderare. Quanto a souvenirs, Leh offre una ricca scelta. Nei mercati all’aperto gestiti da profughi tibetani si vendono bellissimi gioielli e oggetti di tipo religioso. I negozi sono invece prevalentemente di proprietà di Kashmiri, che vengono qui solo per la stagione estiva, in inverno rientrano a Srinagar. Fra le merci proposte spiccano le borse in pelle scamosciata con frange e ricami tipici, che fanno molto hippy, e le famose pashmine. Non essendo un’esperta è sempre difficile capire se si facciano buoni affari o no. Resta comunque il fatto che acquisto una sciarpa di lana di capra tibetana, che passa attraverso un anello, pur essendo larga almeno 1 metro, per 3500 rupie. Dopo aver girato un sacco di posti, alla fine mi decido per un negozio gestito da un ladakho, che si trova nello stesso complesso dove si trova l’agenzia della Air Deccan. In Fort Road, alcuni altri commessi mi avevano mostrato addirittura le pashmine il cui commercio è proibito fuori dall’India, quelle che davvero sembrano un velo e che costano, qui, il doppio, ossia 6500 rupie. A me non sono sembrate taroccate, ossia inquinate da altri tessuti sintetici, ed al tatto erano impalpabili e favolose. Gli articoli invece da poche rupie, nonostante l’etichetta “lana e seta” o “pura seta”, a volte toccandoli ho ricevuto la scossa, per cui dubito che la composizione fosse genuina.. Ci sono un sacco di donne, anche italiane, che viaggiano sole. Non è difficile fare amicizia, infatti lego con due ragazze di Roma, incontratesi sul bus da Manali verso Leh, ma anche conosco un molta altra gente. In virtù di questo, una volta acclimatata, considerando il bel tempo, mi fermo in questa zona forse anche più del dovuto. La mia pensione è molto ben frequentata, riferendomi alla media intellettiva, nonché allo spessore umano, ed al carisma, degli occupanti le camere. Innanzitutto uno scrittore di guide americano. Un po’ borioso, ma molto colto. Poi una signora francese ora residente a Mandi, (Himachal Pradesh), dove campa facendo la guida turistica, convinta di aver trovato adesso la vita che stava cercando da sempre. Poi, una coppia, lui tedesco, un tipo di poche parole, lei messicana, tutto il contrario. Il suo vero nome sarebbe Socorso, ma ora si chiama Prana (il significato del nome è più o meno “soffio di energia vitale”). Girano l’India su un camioncino semi-cingolato, fermandosi qua e là ed insegnando yoga e discipline varie. C’è di che divertirsi, a conversare con questi personaggi! Coloro che arrivano sin qui provenendo dalle pianure ci dicono che qui con la vera India non è che ci azzecchi molto. Sarà, però intanto le mucche ci sono, e devo fare i miei begli slalom fra cacche di cane, di esseri umani, di mucche, appunto, e chissà di chi altro ancora. Perfino il campo da polo funge da latrina per tutti i sopra citati.. Ci sono molti cani in giro, i tibetani credono che essi siano la reincarnazione dei loro antenati, che ritornano sotto quelle spoglie per star loro ancora vicini. Nella città vecchia di Leh, quella abbarbicata sotto il forte attorno alla moschea le case sono di legno e pietra. Al posto dei negozi di souvenir ci sono botteghe di artigiani che esercitano i mestieri più disparati. Molti, tutti di etnia Kashmira, sono sarti. Ne approfitto per farmi confezionare su misura, per 150 rupie, lo shalwar cameez di cui parlavo in precedenza. Il primo giorno in cui riesco a sopravvivere alla cefalea, organizzo, da sola, al costo di 1000 rupie per tutto il giorno, con un tassista tibetano un giro nei monasteri più distanti, Hemis, Shey, Thiksey. Il guidatore, di sua spontanea volontà, si dimostra validissima guida, rivelandosi fonte inesauribile di informazioni nonché persona molto intelligente e profonda; ci scappano quindi delle interessanti discussioni sulla religione buddista. I gompa sono spesso abbarbabicati sulle cime delle colline, ed arrivarci lascia davvero senza fiato. I colori delle decorazioni interne sono vivacissimi, e spesso riesco ad assistere alle pooje dei monaci, in un’atmosfera molto suggestiva. Il taxista mi informa che il Dalai Lama, in questi giorni, è in visita a Leh e dintorni. Soggiorna in una specie di centro di studi tibetani a Choglamsar, a qualche km dalla città. L’avevo già incontrato a Torino alla conferenza stampa del 16 dicembre, però ovviamente sentirlo parlare in un contesto del tutto diverso, fra la sua gente, deve essere una occasione da non mancare.

