Il nobile in incognito

Sikkim: India non-India
Scritto da: Kingsize
il nobile in incognito
Partenza il: 12/10/2014
Ritorno il: 19/10/2014
Viaggiatori: 8
Spesa: 3000 €
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Se c’è una cosa che tutti condividiamo, è il DNA: l’umanità non ha razze. Delle macroscopiche diversità tra gli individui sono responsabili differenze minime nella catena dei quattro costituenti la spirale genetica. Ugualmente per le nazioni, per le quali sono le circostanze della storia, le particolarità della morfologia, i fattori dell’economia e la natura della cultura – elementi costituenti di tutti i paesi – a sigillare l’unicum di ciascun luogo.

Dai timidi rilievi del Bengala Occidentale dove il fiume Teesta, a cui dà le prime acque, si fa grande, il Sikkim s’arrampica sull’Himalaya, avido quasi d’arrivare alle nevi eterne. Le sue foreste marcano stretto la catena dei Singalila, che a occidente lo separa dal Nepal, mentre a nord sale sempre più su, oltre i 6.000m, fino al Grande Himalaya che lo isola dal Tibet. A queste altezze è l’orografia a determinare i percorsi umani: le cittadine e i villaggi punteggiano le strade che duplicano il corso dei fiumi, le cui acque prepotenti hanno tagliato profondi solchi, creando una rete inestricabile di crinali dai pendii verdissimi. Il colpo d’occhio è spesso imponente, ampio il respiro del paesaggio e forte la presenza d’un ordine superiore di cui l’uomo non si sente che un dettaglio. La montagna ha questo potere: non si è più gli stessi dopo averla incontrata, dopo averne assimilato la libertà rigorosa, dopo essere riusciti a respirare il cielo. A maggior ragione qui, dove né treni né aerei arrivano, dove il tempo è un concetto privo di circostanze tangibili e dove basta qualche giorno di pioggia per interrompere le comunicazioni, già precarie, col resto del mondo. Questo è il rifugio per chi chiede alla terra il benessere dell’anima. Guru Rimpoche, il grande saggio e grande viaggiatore dell’ottavo secolo, lo chiamò Paradiso, affermando che un giorno di meditazione qui valesse anni di raccoglimento altrove. Non è per questo, però, che il Sikkim, nonostante le asperità geografiche, abbia subito invasioni su invasioni da parte dei vicini: i tibetani lo chiamavano Denjong, cioè “la valle del riso” e, a più riprese, anche i bhutanesi tentarono di impossessarsi di quello che chiamavano Beyul Demazong, “la valle segreta del riso”. Dalla loro istituzione nel 1642 i vari Chogyal, che potremmo definire papi-re, dovettero fare i conti con la potenza della Cina e dell’Inghilterra, fino a quando, nel 1975, i contrasti tra i molti ceppi umani determinarono l’annessione di questo francobollo di stato (7.000 km2, più piccolo dell’Umbria) all’unione indiana. Dell’India ha la pluralità di lingue ufficiali – undici – e di etnie, ma è stata la persuasiva personalità di questa nobile terra a cambiare gli indiani che vi si sono riversati: la confusione, i fetori, la cacofonia e gli stridenti contrasti imperanti nel subcontinente dal Kerala al Punjab e dal Gujarat al Bengala Occidentale son stati fermati al confine. Alla frontiera, infatti, anche chi ha il visto per l’India viene bloccato per laboriose procedure burocratiche, e per arrivare a Gangtok, la capitale, può occorrere un giorno intero.