Nei giorni successivi, prendo fiducia ed inizio ad informarmi per muovermi coi mezzi pubblici. Con altre ragazze italiane prendiamo un bus per il monastero di Spituk, costo 7 rupie. Sul mezzo, fermo sul piazzale in attesa della partenza, avviene il primo incontro della mia vita con un lebbroso. E’ un mendicante. Non è conciato malissimo, per fortuna, e mi sembra codardia, più che maleducazione, non riuscire a guardarlo in faccia, per cui i miei occhi incontrano i suoi mentre gli sorrido e gli metto qualche rupia sui moncherini che ha al posto delle mani. E’ andata, sono riuscita a sopravvivere a ciò che forse temevo di più e che mi aveva tenuto distante sinora da questo paese. Muovendomi nuovamente in solitaria, mi spingo addirittura fino a Lamayuru, la cui visita assolutamente non voglio perdermi. L’autobus, una sgangherata corriera, parte alle 4.30 vicino al campo da polo. Arriva a destinazione verso le 10.30, il viaggio è un’odissea. Il biglietto costa 200 rupie. Non so cosa abbia fatto per meritarmi questo ma sfiga vuole che se su un qualunque veicolo una persona soffre di cinetosi e vomita, questa debba sempre e comunque per forza trovarsi nei miei paraggi! Siamo stipati come sardine, e c’è pure gente in piedi. E’ un vero sollievo quando vengo scaricata alla base del villaggio.

Piccolo particolare: non c’è trasporto pubblico che ritorni a Leh il giorno stesso (il bus da cui sono scesa infatti prosegue per Kargil, e quello da Kargil è passato da poco), per cui, o mi fermo qui per la notte (ci sono parecchie pensioncine), o devo cercarmi un passaggio.

C’è da riconoscere che la valle dell’Indo è spettacolare. Vederlo dall’autobus era difficile, per via della calca. Vento, sole, nuvole, montagne altissime ed aspre. L’immensità. Dappertutto, sulle strade, si trovano chorten, ossia monumenti votivi a forma conica, con le tipiche bandierine mosse dal vento.

Il monastero di per sé non è bellissimo, gli interni sono più semplici e meno colorati di Thiksey, ad esempio, ma la vista che si gode dalle terrazze è impareggiabile, ed in una delle sale i monaci stanno pregando tutti insieme, con tanto di trombe e rullo di tamburi.

Dopo essermi fermata in raccoglimento, ridiscendo verso un grosso albergo di medio-lusso che hanno costruito praticamente addossato al gompa. Ci sono parecchie jeep con turisti dall’aria abbiente. Chiedo un passaggio, non me lo danno gratis, ma contratto il prezzo con l’autista. Ricordo di aver spuntato un 500 rupie, che sono tante, ma se penso alla comodità rispetto all’andata… Diciamo che l’avvenimento di eccellenza del soggiorno in Ladakh, e forse di tutta la vacanza, è stata l’escursione di 2 notti/3 giorni nella valle del Nubra. La prenoto con una delle altre ragazze single, 1500 rupie che comprendono solo il trasporto ed i permessi. La Nubra Valley infatti fa parte dei territori compresi nella inner line, una zona di confine contesa con la Cina, e confinante con il Tibet. Tutti gli stranieri devono essere registrati e muniti di permesso. Noi dobbiamo pagarci pasti e hotel. L’eccellenza, a parte il passaggio al famigerato Kardhung La, a 5600 mt di altezza, consiste nel fatto che il Dalai Lama, il giorno dopo di noi, arriverà a Diskit e, il giorno dopo ancora, parlerà in pubblico.

Del Kardhung La, immerso nella nebbia, posso solo dire che non ho avuto mal di testa, ma che fiatone fare anche solo due passi! La strada, come sempre, è magnifica. Giunti a Diskit abbiamo problemi a trovare posto per dormire. L’unica possibilità è una stanza da 500 rupie all’Olthang Hotel. E’ tutto pieno, già prenotato da settimane, appunto per la visita del Dalai Lama. In ogni caso, io e la Giovanna riceviamo un sacco di proposte di ospitalità da parte di altri viaggiatori. Prendiamo la stanza, anche se brutta, e per il giorno dopo riesco a trovarne una un po’ più spaziosa allo stesso prezzo alla Thatchung guesthouse. Mentre sono in fase di contrattazione del prezzo per la sistemazione, dimentico aperto il cancello ed una mucca si infila dentro a mangiare tutti i fiori del giardino! Il giorno dopo, trasferiamo i nostri averi alla Thatchung. Qui non c’è né bagno né acqua calda, ma ci troviamo in una tipica casa ladakha, quelle col tetto piatto ricoperto di paglia, la stanza non è molto pulita, ma è piena di finestre, di tappeti, ed addirittura una sedia a dondolo, che dona un’atmosfera intima e raccolta. Verso le 10 il nostro driver prima ci porta alle dune di sabbia a Hunder, dove, eventualmente, si potrebbero anche fare le classiche cammellate da deserto. Noi però ci limitiamo a rotolarci nella sabbia. Verso le 12 rientriamo a Diskit e ci incamminiamo verso la strada principale, dove deve passare il corteo del Dalai Lama, previsto per le 13.30. Rimaniamo sbalorditi. Ai lati della strada sono assiepate centinaia di persone, chi in piedi, chi seduto per terra ai bordi, vestite nei costumi tradizionali ed ingioiellate. Moltissimi i monaci, di tutte le età . I colori predominanti sono il porpora delle tuniche ed il giallo/arancione dei fiori. I pellegrini arrivano a vagonate, stipati nei cassoni dei camion, o sui tetti dei bus. Viene bruciato incenso per strada, molti recitano il rosario tibetano, o fanno girare la ruota della preghiera. Ovviamente tutti noi turisti, come impazziti, iniziamo a fotografare. Ma non siamo gli unici. A conferma e testimonianza della straordinarietà dell’evento gli stessi soldati del servizio d’ordine, che provengono da regioni lontanissime, sono colti dai nostri stessi raptus e, solo un po’ più compassati, anche loro sbattono l’obbiettivo in faccia alle eleganti signore dai copricapi tempestati di turchesi, argento e corallo. Altre invece hanno dei buffi cilidri in feltro. Gli uomini le tradizionali sciarpe bianche infiocchettate attorno alla testa. Il Dalai Lama è in ritardo, ma nessuno se ne accorge, c’è così tanto da osservare, lì intorno. Diventa come una frenesia, voglio documentare tutto, caso mai perdessi un giorno la memoria, e traccia di questa bellissima giornata! Alle 15.30 il fuoristrada del Dalai Lama è preceduto da due camion di monaci, che cantano a squarciagola, urlano, suonano trombe e ci danno dentro coi tamburi.

Intravedo His Holiness un attimino attraverso il riflesso del finestrino della jeep, ma la cosa che più mi colpisce è l’onda. Al passaggio della vettura, infatti, tutti si inchinano in successione, creando una specie di hola da stadio. In quel momento, in mezzo ai fumi degli incensi, riesco a cogliere alla massima potenza, anche se è stato solo una frazione di secondo, l’aspetto più mistico e religioso dell’India.

Alla sera, mega party nella nostra lussuosa stanza alla Thatchung guesthouse.