Lungo il percorso, i cartelloni pubblicitari indiani sembrano spaesati, e per le strade non c’è traccia di povertà, di analfabetismo e di malnutrizione. Sì, la sera tardi e la mattina presto, davanti ai ristoranti multietnici e alle boutiques griffate, passano paria colle schiene cariche di enormi sacchi dal misterioso contenuto, ma un manifesto annuncia un programma congiunto dello stato e della confederazione collo scopo di elevare il Sikkim da “stato modello” a “stato superlativo” in India e nel mondo. La realtà è più prosaica, ma è apprezzabile l’ambizione. Gangtok, una serpentina infinita su una ripida costa, accoglie con una bella passeggiata pedonale, la cui prospettiva sulla valle è negata dalla necessità di costruire sul poco spazio pianeggiante disponibile. I colori sgargianti e i draghi degli ingressi dei ristoranti citano la Cina, mentre i negozi rimandano a un’internazionalità che sorprende trovare qui, incongrua tanto quanto alieno appare il modello capitalista proposto a questo microcosmo marginale. Che può importare al Sikkim dell’American Way of Life, del nostro modus vivendi per cui la felicità è irrimediabilmente legata ai consumi? Che pensano queste sterminate foreste dei pochi centimetri quadrati di cui ciascuno disporrà alla fine del secolo a causa dell’incremento della popolazione? Questo divario è formalizzato nel cartello all’ingresso del Phodong Gompa: “No smoking, no horn, no music. Please keep silence”. In paradiso, come sappiamo, si beve dell’ottimo caffè, ma non si fuma. Al tempio porta una tortuosa strada montana che costeggia numerose fattorie e la Cascata delle Sette Sorelle – sette balzi in successione d’un modesto corso d’acqua, sotto gli occhi azzurri d’un benevolo Buddha in bassorilievo sulla parete della scarpata. L’accesso all’abbazia è segnato da un festoso portale variopinto, sovrastato da due cervi dorati ai lati della Ruota del Dharma, il principale simbolo del buddhismo. Gli otto raggi indicano che l’illuminazione si raggiunge rettificando la visione, l’intenzione, l’espressione, l’azione, la condotta, l’impegno, la presenza mentale e la concentrazione; i cervi son quelli che s’avvicinarono per ascoltare l’Illuminato, come gli uccelli accorsero alle parole di San Francesco e i pesci a quelle di Sant’Antonio. L’interno del gompa è una festa di colori – dei thangka, stendardi ornamentali e didattici, del mobilio e dei sedili dipinti su ogni lato, dei paramenti e soprattutto delle pareti. Il pavimento, in pietra serena lucida, è immacolato. In realtà, sebbene risalga al 1740, la sala è stata ricostruita nel 1977 a causa dei danni causati dai terremoti, ma i ricchissimi affreschi sono stati preservati e restaurati. Dèmoni blu vestiti di pelli umane, mostri dalle tiare adorne di crani e beati nella posizione del loto, sospesi su idilliaci paesaggi montani, presenziano dalle pareti. E’ l’influenza del buddhismo a dare il benvenuto in questa India non‑India: i fili delle bandiere di preghiera marcano il territorio, potentemente religioso, e i loro mantra controllano le energie invisibili e le forze occulte che governano l’esistenza. Come sapeva il Piccolo Principe, “l’essenziale è invisibile agli occhi” (A. de Saint-Exupery) e son proprio i monasteri, coi loro tetti dorati e i religiosi in bordò, le attrazioni imprescindibili.

Valutando i proventi, il governo non ha tardato a promuovere il turismo che, per una volta, è sprone a preservare le tradizioni, studiate nelle grandi università e vissute nei Drubdras, i centri per ritiri spirituali. Isolati come sono tra le foreste di alberi decidui e di sempreverdi che occupano un terzo del paese, più che monasteri son questi degli eremi. Il Labrang Gompa è annunciato da una lunga fila di darchor, bandiere della preghiera bianche appese ad alte aste di bambù. I seminaristi, in tunica gialla e mantello rosso, ci accompagnano nella visita, i loro occhi a mandorla smentendo che questa sia India. Cingono lo spiazzo antistante il tempio vani aperti, per l’uso forse degli studenti o dei dignitari in occasione delle danze mascherate che vengono eseguite durante i festival. Anche questo santuario è affrescato con scene di leggende buddhiste a tinte pastello, frutto della ristrutturazione del 1978, ma antica è la preziosa statua di Karma Guru al primo piano, donata dal principe Rigdzin Chhenpo che fondò il monastero nel 1826. L’esclusiva pianta ottagonale simbolizza l’indistruttibilità e una fascia decorativa bordò corre tutt’attorno all’edificio giusto sotto il tetto dorato, enfatizzando il bel lavoro dei muratori, che hanno lasciato le pietre a vista. Curiosamente, le cornici delle finestre ricordano l’assertività dei portali egiziani. Spesso sperdute tra risaie terrazzate e coltivazioni di granturco, miglio, grano, orzo, aranci, tè e cardamomo, le cappelle occupano luoghi più metafisici che reali. All’interno, i vecchi pavimenti di legno, le teche d’altri tempi e i cantici a cui dozzine di vite hanno dato voce per secoli spogliano il visitatore d’identità e di destino. Ci si ritrova, grazie ad un’intuizione istantanea e liberatoria, ad essere un punto d’attenzione al di là del tempo, in grado di capire gli spiriti della natura e capace di riconoscere in se stesso l’essenza d’ogni cosa. Riconsegnando all’individuo la responsabilità delle sue azioni, il buddhismo paradossalmente lo affranca dagli stretti limiti dell’individualità, promuovendolo dal ruolo di attore a quello più valorizzante di autore, in una irresistibile corrente ascensionale – una spinta verso l’alto ignota alle nostre tradizioni, radicate come sono nel pietismo e nella sentimentalità.