La mattina seguente, il padrone giustamente pretende che noi sloggiamo prestissimo, perché ha altro da fare (su questo già ieri era stato categorico). Tutto elegante nella sua tunica color indaco, profumato e rasato di fresco, anche lui va alla conferenza del Dalai Lama. E’ il nostro stesso programma e quindi ci avviamo alla spianata dove avverrà la conferenza. Agli stranieri è riservata una specie di zona privilegiata, abbastanza vicino al palco. Il discorso è in duplice traduzione, tibetano/hindi/inglese, gli altoparlanti sono gracchianti ma va bene anche così, senza capire una mazza, assaporando solo l’atmosfera.

Si rientra quindi a Leh di ottimo umore, visti i trascorsi, dopo una breve sosta alle sorgenti termali di Panamik.

L’ultima avventura capitatami in Ladakh, prima della partenza, e’ stata che una mia conoscente, una signora del Gruppo Nubra Valley, e’ stata morsa da un cane, per ragioni che ancora ora non comprendo, nel senso che non ha fatto nulla per provocarlo. L’ho accompagnata in ospedale, dove ammetto di essere rimasta abbastanza scioccata dalle condizioni di igiene che imperversavano nel complesso. Ho anche dovuto comprare, nella farmacia dall’altra parte della strada, due siringhe (una per l’antitetanica, una per l’antirabbica) perché dicevano di esserne sprovvisti. Avevo gia’ fatto visite ad un ospedale cambogiano (non perche’ stessi male, ma per altri motivi), ma devo dire che questo era conciato molto peggio e soprattutto molto piu’ sporco, mi viene la pelle d’oca a pensarci.

Di Leh voglio segnalare, prima di finire il capitolo a riguardo, alcuni luoghi di ristoro meritevoli. Il primo è Dzomsa, una lavanderia ecologica che però vende anche prodotti tipici alimentari e ottimi succhi di frutta. Qui è possibile comprare acqua potabile riciclando le proprie bottiglie di plastica, risparmiando e proteggendo l’ambiente. Il costo è 7 rupie, contro 15 rupie o più di una bottiglia nuova. Il secondo è un ristorante tibetano, di cui ho scordato il nome, che si trova sulla piazza principale, sullo stesso marciapiede di Dzomsa, nella zona del Planet Himalaya. E’ molto semplice, non ha la terrazza ma solo una stanza al pian terreno, non molto illuminata, il menù è scritto sul muro. E’ gestito da una signora di una certa età dolcissima, ed è frequentato da quel genere di occidentale che dimora in India per anni, e la prima cosa che fa appena arrivato è cambiare nome (ne ho conosciuti parecchi). Ottimi momo e riso al latte e cannella. Il terzo è un ristorante vegetariano, il Lamayuru dai prezzi modici dove si mangia tipica cucina indiana. Ha di fronte l’Happy World restaurant, che, anch’esso, più volte mi ha deliziato coi suoi piatti, più sul western style. Sono situati in una posizione un po’ sfigata, proprio su una curva in Fort Road, però si mangia bene.

MANALI Opto per la jeep taxi collettivo, che parte alle 2.30 di notte e dovrebbe arrivare in serata dello stesso giorno. Perdiamo almeno 4 ore nel mezzo del niente, nei dintorni di Upshi, quando è ancora buio, sui 4100mt, (meno male che ormai sono abituata) per un guasto. Dobbiamo aspettare un nuovo veicolo, che ovviamente deve partire da Leh. Sono ormai così avvezza all’altitudine che il transito sul Taglang La (ricordo 5328 mt), non mi provoca più alcuna sofferenza. Il percorso attraversa luoghi suggestivi, ad esempio le gole di Pang, poi una impressionante serie di tornanti, fino ad arrivare al Lachlung La a 5060 mt. Verso le 17.30 sostiamo a Keylong perché la ns jeep necessita di manutenzione. Keylong è un paesino molto grazioso.

Raggiungiamo quindi Manali verso le 23.00, ed è un peccato che sia buio, perché l’ultimo passo, il Rohtang (3950 mt) dovrebbe essere uno spettacolo.

Sulla macchina ci sono due viaggiatori fiorentini, uno dei due, Angelo, ci sono in contatto tutt’ora, è un habitué della zona. Mi conducono nel loro albergo, dove per fortuna c’è posto. Il Marlble Hotel è un caseggiato di tipo moderno ed anonimo, di quelli che hanno la moquette nelle stanze, sulla strada che porta a Old Manali, la Circuit Road. Una stanza confortevole costa 440 rupie.

Dopo aver dato un’occhiata ad Old Manali, mi sposto a Vashisht, un paesello che mi è stato raccomandato dal gruppo Nubra Valley. Un risciò da Manali a Vashisht costa 40 rupie solo andata. Il taxi, il doppio. Qui, mi sistemo al Brighu Hotel, in una stanza panoramicissima, sul fiume, a 350 rupie. Unica pecca, asciugamani e lenzuola sporche. Dormo nel sacco a pelo, e reclamo in reception per avere salviette decenti. Vashisht è un paesino di case in pietra, con delle sorgenti termali di acqua calda. E’ molto frequentato da alcuni dei gironi nominati all’imbarco a Helsinki (non gli alpinisti). Onestamente, però, devo dire che Old Manali mi è piaciuta di più: Avevo anche scovato una pensione carina a 150 rupie. Solo che avevo già traslocato a Vashisht, e non avevo più la forza di spostarmi nuovamente! In ogni caso, la segnalo perché vale la pena. Il nome è Anand, si trova sul proseguimento della strada del Nest (citato sulla Lonely); bisogna solo seguire il sentiero che, dopo pochi metri, prosegue in mezzo ad un meleto, in una zona tranquillissima, e con bellissime vedute. Praticamente, Old Manali, e Vashisht, a mezza costa, si fronteggiano dalle parti opposte del fiume Beas, Manali è al fondo valle. C’è da dire che a Manali, molto più che a Leh (frequentata più che altro da occidentali) ho visto invece molti turisti indiani di ceto abbiente. Dei cani di Leh ho già fatto alcuni accenni. Diciamo che per lo più, in tutto il viaggio, ho incontrato gruppi di randagi gialli, rognosi e pieni di zecche. Mai nessun esemplare che mi facesse pensare ad un rapporto domestico, per quanto nessuno venisse maltrattato. Unica eccezione, in Ladakh, una famiglia di pellegrini di ritorno da un tempio indù e marchiati sulla fronte dal classico segno rosso di benedizione. Ebbene, uno dei ragazzini, con un rudimentale guinzaglio di corda grezza, conduceva una specie di brutto carlino color miele, che, sulla fronte, pure lui recava il segno rosso. Invece a Manali, scorgo parecchie coppie con guinzagli veri e propri, attorno al collo di cani di pura razza. Non mi capiterà più, in nessuna delle due volte che sono stata in India, e, a dire la verità, mai più nelle altre innumerevoli volte che sono stata in Asia (forse Singapore) Una escursione in taxi per Naggar, un paesino ameno della Kullu Valley con un bel castello, costerebbe 500 rupie, ma ci sono bus locali che partono più o meno ogni ora dal bus terminal in città, ed il costo è 15 rupie solo andata. Il bus è quello arancione nella foto icona “journeygirl”. La cosa che più mi colpisce, e che non avevo ancora mai visto in vita mia, è la quantità industriale di marijuana che cresce ai bordi delle strade. Forse questa la ragione per cui la zona è tanto amata dagli occidentali.

Manali si trova a circa 2100 mt di quota, il clima è meno secco che a Leh, e si sta benissimo.

I ristoranti di Vashisht hanno prezzi abbordabili, così pure quelli di Old Manali. A Manali centro i miei amici mangiano sempre al Johnson’s Café, che per me è un po’ caro (ma comunque la Lonely Planet dice che è il migliore della città). Per cui, quando giriamo insieme, li abbandono per una mezz’ora, e mi dirigo invece verso Mission Road, dove si trova un ristorante, anzi una mensa, indicato sulla Lonely Planet, molto economico (Swamiji’s Madras Café). A Vashisht ho invece provato quasi tutti i ristoranti menzionati sulla guida. Sono eccellenti. Mi fermo qui un giorno in più di quanto pianificato, purtroppo la corriera che avevo prenotato non è partita, o forse non c’è mai stata, per cui l’ultima notte la passo al Johnson’s Lodge, che è veramente stupendo. Contrattando riesco a spuntare 1500 rupie per una stanza enorme, pulitissima.