In città, altri tesori buddhisti sono esposti al Namgyal Institute of Tibetology: manoscritti tibetani e sanscriti, statue, thangka e dipinti, tra cui squisiti quelli dedicati ai dodici episodi della vita del Buddha. Volendo approfondire, l’annesso negozio di souvenir ha un volume che li dettaglia, assieme ad altra letteratura, statuine e dvd di cerimonie: l’Istituto è un centro noto in tutto il mondo per lo studio della religione e della filosofia buddhista. All’ombra degli altissimi pini assediati dalla rigogliosa vegetazione – in quota c’è la tundra, ma a valle, nel sud del paese, il clima è sub-tropicale – un vialone festonato di bandiere di preghiera multicolori porta al Do Drul Chorten, un enorme stupa bianco che conserva testi sacri, oggetti per il culto e reliquie – sicuramente murati, visto che non ci sono aperture. La vasta piattaforma sulla quale appoggia è contornata da un incavo per 108 mani lhador, le ruote di preghiera, e cinta dal Chorten Lakhang e dal Guru Lakhang. Riesco a rubare qualche immagine di serenità quotidiana ai monaci – la chiamata alla funzione, le aule dei novizi, i pentoloni della cucina – ma entrare non si può.

L’attrazione principale di Gangtok pare essere la cabinovia che, per quanto collaudata, sarebbe stato meglio non allineare proprio al di sopra d’una delle arterie più trafficate della città: sia vista da sotto che viaggiandoci dentro permane una vaga apprensione. Dal centro, la funivia sale fin quasi al Palazzo Reale, attualmente in ristrutturazione – al solo guardare gli operai in cima alle improbabili impalcature vengono le vertigini. Un sentiero delimitato da una fila di pali di bambù con allegre bandiere bianche, blu, rosse e verdi porta al Tsuklakhang, la piccola cappella del palazzo reale, immacolata e deserta. Niente foto all’interno, ma gli affreschi della facciata, restaurati da poco – una Ruota della Vita e un bodhisattva intento a suonare il dranmryen, il liuto tradizionale – sono vivacissimi sia nella paletta che nel disegno, quasi fumettistico. Più serio il monastero di Rumtek, e non solo per lo stile delle decorazioni: la cancellata è chiusa e si può procedere solo dopo aver lasciato i passaporti al soldato di guardia. Ci sono stati disordini tra i sostenitori di due aspiranti alla diciassettesima incarnazione del Karmapa, il capo dell’influente setta Kagyud, quella del Cappello Nero, e con 300 monasteri all’estero non è cosa da poco. Da un alto portale parte un rettilineo in salita, dove i cani, che di notte non trovano pace in tutto lo stato, dormono acciambellati, complice la nebbia del mattino che avvolge la collina. Su un terrazzo del vasto centro, un gruppo di adolescenti prega a braccia nude, su un altro due preti si esercitano al flauto conversando amabilmente, nei cortili c’è un viavai affaccendato. L’architettura è semplice ma i colori brillanti delle decorazioni contro le cime verde scuro dei rilievi circostanti, dalle cui valli s’alzano le nubi che coprono il cielo, sono molto fotogenici. Dopo aver incrociato una scolaresca in perfetta divisa e attraversato un fiume con spaccapietre al duro lavoro, s’impone una breve sosta al monastero Yung Drung Kundrak Ling Bon. Il viale d’accesso è fiancheggiato dai chorten sotto i quali sono sepolti notabili lama. Precedente la diffusione del buddhismo, la mitologia, l’immaginario e il clero di questa religione animista non paiono dissimili da quelli buddhisti: svastiche, lumini, scritture trasmesse dagli dèi e sereno cameratismo tra i monaci, essi pure vestiti del sacro colore bordò. Anche nel cortile del prestigioso Pemayangtse c’è chi legge, chi conversa e chi attende alle proprie faccende, e senza la pompa che ci si aspetterebbe nel convento il cui primo officiante fu un re e ai cui lama era dato l’onore d’incoronare i Chogyal. Al primo piano il Sangdogpalri, una immaginifica riproduzione della dimora celeste di Guru Rimpoche, indicato come la seconda incarnazione di Buddha, è uno spettacolare lavoro di miniature in legno. Davanti alle folcloristiche statue delle otto manifestazioni dell’onnipresente santo, l’interminabile salmodia, marcata dai tamburi verticali dei capofila e diretta con consumata disinvoltura da un paio di giovani, nulla ha di mistico ma è buon esercizio di disciplina e pazienza per i ragazzi. In uno, in particolare, i tratti d’una persona matura traspaiono tanto da indurmi a credere nella reincarnazione: forse, qui, succede davvero. Dalle terrazze sono riconoscibili, poco lontano, le pettinate rovine di Rabdentse, l’antica capitale. Un po’ Machu Picchu e un po’ Villa Adriana, la compostezza e l’eleganza del sito, in maestosa posizione panoramica, evocano la cittadella nobilissima e indaffarata che fu nel XVIII secolo – un gioiello archeologico ancora più suggestivo al calare della luce. E gli indiani, che vengono qui a visitare, appaiono nel loro giusto ruolo: turisti, come noi. All’orizzonte, tra gli squarci delle nubi, risplendono agli ultimi, intensi raggi, le nevi eterne dell’Himalaya.

La camminata all’alba al Sangchoeling Gompa di Pelling – anch’esso, come quasi tutti, costruito tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700 – non è che una scusa per l’aria frizzante della mattina, per i toni del cielo che s’accendono di secondo in secondo, per il primo, abbagliante sole, per una lunga salita sotto i pini, per la rugiada sull’erba alta, ma soprattutto per il candore degli 8586m del Kangchenjunga che domina la catena montuosa all’orizzonte. Terza vetta mondiale per altitudine, è visibile da molte regioni del Sikkim, nuvole permettendo. In autunno il cielo è terso e stamane la visione è perfetta e celestiale, profondamente appagante e segretamente esaltante. Per minori che siano, ci sono cime qui talmente aspre da essere ancora vergini. Contro la purezza di quelle nevi, le bianche bandiere di preghiera, una volta assertive e ora a brandelli, denunciano la nostra impermanenza. La pittoresca cascata Rimbi e la modesta Kanchandzonga ci portano al Tashiding Gompa, secondo Guru Rimpoche il più sacro dei luoghi benedetti del Sikkim. Miglior conclusione al nostro itinerario buddhista non poteva esserci: qui è dove una luce proveniente dal Kangchenjunga brillò al suono di divine melodie, che tutti videro e udirono nel 1641 in occasione della visita di tre grandi lama. Al di là di numerose sale da preghiera, una foresta di candidi chorten sfolgora al sole, ai fiori, alle farfalle. Peccato non esser qui la notte di luna piena del primo mese dell’anno, quando il maggior tesoro, un preziosissimo vaso la cui mera visione è sufficiente a cancellare ogni peccato, viene mostrato ai fedeli durante il festival Bumchu. Ma la foresta di colori delle darchor, le bandiere di preghiera verticali, basta da sola a creare un’atmosfera gioiosa. Non c’è tempo per le 28 vette, i più d’ottanta ghiacciai, i 227 laghi alpini, le cinque sorgenti d’acqua termale e i più di 100 fiumi alla base dei pendii scoscesi: timbro d’uscita dal Sikkim sul passaporto e, dopo essersi infilati nel verde sconfinato delle coltivazioni di tè e in dense nuvole di nebbia, s’arriva a Darjeeling, nel Bengala Occidentale. S’arriva, cioè, in India, quella vera. La città, abbarbicata su un erto pendio, è affollata per il festival turistico e culturale del mese di ottobre. In due ore gli spazi del Sikkim, coi suoi 86 abitanti per km2, sono scivolati nel ricordo.