Poiché trovare posto in treno è difficilissimo, approfitto del fatto che a Manali c’è uno sportello delle ferrovie, e mi prenoto il treno da Amritsar ad Agra, e da Agra a Delhi, che sono le ultime tappe del viaggio.

La mia prossima destinazione non è Mc Leod Ganj, come inizialmente pianificavo, perché ormai del Dalai Lama ne ho fatto una scorpacciata, e lui comunque adesso è ancora a Leh. Salto Shimla, perché malauguratamente mi fido di ciò che dice la Lp, ossia che Dalahousie è molto più tranquilla e graziosa. Per arrivarci, prendo un autobus per Pathankot, che è nel Punjab. Costo 350 rupie. Da lì parte la coincidenza per Dalahousie.

Il trasferimento a Pathankot, su un rottame scalcinato, dura tutta la notte. Neanche pagando oro, non sono mai riuscita a trovare autobus decenti, nonostante le foto dei cosiddetti Volvo Buses campeggino in tutte le agenzie. Forse, come specchietti per le allodole. Il bagagliaio è pieno di fango, lo zaino mi verrà restituito in condizioni pessime. Questo perché il terminal dei bus a lunga percorrenza di Manali, ma pure quello dei minibus locali, non è altro che un immenso campo sterrato, privo di tutto. Qui apro un’altra parentesi dedicata alle scarpe. Delle Quechua da trekking ho già parlato, l’altro paio di scarpe che mi sono portata dietro sono delle vecchie Adidas che uso per fare jogging su terreni non asfaltati. Sono niente di che, un modello vecchio e poco appetibile, dal punto di vista di un occidentale. In India scatenano libidine a non finire. Poiché mi fa schifo metterle dentro allo zaino, considerando tutto quello che c’è per strada, le porto legate fuori dal sacco. Morale: vengo attorniata da un branco di ragazzini scalzi, che me le chiedono in regalo. Replicando loro che non posso dargliele, perché mi servono, mi fanno giustamente notare, indicandomele, che io ho “già” un paio di scarpe, quelle che indosso, ossia le Quechua, e quindi teoricamente le Adidas sono superflue. Inutile raccontare come mi senta. Questo è successo alcune volte, in altri casi persone che io reputavo assolutamente non interessante, ad esempio un tizio che si è presentato come il direttore dell’ufficio postale di Manali, si sono offerte di comprarle. Per cui alla fine le Adidas sono tornate “dentro” al bagaglio, ben avviluppate in sacchetti di plastica per non contaminare il resto. All’inizio del viaggio, invece, sulla jeep da Srinagar a Manali le avevo abbandonate sotto il sedile, prendendomi un ca**iatone allucinante da un ragazzo che viaggiava con me “non si trattano così male delle scarpe così belle”. La stazione dei bus di Pathankot, invece, merita altro tipo di riflessioni. Qui infatti, dopo quasi 3 settimane, mi rendo conto che forse ho raggiunto l’India vera, quella che non era il Ladakh, quella del caldo soffocante, dei mendicanti, dei senza fissa dimora che dormono sullo sparti-traffico; di questi, penso che debbano essere così stanchi, come il protagonista di “la città della gioia”, che riescono a dormire ovunque. Nulla, comunque, rispetto a quanto vedrò nel successivo viaggio indiano di dicembre. Comunque, mi fa effetto.