Sveglia alle 4, e dopo un’ora di sobbalzi e scuotimenti, clacsonate e code, s’aspetta intabarrati il sole alla Tiger Hill, mentre thermos di caffè setacciano le dozzine di turisti. Svogliatamente il rosso si distende sull’orizzonte, ma null’altro succede, e s’inizia a temere il peggio: la partecipazione ad un rituale collettivo in occasione d’un fenomeno naturale suscita imponderabili sentimenti. Dopo interminabili, gelidi minuti di biblica apprensione, il contorno delle nubi arde per qualche istante e una falce fulgida appare. A vista d’occhio aumenta, facendo impallidire l’est. E’ un buco accecante, forse è la luce alla fine del tunnel della vita ma si muove, sale, sale, e la delusione è tangibile quando diventa palese che è soltanto iniziato un giorno come ogni altro. Tedeschi e francesi si dileguano nell’indianissima mischia dei veicoli al ritorno – quello che Henry Cartier-Bresson chiamerebbe il “detestabile colore locale” – per andare a riempirsi di fuliggine sul toy train, il trenino a scartamento ridotto che attraversa la città, lascito degli inglesi. Gli indiani in visita preferiscono lo zoo himalayano, dove sgattaiolano avanti e indietro, dentro e fuori senza posa, alcuni panda rossi, in realtà grossi furetti fulvi dalla folta coda. Nel cortile dell’Istituto Himalayano stanno iniziando i corsi di alpinismo, e la nostra guida ci presenta un suo amico istruttore, Kusang Sherpa, cinque volte sull’Everest. Debitamente impressionati, si visita il museo delle scalate, dove l’equipaggiamento in uso nel secolo scorso si mostra in tutta la sua antidiluvianità. “Success lies in courage”, proclama un cartello che mostra due scalatori in azione, ed effettivamente ci deve esser voluto un bel coraggio per intraprendere spedizioni armati di lampade a kerosene e calzettoni di lana – anche se la lana era di yak e tessuta con amore. Si continua a tessere a mano, con grandi telai, in un vasto ambiente del Centro per i Rifugiati Tibetani, un vero paese in miniatura per l’autogestione dei profughi. Un addio al Buddha dorato e incoronato del moderno tempio Yiga Choeling Ghoom e si scende a Siliguri. Lungo il rettilineo che è l’arteria pulsante della città s’affacciano mille bugigattoli: rivendite, officine, laboratori. Qualche vacca staziona nel traffico, qualcuno si fa radere al lato della strada sotto un ombrello da spiaggia e le rondelle di chapati, pronte per un panino, vengon cotte al momento sulla brace. Più India di così! Sui tetti degli autobus notturni vengono assicurati sacchi di mercanzie che ne mettono a rischio la stabilità, ma non sul nostro: la corriera che ci porterà a Calcutta è sfacciatamente deluxe e parte con appena mezz’ora di ritardo.