DALAHOUSIE Tanta fatica per arrivare a Dalahousie, proporzionale alla delusione. Peccato, perché i paesaggi che intravedo sono grandiosi. La cittadina sorge a circa 2000 mt. Il villaggio vero e proprio sorge a circa 1 km più a monte della stazione bus. Una passeggiata panoramica sul crinale, in mezzo a conifere, si snoda lungo una balconata con visioni superbe sulla Chamba Valley. Ma, in questa stagione, il clima è umido e nebbioso. Non vedo altri stranieri oltre a me. Ci sono solo (pochi) turisti indiani. Dormo al Goher Hotel, 200 rupie, una sola notte. Il giorno dopo, alle 9.30, prendo un bus locale che va direttamente ad Amritsar, 110 rupie. Ferma anche a Pathankot, all’ora di pranzo, ma non bisogna cambiare. Compro dei samosa da un venditore ambulante che per ore mi incendieranno lo stomaco e le viscere.

AMRITSAR Il bus mi scarica nel bel mezzo di una strada trafficata. Per fortuna una signora mi mette su un risciò, contratta lei il prezzo e mi spedisce alla stazione dei treni. Da lì, infatti, c’è una navetta gratuita che porta direttamente al Golden Temple. Il CJ Hotel, nominato sulla LP, e meta di turisti a medio budget nonché gruppi di Avventure nel mondo, è francamente caro, 1500 rupie per una stanza. Per fortuna, lì attorno, ce ne sono tantissimi altri. Scelgo il Mercury Inn. 900 rupie per una camera pulita con pareti dipinte di un verde brillante, aria condizionata silenziosissima, e vista superba addirittura sul Golden Temple. Teoricamente, nel Golden Temple ci sono dei dormitori, ed anche altri tipi di accoglienza, ma non mi sembra il caso, più che altro perché non appartengo alla loro religione. Eppure, a Vashisht ho conosciuto gente che aveva mangiato addirittura aggratis alla mensa dei pellegrini.

Un luogo particolare, Amritsar, città sacra dei Sikh. Una marea di esseri umani che ruota attorno ad una cupola, prega, esegue abluzioni in una vasca sacra, recita orazioni, mentre gli altoparlanti intorno diffondono incessantemente le letture dei libri sacri intonando dolci litanie. Un po’ meno incasinato della Mecca, ma qualcosa che gli assomiglia molto, tanto per rendere l’idea… Non si paga ingresso, le uniche formalità sono quelle relative al deposito delle scarpe in appositi armadietti, e l’obbligo della copertura del capo in segno di rispetto, sia per donne che per uomini. Ci vado almeno 3 o 4 volte. I momenti più suggestivi sono al tramonto, per via dei colori riflessi sulle cupole dorate, e alla sera, verso le 10.15 quando si svolge una processione per il ritorno del libro sacro all’altare principale. Chiunque è ammesso, ma il caldo e la calca rendono il tutto un po’ claustrofobico, anche se molto suggestivo. Per la seconda volta, percepisco l’aspetto mistico e religioso dell’India.

Ben altri sentimenti invece, mi procura la visita alla cerimonia del cambio della guardia al confine con il Pakistan. Un completo spreco di tempo, per non parlare del caldo torrido. Tifo da stadio, ed esaltazione di spirito militaristico che assolutamente non condivido. In ogni caso, il costo è 70 rupie su un taxi collettivo.

Il balcone del mio hotel, come già accennato, si affaccia sul Tempio d’Oro; quello che non avevo notato, sbirciando dal balcone, durante le ore diurne è che verso sera i giardini già all’interno del complesso si riempiono all’inverosimile di gente che dorme per terra. Seguo, dalla finestra, i rituali di preparazione al sonno.