Una giornata a zonzo per la città rischia, per l’impatto contundente, di obliterare le gentili impressioni d’alta montagna. Porto quasi inevitabile di uscita dal Sikkim, se non anche d’accesso, Calcutta è poderosa ma non priva d’una rozza grazia. Scegliere come rifugio – dal caldo, dal caos, dalla calca – uno storico alloggio vittoriano dà un innegabile vantaggio psicologico, permettendo di ricalcare i passi della fortunata casta dei colonizzatori. D’altronde, per quanto il nostro sia un gruppo borghese senza pretese, lo stacco tra noi e loro è oceanico. Identificato l’accesso nel labirintico mercato che avvolge l’area dell’altrettanto intricato santuario di Dakshineswar Kali, un bramino ci guida alla sala dell’idolo, nero con lunga lingua scarlatta, e, solcando un’inverosimile folla, alla vasca delle abluzioni. Deserta invece la bianca cattedrale cattolica di St. Paul dove, inusitato segno di inciviltà occidentale, si può entrare calzati. Ad ogni angolo di strada, una sorpresa – mucchi di noci di cocco, venditori di polveri colorate, quelle che è usanza gettarsi reciprocamente addosso durante le feste come noi facciamo coi coriandoli, cani e umani distesi nel sonno. Non stupisce che Madre Teresa abbia eletto Calcutta a quartier generale, ma nulla può preparare al sovraccarico sensoriale del mercato dei fiori. Camion e carretti fendono a fatica il torrente umano in moto incessante tra mazzi e collane di corolle gialle, arancio, rosse, lilla, bianche; altarini, dormienti e immondizia. I rifiuti vengono spinti verso il vasto fiume Hooghly, dove tanti fanno il bagno sotto lo sguardo imperterrito del gigantesco ponte Haora. Ma un’oasi di pace c’è, e ne approfittano le coppiette per piacevoli interludi: il Victoria Memorial, non dissimile dalla cattedrale di St. Paul a Londra. Le torrette e le cupole, duplicate dalle vaste vasche che lo circondano, sovrastano alberi rigogliosi che offrono ricercato riparo dalla calura. Altra oasi, di dubbio gusto ma di sicuro impatto, è il tempio giainista Sheetalnathji, il cui giardino è un tripudio di fontane, pezzetti di ceramica alla Gaudì, statuette, alberelli, ninfe argentate e pinnacoli piramidali in un’ossessione decorativa totalizzante. All’interno, luci e specchi in ogni dove – esagerato, come tutto in India. Lungo la strada verso l’aeroporto, un cartello predica invano, tra la cacofonia dei clacson, “Stop honking”. Sorry, questa è l’India, non il Sikkim. Sarà merito delle bandiere di preghiera: appendere le bandiere intorno alla propria abitazione o negozio crea una sensazione di armonia, aumenta l’atmosfera spirituale e riporta alla mente gli insegnamenti di illuminazione. O forse sarà per la montagna: nel museo degli alpinisti si legge: “L’Himalaya forgia uomini che tornano alla vita d’ogni giorno con una prospettiva diversa, ignorando tutto ciò che è triviale, futile e trascurabile e che normalmente prende così tanta energia e tempo, e si concentrano sui problemi che rilevano davvero”. Un soriano e un randagio sono tutti e due gatti, un purosangue e un mulo parimenti equini, un alano e un bastardino ambedue cani col medesimo DNA, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. Possiamo destituire il Chogyal e istituire la democrazia, possiamo, considerando l’attuale convenienza ai consolidamenti politici, aggregarlo alla potenza confinante meno temibile, ma bastano quelle piccole differenze nel DNA perché il Sikkim, il cui distinto passato è nascosto da una fuorviante maschera politica, costituisca una realtà a sé, confrontabile solo con le consorelle himalayane e felicemente lontana dall’India.

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Chorten al Tashiding Gompa

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Interno di uno dei templi del Tashiding Gompa

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Portale del Tashiding Gompa

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Ruote di preghiera al Tashiding Gompa

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Bandiere di preghiera al Tashiding Gompa

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Cascata Rimbi

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Cascata Rimbi

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Pelling

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Kangchenjunga

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Bandiere di preghiera e Kangchenjunga

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Bandiere di preghiera e Kangchenjunga

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Bandiere di preghiera alla Tiger Hill a Darjeeling

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Decorazione allo Yiga Choeling Goom

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Chorten al Tashiding Gompa

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Chorten del Sangchoeling Gompa a Pelling

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Chorten al Tashiding Gompa

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Chorten al Tashiding Gompa

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Padiglione

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Alba alla Tiger Hill a Darjeeling

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Bandiere di preghiera al Tashiding Gompa

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Uno dei portali d'accesso al Sikkim

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I chorten del Sangchoeling Gompa a Pelling

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Paesaggio dal Sangchoeling Gompa a Pelling

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Sangchoeling Gompa a Pelling

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Kangchenjunga visto da Pelling

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I chorten del Sangchoeling Gompa a Pelling

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Sangchoeling Gompa a Pelling

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I chorten del Sangchoeling Gompa a Pelling



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