Il treno da Amritsar per Agra parte alle 5.35, ed arriva alle 16.35. Il costo è 750 rupie con una cuccetta di seconda classe. Ovviamente, sosta a Delhi. Il mio primo viaggio in treno in India, milioni di volte più comodo dell’autobus. Condizioni igieniche buone, bagni meglio dei nostri! AGRA Ho prenotato telefonicamente lo Sheela Hotel, economico e ubicato nella zona di Taj Ganj. Doveroso dire che la mia pazienza è messa a dura prova, nel raggiungerlo. Un sacco di gente infatti cerca di portarmi altrove. I prezzi degli hotel qui sono tutti gonfiati, ovviamente lo scotto che si paga in tutte le città iperturistiche. La mia stanza infatti costa 950 rupie, un furto, considerando che non ho neppure l’acqua calda. Però l’hotel è immerso in un rigoglioso giardino. Nel tardo pomeriggio prendo un risciò per andare al Sadar Bazar, la città è una fogna a cielo aperto. Rientro a Taj Ganj verso le 20. Il circondario è pieno di ristorantini, dalle cui terrazze in alcuni casi si vedono splendidi panorami sulle cupole del Taj Mahal illuminato dalla luna. Ci sono anche numerosissimi negozi di souvenirs, dove però in genere tirano pacchi clamorosi decuplicando i prezzi. Non si possono fare due passi in pace che continuamente si viene assediati con proposte per i risciò, per i cambi di valuta, per le pietre preziose, per i ristoranti, per i tuk tuk, per le cartoline. E che ca**o!! Come lato positivo, devo ammettere che non c’è quel caldo soffocante che mi aspettavo.

Il mattino dopo, alle 5.45 sono alla biglietteria dell’ingresso est, nessuno prima di me. Sembro un po’ quei pensionati che vanno alla ASL all’alba per passare davanti a tutti per le prenotazioni, ma questo mi permette di fotografare il monumento senza troppa gente di mezzo. Il Taj Mahal, con i suoi merletti di marmo, è splendido nella luce rosa dell’alba, e splendidi sono i suoi giardini pieni di uccelli canterini, scoiattoli curiosi, e di alberi di frangipane profumati. In ogni caso, alle 10, quando me ne vado, ancora i bus dei tour organizzati provenienti da Delhi non sono arrivati, per cui si respira una relativa quiete. Poiché il mio treno è alle 13.45, passeggio nel quartiere, spingendomi a sud. Dopo qualche metro, spariscono i negozi di souvenir, e si trovano soltanto botteghe artigiane, e molti meno rompiscatole.

Un tuk tuk a motore mi porta in stazione sotto una pioggia torrenziale, nel primo pomeriggio. E’ l’ora di uscita dalle scuole. Ci sono dozzine di ciclo-risciò che attendono i rampolli delle famiglie benestanti. Ne scorgo alcuni, coi loro fisici mingherlini, ansimare trascinandosi appresso 6 o 7 ragazzini ammassati nel rimorchio, nelle loro uniformi. Un bambino non è molto pesante, ma certo che sette rappresentano comunque un fardello considerevole. Penso agli occhi degli operai che spaccavano pietre sulle strade del Jammu e Kashmir, all’inizio del mio viaggio. Esser poveri non è bello credo in nessun posto del mondo, ma in India sembra ancora peggio..

Rientro a Delhi, in aeroporto, desiderosa di una doccia, ed invece quelle dello scalo internazionale sono tutte intasate ed impraticabili.

Mi trascino, sudata da far schifo, sino ad Helsinki dove finalmente, dopo un mese, riassaporo la gioia di far pipì su una tazza, in un bagno la cui pulizia rasenta la sterilizzazione, tutto acciai e legni chiari in perfetto stile minimalista scandinavo.

Torino mi accoglie con cielo terso, e sole splendente, come a Leh, il caldo più o meno è lo stesso, le montagne attorno non proprio. La giacca a vento, che è sempre stata portata sopra lo zaino nelle molte volte che non l’ho indossata, ed usata come cuscino e come coperta non solo sui bus, è in uno stato pietoso, quando la porto in lavanderia la titolare la guarda perplessa come a dire “ma dove c***o sei stata”. Il copri-zaino è quello messo peggio, nonostante la mega spazzolata in acqua calda e abbondane sapone non è più lo stesso. Questo viaggio è come se fosse stato uno spartiacque. Da allora, spesso osservo l’asfalto delle strade, mi sembra così pulito che mi vien voglia di togliere le scarpe, e camminare a piedi nudi. Mi è già successo diverse volte di sognare di essere in India, forse allora è vero che, una volta entrati, non esistono porte per uscirne.



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